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venerdì 8 novembre 2024

Alien - La clonazione (1997)

Con la Spooky Season ho un po' abbandonato la horror challenge (direi ormai fallita) di Letterboxd. Ricomincio oggi con Alien - La clonazione (Alien - Resurrection), diretto nel 1997 dal regista Jean-Pierre Jeunet e scelto dalla collezione video del creatore della challenge.


Trama: duecento anni dopo la sua morte, Ripley viene clonata ibridando cellule umane ed aliene. Assieme a un gruppo di mercenari, si ritrova nuovamente a dover affrontare gli xenomorfi...


Con Alien - La clonazione posso dire di avere finalmente completato il mio recupero della saga, anche se sono quasi sicura che avessi già visto questo film in passato. La cosa ironica è che i fan considerano la pellicola di Jeunet il punto più basso mai raggiunto dal franchise, mentre a me non è sembrata chissà quale aberrazione, così come gli altri non mi sono sembrati chissà quali capolavori, quindi questo non sarà un post disgustato. In Alien - La clonazione Ripley viene, per l'appunto, clonata dopo 200 anni dal sacrificio finale di Alien3. Il risultato è una protagonista assai diversa da quella a cui siamo abituati, un ibrido tra umano e alieno che, probabilmente, è alla ricerca del suo posto nel mondo, ma nel frattempo non si fa menare il belino da chi la ritiene un mostro o un giocattolo da sfruttare. E' una Ripley amara, selvatica e sensuale, ma anche capace di enormi slanci emotivi, con un piede nel mondo umano e l'altro in quello delle creature contro la quale si è scontrata per tutta la vita precedente; si vede che la sceneggiatura è stata scritta da Joss Whedon, perché i tratti di Ripley hanno qualcosa che ricorda Buffy all'inizio della sesta serie, quella che "vive all'inferno perché è stata cacciata dal Paradiso". Allo stesso modo, i comprimari della vicenda, quel mix di mercenari e pirati spaziali ingaggiati dai militari per il più orribile ed ingrato dei compiti, richiamano un po' Firefly e altre opere dello sceneggiatore, forse per questo mi sono sentita a casa guardando Alien - La clonazione (per quanto Whedon sia un uomo di merda, le sue opere televisive mi fanno l'effetto coperta di Linus). Un altro punto a favore della sceneggiatura è l'arrivo di quell'ibrido xenomorfo-umano che mi ha causato un sacco di sentimenti contrastanti, non tutti necessariamente negativi, tra i quali una profonda pena che, sul finale, ha eclissato l'istintivo disgusto provato davanti all'aspetto ben poco rassicurante e le tendenze mordaci della creatura. In realtà, i contrasti mi sono parsi un po' la cifra stilistica dell'opera, nella quale l'orrore va a braccetto con un erotismo mai così esplicito, la modernità degli equipaggiamenti con un gusto quasi gotico per le scenografie e gli oggetti, l'umorismo dei dialoghi con la serietà ingessata che li vede pronunciati.


A tal proposito, ho letto che Whedon si è sempre detto orripilato dal modo in cui è stata trattata la sua sceneggiatura. Non riesco ad immaginare, all'epoca, nulla di più distante tra l'umorismo tongue-in-cheek di Whedon e la natura plumbea del primo Jeunet, quindi la collisione tra mondi dev'essere stata inevitabile e, probabilmente, nelle mani di un altro regista sarebbe uscita fuori una roba completamente diversa, forse più bella, forse più sciocca, chi lo sa. A me, tutto sommato, lo scontro tra queste due anime non è dispiaciuto e sarei stata anche curiosa di capire come sarebbe potuta proseguire la saga, sulla Terra e con queste premesse, ma ormai quel tempo è passato, lo so bene. Anche a livello di regia, credo di avere apprezzato Alien - La clonazione più di Alien3, mi sono sicuramente annoiata meno: la sequenza acquatica è notevole, lo sfogo nel laboratorio anche, le interazioni queer tra Ripley, gli xenomorfi e Call sono una piacevolissima novità e anche quegli alieni lucidissimi, che sembrano ricoperti di latex, hanno incontrato il mio gusto. Inoltre, Alien - La clonazione (una volta tolto di mezzo Dan Hedaya, imbarazzante e fuori posto persino per me, che di Alien non capisco una mazza) è pieno di bellissime facce. A parte una Sigourney Weaver sempre più bella, ci sono un Ron Perlman in formissima, un Brad Dourif che fa quello che gli riesce meglio, ovvero il matto col botto, e Winona Ryder mi ha ricordato che, all'epoca, riusciva a recitare senza limitarsi a fare faccette stralunate. Anzi, il suo "sintetico" Call è forse quello a cui ho voluto più bene in tutta la saga, se non altro perché è l'unico che non me l'ha fatta fare sotto dalla paura quando meno me l'aspettavo, o forse perché è adorabilmente testardo e umano. Ma temo di essere in minoranza, quindi la smetto definitivamente qui e lascio Alien a chi se ne intende davvero!


Del regista Jean-Pierre Jeunet ho già parlato QUI. Sigourney Weaver (Ellen Ripley), Winona Ryder (Call), Dominique Pinon (Vriess), Ron Perlman (Johner), Michael Wincott (Elgyn), Dan Hedaya (Generale Perez), Brad Dourif (Gediman), Raymond Cruz (Distephano) e Leland Orser (Purvis) li trovate invece ai rispettivi link.


Gary Dourdan
, che interpreta Christie, ha partecipato a mille stagioni di CSI come Warrick Brown. Tra i registi che hanno rifiutato l'incombenza di dirigere il film ci sono David Cronenberg e Peter Jackson. Se Alien - La clonazione vi fosse piaciuto, recuperate AlienAliens - Scontro finale, Alien3Prometheus e Alien: CovenantENJOY!  

martedì 14 maggio 2024

Bolla Loves Bruno: Il colore della notte (1994)

La rubrica dedicata a Bruno rallenta, come sempre, ma non si ferma! Oggi parliamo di Il colore della notte (Color of Night), diretto nel 1994 dal regista Richard Rush.


Trama: dopo avere assistito al suicidio di una sua paziente, lo psichiatra Bill Capa si trasferisce a Los Angeles da un collega, che viene ucciso di lì a poco da un killer sconosciuto. Senza volerlo, Capa si ritrova coinvolto nelle indagini, e nella torrida relazione con una misteriosa ragazza...


Mamma mia. Il colore della notte era un film che temevo, pur non avendolo mai visto, in quanto i thriller erotici che andavano di moda negli anni '90 erano spesso delle schifezze colossali senza capo né coda. In più, Il colore della notte ha il non trascurabile difetto di essere stato massacrato da un produttore che è riuscito a renderlo più brutto ed arzigogolato, là dove la versione del regista sembrava essere molto più centrata, almeno per quanto riguarda il personaggio interpretato da Jane March, ma anche più popporno. A onor del vero, io ho visto la versione da 139 minuti e tutta questa bellezza e centratezza in più non l'ho vista. In compenso, ci sono quelle scene di scopate gratuite e per nulla sensuali che sono ciò che detesto di questo genere di film, a prescindere da quanto possa essere godibile (come in questo caso) vedere Bruce Willis nudo che sfodera il suo attrezzo in piscina e i segni dell'abbronzatura sotto la doccia. Senza fare troppi spoiler, ché Il colore della notte è un thriller, vediamo perché l'ho trovato incredibilmente cretino e schizofrenico. Bruce Willis è uno psichiatra che perde la fiducia in se stesso e diventa incapace di riconoscere il colore rosso (!!) dopo che una sua paziente (la quale all'inizio viene mostrata praticare fellatio sia a un rossetto che a una pistola, così, debbotto, in una delle scene introduttive peggiori di sempre) gli si suicida davanti, buttandosi da un grattacielo. Taglio su Bill Capa, così si chiama lo psichiatra, che per riprendersi decide di andare a L.A. da un collega con tanti di quei soldi da avere una villa e uno studio allucinanti, sui quali poi tornerò. Il collega, che ogni settimana gestisce un gruppo d'incontro frequentato dai peggio matti della zona, riceve da mesi minacce di morte e, dai che ti ridai, un bel giorno viene ucciso. Ora, una persona normale sarebbe tornata a New York, invece Bill Capa si stabilisce nella villa dell'amico, gli usa le macchine, i vestiti e si prende in carico il gruppo di schizzati, in mezzo ai quali si nasconde, presumibilmente, il killer. Qui mi taccio, perché un minimo di divertimento nello scoprire chi ha fatto fuori lo psichiatra fighètto in effetti ci sarebbe. Peccato che, tra un'indagine e l'altra, Capa si invaghisca di una sgallettata subito dopo essere stato tamponato da costei e, da quel momento, il film diventi la sagra della scopata. Ora, il personaggio di Jane March non è inutile ai fini della trama, ma la sceneggiatura è palesemente scritta da due uomini alle prime armi che ambivano a mettere su schermo le banali fantasie sessuali del maschio medio, perché Rose non ha un pregio che sia uno, a parte quello di essere porca.


Bill e Rose si innamorano dopo cinque minuti. Il perché, non è dato sapere. Cioè, è comprensibile che Bill perda la testa per una che gli si offre al primo incontro e che, dopo la prima giornata di sesso (non si può parlare di notte, visto che questa arriva già senza mutande - giuro! - per colazione e se ne va la sera), non faccia altro che cucinare nuda, ma lei perché dovrebbe innamorarsi al punto da "cambiare"? Solo perché lui, ogni volta che la vede, si mette a narrare con fare sognante le azioni di Rose (giuro, lo fa)? Perché, in effetti, è Bruce Willis quindi figo a prescindere? Perché non l'ha scassata di mazzate dopo averlo prima tamponato e poi dichiarato innocentemente di non avere la patente? Comunque, questo è quanto, la struttura del film è: un passo avanti nelle indagini, una scopata, un momento in cui Capa si pente di non essersi fatto i fatti suoi, una scopata, un passo avanti, una scopata. Il tutto, con i riflettori puntati su un'attrice, Jane March, non solo cagna (il che è un problema visto che le viene richiesta un'abilità camaleontica) ma nemmeno dotata di bellezza e sensualità eccelse. Per fortuna, ci sono i matti. Trattati, ovviamente, come ci si aspetterebbe da un film simile, ovvero senza nessuna pretesa di empatia (salvo un momento stranamente serio, dedicato al personaggio interpretato da Lance Henriksen) o verosimiglianza, ma solo come un branco di mine vaganti pronte ad esplodere in faccia a Capa. Vederli interagire tra loro, snocciolando piccoli segreti potenzialmente incriminanti, e gettare uno sguardo nelle loro folli vite, è più pertinente rispetto alle infinite performance sessuali di Capa e Rose; in più, Brad Dourif si mangia il resto del cast appena sgrana gli occhi e lo stesso vale per Lesley Ann Warren, incredibilmente sopra le righe, anche se mai quanto Rubén Blades, il cui investigatore è la cosa più improbabile di tutta la pellicola, oltre che la più esilarante. Anzi, no. La cosa più improbabile de Il colore della notte sono la villa e lo studio di Bob Moore, un trionfo di ostentazione pacchiana, arricchite da elementi ripresi dalle cattedrali gotiche. Probabilmente, nelle intenzioni di Richard Rush, scenografie simili dovevano dare un tocco originale ed autoriale a Il colore della notte, così come alcuni particolari bizzarri all'interno delle inquadrature; per quanto mi riguarda, hanno solo alimentato la sensazione di incredula ilarità che mi ha accompagnata per tutta la durata di un film che depennerei tranquillamente dalla filmografia di un Bruce Willis in declino che, grazie a Tarantino, avrebbe di lì a poco iniziato il suo ritorno in grande stile. 
 

Di Bruce Willis (Bill Capa), Rubén Blades (Martinez), Scott Bakula (Bob Moore), Brad Dourif (Clark), Lance Henriksen (Buck), Eriq La Salle (Anderson) e Shirley Knight (Edith Niedelmeyer) ho già parlato ai rispettivi link.

Richard Rush è il regista della pellicola. Americano, ha diretto film come Professione pericolo. Anche sceneggiatore, produttore e attore, è morto nel 2021 all'età di 92 anni.


Lesley Ann Warren
interpreta Sondra. Americana, la ricordo per film come Victor/Victoria e Signori, il delitto è servito ; inoltre, ha partecipato a serie quali Missione impossibile, Colombo, Will & Grace, Desperate Housewives e Daredevil. Anche produttrice, ha 78 anni e due film in uscita. 


Jane March
era stata scelta in quanto reduce dal successo internazionale del suo primo film, L'amante, ma giustamente ha fatto, in seguito, ben poca carriera. Se Il colore della notte vi fosse piaciuto potete andare qui e recuperare tutta una serie di film simili più o meno riusciti. ENJOY!

venerdì 14 aprile 2023

Living with Chucky (2022)

E' da quando mi è capitata sotto gli occhi l'adorabile locandina che bramavo di vedere Living With Chucky, diretto e sceneggiato nel 2022 dalla regista Kyra Elise Gardner e finalmente, qualche giorno fa, è uscito su Shudder!


Come sapete, non guardo molti documentari, è un genere che mi appassionerebbe anche, ma che richiede tempo che non ho. Eppure, quando ho letto la trama di Living with Chucky, mi ha incuriosita il fatto che si parlasse delle famiglie di chi è cresciuto con la saga fin da bambino, perché lì per lì pensavo si parlasse di traumi infantili. In realtà, Living with Chucky è la disamina di una caratteristica decisamente inusuale per una saga horror (e mi correggeranno i veri appassionati del genere, in caso sbagliassi), ovvero quella di vantare la presenza ormai trentennale di un terzetto di persone che sono riuscite a detenere un controllo pressoché totale dell'opera e a far sì che essa si delineasse all'interno di un percorso assolutamente coerente, pur tra alti e bassi. A partire dal primo La bambola assassina, i vari film della saga dedicata a Chucky sono stati gestiti e seguiti passo per passo da Don Mancini (sceneggiatore di ogni pellicola della saga e regista di ogni lungometraggio a partire da Il figlio di Chucky), dal produttore David Kirschener e, ovviamente, dalla voce storica di Chucky, Brad Dourif; ad essi si è aggiunto, nel 2004, il tecnico degli effetti speciali Tony Gardner che, come si può evincere dal cognome, è il padre della regista Kyra Elise, la quale è letteralmente cresciuta sui set della saga e ha deciso di espandere il suo primo corto The Dollhouse, girato quando era ancora una studentessa di cinema, trasformandolo in un lungometraggio. La prima parte del documentario, che tratta ogni singolo film della saga parlandone attraverso interviste e stralci di backstage, serve allo spettatore per capire l'enorme fortuna avuta da Mancini nel trovare un produttore illuminato come Kirschener, che non solo gli ha dato fiducia fin dalla prima sceneggiatura, ma gli ha concesso di portare avanti un discorso personalissimo e ben poco convenzionale su Chucky e il suo universo, a prescindere dal successo sempre più in calo di una saga che ha avuto una rinascita clamorosa soltanto negli ultimi anni, dopo essere stata declassata a cretinata comica per ragazzini. Il punto di vista sentimentale ed entusiasta delle quattro figure chiave della saga riverbera nelle interviste di chi, o prima o dopo, ha fatto parte della realizzazione della serie (Jennifer Tilly, Alex Vincent, Fiona Dourif e Christine Elise, ovviamente, ma anche John Waters e Billy Boyd), mentre la parte più "razionale" del documentario è affidata a produttori ed esperti del settore, che analizzano il fenomeno Chucky anche dal punto di vista del successo commerciale, del fandom e dell'eredità lasciata al genere.


La seconda parte di Living with Chucky, invece, è concentrata sulla natura "familiare" dell'opera e su cosa significhi passare buona parte della propria esistenza assieme a persone con le quali non si hanno legami di sangue, spesso vivendo più con loro che con figli, mariti e mogli. Ovviamente, qui il punto di vista principale è quello di Kyra Elise, come si evince dalla particolare attenzione posta sul lavoro del tecnico degli effetti speciali e delle squadre di marionettisti che si avvicendano per dare vita a Chucky (attraverso un lavoro così complesso che ci sarebbe da vergognarsi a definire anche il "peggior" film della saga una cretinata). Quello della regista è, inevitabilmente, un punto di vista commovente, che non manca di confronti emozionanti, soprattutto quelli tra lei e il padre o fra i due Dourif, ma non è mai patetico, ingenuo o facilone, anzi; la difficoltà di conciliare le esigenze familiari "vere" con quelle della famiglia temporanea che si viene a creare durante la realizzazione di un film (per non parlare, come in questo caso, di una serie di pellicole) non viene sottovalutata né demonizzata, bensì trattata come qualsiasi lavoro lungo e difficile, che pretende forza d'animo e pazienza sia da chi lo esegue sia da coloro ai quali viene richiesto di stare accanto al "dipendente", con tutto quello che ne consegue in termini di gioie (tante) e dolori (purtroppo, tanti anche quelli). A tal proposito, sono preziose anche le testimonianze di professionisti quali Lin Shaye, Marlon Wayans Dan Povenmire (il co-creatore di Phineas e Ferb) i quali, pur non avendo mai avuto a che fare con l'universo di Chucky, sono stati comunque "inghiottiti" dal processo creativo di saghe infinite che portano a creare nuovi legami a rischio di sacrificare quelli esistenti, con l'aggravante di rischiare di ritrovarsi nuovamente da soli (quel "finito di girare poi non ci si vede più per anni" detto da Fiona Dourif è deprimente, e la tristezza un po' traspare dalle parole e dai volti di Alex Vincent e Christine Elise, nonostante la gioia di essere tornati in famiglia dopo decenni). Il documentario, purtroppo, non copre l'esperienza vissuta da Mancini, Kirschener e Gardner sul set della serie Chucky, con le nuove piccole aggiunte alla "Chucky Family", ma risulta uno strumento interessantissimo per capire l'importanza di un paio di dinamiche e temi ricorrenti nella serie, oltre che a far venire voglia di recuperare ogni film della saga, quindi consiglio la visione di Living with Chucky a tutti gli appassionati di cinema, non solo ai fan del bambolotto omicida più simpatico del globo. Per quanto mi riguarda, il mio sogno è di avere un giorno un capo come Don Mancini o come David Kirschner, ma so che non si avvererà mai, ahimé.



Kyra Elise Gardner è la regista e sceneggiatrice della pellicola. Americana, è al suo primo lungometraggio e lavora anche come produttrice e attrice. 


Assieme alle persone citate nel post, tra le varie testimonianze raccolte dalla regista ci sono anche quelle di Christine Elise (che ha interpretato Andy ne La bambola assassina 2, Il culto di Chucky e nelle due stagioni di Chucky) e Adam Hurtig (poliziotto in La maledizione di Chucky e paziente del manicomio ne Il culto di Chucky). Ovviamente, se Living with Chucky vi ha incuriosito e non conoscete l'argomento trattato recuperate La bambola assassina, La bambola assassina 2, La bambola assassina 3, La sposa di Chucky (li trovate tutti su Prime Video ma solo l'ultimo è compreso nell'abbonamento), Il figlio di Chucky (gratis su Infinity), La maledizione di Chucky (su Prime Video ma a pagamento), Il culto di Chucky (gratis su Infinity) e le due stagioni della serie Chucky (la prima stagione è disponibile abbonandosi a Infinity). ENJOY!




mercoledì 26 giugno 2019

La bambola assassina (1988)

In previsione dell'uscita del reboot della saga, in questi giorni ho riguardato La bambola assassina (Child's Play), diretto nel 1988 dal regista Tom Holland.


Trama: il piccolo Andy riceve in regalo per il compleanno il bambolotto Chucky e presto attorno a lui le persone cominciano a morire a causa di strani incidenti.



La bambola Chucky è stata uno degli spauracchi della mia infanzia. Rammento una vacanza in Trentino e l'orrore (misto ad una stupida fascinazione che nei giorni successivi mi ha fatta tornare più volte a guardare quella vetrina) di vedere la collezione completa delle videocassette della serie, con la terrificante bambolaccia in copertina, roba da indurre incubi per settimane nonostante non avessi mai avuto il coraggio di vedere i film in questione. E ammetto che per anni ho stentato a recuperarli, anche quando ormai ero cresciuta, perché Chucky è proprio orrendo, con quei dentini e quella faccia malvagia, quei passetti bastardi che lo portano a colpirti quando meno te lo aspetti e quel coltellaccio in mano che, insomma. Brr. Detto questo, una volta affrontata la paura infantile e scoperto che dopo la visione i pochi pupazzi casalinghi non si sarebbero animati, ho capito che Chucky, per quanto sempre terrificante (altrimenti poi viene a trovarmi a casa...) è anche terribilmente esilarante. Qualche sera fa, per l'appunto, guardando La bambola assassina col Bolluomo, siamo scoppiati a ridere più volte davanti alla bambolotta sboccatissima che copre di insulti le povere vittime, la madre del piccolo Andy in primis; lungi dall'essere ridicolo comic relief, però, questo mezzuccio divertente serve a permettere allo spettatore di tornare a respirare perché La bambola assassina, anche dopo più di 30 anni, continua a mettere ansia NONOSTANTE non vi sia sorpresa alcuna. D'altronde, sappiamo benissimo che il bambolotto Chucky, ospite dell'anima del serial killer Charles Lee Ray, prima o poi rivelerà di essere l'autore di tutte le morti inspiegabili che cominciano ad accorrere attorno ad Andy, tuttavia per la prima metà del film lo sceneggiatore Don Mancini si impegna a metterci una piccola pulce nell'orecchio, ovvero l'idea che Andy, pargoletto assuefatto al programma di Tipo Bello, senza papà, con la mamma spesso assente, potrebbe covare in sé il germe della follia e aver proiettato in Chucky le sue pulsioni omicide.


Il ritmo della pellicola viene dettato con abilità sia da Don Mancini che dal regista Tom Holland, il quale si appoggia, all'epoca in cui i cosiddetti jump scare erano un accessorio dell'horror e non la conditio sine qua non, a primi piani di un Chucky immobile e sorridente che cambia sembiante diventando sempre più umano grazie ad un makeup splendido, a panoramiche di ambienti bui ripresi ad "altezza essere umano" (nessuno mai guarda in basso, dove la bambolotta è lì che aspetta), a riprese di piccole ombre che potrebbero essere proiettate o da una bambola o da un bambino; la scena più bella in assoluto, un piccolo capolavoro di tensione, è quella in cui la madre di Andy, sola in casa, scopre la vera natura di Chucky, una sequenza che gioca col terrore dello spettatore e del personaggio, con le aspettative del primo e con l'incredulità del secondo, per poi esplodere in una cacofonia di insulti e urla proprio quando il filo della tensione è lì lì per spezzarsi (e mi immagino all'epoca quante persone avranno strillato come dei matti al cinema). Lo stesso Chucky non è invecchiato di un giorno. Mix di attori in costume, bambini, bambolotti statici e animatronic, la satanica creatura si muove e uccide senza bisogno di CGI e senza sembrare posticcia in nemmeno una sequenza, anche grazie al doppiaggio dell'agghiacciante Brad Dourif che, diciamocelo, fa più paura in guisa di bambolotto che come essere umano. Menzione d'onore, poi, al piccolo Alex Vincent, l'unico "enfant prodige" horror a non essersi quasi mai staccato dal ruolo che gli ha dato la fama: vi sfido a sentirlo strillare disperato "mi ucciderà", chiuso all'interno di una clinica psichiatrica, e a non sentirvi stringere nemmeno un po' il cuore prima che Chucky arrivi a strapparvelo dal petto. Insomma, La bambola assassina è sempre una visione graditissima. Mercoledì si va a vedere il reboot ma so già che non sarà proprio la stessa cosa, mannaggia.


Del regista Tom Holland ho già parlato QUI. Catherine Hicks (Karen Barclay), Chris Sarandon (Mike Norris), Alex Vincent (Andy Barclay) e Brad Dourif (Charles Lee Ray/Voce di Chucky) li trovate invece ai rispettivi link.


Molto interessante il concept originale del film. In pratica, l'idea era quella di rendere Chucky un bambolotto a grandezza bambino, fatto di carne e sangue artificiali, con la pelle che i bambini avrebbero potuto tagliare per poi applicare cerotti e farlo guarire; Andy avrebbe così mescolato il suo sangue a quello di Chucky, facendo un patto di fratellanza e rendendolo vivo, specchio del disagio interiore del bambino e animato solo di notte, quando quest'ultimo dormiva. Molto psicologico e terribilmente inquietante! Sarebbe anche stato interessante sentire John Lithgow doppiare Chucky anche se ormai sono affezionata a Brad Dourif. Detto questo, nell'attesa di capire com'è il reboot uscito la settimana scorsa, se La bambola assassina vi fosse piaciuto recuperate La bambola assassina 2, La bambola assassina 3, La sposa di Chucky, Il figlio di Chucky, Curse of Chucky e Cult of Chucky... aspettando la serie TV Chucky, prevista per il 2020. ENJOY!


domenica 8 ottobre 2017

Cult of Chucky (2017)

A volte ritornano, vale per tutti, vorrete mica che la Bambola Assassina più simpatica di sempre rimanga indietro? Dopo quattro anni da Curse of Chucky, il regista Don Mancini ci ha regalato, proprio nel mese di Halloween, Cult of Chucky, da lui diretto e sceneggiato.


Trama: la paraplegica Nica è stata condannata per gli omicidi compiuti da Chucky e rinchiusa in manicomio con una diagnosi di schizofrenia. Quando viene trasferita in una struttura di media sicurezza, però, la bambola ricompare e gli omicidi ricominciano...



Questo è l'anno dei "culti". Dopo l'interessante ma, ahimé, poco apprezzato American Horror Story Cult, arriva sugli schermi Cult of Chucky, che con la creatura di Murphy e Falchuk condivide giusto il gusto per il sangue, niente strane congreghe pronte ad approfittarsi dell'avvento di Trump per creare un nuovo clima di terrore e, soprattutto, niente pesanti riflessioni sociali. Cult of Chucky, anche se parrebbe improprio definirlo così, è una vera e propria fonte di divertita gioia, un "gioco" fatto di mattanze e battute irriverenti, interamente lasciato nelle manine crudeli dell'icona Chucky, che pur con i suoi quasi trent'anni sulle spalle riesce ancora a divertirsi e far divertire il pubblico (se non siete come me che poi ho paura a ritrovarmelo chiuso in un armadio, ovviamente) aggiungendo ogni volta qualche tassello nuovo alla sua perversa storia. Stavolta l'ambientazione è quella di un manicomio, luogo che, per quanto abusato, fa sempre piacere ritrovare in un horror; popolato da persone incapaci di distinguere la realtà dal sogno, gente convinta di essere qualcun altro, pazienti resi folli dai traumi più disparati, quale posto migliore di un Nido del Cuculo per consentire a Chucky di tornare in grande stile? A tornare non è però solo la bambola assassina ma anche Nica, la protagonista dell'episodio precedente, e il piccolo Andy ormai cresciuto per diventare un povero disadattato costantemente perseguitato da Charles Lee Ray e dall'amata Tiffany. Riconosciuti come due malati di mente persino dai loro compagni di sventura, Nica ed Andy avranno come al solito il loro bel daffare a convincere chi li circonda della reale pericolosità del bambolotto omicida il quale, approfittando della sua aria innocua e delle turbe psichiche dei vari pazienti (nonché della stupidità dei cosiddetti "sani"), continua invece a compiere indisturbato gli omicidi più efferati. Come sia possibile che una trama così risaputa e ormai reiterata diverta ancora dopo trent'anni è un enorme mistero, eppure Mancini, dopo i mezzi passi falsi degli anni '90, deve averne scoperto il segreto e se lo tiene ben stretto, riuscendo a coniugare alla perfezione fattore nostalgia, strizzate d'occhio per i fan e una tecnica di scrittura e regia che molti giovinastri di belle speranze sulla scena horror attuale possono soltanto invidiargli.


Tra l'altro, Mancini questa volta sfodera anche una raffinatezza che non gli ricordavo, permettendosi di usare la tecnica dello split-screen e anche un paio di ralenti capaci di rendere assai poetico (almeno inizialmente) uno dei tanti, splatterosissimi omicidi di cui la pellicola è infarcita, inoltre non lesina sequenze oniriche da brivido, il tutto ambientato in uno scenario asettico, dove predominano i toni del bianco, sporcati in men che non si dica dal rosso del sangue. A tal proposito, gli effetti speciali artigianali sono gradevolissimi e anche quel po' di computer grafica utilizzata non è affatto fastidiosa, neppure quando va a toccare il sembiante di Chucky; a occhio, mi è parso che quest'ultimo fosse al 90% reso con bambole ed animatronic e sapete quanto adori queste scelte un po' antiquate ma sempre efficaci. Ovvio, non c'è Chucky senza Brad Dourif, con quell'inquietante vocetta stridula e la risata d'ordinanza (SPOILER Il passaggio di testimone da padre a figlia in questo senso è a dir poco geniale), pronto a sbattere in faccia allo spettatore la natura sboccata e maligna del killer imprigionato nella bambola, oltre a farlo sbellicare dalle risate con un paio di battute ad hoc, ma il resto del cast di supporto stavolta ci mette del suo e sinceramente mi sono dispiaciuta per alcune dipartite. Fiona Dourif si riconferma degna figlia di tanto padre e la sua Nica mi piace sempre molto, Jennifer Tilly si permette persino di fare citazioni metacinematografiche su sé stessa e nei panni di Tiffany è sempre nel suo, al limite l'unico attore che non ho sopportato è quello che interpreta lo psichiatra, talmente insopportabile che persino Chucky... no, niente, questo sarebbe spoiler, ma almeno in un caso ho applaudito la cattiveria di Charles Lee Ray. Ci sarà un ennesimo sequel per la Bambola Assassina più amata del mondo? Speriamo, ché se Mancini continua a realizzare film come questi il divertimento è assicurato! Più Chucky pe' tutti, grazie!


Del regista e sceneggiatore Don Mancini ho già parlato QUI. Brad Dourif (voce di Chucky), Fiona Dourif (Nica Pierce) e Jennifer Tilly (Tiffany) li trovate invece ai rispettivi link.

Alex Vincent interpreta Andy Barclay. Americano, lo ricordo per film come La bambola assassina, La bambola assassina 2, La bambola assassina 3 e La maledizione di Chucky. Anche compositore e sceneggiatore, ha 36 anni e un film in uscita.


Marina Stephenson Kerr, che interpreta Angela, era la folle Mrs. Booth della prima stagione di Channel Zero mentre sia Adam Hurtig (Michael) che Ali Tataryn (l'infermiera) erano comparsi in Curse of Chucky con ruoli diversi; ad unire idealmente i due gruppi di attori c'è la giovane Summer H.Lowell, che riprende il ruolo di Alice dal film precedente ed interpreta Margot da bambina nella seconda serie di Channel Zero, No End House, che vi consiglio spassionatamente di vedere. Allo stesso modo, vi consiglio di guardare il film fino alla fine dei titoli di coda perché c'è una gradita sorpresa e aggiungo, se Cult of Chucky vi fosse piaciuto, di recuperare tutta la saga del boogeyman creato da Don Mancini. ENJOY!

martedì 25 ottobre 2016

Urban Legend (1998)

E' giunto il momento di parlare di uno degli horror che preferivo negli anni dell'adolescenza, Urban Legend di Jamie Blanks, uscito nel 1998.


Trama: in un college americano gli studenti cominciano a venire uccisi da qualcuno che ha deciso di riproporre nella realtà le più famose leggende metropolitane...



"Mi ha detto mio cuGGino che una volta si è svegliato in un fosso tutto bagnato che gli mancava un rene!". Così cantavano gli Elii nell'immortale Mio cuggino, la celebrazione tutta italiana delle cosiddette leggende metropolitane, situazioni paradossali e fondamentalmente terrificanti che TUTTI giureremmo siano capitate all'amico, dell'amico, dell'amico del cuGGino appunto. Le leggende metropolitane sono nate in America, almeno quelle più famose, ma alzi la mano chi non se n'è mai sentita raccontare una da ragazzino: io da bambina tremavo ascoltando quella della "mano leccata" ma girava anche la versione cattolica di Bloody Mary, quella in cui se qualcuno avesse recitato l'Ave Maria al contrario (ma perché???) davanti allo specchio avrebbe visto Satana nel riflesso, e sicuramente mille altri racconti atroci che ora non rammento. Scopo delle leggende metropolitane, così si dice, è quello di educare l'utente a non compiere le azioni che condannano i protagonisti alla morte o alla follia (se sei una baby sitter poco attenta probabilmente un assassino arriverà ad ucciderti) oppure a fare attenzione all'ambiente che lo circonda (bisognerebbe controllare SEMPRE il sedile posteriore della macchina, se non addirittura quello che si cela sotto la stessa) e, in generale, contengono una morale assai simile a quella delle antiche fiabe. Il film di Jamie Blanks si basa interamente su questo folklore moderno americano e crea un serial killer particolarmente fantasioso che sceglie di trasformare i malcapitati studenti di un college nei protagonisti di queste leggende metropolitane, imbastendo attorno a questi omicidi una storia fatta di sospetti, segreti passati e vendette postume. Il risultato di questo collage di leggende è una pellicola simpatica, zeppa di citazioni e guest star, interessante nella misura in cui lo spettatore decide di farsi prendere dalla curiosità e approfondire l'argomento: per esempio, io conoscevo la fonte primaria di tutti gli omicidi tranne uno e cercando in rete per colmare questa lacuna ho scoperto il macabro retroscena legato alla canzone Love Rollercoaster , peraltro presente nella colonna sonora di Urban Legend.


Poi, ovviamente, c'è da dire che guardare Urban Legend a diciott'anni non è proprio come guardarlo ora. All'epoca sorvolavo su moltissime cose e badavo essenzialmente all'aspetto folkloristico e gore della pellicola, visto oggi il film di Jamie Blanks è una belinata, per quanto simpatica, e diventa ancora più scemo per chi, come me, si è divorato la prima stagione di Scream Queens. Nella serie creata da Murphy, Falchuk e compagnia i personaggi e le situazioni sono caricati all'estremo ma la somiglianza con Urban Legend ha dell'incredibile: al di là dei soliti studenti stereotipatissimi, ci sono una guardia giurata di colore (mai stupenda quanto Denise Hempville, ah-ha, no sir!), lo studentello giornalista che si atteggia manco lavorasse per il Time e decide di aiutare la protagonista a risolvere il mistero, professori e "decani" che guardano dall'altra parte scegliendo di coprire gli scandali della scuola, killer mosso da sentimenti condivisibili che tuttavia sbrocca facendola fuori dal vaso e scemenza distribuita a palate, tutti aspetti della trama che sono praticamente gli elementi cardine di entrambe le opere. Gli attori, nemmeno a dirlo, sono dei mezzi cani ed era giusto il doppiaggio italiano a mettere una pezza alle vocette monocordi di tutti i coinvolti. L'unico che ancora oggi merita considerazione e simpatia è Joshua Jackson, talmente pronto a prendersi in giro per l'iconico personaggio di Pacey da prestarsi non soltanto alla gag della macchina che si accende sparando "annouannauei" a tutto volume (cosa che mi fa ridere tuttora) ma anche ad omaggiare una delle scene madri di Animal House. E se è vero che Robert Englund, John Neville, Brad Dourif e Danielle Harris sono sempre un bel vedere, soprattutto all'interno di un horror, bisogna anche ammettere che Alicia Witt è una protagonista senza nerbo, Jared Leto un povero minchietta alle prime armi e Rebecca Gayheart un'imbarazzante quasi trentenne costretta nei panni palesemente troppo giovani di una studentessa del college. A parte questo, per passare una serata tra leggende metropolitane e strilli di terrore Urban Legend è perfetto e per mille motivi, non ultima una questione di amore nostalgico, non mi sento di volergli male.


Di Jared Leto (Paul Gardener), Alicia Witt (Natalie Simon), Rebecca Gayheart (Brenda Bates), Joshua Jackson (Damon Brooks), Tara Reid (Sasha Thomas), Robert Englund (Prof. William Exler), Danielle Harris (Tosh Guaneri) e Brad Dourif (che interpreta il benzinaio Michael McDonnel, non accreditato) ho già parlato ai rispettivi link.

Jamie Blanks è il regista della pellicola. Australiano, ha diretto film come Valentine - Appuntamento con la morte. Anche compositore, sceneggiatore e produttore, ha 55 anni.


Michael Rosenbaum interpreta Parker Riley. Americano, ha partecipato a film come Mezzanotte nel giardino del bene e del male, Cursed - Il maleficio, Catch .44 e a serie come Smallville (dove interpretava Lex Luthor). Anche produttore, regista e sceneggiatore, ha 44 anni e un film in uscita.


Loretta Devine interpreta Reese Wilson. Americana, ha partecipato a film come Nikita, spie senza volto, Urban Legend: Final Cut, Mi chiamo Sam e a serie come Ally McBeal, Supernatural, Cold Case, Glee e Grey's Anatomy; inoltre, ha doppiato un episodio di The Cleveland Show. Anche produttrice, ha 67 anni e un film in uscita.


John Neville interpreta il decano Adams. Inglese, lo ricordo per film come Le avventure del Barone di Munchausen, Baby Birba - Un giorno in libertà, Piccole donne, Il quinto elemento, X-Files - Il film e Spider, inoltre ha partecipato a serie come X-Files. E' morto nel 2011, all'età di 82 anni.


Julian Richings interpreta il bidello. Inglese, ha partecipato a film come Il pasto nudo, Mimic, Cube - Il cubo, X-Men - Conflitto finale, Saw IV, Survival of the Dead - L'isola dei sopravvissuti, The Conspiracy, Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet, The Witch e a serie come Kingdom Hospital, Mucchio d'ossa, Hemlock Grove, Supernatural e Hannibal. Ha 61 anni e un film in uscita.


Sarah Michelle Gellar aveva accettato il ruolo di Sasha ma aveva dovuto rinunciare perché già impegnata con le riprese della serie Buffy - L'ammazzavampiri mentre sia Reese Witherspoon che Melissa Joan Hart hanno rifiutato la parte di Natalie. Tra i mille inside joke di cui il film è pieno, molti dei quali comprensibilissimi anche per il pubblico italiano, ce n'è uno che effettivamente può essere apprezzato solo dagli americani: sul finale, una delle studentesse dice "E scommetto che Brenda era la ragazza nella pubblicità della Noxzema" ed effettivamente Rebecca Gayheart, che interpreta Brenda, aveva partecipato a parecchi spot di quel marchio. Il film ha generato ben tre seguiti, tutti di qualità discutibile: Urban Legend: Final Cut è l'unico in qualche modo direttamente collegato poi ci sono Urban Legend 3 (dai risvolti sovrannaturali e legato alla figura di Bloody Mary) e Ghosts of Goldfield (nato come ennesimo capitolo della serie e poi andato per i fatti suoi), entrambi distribuiti straight-to-video; se Urban Legend vi fosse piaciuto eviterei tutti e tre i sequel e punterei invece su So cos'hai fatto, la saga di Scream e Final Destination. ENJOY! 


mercoledì 17 settembre 2014

Il Bollalmanacco On Demand: Velluto blu (1986)

Dopo un po' di pausa torna il Bollalmanacco On Demand, ovviamente col botto! Il film odierno, scelto da Arwen Lynch de La fabbrica dei sogni, è infatti Velluto Blu (Blue Velvet), diretto e sceneggiato nel 1986 da David Lynch. Il prossimo film On Demand sarà invece Last Night. ENJOY!


Trama: il giovane Jeffrey trova un orecchio durante una passeggiata e da quel momento finisce invischiato in una torbida storia di sesso, rapimenti, droga e violenza...


Mi sono avvicinata a Velluto Blu con una discreta dose di paura, lo ammetto. Avevo visto solo spezzoni di film (d'altronde in TV lo danno sempre in seconda se non terza serata) e l'impressione era stata quella di avere davanti una complicatissima e autoriale mattonata, impressione alimentata dalla visione di Strade perdute e Mulholland Drive, pellicole Lynchiane delle quali avevo capito poco o nulla. Alla fine di Velluto Blu ho invece tirato un sospiro di sollievo e non poteva essere altrimenti: d'altronde, posso dire tranquillamente che Lynch mi ha imbevuta con le sue visioni e le sue idee sin dalla tenera età di 9/10 anni, quindi sarebbe stato per me impossibile non riuscire a comprendere e accettare qualcosa girato prima dell'epoca Twin Peaks. E infatti, Velluto blu è sostanzialmente la rappresentazione di un incubo vissuto dal protagonista Jeffrey dal momento in cui il padre viene colpito da ischemia durante una tranquilla giornata di giardinaggio. L'immagine di vita perfetta di una tranquilla cittadina, dove i prati sono ordinati, il sole splende, i bimbi giocano e i vigili del fuoco salutano cortesi, viene a poco a poco sostituita dalle immagini del Male che si trova appena sotto la sua superficie, un po' come i disgustosi insetti che vengono inquadrati nella terra del perfetto praticello del padre di Jeffrey: il veicolo per arrivare a questo Male, il passaggio che ci porta nella mente di chi sta vivendo un incubo, non può essere altro che un orecchio, l'orecchio trovato da Jeffrey nel prato ma anche l'orecchio in cui si "insinua" all'inizio la macchina da presa per poi uscirne solo alla fine, quando l'incubo è finito. Jeffrey trova quest'orecchio mozzato e si improvvisa detective, con la complicità della figlia di un vero agente di polizia, spinto da una sorta di infantile e giocosa curiosità che lascerà presto il posto alla consapevolezza di avere davanti un mondo oscuro, nascosto e violento.


Decidendo di nascondersi in casa della cantante Dorothy Vallens, implicata nel caso dell'"orecchio mozzato", davanti agli occhi stupefatti di Jeffrey si spalanca infatti un mondo altro, incomprensibile e alieno. L'amore innocente per la bionda Sandy va ad affiancarsi al perverso desiderio attizzato dalla fragile dark lady Dorothy, una donna bellissima e sensuale persa nei meandri di una follia autolesionista e masochista, che inizia Jeffrey al sesso e alla violenza. Jeffrey, da par suo, cerca comunque di "salvare" in qualche modo la bella Dorothy, vittima del personaggio più folle di tutto il film, l'imprevedibile Frank di Dennis Hopper, a dir poco detestabile e favoloso. Il povero Jeffrey, pronto a difendere a spada tratta la donna e a diventare il suo cavalier servente in quanto portatore di valori comunque positivi, si ritrova così a dover subire gli scatti di violenza di Frank, a sputare letteralmente sangue mentre il mondo intorno a lui si fa sempre più assurdo (la scena ambientata nel bordello dove Dean Stockwell canta In Dreams va oltre il surreale e tocca vette di sublime follia) e incomprensibile, ben al di là delle conoscenze di un bravo ragazzo appena uscito dal college. Per colpa della sua incauta curiosità Jeffrey rischia di perdere ogni cosa, a partire dall'amore di Sandy che, da brava donna "angelicata", incarna letteralmente il lieto fine ed il ritorno ad una vita normale fatta di bei sogni, praticelli, grigliate sotto il sole, qualche scaramuccia e pettirossi. I pettirossi, come poi si vedrà, sono finti come i soldi del Monopoli e costruiti ad arte, perché la verità è che anche di fronte a un lieto fine l'oscurità rimane comunque annidata nei recessi della mente umana e della realtà stessa, come dimostra l'inquadratura dello sguardo finale di Dorothy, inquieto, triste e quasi spaventato.


David Lynch mette insomma in scena la distruzione dell'american dream, immergendo i personaggi in una realtà atemporale fatta di vecchie canzoni, automobili e abiti che richiamano i più felici e mitici anni '50 e mettendo loro in bocca dialoghi più adatti ad una soap opera che ad un film (la scena madre di Sandy, in cui piangendo dice che il suo sogno non tornerà mai più, è magistrale) e "insozza" questa perfezione tutta americana con abbondanza di turpiloquio, violenza e sesso. A proposito del sesso, nonostante lo scandalo suscitato all'epoca da Velluto Blu il mio post, come vedete, non si sta focalizzando su questo argomento, sulla Rossellini nuda, sulle sequenze zeppe di violenza masochista o sullo stupro di Frank (tutti elementi terribili e disturbanti, per carità) perché, onestamente, non mi sembra siano gli elementi chiave della vicenda e del film ma sono solo alcune delle tante facce della perversione che ribolle sotto la superficie della perfetta provincia americana, quell'incomprensibile oscurità in agguato appena fuori dalla soglia di casa che interessava tanto a Lynch e che si ripropone in tutta la serie Twin Peaks. Gonzi quelli che hanno urlato allo scandalo fermandosi solo all'apparenza delle cose, in primis il pubblico del Festival del Cinema di Venezia dell'epoca. Leggiucchiando qui e là sono venuta a scoprire che proprio in quell'occasione un famoso critico si era indignato di fronte al nudo della Rossellini definendolo un insulto al regista Roberto Rossellini e ad Ingrid Bergman ma la verità è che quella scena particolare arriva inaspettata ad interrompere l'ennesimo cliché da teleromanzo (la scazzottata per una ragazza), riversando sui personaggi tutto l'orrore di un mondo che rischia di aggredirli ad ogni passo, dove le scaramucce amorose hanno la stessa importanza di un foglietto di carta spazzato dal vento e dove il bulletto della scuola risulta ridicolo quanto un bimbo di sei anni che gioca a fare il duro. La verità è che David Lynch è un maledetto genio, lui e quel suo particolare modo di usare le luci e i colori, che ammalia e terrorizza lo spettatore con velluti rossi e blu, lo ipnotizza con le musiche del fido Angelo Badalamenti, lo annienta con personaggi talmente assurdi da essere in grado di far ridere e urlare allo stesso tempo. La verità è che Velluto blu è un capolavoro che ha quasi trent'anni e non se li sente, un film che ogni cinefilo degno di questo nome dovrebbe guardare almeno una volta nella vita.


Di Isabella Rossellini (Dorothy Vallens), Dennis Hopper (Frank Booth), Laura Dern (Sandy Williams) e Brad Dourif (Raymond) ho già parlato ai rispettivi link.

David Lynch (vero nome David Keith Lynch) è il regista e sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto film come Eraserhead - La mente che cancella, The Elephant Man, Dune, Cuore selvaggio, Fuoco cammina con me, Strade perdute, Una storia vera, Mulholland Drive e ovviamente episodi della serie I segreti di Twin Peaks. Anche produttore, attore e compositore/cantante, ha 68 anni.


Kyle MacLachlan interpreta Jeffrey Beaumont. Americano, lo ricordo per film come Dune, L'alieno, The Doors, Fuoco cammina con me, I Flinstones e per aver partecipato a serie come I segreti di Twin Peaks, Racconti di mezzanotte, Sex and the City, Desperate Housewives, How I Met Your Mother e Agents of S.H.I.E.L.D.. Anche regista, ha 55 anni.


Dean Stockwell (vero nome Robert Dean Stockwell) interpreta Ben. Americano, ha partecipato a film come Il giardino segreto, Dune, Beverly Hills Cop II, Una vedova allegra... ma non troppo, I langolieri, Air Force One e a serie come Alfred Hitchcock presenta, Ai confini della realtà, Missione impossibile, Colombo, A-Team, Miami Vice, Hunter e La signora in giallo; inoltre, ha lavorato come doppiatore nelle serie Capitan Planet e i Planeteers. Anche regista, sceneggiatore e produttore, ha 78 anni e film in uscita.


Nel cast figura anche Jack Nance, il futuro Pete Martell di Twin Peaks, qui nei panni del delinquentello Paul, mentre il compositore Angelo Badalamenti compare nel ruolo del pianista. Il ruolo di Jeoffrey era stato inizialmente offerto a Val Kilmer, che ha rifiutato dopo aver letto lo script, considerato "pornografico" dall'attore, Deborah Harry (la Nicki Brand di Videodrome) ha rifiutato quello di Dorothy Valens perché stufa di interpretare personaggi assurdi ed Harry Dean Stanton non ha voluto partecipare nel ruolo di Frank perché il film era troppo violento. Roy Orbison, cantante di In Dreams, aveva invece rifiutato a Lynch il permesso di utilizzare la sua canzone nella scena del bordello: il regista ha trovato un modo legale di inserirla comunque nel film e quando Orbison, per puro caso, ha avuto modo di vedere Velluto Blu, è stato il primo a chiedere a Lynch di produrgli un video per la canzone! Si dice che il film avrebbe dovuto durare più o meno 4 ore; non sono state ritrovate tutte le scene eliminate, ma nel 2011 è uscito un blu-ray che ne contiene almeno una cinquantina di minuti (tra l'altro ce n'è una in cui Jeffrey va ad una festa con una ragazza del college interpretata dalla futura Karen di Will & Grace, Megan Mullally) e naturalmente le stesse scene si possono ritrovare nello script originale, che peraltro si conclude col suicidio di Dorothy. Per finire, se Velluto blu vi fosse piaciuto recuperate anche Mulholland Drive, Fuoco cammina con me e ovviamente l'intera serie I segreti di Twin Peaks. ENJOY!

venerdì 20 giugno 2014

Il signore degli anelli - Le due torri (2002)

Dopo aver parlato de La compagnia dell'anello oggi si prosegue con Il signore degli anelli - Le due torri (The Lord of the Rings - The Two Towers), seconda parte della trilogia diretta nel 2002 dal regista Peter Jackson.


Trama: la Compagnia dell'anello si è divisa. Mentre Frodo e Sam incontrano Gollum e si dirigono verso Mordor per distruggere l'Anello, Pipino e Merry vengono salvati dal misterioso Barbalbero; Aragorn, Gandalf, Legolas e Gimli vengono invece coinvolti in un'epica battaglia tra le forze del malvagio Saruman e gli abitanti del regno di Rohan.



Le due torri, di fatto una sorta di raccordo tra il primo e il terzo capitolo de Il signore degli anelli, è la parte di trilogia che meno preferisco, sebbene la versione estesa sia molto più completa e piacevole da vedere rispetto a quella che era passata nei cinema italiani. All'epoca l'avevo trovata eccessivamente lunga e lievemente tediosa perché il fulcro della sceneggiatura è l'epica battaglia finale al Fosso di Helm, una mezz'ora buona di frecce, esplosioni, orchi e cavalli che, nonostante fosse stata realizzata in maniera impeccabile, al limite della commozione, non era riuscita comunque ad entusiasmarmi come avrebbe dovuto. Altra pecca della pellicola (ma lì la "colpa" risiede nella natura del personaggio, ereditata dai libri di Tolkien) è l'introduzione del noiosissimo Ent Barbalbero, un'enorme quercia semovente amante degli spiegoni e incarnazione dello spirito ecologista che anima questa parte della pellicola, quasi interamente imperniata sulla battaglia tra tradizione e progresso, natura e industria. Il crudele Saruman, ormai completamente asservito a Sauron, non esita a distruggere foreste o deviare fiumi, affidandosi totalmente all'"industria" del fuoco, del metallo e della magia nera per ottenere il potere portando morte ed oscurità nella Terra di Mezzo, mentre invece gli sparuti membri della Compagnia dell'Anello continuano a preferire la comunione con la Natura e l'unione "corretta" delle forze, ottenuta attraverso la difficile ricostruzione di vecchie alleanze. Se la grandiosa battaglia al Fosso di Helm, diretta conseguenza di questi scontri, è la parte più importante dell'Opera, non bisogna comunque dimenticare che il successo della missione di Frodo e Sam è ciò da cui dipende la vittoria del bene o del male e ne Le due torri le vicende dei due Hobbit compiono un importantissimo passo avanti grazie soprattutto all'arrivo di Gollum.


Gollum è uno dei tre personaggi nuovi introdotti nel secondo capitolo della trilogia e, neanche a dirlo, è uno dei migliori della saga. Interpretata magistralmente da un Andy Serkis completamente nascosto da un sembiante digitale, questa creatura è il terribile esempio del potere dell'Anello, un essere tormentato dalla bramosia, dalla sete di vendetta e da una follia che lo sdoppia in due distinte personalità, da una parte l'infantile e timoroso Smeagol e, dall'altra, il freddo e crudele Gollum, che compirebbe ogni sorta di nefandezza per rimettere le zampe sul Tessoro. Gollum ovviamente rappresenta ciò che potrebbe diventare Frodo se si lasciasse sedurre dalle lusinghe dell'Anello ed è quindi inevitabile che tra i due si instauri una connessione da cui il povero Sam rimane escluso; ed ecco che, di fatto, diventa  proprio Samvise Gamgee il lato fondamentale di questo particolare triangolo, l'unico ad essere riuscito a mantenere una dimensione umana, una mentalità semplice in grado di toccare il cuore e l'animo di persone ormai troppo immerse nel dolore e nell'odio, come si può vedere nello splendido, commovente dialogo tra lui e Faramir. L'altro stupendo personaggio a venire introdotto è Eowyn, femminile e forte allo stesso tempo, la "dama sfortunata" che rischia di perdere l'amato zio Theoden a causa delle macchinazioni di Saruman (e della new entry Vermilinguo, meravigliosamente interpretato da un viscidissimo Brad Dourif) e che, per quanto si sforzerà, non potrà mai essere alla pari dell'elfa Arwen e scalzarla dal cuore di Aragorn; sarà perché sono donna e perché la mia dose di due di picche immotivati me la sono presa ma ogni volta che Eowyn compare mi viene voglia di prendere a ceffoni sul coppino l'erede di Isildur per il modo in cui si ostina a rendere triste la poveretta, già segnata da mille sofferenze. Questi personaggi nuovi, ai quali aggiungo anche Faramir e re Theoden, sono talmente ben tratteggiati da riuscire tranquillamente a rivaleggiare con quelli conosciuti nel primo capitolo (sicuramente surclassano Gimli e Legolas) e saranno a dir poco fondamentali per il terzo, ovviamente.


Tecnicamente parlando, anche Le due torri è un capolavoro. Barbalbero, per quanto risulti odioso come personaggio, è comunque realizzato in maniera divina e sembra davvero che porti in spalla di due hobbit quando cammina ma l'olifante che si vede ad un certo punto non è da meno e, ovviamente, Gollum è qualcosa di inimmaginabile. Per quel che riguarda le sequenze invece, il fiore all'occhiello della pellicola è sicuramente la delirante battaglia al fosso di Helm, che ha richiesto mesi di riprese e innumerevoli aggiustamenti fatti al computer (tanto che il cast alla fine portava delle magliette con su scritto "I survived Helm's Deep") per poter essere completata al meglio, tuttavia io sono molto più affezionata alla vertiginosa carrellata che, finalmente, svela quale inferno si nasconda sotto la torre di Saruman e a due sequenze "statiche" che mi mettono sempre i brividi: una è il primo piano del viso di Vermilinguo solcato da una singola lacrima, peraltro vera e frutto dell'abilità di Brad Dourif, mentre l'altra mostra una solitaria Eowyn che si staglia contro Edoras, disperata e vulnerabile ma allo stesso tempo fiera, mentre il vento porta via la bandiera con lo stemma della sua casata e l'evocativa musica di Howard Shore riempie le orecchie e il cuore dello spettatore. Per quel che riguarda il cast, fortunatamente, valgono le stesse parole dette nel post precedente. Si vede che tutti gli attori tenevano particolarmente alla riuscita della trilogia e l'atmosfera di amicizia ed intesa, reciproca e rivolta verso il regista Peter Jackson, traspare da ogni gesto, sguardo o fotogramma del film. Mi rendo conto di aver scritto un papiro che farebbe invidia a Tolkien, quindi concludo qui lo sproloquio relativo a Le due torri e mi preparo perché domenica tocca a Il ritorno del re!!


Del regista e co-sceneggiatore Peter Jackson (che compare anche durante la battaglia al Fosso di Helm) ho già parlato qui. Elijah Wood (Frodo Baggins), Sean Astin (Samwise "Sam" Gamgee), Sean Bean (Boromir), Cate Blanchett (Galadriel), Orlando Bloom (Legolas), Billy Boyd (Peregrino "Pipino" Tuc), Brad Dourif (Grima Vermilinguo), Bernard Hill (Theoden), Christopher Lee (Saruman), Ian McKellen (Gandalf il grigio), Dominic Monaghan (Meriadoc "Merry" Brandybuck), Viggo Mortensen (Aragorn), John Rhys-Davies (Gimli ma da anche la voce a Barbalbero), Andy Serkis (Gollum), Liv Tyler (Arwen), Karl Urban (Eomer), Hugo Weaving (Elrond) e David Wenham (Faramir) li trovate invece ai rispettivi link.

Miranda Otto interpreta Eowyn. Australiana, ha partecipato a film come La sottile linea rossa, Le verità nascoste, Il signore degli anelli - Il ritorno del Re, La guerra dei mondi, Locke & Key, I, Frankenstein e a serie come The Flying Doctors. Ha 47 anni e un film in uscita.


Il film ha vinto due Oscar, uno per il miglior sonoro e uno per i migliori effetti speciali; a tal proposito, purtroppo, Andy Serkis non ha potuto ricevere una meritata nomination per gli Oscar perché il suo personaggio era stato generato al computer. Per quanto riguarda invece i nuovi personaggi introdotti in questo secondo capitolo, il ruolo di Eowyn era stato offerto a Kate Winslet, che già aveva lavorato con Peter Jackson nel meraviglioso Creature del cielo; addirittura, durante le prime fasi di pre-produzione si era pensato ad Uma Thurman per il ruolo di Eowyn e a Ethan Hawke per quello di Faramir. Le due torri segue La compagnia dell'anello e precede Il ritorno del re quindi, se vi fosse piaciuto, recuperate il primo capitolo della trilogia, proseguite col terzo, leggete assolutamente Il Signore degli anelli cartaceo e, se vi va, proseguite guardando i primi due episodi della trilogia de Lo Hobbit. ENJOY!

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