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mercoledì 5 luglio 2017

Okja (2017)

Spinta dalle recensioni positive (una, bellissima, è quella di Lucia) e dal fatto di avere finalmente Netflix, qualche giorno fa ho recuperato Okja, scritto e diretto dal regista Bong Joon-Ho.


Trama: una ragazzina coreana deve cercare di liberare il maiale gigante Okja dalle grinfie della multinazionale che ha creato lui e i suoi simili.


Dopo aver visto Okja mi vergogno quasi a dirlo ma io sono carnivora. Non onnivora, proprio carnivora. Dopo due settimane passate in Giappone praticamente senza mangiare nemmeno un pezzetto di ciccia che non fosse raro e triste pollo ho sbranato la casalinga fettina di vitello con gusto estremo. E mi sento molto merda a scrivere questa cosa, non tanto per i miei livelli di salute (per la cronaca, al momento sto benissimo, analisi a posto, grazie) ma proprio perché sono consapevole di ciò che è accaduto all'animaletto che sto ingerendo, non mi nascondo dietro il dito dell'ignoranza né dietro alla concezione SakiHiwatariana del "la mucca ti ringrazia perché non stai sprecando la sua vita e la trasformi in energia per le tue cellule", mi rendo conto da sola che se la mucca potesse parlare mi manderebbe a cagare assieme a tutto ciò che compone il mio organismo e non parliamo poi di quello che mi direbbe il maiale. Ecco, no, parliamo del maiale, anzi, del super-maiale. Okja. Il protagonista di questo film, creato "biologicamente" da una multinazionale per superare il problema della fame nel mondo. Prometto che non aprirò la parentesi del bio e di quello che le persone comprano spendendo una fraccata di soldi solo grazie a quest'etichetta, probabilmente mangerebbero anche mia nonna se le tagliassi delle fettine di chiappa e le mettessi sul mercato assicurandone la natura BIO. Orto bio. Comunque, tornando al film, la multinazionale Mirando Corporation ha scoperto questi maiali giganti assolutamente bio (sì, credici) e ha concesso a ventisei allevatori diversi di tirarne su altrettanti esemplari, così da poter decretare il miglior super-maiale nel giro di una decina d'anni e cominciare a venderli ai consumatori sbavanti. Uno di questi maiali, Okja, viene cresciuto in Corea da un vecchio allevatore che ha una nipotina, Mija, un'orfanella che giustamente riversa sulla creatura tutto l'affetto e l'innocenza di una bimba solitaria trasformandola in qualcosa di più di una maxisalsiccia destinata a finire sul mercato mondiale. Il problema è che Okja, dieci anni dopo, viene incoronata "miglior maiale" e viene portata via dalla sua casa, con conseguente sconforto della piccola Mija, la quale scopre che il nonno non ha mai neppure provato ad acquistare la creatura dalla Mirando Corporation, come invece aveva fatto credere alla bambina. Questi sono i presupposti di un'avventura che porta Mija a scappare di casa per inseguire Okja fino in America, il problema è che la pellicola di Joon-Ho Bong non è un'avventura allegra e spensierata, lo avrete già capito.


Sul suo cammino, Mija trova infatti i peggiori adulti possibili, a partire proprio dal nonno, ma non solo. Accanto ad esseri palesemente abietti come il veterinario televisivo Johnny Wilcox e le folli Lucy e Nancy Mirando, immediatamente inseribili nel novero dei "cattivi" tout court, ci sono anche gli animalisti che dovrebbero essere buoni ma fondamentalmente sfruttano la povera Mija per i loro fini, per quanto nobili; nel corso della pellicola, Mija viene sottovalutata e presa in giro da tutti in primis perché è piccola e "non capirebbe" ma il confronto con l'"altro" passa anche attraverso una barriera linguistica invalicabile, tutti "paletti" che trasformano l'impresa della bambina in un viaggio verso una terra ostile, incomprensibile e violenta, in aperto contrasto con una natura quasi incontaminata dove per parlare a chi è diverso basta il cuore. Per sopravvivere alla follia di una società moderna fatta di contraddizioni, sceneggiate costruite a tavolino per non turbare gli animi sensibili e gente che nasconde la testa sotto la sabbia come gli struzzi, persino Mija è costretta a scendere a compromessi e soprattutto a comprendere i meccanismi che governano la nostra società, così da riuscire a salvare perlomeno il suo piccolo mondo e la propria innocenza, ma il finale di Okja è uno dei più atroci e crudelmente realistici mai mostrati su schermo. Da spettatrice e da carnivora ipocrita ho fatto fatica a guardare tutto ciò che Joon-Ho Bong sceglie di mostrare agli spettatori e a Mija, tutte le brutture a cui viene sottoposta la povera Okja, quell'orrendo spettacolo capace di richiamare alla mente un olocausto umano e ben radicato nella nostra memoria storica, persino i lividi che rimedia la bambina ad ogni passo del suo faticoso percorso verso la libertà e la salvezza del suo amico animale.


Giustamente Joon-Ho Bong deve avere pensato che una simile violenza fosse necessaria per raggiungere le nostre coscienze addormentate ma la verità è che il regista coreano è soprattutto un fine poeta e un Autore con la A maiuscola, capace di portarci a provare per Okja lo stesso affetto che proveremmo verso una creatura reale. E Okja, di fatto, E' reale, un miracolo di computer graphic che non sembra posticcio neppure per un istante, talmente ben integrata con ciò che la circonda da rendere plausibile persino il dolce omaggio iniziale a Il mio vicino Totoro; Okja è vera, conseguentemente risultano veri anche i suoi tristi compagni di sventura, sottoposti a torture inenarrabili, e il nostro cuore arriva a piangere per ognuno di loro, anche se non hanno nome. E' un vero peccato che Okja sia un film disponibile solo su Netflix perché una distribuzione cinematografica renderebbe giustizia ad alcune delle scene d'azione più belle mai girate, una su tutte la concitatissima fuga al supermercato dove tutti i coinvolti, animale compreso, sembrano farsi incredibilmente male, oppure il terribile inseguimento dopo la parata, per arrivare al pluricitato e cupo finale, dove ogni dettaglio dovrebbe imprimersi a fuoco nella mente dello spettatore in saecula saeculorum. Come già avevo scritto nella recensione di Train to Busan, un film come Okja riesce a dare dei punti a qualsiasi blockbuster occidentale mescolando sapiente tecnica artistica al cuore pulsante di una sceneggiatura semplice ma profonda, che rielabora cliché universali in un modo tutto nuovo e parla al mondo intero non solo grazie all'ausilio di bravissimi attori occidentali ma anche e soprattutto grazie al musetto espressivo di una ragazzina bellissima e coraggiosa, con due occhioni addolorati che spezzerebbero il cuore a un sasso. Io mi fermo qui ma avrete capito che Okja è un film splendido che merita di essere visto da chiunque e lo consiglio spassionatamente, anche se rischia di farvi diventare vegani. Faccio solo un appunto agli adattatori italiani: ma perché mettere in bocca ai personaggi frasi come "Cerca di imparare l'italiano, ti sarà molto utile!" quando Mija va a New York? E andiamo, su...


Di Tilda Swinton (Lucy e Nancy Mirando), Giancarlo Esposito (Frank Dawson), Jake Gyllenhaal (Johnny Wilcox), Shirley Henderson (Jennifer), Paul Dano (Jay), Daniel Henshall (Blond) e Lily Collins (Red) ho già parlato ai rispettivi link.

Joon-Ho Bong è il regista e sceneggiatore della pellicola. Sud Coreano, ha diretto film come The Host e Snowpiercer. Anche attore e produttore, ha 48 anni e un film in uscita.


Nei panni di K avrete notato l'attore Steven Yeun, meglio noto come il Glenn di The Walking Dead. Se Okja vi foste piaciuto provate a recuperare E.T. - L'extraterrestre. ENJOY!


martedì 22 novembre 2016

Swiss Army Man (2016)

Dopo un tam tam mediatico durato settimane e una vittoria al Sundance, approda anche sul Bollalmanacco (sempre col solito ritardo) Swiss Army Man, opera d'esordio dei registi e sceneggiatori Daniels, alias Dan Kwan e Daniel Scheinert.


Trama: Henry si ritrova solo su un isola deserta e, disperato, tenta il suicidio. L'improvvisa comparsa del cadavere di un uomo, portato dalla risacca, lo distoglie dai suoi intenti e lo spinge ad intraprendere un particolare ed avventuroso viaggio di ritorno verso casa...



Il post su Swiss Army Man sarà molto breve purtroppo ma non perché il film non mi sia piaciuto. Anzi, Swiss Army Man è probabilmente uno dei film più interessanti dell'anno, anche perché è difficile trovarne uno in grado di suscitare nello spettatore la stessa abbondanza di sensazioni contrastanti: perplessità, divertimento, ribrezzo, ansia, divertito disgusto, fascinazione, tristezza, ancora disgusto, commozione, pietà, tristezza e persino speranza, tutte mescolate senza soluzione di continuità. E' per far sì che queste sensazioni vi colpiscano in modo fresco ed inaspettato che vorrei parlare il meno possibile di Swiss Army Man, perché il film dei Daniels va scoperto poco a poco, accettando anche di non avere tutte le risposte alla fine della visione o di vivere l'avventura di Henry in base alla propria predisposizione d'animo individuale. Che potrebbe anche portarvi a considerare questa pellicola la peggiore delle p*ttanate, eh, mica detto. Oggettivamente, posso dire senza paura di venire smentita che Paul Dano e Daniel Radcliffe si impegnano al massimo delle loro possibilità portando a casa due delle interpretazioni più belle dell'anno (soprattutto Radcliffe, mai così perfetto in tutta la sua carriera) mentre la fantasia e la cura con le quali i Daniels giocano con regia, scenografie, montaggio e soprattutto colonna sonora creano un'opera che ricorda tantissimo gli esperimenti più folli di Gondry e Jonze. Quindi, oggettivamente parlando, Swiss Army Man è un film bellissimo, girato ed interpretato da Dio, e nessuno potrà convincermi del contrario. Da un punto di vista meramente soggettivo, l'ho trovato assurdamente commovente in ogni sua sfaccettatura e ho molto apprezzato il modo in cui un uomo sconfitto dalla vita (che, probabilmente, non ha MAI saputo vivere) si ritrovi costretto a spiegarne la bellezza e la trivialità, a vivere tutte le gioie di cui si è sempre privato per paura e ad apprezzare anche ciò che normalmente diamo per scontato oppure ignoriamo per pudicizia. E qui mi devo fermare, necessariamente, o parte lo spoiler. Aggiungo solo che neppure la Disney ha mai raccontato così bene la bellezza di riuscire ad essere sé stessi e di assaporare la libertà di vivere semplicemente, senza paura del giudizio altrui, a prescindere da quanto siamo strani, brutti o impacciati (in una parola umani)... e che non bisogna tenersi tutto dentro. Non sempre almeno, via.


Di Paul Dano (Henry), Daniel Radcliffe (Manny) e Mary Elizabeth Winstead (Sarah) ho già parlato ai rispettivi link.

Dan Kwan e Daniel Scheinert, conosciuti come "Daniels" sono i registi e sceneggiatori della pellicola, al loro primo lungometraggio. Assieme hanno diretto video per artisti come Tenacious D, Foster the People e pubblicità per marchi quali Levi's, Weetabix e Converse.


Se Swiss Army Man vi fosse piaciuto recuperate Weekend con il morto, Fido e Lars e una ragazza tutta sua. ENJOY!


venerdì 29 maggio 2015

Youth - La giovinezza (2015)

E fu così che, nonostante il timore reverenziale di non capire nulla o sviluppare un'avanzata forma di orchite, martedì sono andata anch'io a vedere Youth - La giovinezza, diretto e sceneggiato dal regista Paolo Sorrentino.


Trama: ad un ex direttore d'orchestra ormai in pensione viene chiesto di tornare in servizio per la festa di compleanno del re Filippo di Edimburgo, consorte di her majesty Elisabetta. L'uomo, in vacanza in Svizzera con la figlia e l'amico regista, non vuole però riprendere l'attività che lo ha consacrato ad imperitura fama...


Non so se faccio bene a pubblicare un post sull'ultimo film di Sorrentino. Il mio problema è che, davanti al cinema "d'autore", comincio sempre la visione con l'atavico terrore di non capire nulla di quello che sto vedendo e di uscire dal cinema con un senso di delusione mentre tutti gli altri attorno a me piangono, deliziati dalla visione appena conclusa. Insomma, mi sento come Rat-Man quando fa le sue incredibile ed ignoranti figure barbine. Nello sforzo di capire quello che sto vedendo, di cogliere il significato di immagini che andrebbero semplicemente vissute e non ridotte a termini semplici che anche il mio cervelletto potrebbe comprendere, mi rendo conto di perdere molto del film e purtroppo questo è successo con Youth - La giovinezza, che ho guardato avvinta da una soverchiante sensazione di ansia. Colpa de La grande bellezza, certo, perché la visione di This Must Be the Place invece non era stata così travagliata, anzi, me lo ero goduto con una buona dose di allegria. Quindi, sarebbe il caso di scrivere un post dopo un'eventuale seconda visione di Youth, così da riuscire a offrirvi qualcosa di intelligente, ironico, emozionante e colto come l'ultimo film di Sorrentino. Però.. per una volta perché non provare a rendervi partecipi solo di un paio di pensieri semplici, come quelli che ci siamo scambiati con l'amico Toto fuori dal cinema? D'altronde, il Bollalmanacco era nato come una serie di SMS, quindi...


Innanzitutto, Youth - La giovinezza ha una colonna sonora bellissima. E' questo che mi ha colpito più di tutto il resto. Ho cominciato dondolando la testa e canticchiando tra me le note di You've Got the Love, ho continuato trattenendomi dal ballare come un'idiota al ritmo di She Wolf (Fallin to Pieces, non quella di Shakira) e ho finito piangendo commossa davanti alla voce meravigliosa della cantante Sumi Jo, accompagnata dalla splendida, evocativa colonna sonora di David Lang. La musica è indispensabile per vivere e "sentire" Youth e ogni singolo brano si adatta alla perfezione alle immagini di Sorrentino.


A differenza di quello che era successo con La grande bellezza ho provato subito empatia verso il protagonista. Non lo so se è perché la mia ipocondria congenita mi sta già facendo sentire più vecchia di quello che sono ma in molte parole sue o dell'amico Mick mi sono riconosciuta. E ho paura del momento in cui non riuscirò più a ricordare i gesti e le voci dei miei genitori, di non riuscire più a dare valore a dei piccoli gesti gentili perduti nel tempo, magari cancellati da preoccupazioni, rancori e dolore. Non penso che Frank sia un uomo cattivo, semplicemente è un uomo che ha sbagliato molto e che non ha dato il giusto valore alle cose quando ne ha avuta l'occasione. Per la durata del film però gli ho voluto bene e ne ho voluto anche di più a Mick, così sereno e disponibile con gli altri e così fragile, alla stupenda Lena (Rachel Weisz e la sua dolorosa invettiva mi hanno ipnotizzata) che cerca di ricostruirsi una vita, al caustico Jimmy, alla bella ed intelligente Miss Universo (campionessa mondiale di STACCE™) e persino alla "divina" Brenda Morel. A proposito, chissà se è giusto costruire un'amicizia fatta solo di cose belle, come dice Mick, o se è meglio una brutale, assoluta sincerità? Anche se a questa importante domanda non è possibile dare risposta è stato bello riflettere assieme a Sorrentino, Caine e soci su questa e altre cose fondamentali come il desiderio, la vecchiaia, la giovinezza (ma che cos'è poi 'sta giovinezza? Uno può essere giovane tutta la vita!!), la libertà e i mille, personalissimi modi di intendere e dimostrare amore.


E comunque, tornando al discorso dell'inizio, non è vero che sono stata tesa tutto il tempo. Davanti a certe immagini e a certe sequenze il cervello si libera automaticamente dall'ansia, non vuole più capire ma solo meravigliarsi, sorridere o commuoversi. Come quando la cinepresa di Sorrentino decide di tenerci in sospeso e giocare con noi: il monaco sta levitando oppure no? Ecco, la sequenza del monaco è una delle più belle che abbia visto in vita mia. E da persona semplice quale sono, ho amato il fatto che ad ogni immagine di "vecchiaia" se ne accostasse una di giovinezza, il modo in cui la regolarità della vita nell'albergo venisse riproposta in sequenze quasi ripetitive, dal ritmo altrettanto lento e regolare, ho adorato i giochi di sguardi che valgono più di mille parole, quel trashissimo video da incubo che arriva a spezzare la tranquillità del sonno di Lena, l'idea che la natura possa essere "guidata" dalla mano ancora capace di un direttore d'orchestra e con tutto questo ho apprezzato altre mille, emblematiche immagini che vi lascerei il gusto di scoprire. Più di tutto, però, ho amato lo sguardo di quell'elegante e meraviglioso signore che risponde al nome di Michael Caine: l'ho amato nella durezza con cui decide di confrontarsi con un passato doloroso (se fossi stata Sumi Jo forse sarei morta sotto uno sguardo così diffidente ed inquisitorio...), nelle lacrime che lo portano infine alla consapevolezza di sé, l'ho amato persino nella sua tanto conclamata apatia. Uno sguardo che, facendosi di ghiaccio, prova a rifiutare il mondo e ad impedire che le braci di una vita ancora desiderosa di esprimersi tornino a bruciare a tempo di musica. Una musica splendida che vorrei sentire ancora, e ancora, e ancora. Anche se forse non sarò mai in grado di apprezzarla e capirla come dovrei.


Del regista e sceneggiatore Paolo Sorrentino ho già parlato QUI. Di Michael Caine (Fred Ballinger), Harvey Keitel (Mick Boyle), Rachel Weisz (Lena Ballinger), Paul Dano (Jimmy Tree) e Jane Fonda (Brenda Morel) ho parlato invece ai rispettivi link.

Chloe Pirrie, che interpreta l'unica donna nel gruppo degli sceneggiatori, aveva partecipato alla serie Black Mirror, più precisamente all'episodio cult The Waldo Moment mentre Madalina Diana Ghenea, che interpreta Miss Universo, aveva già partecipato a Dom Hemingway e (poverina!) I soliti idioti; sono "vere" invece le cantanti Paloma Faith e Sumi Jo quindi se volete potete andare sul Tubo ad ascoltare alcuni loro brani. Detto questo, se Youth - La giovinezza vi fosse piaciuto recuperate La grande bellezza, This Must Be the Place e magari anche Quartet. ENJOY!




venerdì 14 marzo 2014

Little Miss Sunshine (2006)

Dopo qualche anno ho deciso di rivedere il bellissimo Little Miss Sunshine, diretto nel 2006 dai registi Jonathan Dayton e Valerie Faris e vincitore di due premi Oscar, uno per la miglior sceneggiatura originale e uno per Alan Arkin come miglior attore non protagonista.


Trama: la famiglia Hoover si imbarca in un viaggio "della speranza" per accompagnare la piccola Olive al concorso Little Miss Sunshine. Le disavventure, neanche a dirlo, non mancheranno...


Se c'è un film che adoro, in grado di divertirmi e commuovermi allo stesso tempo, questo è Little Miss Sunshine. A pensarci bene, il mio amore è assurdo perché i protagonisti della pellicola, un branco di nevrotici disadattati, avrebbero tutte le carte in regola per farmi imbestialire, per non parlare poi del fatto che lo zio è interpretato da un attore che notoriamente non sopporto come Steve Carell. E invece quest'apologia del loser è semplicemente splendida proprio per il modo in cui i personaggi si compensano naturalmente nei pregi e nei difetti, per come ognuno di loro riesce ad apportare un sostegno fondamentale alla fragilissima famiglia Hoover e per i valori che la pellicola trasmette senza pedanteria né didascalismo. Effettivamente, non servono troppi giri di parole quando si hanno davanti i semplici gesti, la spontaneità e la tenerezza della piccola Olive, vero motore dell'intera vicenda e mossa da un sogno grandioso ed impossibile: diventare Little Miss Sunshine. Occhialuta, paffutella e decisamente poco aggraziata, la piccoletta non avrebbe una sola chance di vincere (e, povera pulcina, sotto sotto ne è consapevole), ma chissenefrega. Come al solito, non è l'obiettivo che conta, ma il viaggio (letterale e figurato), perché il vero perdente è colui che rinuncia subito all'impresa, non quello che fallisce dopo averci provato e questo semplice concetto si inculcherà nelle menti di ogni membro della famiglia, ognuno dotato di un desiderio impossibile da realizzare e per questo costantemente triste, frustrato e, peggio, incapace di cercare sostegno all'interno del nucleo familiare.


Il difficile viaggio "interiore" degli Hoover si rispecchia in un'odissea a bordo di un furgoncino Volkswagen ormai pronto per la rottamazione, scassato e logorato come i suoi padroni, che sono costretti così non solo a condividere a lungo uno spazio ristretto ma anche a collaborare fisicamente per riuscire a far sì che almeno Olive non diventi disillusa come tutti i suoi familiari. Purtroppo per la piccina, la compagnia non è delle migliori. Nonno Edwin rappresenta il lato "umano" della famiglia ed è sicuramente l'unico ad essersi vissuto la vita senza troppe pippe mentali ma ha deciso di passare la vecchiaia sniffando cocaina, papà Richard tiene corsi sul successo e vive seguendo i propri freddi dettami ma è un fallito di prim'ordine, mamma Sheryl è una pessima casalinga già al secondo matrimonio, il fratellastro Dwayne ha deciso di non parlare finché non riuscirà ad essere ammesso all'accademia di volo e, infine, zio Frank è uno studioso gay dalle tendenze suicide. Tra tutti, Olive è la persona più normale (forse perché è ancora piccina) ma purtroppo il suo sogno è interamente proettato verso un orrore tutto americano fatto di bimbe appena in grado di camminare e già truccate e vestite come le peggio baldracche, gettate a calci sui palcoscenici da genitori affamati di soldi e successo e, poverelle, sicuramente destinate a diventare delle oche decerebrate ed inchiattite che imporranno alle figlie lo stesso amaro destino. Quando l'innocenza e l'allegria dell'infanzia incontreranno questo orrido mondo fatto di regole, lustrini e zoccolette in miniatura gli Hoover si accorgeranno che la normalità è relativa... e che, per loro, c'è ancora speranza, in barba all'incertezza del futuro.


I registi Jonathan Dayton e Valerie Faris raccontano questa incredibile piccola storia immergendo i personaggi in un universo fatto di colori vivaci e tipici paesaggi americani; come se fossero la versione ancor più indie di Wes Anderson i due prestano un'attenzione incredibile agli abiti indossati dai personaggi (si vedano le buffe mise di Olive) e, ovviamente, al loro meraviglioso furgone, membro della famiglia tanto quanto gli esseri umani. Gli attori sono tutti perfetti e tratteggiano i protagonisti con incredibile sensibilità: Alan Arkin si è portato a casa un meritatissimo Oscar come miglior attore non protagonista perché nonno Edwin è un mattatore di prim'ordine e una presenza fondamentale (Granpa, am I pretty? You're the most beautiful girl in the world), ma i miei preferiti sono, neanche a dirlo, la tenerissima Abigail Breslin, il malinconico Steve Carell e il povero Paul Dano che, durante la terribile sfuriata dentro il furgone, spezza davvero il cuore per il realismo con cui reagisce davanti all'ennesimo sogno infranto. Fondamentale anche la colonna sonora, indispensabile per conferire al film un'atmosfera leggera e allo stesso tempo profonda, per non parlare poi dell'esilarante numero musicale finale sulle note di Super Freak, in grado di diventare in tempo zero una delle scene cult del cinema americano. Insomma, se non avete mai visto Little Miss Sunshine siete ancora in tempo, non perdetevi assolutamente un gioiellino come questo!!


Di Abigail Breslin (Olive Hoover), Greg Kinnear (Richard Hoover), Paul Dano (Dwayne), Alan Arkin (Edwin Hoover), Toni Collette (Sheryl Hoover), Steve Carell (Frank Ginsberg) e Bryan Cranston (Stan Grossman) ho già parlato ai rispettivi link.

Jonathan Dayton e Valerie Faris sono i registi della pellicola. Americani, marito e moglie, hanno diretto parecchi video e il film Ruby Sparks. Anche produttori e sceneggiatori, lui ha 57 anni, lei 56 ed entrambi hanno due film in uscita.


Tra gli altri attori segnalo la comparsata di Dean Norris (Barbie did it!!) nei panni dello sbirro che ferma i protagonisti in autostrada. Nonostante tutto il bene che voglio a Carell per questo film mi chiedo come sarebbe stato Frank se l'avessero interpretato Bill Murray, che era la prima scelta dei produttori, oppure la "seconda scelta" Robin Williams! Oltre a questo, sappiate che Little Miss Sunshine ha ben quattro finali alternativi, tutti contenuti anche nel DVD italiano che ho io: uno in cui la famiglia riunita brinda alla memoria del nonno e tre in cui, in un modo o nell'altro, i protagonisti fuggono dopo aver rubato l'ambito trofeo. Per concludere, se Little Miss Sunshine vi fosse piaciuto, infine, consiglierei la visione di A proposito di Schmidt, Il treno per il Darjeeling e Le avventure acquatiche di Steve Zissou. ENJOY!

mercoledì 26 febbraio 2014

12 anni schiavo (2013)

Aspettando la fatidica notte degli Oscar sono riuscita a recuperare anche l'attesissimo 12 anni schiavo (12 Years a Slave), diretto nel 2013 dal regista Steve McQueen e tratto dall'omonima biografia di Solomon Northup.


Trama: Solomon Northup è un violinista di colore che viene rapito con l'inganno, privato dell'identità e venduto come schiavo. La sua terribile odissea testimonierà orrori indicibili e ben pochi momenti di serenità...


L'anno scorso c'erano Django Unchained e Lincoln a raccontare, ognuno a modo loro, la terribile vergogna dello schiavismo americano, quest'anno ci sono 12 anni schiavo e The Butler (per quanto quest'ultima pellicola affronti un tema diverso ma altrettanto vergognoso, quello della segregazione razziale), segno che l'America continuerà ancora per molti anni e, si spera, secoli a ricordare uno dei suoi momenti più bui. Steve McQueen è un englishman in New York, per così dire, e ciò gli ha consentito di realizzare 12 anni schiavo senza ricorrere a patriottismo o sermoni buonisti e focalizzando l'attenzione, molto semplicemente, su un uomo. Non sull'umanità in generale ma su un uomo anche troppo ingenuo e gentile che, suo malgrado e senza un perché, viene spogliato dell'identità, trasformato letteralmente in un oggetto e privato di una famiglia, di una casa, della dignità che dovrebbe essere propria di ogni essere umano. Senza fare sconti, il regista ci mostra il tortuoso cammino di Solomon Northup verso una libertà bramata ma irraggiungibile, un agghiacciante viaggio fatto di stupore, rabbia, paura, ribellione, diffidenza e, soprattutto, triste rassegnazione, dove non esistono eroi che si battono per una giusta causa ma solo persone crudeli o timorose e campi “minati” dove l'insidia si nasconde dietro ogni parola, ogni gesto, ogni sguardo. 12 anni schiavo è un film d'orrore ben più efficace di ogni pellicola di genere perché la morte e la paura diventano compagne di Solomon dal momento stesso in cui viene rapito e, automaticamente, si insinuano nell'animo dello spettatore che non può fare a meno di immedesimarsi nel protagonista e in tutti i suoi sfortunati compagni.


Steve McQueen costruisce un affresco soffocante ed inquietante e lo fa innanzitutto partendo dalle immagini, sia quelle terribili che si imprimono indelebilmente nella mente dello spettatore sia quelle di "raccordo". Mi ha particolarmente colpita, infatti, il modo in cui i luoghi dove viene condotto Solomon non vengano mai mostrati per intero; all'inizio vediamo una cella e il cortile di una prigione (con Washington che, beffardamente, si staglia sullo sfondo ad indicare quanto sia lontana ma allo stesso tempo vicina la salvezza), poi l'interno di un'imbarcazione e, soprattutto, l'acqua del fiume, ripresa in modo quasi ossessivo, dopodiché boschi, campi sterminati e interni di abitazioni. Gli occhi degli schiavi non si posano mai sul cielo o su orizzonti ampi, perché il loro mondo viene brutalmente delimitato dai confini imposti dal padrone e dalla consapevolezza di dover non vivere, ma sopravvivere un giorno dopo l'altro. Diversamente da quanto succedeva col pornografico La passione di Cristo, inoltre, McQueen non indugia sui corpi martoriati e frustati, sebbene il sangue non manchi, come conferma il terribile piano sequenza che documenta la punizione di Lupita Nyong'o, bensì si sofferma sulla violenza psicologica e sull'orrore di chi accetta simili atti come parte della propria quotidianità, come quando il protagonista viene lasciato appeso a una corda per l'intera giornata mentre alle sue spalle i bimbi giocano. Ad accompagnare queste sequenze scioccanti ce ne sono altre più "sottili" ma non per questo meno angoscianti e la mia preferita, in tal senso, è quella che mostra il confronto notturno tra Solomon ed il crudele Epps, costruita con maestria e degna di comparire nel più teso dei thriller per la sua capacità di lasciare lo spettatore col fiato sospeso.


Un'altra scena bellissima è quella in cui Solomon, finalmente, si unisce agli altri schiavi nel canto, forse per disperazione, forse perché ormai è riuscito a perdere completamente la sua individualità; il primo piano di Chiwetel Ejiofor è incredibilmente intenso e l'attore, bravissimo per tutta la durata della pellicola, qui tocca indubbiamente l'apice della sua interpretazione. Lo stesso vale per ogni attore presente in 12 anni schiavo, fenomenali tutti tranne Brad Pitt, che compare pochissimi minuti in un ruolo fondamentale ma esibendo un fastidiosissimo accento fasullo. Purtroppo lui è l'unica guest star a deludere perché, differenza di The Butler che sfoderava assi, re e regine come se piovessero, sprecandoli, in 12 anni schiavo anche i piccoli ruoli di Paul Giamatti, Paul Dano e Benedict Cumberbatch  diventano importantissimi ed indimenticabili. A farla da padrone e mangiarsi l'intero cast però è il cattivissimo, disgustoso Fassbender che, in tempo zero, è riuscito a farsi perdonare quello scherzo della natura che era The Counselor, ma anche le interpretazioni di Sarah Paulson (se Jessica Lange in American Horror Story le ha insegnato qualcosa, è stato come interpretare una stronza di prim'ordine!!) e della commovente Lupita Nyong'o sono a dir poco incredibili. Insomma, avrete capito che 12 anni schiavo è un film che mi è piaciuto molto e che ho apprezzato soprattutto, come già era successo con Dallas Buyers Club, per l'onestà con cui si rapporta allo spettatore, senza cercare di accattivarselo ma conquistandolo con una storia già di per sé terribile, che non necessita di essere "gonfiata" ulteriormente. Non è magari il capolavoro che mi aspettavo e patisce di qualche ingenuità, ma è sicuramente un film che VA visto, senza se e senza ma.


Di Dwight Henry (Zio Abram), Quvenzhané Wallis (Margaret Northup), Paul Giamatti (Freeman), Benedict Cumberbatch (Ford), Paul Dano (Tibeats), Michael Fassbender (Edwin Epps) e Brad Pitt (Bass) ho già parlato ai rispettivi link.

Steve McQueen (vero nome Steve Rodney McQueen) è il regista della pellicola. Inglese, ha diretto film come Hunger e Shame. Anche sceneggiatore, attore e produttore, ha 45 anni.


Chiwetel Ejiofor interpreta Solomon Northup. Inglese, ha partecipato a film come Love Actually, Melinda e Melinda, Serenity, I figli degli uomini, Parla con me, American Gangster, 2012 e Salt. Anche regista e sceneggiatore, ha 37 anni e due film in uscita.


Sarah Paulson (vero nome Sarah Catharine Paulson) interpreta la Signora Epps. Incredibile interprete di tre gloriose stagioni di American Horror Story, la ricordo per film come What Women Want, Bug, Serenity, The Spirit, Mud e altre serie come American Gothic, Nip/Tuck, Grey’s Anatomy e Desperate Housewives. Ha 40 anni e un film in uscita.   


Alfre Woodard interpreta la Signora Shaw. Americana, ha partecipato a film come S.O.S. Fantasmi, 4 fantasmi per un sogno, Mumford, Lost Souls – La profezia e a serie come Frasier, Desperate Housewives, Grey’s Anatomy e True Blood. Anche produttrice, ha 62 anni e tre film in uscita.


Garret Dillahunt interpreta Armsby. Americano, ha partecipato a film come Non è un paese per vecchi, L’ultima casa a sinistra, Cogan – Killing Them Softly, Looper- In fuga dal passato e a serie come NYPD, X-Files, Millenium, CSI: NY, The 4400, E.R. – Medici in prima linea, Numb3rs, Terminator: The Sarah Connor Chronicles, Criminal Minds, CSI – Scena del crimine e Lie To Me. Ha 50 anni e tre film in uscita.


Il film ha ottenuto ben nove nomination all'Oscar: miglior film, miglior attore protagonista, miglior attore non protagonista (Michael Fassbender), migliore attrice non protagonista (Lupita Nyong'o), migliori costumi, miglior regia, miglior montaggio, miglior scenografia e miglior sceneggiatura non originale. Leggenda vuole che il bravissimo Chiwetel Ejiofor abbia tentennato fino all'ultimo e rifiutato il ruolo di protagonista perché non si sentiva all'altezza, mentre la cattivissima Sarah Paulson è stata praticamente "scelta" dalla figlia del regista, inquietata dalla registrazione del suo provino. A parte queste facezie, se 12 anni schiavo vi fosse piaciuto, recuperate anche Django Unchained, The Help, The Butler - Un maggiordomo alla Casa Bianca, Amistad e magari lo storico sceneggiato Radici. ENJOY!!

venerdì 15 novembre 2013

Prisoners (2013)

Dopo qualche settimana di assenza dalle sale è giunto il momento di fare doppietta. Nel weekend spero di riuscire a parlare di Machete Kills mentre oggi vi beccate qualche pensiero sparso su Prisoners, diretto dal regista Denis Villeneuve.


Trama: il giorno del ringraziamento Anna ed Eliza, due bimbette di sei e sette anni, scompaiono, presumibilmente rapite. Il primo ed unico indiziato è Alex, un ragazzo con palesi problemi psichici. Incapace di rispondere alle domande della polizia il ragazzo viene rilasciato per mancanza di prove ma Keller, padre di Anna, non crede alla sua innocenza e lo rinchiude in un edificio abbandonato per estorcergli una confessione..


Questo 2013 cinematografico sta regalando un sacco di sorprese positive. Nonostante fosse privo di un battage pubblicitario che, molto probabilmente, avrebbe accompagnato l'opera di qualsiasi altro regista di "genere" ben più famoso, Prisoners rischia infatti di vincere il primo premio come miglior thriller dell'anno, forse perché la pellicola di Denis Villeneuve, ironicamente, non può venire "imprigionata" in una semplice definizione. Sotto la superficie dell'angosciante, spesso frustrante ricerca del rapitore di due bambine, delle indagini del detective Loki, della violenza di un padre disperato ai danni di un presunto colpevole c'è un'umanità tristissima e fatta di Prigionieri non solo fisici, sbatacchiati qua e là da una realtà orribile e, purtroppo, mai chiaramente definibile né facile da comprendere. Keller, padre disperato, è prigioniero delle proprie cieche convinzioni e delle aspettative della moglie, di un passato di alcoolista e di un'infanzia orribile; il detective Loki è prigioniero del suo terrore di fallire e causare conseguentemente dolore alle famiglie delle vittime, cosa che lo costringe ad innalzare un muro tra lui e loro; tutti gli altri personaggi sono prigionieri del dolore, della pazzia, di ferite talmente profonde da condizionare la loro esistenza e alimentare un circolo vizioso potenzialmente infinito dal quale nessuno potrà uscire vincitore e dove il confine tra bene e male cessa di esistere.


Prisoners è un film angosciante che supera nettamente molti altri thriller anche e soprattutto per la mancanza di quella fede salda ed incrollabile, tipicamente americana, verso la mentalità da vigilantes o di un'apologia del padre di famiglia che, attraverso il dolore, diventa eroe. Qui non esiste redenzione, non esiste catarsi, non esiste neppure un personaggio dotato di qualità fuori dal comune perché all'inizio, vedendo il modo in cui un Hugh Jackman fuori di sé si approccia al detective Jake Gyllenhaal, mi è venuto da pensare che mio padre reagirebbe allo stesso modo: sopraffatto dal dolore, incapace di ragionare o di capire la mentalità poliziesca continuerebbe comunque a dire "mia figlia è stata rapita, è stato lui, lo so che è stato lui e quindi perché lo avete rilasciato? No, non ci siamo capiti, non me ne frega niente se non ha parlato. Le ho detto che è stato lui quindi è così e basta." Allo stesso modo, il detective è un'altra figura assolutamente realistica perché, se ci fate caso, dalla sua ha sì una testardaggine incredibile, ma è indisciplinato, bizzoso e violento e tutto quello che scopre, alla fin fine, lo scopre più per fortuna che per abilità. Il che è un po' paradossale perché, nonostante vari twist della trama, gli indizi ci sono e non sono difficili da seguire o da comprendere per lo spettatore comodamente seduto in poltrona. Ma, come ho detto, l'elemento thriller è solo una scusante per indagare l'animo umano e, in questo, Prisoners da veramente il meglio.


Merito, ovviamente, di un gruppetto di attori fantastici, sui quali spiccano Hugh Jackman e Jake Gyllenhaal, due grandissimi professionisti che si palleggiano il premio per la migliore interpretazione nel corso dell'intera durata del film ma ci sono anche le prove misurate ed efficaci di Viola Davis e Terrence Howard, quella convincentissima di Melissa Leo e la rivelazione dell'inquietantissimo, pietoso Paul Dano, in grado di provocare nello spettatore una miriade di sensazioni contrastanti. Per quanto riguarda la regia, Villeneuve utilizza un punto di vista distaccato ma limitato, nel senso che lo spettatore non viene portato a conoscenza di nessun dettaglio in più rispetto ai protagonisti, i quali spesso vengono ripresi dall'interno di un auto come se il regista volesse mostrarceli senza venire coinvolto nella vicenda, offrendoci così la possibilità di osservare con occhio imparziale e oggettivo. A dire il vero, per impostazione tecnica Prisoners mi ha ricordato tantissimo Mystic River, che viene spesso richiamato anche per quanto riguarda i temi trattati; siccome adoro quel particolare film di Clint Eastwood, non posso fare altro quindi che consigliare la pellicola di Villeneuve a tutti gli amanti del buon cinema. Astenersi genitori ansiosi, ovviamente.


Di Hugh Jackman (Keller Dover), Jake Gyllenhaal (Detective Loki), Viola Davis (Nancy Birch), Maria Bello (Grace Dover), Terrence Howard (Franklin Birch), Melissa Leo (Holly Jones) e Len Cariou (Padre Patrick Dunn) ho già parlato ai rispettivi link.

Denis Villeneuve è il regista della pellicola. Canadese, ha diretto film come Polytechnique e La donna che canta. Anche sceneggiatore e attore, ha 46 anni.


Paul Dano interpreta Alex Jones. Americano, ha partecipato a film come Identità violate, Little Miss Sunshine, Cowboys & Aliens, Ruby Sparks, Looper – In fuga dal passato e alla serie I Soprano. Anche produttore, ha 29 anni e due film in uscita.


Hugh Jackman (che, ironia della sorte, era stato chiamato ad interpretare il ruolo di padre disperato anche per Amabili resti) è tornato all’ovile dopo aver abbandonato il progetto, quando a dirigerlo avrebbe dovuto ancora essere Antoine Fuqua. Anche Bryan Singer è stato tra i registi papabili e sotto di lui avrebbero dovuto recitare Mark Wahlberg e Christian Bale nei ruoli principali, ma anche questo progetto è venuto meno. Dopo queste curiosità, i soliti consigli: se Prisoners vi è piaciuto procuratevi Il silenzio degli innocenti e il già citato Amabili resti. ENJOY!

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