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martedì 23 luglio 2019

Spider-Man: Far From Home (2019)

Ho lasciato passare un po' di tempo prima di andare al cinema a vedere Spider-Man: Far From Home, diretto dal regista Jon Watts, ma a prescindere dal tempo trascorso dall'uscita, cercherò di non fare spoiler, tranne quelli ovvi.


Trama: in gita con la classe in Europa, Peter Parker si ritrova coinvolto da Nick Fury nell'attacco degli elementali, esseri multidimensionali già combattuti da un nuovo supereroe, Mysterio...


Povero Spider-Man lontano da casa, in tutti i sensi. Lontano dal quartiere di cui è amichevole protettore, lontano dall'adorata zia May, dal mentore Tony Stark dolorosamente morto, dal resto degli Avengers finiti chissà dove (probabilmente al Comic Con dove sono stati annunciati un'infinità di film e serie TV a tema), gettato in un tour delle capitali europee tra primi amori e canzoni vetuste e tallonato dall'onnipresente Nick Fury che, al pari di altri, vuole imporgli l'eredità di nuovo Iron Man senza vedere il liceale desideroso solo di una vita normale, magari tra le braccia della bella MJ. Purtroppo i supereroi una vita normale non possono averla, soprattutto se le capitali europee di cui sopra vengono attaccate da esseri elementali ai quali pare poter tener testa solo un nuovo, potentissimo supereroe, l'extradimensionale Mysterio, ed ecco perché una gita europea a base di insegnanti scoppiati e compagni di scuola stronzetti si trasforma nell'ennesima sfida mortale condita da twist che tali non sono, ché vorrei vedere quale anche minimo conoscitore dei fumetti Marvel si sia bevuto l'ingannevole trailer che presentava Mysterio come buono. Quest'ultimo è un villain che all'avvoltoio di Keaton può giusto allacciare le scarpe, tuttavia, al pari del Mandarino in Iron Man 3, è stato sottoposto ad un'inedita rilettura da parte degli sceneggiatori, che ultimamente paiono farsi vanto di prendere nemesi storiche dei vari protagonisti e renderli non solo comuni uomini della strada ma anche cialtroni, cosa che, in questo caso, offre il fianco all'annoso, attualissimo e antipatico problema delle fake news e della spettacolarizzazione di qualsiasi evento, positivo o negativo che sia, perché laGGente, a prescindere, deve meravigliarsi o sconvolgersi, precipitare nei peggiori incubi o sognare, incapace ormai di provare empatia per emozioni meno che forti. Il tutto, ovviamente, senza dimenticare il percorso che dovrà prendere Spider-Man e catapultarlo nella fase 4 del MCU come erede tecnologico di Iron Man, citato fino alla nausea all'interno del film (tanto che la sua morte, passati i primi cinque minuti, perde drasticamente di pathos e non si risolleva nemmeno quando parte Back in Black degli AC/DC), al punto che quando a un certo punto Happy prende posizione sui difetti dell'ex boss definendo Peter "molto diverso" sembra quasi una presa in giro.


Ma non ci formalizziamo. Far From Home è l'ennesimo divertissement Marvel capace di intrattenere per tutto il tempo della sua durata, complice il fatto che Peter Parker e i suoi allegri compagni di classe infarciscono il film di quell'atmosfera tipica delle commedie adolescenziali USA, un po' tenere e un po' sciocchine, quasi più interessante della parte supereroistica della pellicola. Sono queste scaramucce divertenti a base di equivoci e primi amori gli aspetti migliori del film, assieme a quelle "docce di realtà" in cui Mysterio si rivela per quello che è davvero, trascinandoci per mano nella prima scena post-credit più interessante e sconvolgente del film al quale fa da coda (l'ultimissima potete anche saltarla ma la prima no, non vi venga in mente!!). A livello di realizzazione, invece, i momenti più esaltanti sono quelli in cui Mysterio dispiega per intero tutti i suoi poteri, costringendo Spider-Man a districarsi tra incubi ed illusioni capaci di disorientare sia lui che lo spettatore, davanti ai cui occhi si apre un caleidoscopio di ambienti, minacce ed elementi folli che si alternano senza soluzione di continuità. Non che le sequenze in cui gli elementali fanno scempio di monumenti europei o lo showdown a Londra non siano esaltanti ma diciamo che quelle sanno un po' di già visto mentre gli incubi di Mysterio sono una novità dal retrogusto horror che fa piacere vedere. Non piacevole, ovviamente, come il vero cuore dell'intero film, lo Spider-Man bimbominchia Tom Holland (al quale spesso ruba la scena una MJ adorabilmente imperfetta), dal faccino così carino e tenero che gli si perdona qualunque cosa, un po' come a quel gran figone di Jake Gyllenhaal, benché costretto in un ruolo perfettamente in bilico tra parodia e villain serio. E a proposito di parodia: Stella Stai di Tozzi, perdonate il verbo, ci sta ma Bongo Cha Cha Cha e Amore di tabacco? Davvero l'Italia, per quanto riguarda la musica, viene considerata perennemente ferma agli anni '60? Per carità, meglio che sentire roba tipo il trap, Achille Lauro o Il volo, però su...


Del regista Jon Watts ho già parlato QUI. Tom Holland (Peter Parker/Spider-Man), Samuel L. Jackson (Nick Fury), Jake Gyllenhaal (Quentin Back/Mysterio), Marisa Tomei (May Parker), Jon Favreau (Happy Hogan), Angourie Rice (Betty Brant), Cobie Smulders (Maria Hill), Martin Starr (Mr. Harrington), Ben Mendelsohn (Talos) e J.K.Simmons (J. Jonas Jameson) li trovate invece ai rispettivi link.


Mysterio avrebbe già dovuto comparire in Spider-Man 4 di Raimi, mai girato ovviamente, ed essere interpretato da Bruce Campbell. Ciò detto, se Spider-Man: Far From Home vi fosse piaciuto recuperate subito Spider-Man: Homecoming, aggiungete Iron ManIron Man 2 e Iron Man 3, continuate con The Avengers, Avengers: Age of UltronAvengers: Infinity War, Avengers: Endgame Captain Marvel, infine completate la vostra cultura sul MCU con Captain America: Il primo vendicatore, L'incredibile HulkThor , Thor: The Dark WorldCaptain America: The Winter SoldierGuardiani della GalassiaGuardiani della Galassia vol. 2, Ant - ManDoctor StrangeThor: Ragnarok, Black Panther e Ant-Man and the Wasp . ENJOY!


martedì 26 febbraio 2019

Velvet Buzzsaw (2019)

Me lo hanno consigliato un paio di amici, così ho deciso di guardare Velvet Buzzsaw, produzione originale Netflix diretta e sceneggiata dal regista Dan Gilroy.


Trama: l'assistente di una famosa gallerista scopre un gran numero di opere appartenenti a un artista defunto. Dopo la scoperta, chi ha a che fare col mondo dell'arte in generale e con quei quadri in particolare comincia a finire vittima di inspiegabili e mortali incidenti.



Madonna, la pesantezza. Dopo Roman J. Israel, Esq., avrei dovuto ricordare che avere Dan Gilroy alla sceneggiatura E alla regia sarebbe stato sinonimo di mattonata sicura, di tedium vitae prolungato e concluso con un meraviglioso "e quindi?". Dopo aver sfrangiato le scatole con le insicurezze di un avvocato Forrest Gump, Gilroy torna alla carica con un horror all'acqua di rose verbosissimo, ambientato nell'elegante mondo delle case d'arte e dei critici blasonati, dove chiunque si venderebbe persino la madre per un briciolo di potere e per far vedere che la sua parola, il suo occhio, contano più di quello degli altri. E così arriva il metaforone: chi di critica e brama di fama ferisce, di critica e brama di fama perisce, attraverso gli inquietanti quadri di un artista sconosciuto, scoperti in maniera casuale dopo la sua morte, vere e proprie entità sovrannaturali intrise di sangue maledetto che uccideranno chiunque avrà a che fare con loro. Ma, in soldoni, chi è, appunto, che si ritroverà per le mani questi quadri? Ovviamente, il vuoto cosmico del mondo dell'arte, gente che al confronto i protagonisti di American Psycho erano di una profondità sconfinata. Abbiamo il critico d'arte bisessuale e infido, la stronzetta arrivista, l'artista eclettica e matta come un cavallo, la mecenate fredda e spietata, l'artista sfigato che ti prego John Malkovich, che diamine, ti paga a cottimo Netflix per partecipare senza motivo a 'ste cretinate?, tutta gente che non muore nemmeno troppo male e di cui, onestamente, non frega nulla a nessuno. Ah, e poi c'è la ragazzetta di Stranger Things messa a mo' di comic relief, protagonista della gag più riuscita di un film che vuole essere horror, thriller, caustico, ironico, drammatico, sentimentale e non è, purtroppo per lui e per gli spettatori, nessuna di queste cose.


Di tutto sto cucuzzaro, salvo solamente la regia e le scenografie, oltre ad alcune soluzioni omicide niente male. Dan Gilroy cerca di infondere "arte" e particolarità anche nella scelta di alcune riprese e nella costruzione di un paio di sequenze, per il resto ho apprezzato la scelta di ambientare diversi omicidi all'interno di ambienti "falsi", che risultano tali all'occhio dello spettatore solo quando l'inquadratura si allarga mostrando allo spettatore la situazione nella sua interezza; Gilroy strizza l'occhio agli amanti dell'horror con un paio di topoi sempre terrificanti come le bambole e i burattini assassini (ecco, Hoboman è la cosa più geniale di tutto il film e mette davvero paura), e i quadri dell'artista maledetto sono genuinamente inquietanti, così come il repentino e mortale cambio di prospettiva che decreta la fine di una dei protagonisti, inghiottita letteralmente da un'opera d'arte. Se posso dire la mia e permettermi di criticare Gilroy, uno che ha scritto film come Lo sciacallo, le scelte sbagliate sono state fatte proprio in fase di sceneggiatura. Intanto, Velvet Buzzsaw è un titolo fuorviante che porta ad immaginare una qualche implicazione di Rhodora nella natura maledetta dei quadri, come si evince da almeno un dialogo, invece la cosa finisce lì e non ha sbocchi, tranne sul finale posticcio graziato solo dalla penultima, poetica inquadratura; secondo, vista l'ambientazione alla American Psycho, non avrebbe avuto più senso prendere il personaggio di Jake Gyllenhaal e renderlo talmente ossessionato da quei quadri da spingerlo ad uccidere in maniera pulpissima ed artistica quanta più gente possibile? Ma soprattutto, ribadisco: la funzione di John Malkovich, qual è? Quella di disegnare cerchietti sulla sabbia nei titoli di coda? Dan Gilroy, se vuoi fare dei film "strani" e infilarci in mezzo Malkovich, riguardati per l'appunto Essere John Malkovich, poi ne riparliamo. Mi spiace, ma per me è no.


Del regista Dan Gilroy ho già parlato QUI. Jake Gyllenhaal (Morf Vandewalt), Rene Russo (Rhodora Haze), Toni Collette (Gretchen), John Malkovich (Piers) e Billy Magnussen (Bryson) li trovate invece ai rispettivi link.


Natalia Dyer, che interpreta Coco, è la Nancy di Stranger Things. ENJOY!

mercoledì 5 luglio 2017

Okja (2017)

Spinta dalle recensioni positive (una, bellissima, è quella di Lucia) e dal fatto di avere finalmente Netflix, qualche giorno fa ho recuperato Okja, scritto e diretto dal regista Bong Joon-Ho.


Trama: una ragazzina coreana deve cercare di liberare il maiale gigante Okja dalle grinfie della multinazionale che ha creato lui e i suoi simili.


Dopo aver visto Okja mi vergogno quasi a dirlo ma io sono carnivora. Non onnivora, proprio carnivora. Dopo due settimane passate in Giappone praticamente senza mangiare nemmeno un pezzetto di ciccia che non fosse raro e triste pollo ho sbranato la casalinga fettina di vitello con gusto estremo. E mi sento molto merda a scrivere questa cosa, non tanto per i miei livelli di salute (per la cronaca, al momento sto benissimo, analisi a posto, grazie) ma proprio perché sono consapevole di ciò che è accaduto all'animaletto che sto ingerendo, non mi nascondo dietro il dito dell'ignoranza né dietro alla concezione SakiHiwatariana del "la mucca ti ringrazia perché non stai sprecando la sua vita e la trasformi in energia per le tue cellule", mi rendo conto da sola che se la mucca potesse parlare mi manderebbe a cagare assieme a tutto ciò che compone il mio organismo e non parliamo poi di quello che mi direbbe il maiale. Ecco, no, parliamo del maiale, anzi, del super-maiale. Okja. Il protagonista di questo film, creato "biologicamente" da una multinazionale per superare il problema della fame nel mondo. Prometto che non aprirò la parentesi del bio e di quello che le persone comprano spendendo una fraccata di soldi solo grazie a quest'etichetta, probabilmente mangerebbero anche mia nonna se le tagliassi delle fettine di chiappa e le mettessi sul mercato assicurandone la natura BIO. Orto bio. Comunque, tornando al film, la multinazionale Mirando Corporation ha scoperto questi maiali giganti assolutamente bio (sì, credici) e ha concesso a ventisei allevatori diversi di tirarne su altrettanti esemplari, così da poter decretare il miglior super-maiale nel giro di una decina d'anni e cominciare a venderli ai consumatori sbavanti. Uno di questi maiali, Okja, viene cresciuto in Corea da un vecchio allevatore che ha una nipotina, Mija, un'orfanella che giustamente riversa sulla creatura tutto l'affetto e l'innocenza di una bimba solitaria trasformandola in qualcosa di più di una maxisalsiccia destinata a finire sul mercato mondiale. Il problema è che Okja, dieci anni dopo, viene incoronata "miglior maiale" e viene portata via dalla sua casa, con conseguente sconforto della piccola Mija, la quale scopre che il nonno non ha mai neppure provato ad acquistare la creatura dalla Mirando Corporation, come invece aveva fatto credere alla bambina. Questi sono i presupposti di un'avventura che porta Mija a scappare di casa per inseguire Okja fino in America, il problema è che la pellicola di Joon-Ho Bong non è un'avventura allegra e spensierata, lo avrete già capito.


Sul suo cammino, Mija trova infatti i peggiori adulti possibili, a partire proprio dal nonno, ma non solo. Accanto ad esseri palesemente abietti come il veterinario televisivo Johnny Wilcox e le folli Lucy e Nancy Mirando, immediatamente inseribili nel novero dei "cattivi" tout court, ci sono anche gli animalisti che dovrebbero essere buoni ma fondamentalmente sfruttano la povera Mija per i loro fini, per quanto nobili; nel corso della pellicola, Mija viene sottovalutata e presa in giro da tutti in primis perché è piccola e "non capirebbe" ma il confronto con l'"altro" passa anche attraverso una barriera linguistica invalicabile, tutti "paletti" che trasformano l'impresa della bambina in un viaggio verso una terra ostile, incomprensibile e violenta, in aperto contrasto con una natura quasi incontaminata dove per parlare a chi è diverso basta il cuore. Per sopravvivere alla follia di una società moderna fatta di contraddizioni, sceneggiate costruite a tavolino per non turbare gli animi sensibili e gente che nasconde la testa sotto la sabbia come gli struzzi, persino Mija è costretta a scendere a compromessi e soprattutto a comprendere i meccanismi che governano la nostra società, così da riuscire a salvare perlomeno il suo piccolo mondo e la propria innocenza, ma il finale di Okja è uno dei più atroci e crudelmente realistici mai mostrati su schermo. Da spettatrice e da carnivora ipocrita ho fatto fatica a guardare tutto ciò che Joon-Ho Bong sceglie di mostrare agli spettatori e a Mija, tutte le brutture a cui viene sottoposta la povera Okja, quell'orrendo spettacolo capace di richiamare alla mente un olocausto umano e ben radicato nella nostra memoria storica, persino i lividi che rimedia la bambina ad ogni passo del suo faticoso percorso verso la libertà e la salvezza del suo amico animale.


Giustamente Joon-Ho Bong deve avere pensato che una simile violenza fosse necessaria per raggiungere le nostre coscienze addormentate ma la verità è che il regista coreano è soprattutto un fine poeta e un Autore con la A maiuscola, capace di portarci a provare per Okja lo stesso affetto che proveremmo verso una creatura reale. E Okja, di fatto, E' reale, un miracolo di computer graphic che non sembra posticcio neppure per un istante, talmente ben integrata con ciò che la circonda da rendere plausibile persino il dolce omaggio iniziale a Il mio vicino Totoro; Okja è vera, conseguentemente risultano veri anche i suoi tristi compagni di sventura, sottoposti a torture inenarrabili, e il nostro cuore arriva a piangere per ognuno di loro, anche se non hanno nome. E' un vero peccato che Okja sia un film disponibile solo su Netflix perché una distribuzione cinematografica renderebbe giustizia ad alcune delle scene d'azione più belle mai girate, una su tutte la concitatissima fuga al supermercato dove tutti i coinvolti, animale compreso, sembrano farsi incredibilmente male, oppure il terribile inseguimento dopo la parata, per arrivare al pluricitato e cupo finale, dove ogni dettaglio dovrebbe imprimersi a fuoco nella mente dello spettatore in saecula saeculorum. Come già avevo scritto nella recensione di Train to Busan, un film come Okja riesce a dare dei punti a qualsiasi blockbuster occidentale mescolando sapiente tecnica artistica al cuore pulsante di una sceneggiatura semplice ma profonda, che rielabora cliché universali in un modo tutto nuovo e parla al mondo intero non solo grazie all'ausilio di bravissimi attori occidentali ma anche e soprattutto grazie al musetto espressivo di una ragazzina bellissima e coraggiosa, con due occhioni addolorati che spezzerebbero il cuore a un sasso. Io mi fermo qui ma avrete capito che Okja è un film splendido che merita di essere visto da chiunque e lo consiglio spassionatamente, anche se rischia di farvi diventare vegani. Faccio solo un appunto agli adattatori italiani: ma perché mettere in bocca ai personaggi frasi come "Cerca di imparare l'italiano, ti sarà molto utile!" quando Mija va a New York? E andiamo, su...


Di Tilda Swinton (Lucy e Nancy Mirando), Giancarlo Esposito (Frank Dawson), Jake Gyllenhaal (Johnny Wilcox), Shirley Henderson (Jennifer), Paul Dano (Jay), Daniel Henshall (Blond) e Lily Collins (Red) ho già parlato ai rispettivi link.

Joon-Ho Bong è il regista e sceneggiatore della pellicola. Sud Coreano, ha diretto film come The Host e Snowpiercer. Anche attore e produttore, ha 48 anni e un film in uscita.


Nei panni di K avrete notato l'attore Steven Yeun, meglio noto come il Glenn di The Walking Dead. Se Okja vi foste piaciuto provate a recuperare E.T. - L'extraterrestre. ENJOY!


mercoledì 29 marzo 2017

Life - Non oltrepassare il limite (2017)

Inaspettatamente, sono riuscita a convincere il Bolluomo e domenica sono andata a vedere Life - Non oltrepassare il limite (Life), diretto nel 2017 dal regista Daniel Espinosa.


Trama: degli scienziati all'interno della Stazione Spaziale Internazionale recuperano dei campioni da Marte e scoprono che, all'interno di essi, c'è un organismo vivente. L'entusiasmo spinge loro e la gente sulla Terra a battezzare l'organismo Calvin ma presto la creatura tanto amata si rivela un essere pericolosissimo...



Credevo che un film come Life avrebbe terrorizzato il Bolluomo, invece quella che per buona parte della pellicola s'è coperta gli occhi sono stata io. Intendiamoci, Life non fa paura, non nel senso canonico di un horror, però se, come a me, l'idea di una navicella spaziale con tutti gli annessi e connessi ("nello spazio nessuno può sentirti urlare" ma non puoi nemmeno respirare, scappare, toglierti le tute, dare fuoco alla creatura, spararti un colpo in testa per fuggire alla camurrìa, ecc. ecc.) vi causa l'occlusione temporanea delle vie respiratorie, allora troverete pane per i vostri denti. Fermo restando, ovviamente, che alla fine del primo tempo mi sono girata verso Mirco e gli ho predetto per filo e per segno non solo lo sviluppo della trama ma anche il finale, con tanto di totogol azzeccato di chi sarebbe sopravvissuto o meno e persino dell'ordine in cui gli scienziati avrebbero incontrato il loro destino. Life, in soldoni, è un emulo di Alien che si porta dietro la solita morale affermata in calce dal titolo italiano, ovvero "la scienza è bella e buona quanto volete ma senza esagerare", nella fattispecie "se una cosa ti sembra morta non stare tanto lì a menartela e lasciala morta, ci sarà un motivo"; andando più in profondità, la pellicola cerca, a mio avviso senza successo, di offrire un punto di vista alternativo relativamente alla percezione del comportamento del parassita alieno, proponendolo non come malvagio ma semplicemente come intenzionato a sopravvivere ad ogni costo. Da qui la lotta tra scienziati e alieno, un reciproco "tentativo di sopravvivenza", con l'aggravante dell'impedire a tutti i costi che la vita, quella sulla Terra, venga messa in pericolo da un eventuale ingresso della creatura nell'atmosfera terrestre e quindi sul pianeta. A differenza di altri film, gli scienziati diventano quindi pedine sacrificabili per un bene maggiore, ché va bene festeggiare (con tanto di interviste ai bambini terrestri, che carini!) per l'arrivo di Calvin, alieno tenerino monocellulare, ma quando quest'ultimo diventa una sorta di bestiaccia tentacoluta i nostri eroi possono anche rimanersene lassù, grazie e arrivederci, per lo spazio profondo basta girare a destra.


Tornando un attimo più seri, il reale difetto di Life è che sembra girato e scritto da due team differenti, il che è strano perché effettivamente gli sceneggiatori sono due (gli stessi, peraltro, che hanno scritto Deadpool e Benvenuti a Zombieland, da loro mi sarei aspettata un po' più di umorismo e originalità) ma il regista è uno. L'inizio è davvero bellissimo, soprattutto perché Daniel Espinosa riesce a realizzare delle sequenze spaziali realmente mozzafiato, con panoramiche della Terra, corpi fluttuanti all'esterno, addirittura un'introduzione dove il cielo trapunto di stelle sembra in realtà un abisso nero brulicante di orridi insetti luminosi, o almeno questa è l'impressione che mi ha dato; arditi giri di macchina da presa danno allo spettatore l'idea di trovarsi all'interno della Stazione Spaziale, a gravitare senza peso assieme ai protagonisti, mentre le prime due morti sono un trionfo di sapiente regia, montaggio serrato e scrittura furba, con la tensione che si taglia letteralmente col coltello. Nella seconda parte del film pare invece che tutti abbiano messo il pilota automatico e si siano limitati ad omaggiare Alien nel modo più incolore possibile e, quel che è peggio, almeno una sequenza è stata scritta e realizzata in maniera talmente confusa che né io né Mirco siamo riusciti a capire cosa diamine stesse accadendo (SPOILER: nello specifico, quando arriva il modulo da Terra e il giapponese ci si infila sperando di trovare aiuto, solo per finire nelle grinfie del polpo Calvin. Tra le urla, il casino e la fotografia virata in rosso non ho mica capito se il polpo s'è mangiato l'equipaggio di terra, se l'equipaggio non è mai esistito e me lo sono immaginato io oppure se è successo tutt'altro. Mah.). Quando dico tutti, ovviamente, intendo anche gli attori, con Jake Gyllenhaal che normalmente adoro messo lì a fare bene non si sa cosa, se il dottore, il pilota o il misantropo, vittima di una fissità facciale che avrei attribuito giusto a Ryan Reynolds, non a lui. A momenti è più espressivo l'alieno Calvin, con la sua faccetta da cobra/polpo, il che è tutto dire. In sintesi, credo che Life sia un po' l'esempio di come si possano sprecare una storia, un regista e un cast con moltissimo potenziale e probabilmente è una pellicola che può piacere giusto ai neofiti o a chi cerca un "horror"/sci-fi blando, così da poter dormire serenamente la notte. Aspettando Alien Covenant può anche andar bene!


Di Hiroyuki Sanada (Sho Murakami), Ryan Reynolds (Rory Adams), Rebecca Ferguson (Miranda North) e Jake Gyllenhaal (David Jordan) ho parlato ai rispettivi link.

Daniel Espinosa è il regista della pellicola. Svedese, ha diretto film come Safe House - Nessuno è al sicuro e Child 44 - Il bambino n.44. Anche produttore e sceneggiatore, ha 40 anni e due film in uscita.


Ryan Reynolds avrebbe voluto interpretare David Jordan ma ha dovuto ripiegare su un ruolo di comprimario perché già impegnato nelle riprese di The Hitman's Bodyguard, film che dovrebbe uscire ad agosto negli States. Detto questo, se Life vi fosse piaciuto recuperate ovviamente Alien e aggiungete Leviathan. ENJOY!

domenica 20 novembre 2016

Animali notturni (2016)

Approfittando di un'"offerta che non potevo rifiutare", venerdì sono andata a vedere Animali notturni (Nocturnal Animals), diretto e co-sceneggiato dal regista Tom Ford a partire dal romanzo Tony & Susan di Austin Wright e vincitore del Leone d'argento all'ultima Mostra del cinema di Venezia.


Trama: la ricca gallerista Susan riceve dall'ex marito, dalla quale è divorziata da diciannove anni, il manoscritto del romanzo Animali Notturni, a lei dedicato. Immersa nella lettura del manoscritto, Susan sarà costretta a ripensare agli errori del passato...


Un vecchio adagio recita "Ne uccide più la penna che la spada". Il secondo film di Tom Ford (e mi si perdoni l'ignoranza ma non ho mai guardato A Single Man) è la perfetta rappresentazione per immagini di questa antica massima e di una tristissima crisi di mezza età. Susan è una donna ricchissima, sposata con un marito bello ma inespressivo che la tradisce con una donna ben più giovane, ed è giunta ad un punto della sua esistenza in cui l'importantissimo lavoro di gallerista non la soddisfa né la entusiasma più, al punto che l'insofferenza per tutto ciò che la circonda non la fa dormire la notte. Inaspettatamente, dopo diciannove anni di silenzio, Susan riceve il manoscritto del primo romanzo del suo ex marito, Edward. Non sappiamo perché i due hanno divorziato né perché non si parlano più dopo tutti questi anni ma sta di fatto che il primo romanzo completato dallo scrittore è interamente dedicato a Susan e lei, approfittando dell'ennesima assenza del marito, comincia a leggerlo. Animali Notturni (identico al soprannnome dato da Edward a Susan) è l'agghiacciante storia di una famiglia che, in viaggio per le strade desolate del Texas, viene attaccata da un quartetto di balordi e costretta a vivere un'esperienza terribile che poco ha da invidiare ad un horror e Susan, come vediamo, ne è profondamente colpita, al punto da arrivare a vivere sulla propria pelle le sensazioni dei protagonisti. Immergersi in questi due livelli narrativi paralleli e capire cosa abbiano a che fare l'uno con l'altro è l'aspetto più bello di Animali Notturni e rovinarsi il gusto dell'esperienza con degli spoiler sarebbe nocivo; aggiungo solo che il film di Tom Ford è la storia crudele di una vendetta sottile, l'urlo disperato di chi si è visto strappare dalle mani ogni cosa buona e la triste sconfitta di chi non ha mai neppure provato ad affrontare la vita con coraggio, fuggendo per cordardia da un'esistenza magari priva di agi ma quasi sicuramente ricca di "sentimento", di emozioni capaci di travalicare una vuota apparenza.


E l'apparenza è ciò che colpisce maggiormente guardando Animali notturni, a partire dal sublime trash della sequenza iniziale, a base di ciccione twerkanti e lustrini, per arrivare allo skyline di una New York patinatissima e al trucco pesante di una Amy Adams splendida. L'estetica vuota del mondo reale (o meglio, del mondo di Susan), fatto di arte moderna, superfici riflettenti, accecanti luci al neon, candele soffuse e look curatissimi, fa a pugni con i flashback di una vita semplice e priva di orpelli e, soprattutto, con i colori saturi di un Texas da incubo, caratterizzato da tramonti infuocati, impietose distese desertiche e un'umanità che raschia il fondo della depravazione. Amy Adams sfoglia le pagine del manoscritto mentre la macchina da presa di Ford ne coglie ogni espressione, ogni moto di dolore, paura e stupore, affiancandole grazie ad un montaggio superbo alle emozioni di chi, all'interno del romanzo, soffre e muore in un'incontrollabile spirale di violenza. Al vuoto di una vita "reale" ma malvissuta (Susan chiede alla giovane assistente "Pensi mai che alla fine la tua vita non si sia rivelata come volevi che fosse?"), all'interno della quale persino i quadri diventano meri oggetti di arredamento invece che espressioni della personalità dell'artista e dove la quotidianità coi figli viene affidata alle app degli onnipresenti smartphone, si contrappongono dunque le potenti emozioni di un'opera di finzione che, di fatto, risulta molto più "vera" del mondo surreale abitato da Susan e compagnia; l'animo dell'artista, vomitato su carta e concretizzatosi in fiumi d'inchiostro, si rivela così un'arma potentissima capace di scuotere le coscienze "ciniche" e mandare in frantumi un'esistenza dalla quale è stato brutalmente buttato fuori. Alla fine della fiera, Animali notturni lascia un pesante senso di sconfitta che si estende a tutti i protagonisti, "reali" o di finzione che siano, a prescindere che si tratti di persone colpevoli di qualunque peccato si possa loro imputare o innocenti, e l'unico ad uscirne vincitore è lo spettatore che si è goduto quasi due ore di ottimo Cinema (dove, per una volta, la bellezza formale è assolutamente indispensabile e funzionale alla trama) e una di quelle rare opere capaci di far riflettere e discutere.


Di Amy Adams (Susan Morrow), Jake Gyllenhaal (Tony Hastings/Edward Sheffield), Michael Shannon (Bobby Andes), Aaron Taylor-Johnson (Ray Marcus), Isla Fisher (Laura Hastings), Armie Hammer (Hutton Morrow), Laura Linney (Anne Sutton), Andrea Riseborough (Alessia), Michael Sheen (Carlos) e Jena Malone (Sage Ross) ho già parlato ai rispettivi link.

Tom Ford è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto film come A Single Man. Anche attore, produttore e stilista, ha 55 anni.


Karl Glusman interpreta Lou. Americano, ha partecipato a film come e serie come Ratter: Ossessione in rete e The Neon Demon. Ha 28 anni e un film in uscita.


Ellie Bamber, che interpreta India Hastings, ha partecipato ad PPZ: Pride and Prejudice and Zombies nei panni di Lydia Bennet. Sinceramente, se Animali notturni vi fosse piaciuto non saprei quale altro film consigliarvi di vedere... probabilmente, io recupererò A Single Man! ENJOY!

venerdì 15 novembre 2013

Prisoners (2013)

Dopo qualche settimana di assenza dalle sale è giunto il momento di fare doppietta. Nel weekend spero di riuscire a parlare di Machete Kills mentre oggi vi beccate qualche pensiero sparso su Prisoners, diretto dal regista Denis Villeneuve.


Trama: il giorno del ringraziamento Anna ed Eliza, due bimbette di sei e sette anni, scompaiono, presumibilmente rapite. Il primo ed unico indiziato è Alex, un ragazzo con palesi problemi psichici. Incapace di rispondere alle domande della polizia il ragazzo viene rilasciato per mancanza di prove ma Keller, padre di Anna, non crede alla sua innocenza e lo rinchiude in un edificio abbandonato per estorcergli una confessione..


Questo 2013 cinematografico sta regalando un sacco di sorprese positive. Nonostante fosse privo di un battage pubblicitario che, molto probabilmente, avrebbe accompagnato l'opera di qualsiasi altro regista di "genere" ben più famoso, Prisoners rischia infatti di vincere il primo premio come miglior thriller dell'anno, forse perché la pellicola di Denis Villeneuve, ironicamente, non può venire "imprigionata" in una semplice definizione. Sotto la superficie dell'angosciante, spesso frustrante ricerca del rapitore di due bambine, delle indagini del detective Loki, della violenza di un padre disperato ai danni di un presunto colpevole c'è un'umanità tristissima e fatta di Prigionieri non solo fisici, sbatacchiati qua e là da una realtà orribile e, purtroppo, mai chiaramente definibile né facile da comprendere. Keller, padre disperato, è prigioniero delle proprie cieche convinzioni e delle aspettative della moglie, di un passato di alcoolista e di un'infanzia orribile; il detective Loki è prigioniero del suo terrore di fallire e causare conseguentemente dolore alle famiglie delle vittime, cosa che lo costringe ad innalzare un muro tra lui e loro; tutti gli altri personaggi sono prigionieri del dolore, della pazzia, di ferite talmente profonde da condizionare la loro esistenza e alimentare un circolo vizioso potenzialmente infinito dal quale nessuno potrà uscire vincitore e dove il confine tra bene e male cessa di esistere.


Prisoners è un film angosciante che supera nettamente molti altri thriller anche e soprattutto per la mancanza di quella fede salda ed incrollabile, tipicamente americana, verso la mentalità da vigilantes o di un'apologia del padre di famiglia che, attraverso il dolore, diventa eroe. Qui non esiste redenzione, non esiste catarsi, non esiste neppure un personaggio dotato di qualità fuori dal comune perché all'inizio, vedendo il modo in cui un Hugh Jackman fuori di sé si approccia al detective Jake Gyllenhaal, mi è venuto da pensare che mio padre reagirebbe allo stesso modo: sopraffatto dal dolore, incapace di ragionare o di capire la mentalità poliziesca continuerebbe comunque a dire "mia figlia è stata rapita, è stato lui, lo so che è stato lui e quindi perché lo avete rilasciato? No, non ci siamo capiti, non me ne frega niente se non ha parlato. Le ho detto che è stato lui quindi è così e basta." Allo stesso modo, il detective è un'altra figura assolutamente realistica perché, se ci fate caso, dalla sua ha sì una testardaggine incredibile, ma è indisciplinato, bizzoso e violento e tutto quello che scopre, alla fin fine, lo scopre più per fortuna che per abilità. Il che è un po' paradossale perché, nonostante vari twist della trama, gli indizi ci sono e non sono difficili da seguire o da comprendere per lo spettatore comodamente seduto in poltrona. Ma, come ho detto, l'elemento thriller è solo una scusante per indagare l'animo umano e, in questo, Prisoners da veramente il meglio.


Merito, ovviamente, di un gruppetto di attori fantastici, sui quali spiccano Hugh Jackman e Jake Gyllenhaal, due grandissimi professionisti che si palleggiano il premio per la migliore interpretazione nel corso dell'intera durata del film ma ci sono anche le prove misurate ed efficaci di Viola Davis e Terrence Howard, quella convincentissima di Melissa Leo e la rivelazione dell'inquietantissimo, pietoso Paul Dano, in grado di provocare nello spettatore una miriade di sensazioni contrastanti. Per quanto riguarda la regia, Villeneuve utilizza un punto di vista distaccato ma limitato, nel senso che lo spettatore non viene portato a conoscenza di nessun dettaglio in più rispetto ai protagonisti, i quali spesso vengono ripresi dall'interno di un auto come se il regista volesse mostrarceli senza venire coinvolto nella vicenda, offrendoci così la possibilità di osservare con occhio imparziale e oggettivo. A dire il vero, per impostazione tecnica Prisoners mi ha ricordato tantissimo Mystic River, che viene spesso richiamato anche per quanto riguarda i temi trattati; siccome adoro quel particolare film di Clint Eastwood, non posso fare altro quindi che consigliare la pellicola di Villeneuve a tutti gli amanti del buon cinema. Astenersi genitori ansiosi, ovviamente.


Di Hugh Jackman (Keller Dover), Jake Gyllenhaal (Detective Loki), Viola Davis (Nancy Birch), Maria Bello (Grace Dover), Terrence Howard (Franklin Birch), Melissa Leo (Holly Jones) e Len Cariou (Padre Patrick Dunn) ho già parlato ai rispettivi link.

Denis Villeneuve è il regista della pellicola. Canadese, ha diretto film come Polytechnique e La donna che canta. Anche sceneggiatore e attore, ha 46 anni.


Paul Dano interpreta Alex Jones. Americano, ha partecipato a film come Identità violate, Little Miss Sunshine, Cowboys & Aliens, Ruby Sparks, Looper – In fuga dal passato e alla serie I Soprano. Anche produttore, ha 29 anni e due film in uscita.


Hugh Jackman (che, ironia della sorte, era stato chiamato ad interpretare il ruolo di padre disperato anche per Amabili resti) è tornato all’ovile dopo aver abbandonato il progetto, quando a dirigerlo avrebbe dovuto ancora essere Antoine Fuqua. Anche Bryan Singer è stato tra i registi papabili e sotto di lui avrebbero dovuto recitare Mark Wahlberg e Christian Bale nei ruoli principali, ma anche questo progetto è venuto meno. Dopo queste curiosità, i soliti consigli: se Prisoners vi è piaciuto procuratevi Il silenzio degli innocenti e il già citato Amabili resti. ENJOY!

lunedì 16 maggio 2011

Source Code (2011)

Ultimamente mi sembra vadano molto di moda i thriller tecnologici e cervellotici. Dopo il bellissimo (e complicatissimo) Inception di Christopher Nolan ecco uscire nelle sale italiane l’altrettanto complicato e bello Source Code del regista Duncan Jones.

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Trama: un soldato si sveglia all’interno di un treno, la sua coscienza riversata nel corpo di un uomo che non conosce. Scoprirà presto che la sua missione è quella di capire l’identità dell’attentatore che ha messo una bomba proprio su quel treno… e che ogni volta avrà solo otto minuti per farlo, prima di ricominciare da capo.

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Quando Ricomincio da capo incontra la fantascienza e il thriller. Immaginate infatti di dovere vivere di continuo, in loop, otto minuti della vita di un'altra persona. Sempre gli stessi otto minuti. E che ogni volta, alla fine di questi otto minuti, dobbiate morire solo per poi ricominciare da capo con l’ansia causata dal sapere l’inevitabile fine che farete. Un incubo. Questo è quello che succede al protagonista di Source Code, un film tra i più inquietanti che abbia mai visto negli ultimi anni. E anche uno dei più ben fatti. Tralasciando infatti gli sviluppi della trama di cui non parlerò per non rovinare la visione a chi non ha ancora avuto il piacere di andare al cinema e gustarsi la pellicola, tralasciando la perplessità e le obiezioni che di tanto in tanto il mio cervello sollevava davanti ad alcune spiegazioni un po’ troppo campate in aria almeno per me, Source Code ha poco da invidiare al già citato e pubblicizzatissimo Inception, ed è un peccato che ne abbiano parlato così poco.

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Jake Gyllenhaal nei panni del protagonista è bravissimo, innanzitutto. Considerando che il film si concentra soprattutto sul suo personaggio e che tutta la trama ruota attorno a quello che lui farà, non farà o penserà, l’attore offre una prova di bravura mica da ridere, anche perché si trova a dovere interpretare una persona immersa in una situazione assurda e a doverla renderla credibile. Ma il punto di forza di Source Code secondo me sta nel modo in cui vengono mostrati questi otto minuti ripetuti mano a mano che prosegue il film: le prime volte ci vengono riproposte, intelligentemente, le stesse identiche inquadrature, gli stessi dialoghi, gli stessi movimenti (e che inquietudine, che ansia quando arriva l'ineluttabile esplosione...) almeno finché non interviene quella minima influenza del protagonista a cambiare il corso degli eventi, influenza che si fa sempre più invasiva man mano che aumenta la sua consapevolezza del suo ruolo nella vicenda. Bellissimo anche il confuso caleidoscopio di immagini che accompagna Colter ad ogni “ritorno alla realtà” e il modo in cui viene rivelato allo spettatore ciò che sta dietro a tutta l’operazione Source Code nonché il modo in cui il protagonista è entrato a farne parte. Se devo trovare un difetto, direi che il finale in qualche modo è un po’ tirato per i capelli, ma ciò non toglie che il film sia molto bello e godibilissimo.

Duncan Jones (vero nome Duncan Zowie Hayward Jones) è il regista della pellicola. Figlio di David Bowie, è al suo terzo film come regista. Inglese, anche sceneggiatore, ha 40 anni.

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Jake Gyllenhaal (vero nome Jacob Benjamin Gyllenhaal) interpreta Colter Stevens. Americano, ha raggiunto la notorietà con il particolarissimo Donnie Dark, ma lo ricordo anche per film come Scappo dalla città – La vita, l’amore e le vacche, I segreti di Brokeback Mountain (che gli ha regalato una nomination come miglior attore non protagonista) e Zodiac. Ha 31 anni e due film in uscita.

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Michelle Monaghan interpreta Christina. Americana, la ricordo per film come Constantine, North Country e Mission: Impossible 3. Ha 35 anni e 2 film in uscita.

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Vera Farmiga interpreta Colleen Goodwin. Americana, ha partecipato a film come 15 minuti - follia omicida a New York, The Departed, Orphan e a un episodio di Law & Order. L’anno scorso è stata nominata all’Oscar come miglior attrice non protagonista per il film Tra le nuvole. Anche regista, ha 38 anni e tre film in uscita.

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Jeffrey Wright intrepreta il Dottor Rutledge. Americano, ha partecipato a film come Presunto innocente, Syriana e l’orrendo Lady in the Water, oltre alla splendida miniserie Angels in America e al telefilm Le avventure del giovane Indiana Jones. Anche produttore, ha 46 anni e due film in uscita.   

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Se Source Code vi è piaciuto consiglio di vedere il già nominato Inception oppure Dejà Vu – Corsa contro il tempo, che non ho mai visto ma che la mia amica al cinema ha citato come molto simile. E ora vi lascio con il trailer originale del film... ENJOY!!

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