mercoledì 17 settembre 2025

The Surrender (2025)

Di ritorno dalle ferie, uno dei film che mi premeva recuperare era The Surrender, scritto e diretto dalla regista Julia Max e distribuito da Shudder.


Trama: Alla morte del padre, Megan è costretta ad aiutare la madre con un pericoloso rituale atto a riportarlo in vita...


Ho messo The Surrender nella lista delle priorità perché, guardando la serie The Boys, mi sono innamorata di Colby Minifie, attrice dotata di una bellezza decisamente non canonica e capace di abbracciare diversi registri che spaziano dal comico, al grottesco, al drammatico. In particolare, ero curiosa di capire come se la sarebbe cavata con un horror serio e la risposta è stata "benissimo", soprattutto perché la prima parre di The Surrender è un dramma da camera molto umano e triste. Colby Minifie interpreta Megan, thirtysomething che da tempo ha abbandonato la famiglia, in primis per stare lontana dalla madre, con la quale non ha mai avuto un gran rapporto. Megan torna a casa a causa della malattia del padre, afflitto da un tumore in stadio avanzato; poco dopo il suo ritorno, a causa di un momento di disattenzione, l'uomo muore e la madre di Megan le rivela di avere avviato tutte le pratiche necessarie per compiere un rito che lo riporterà in vita. Il titolo inglese del film, The Surrender, ha un significato fisico, importantissimo per la riuscita del rito (ovvero la "rinuncia" a tutto ciò che è materiale e, nello specifico, a un paio di appendici), ma anche un significato più metaforico, di "resa" di fronte a tutto ciò contro cui la protagonista ha lottato per buona parte della vita. Nello specifico, Megan ha lottato contro la madre, rea di essere dura, testarda, prevaricatrice, mentre il padre era un alleato e un compagno di giochi, sempre pronto a offrirle un consiglio amico o a tenderle una mano. Con la morte del padre, gli equilibri tra Megan e la madre si spezzano, e la protagonista è costretta non solo ad assecondare e tutelare una donna anziana apparentemente impazzita, ma anche a guardare dentro di sé e nelle pieghe di una famiglia che credeva di conoscere, scoprendo molte verità celate o, forse, volutamente dimenticate. Il film racconta quindi, in primis, l'elaborazione del lutto attraverso il confronto tra due donne che covano un risentimento reciproco abbastanza importante, benché nascosto per amor del padre, ed è molto interessante in questo aspetto, meno in quello horror.


Non è che la parte horror, quella legata al rito e a tutto quello che accade dopo, non sia efficace, ma percorre sentieri già battuti in film più originali, come per esempio A Dark Song (con il quale ha in comune l'attenzione a riti esoterici molto verosimili, oltre che umilianti e pericolosi), ed offre una visione dell'aldilà simile a quella di tante altre pellicole. C'è di buono che il focus, anche quando il film vira nell'horror, è sempre il legame tra Megan e la madre, e un altro aspetto positivo è che Julia Max riesce agevolmente ad aggirare i limiti di budget senza mai mostrare il fianco alla sciatteria di eventuali effetti speciali da cartoleria o CGI farlocca. La regista, infatti, cerca per quanto possibile di limitare i dettagli degli ambienti in cui i personaggi interagiscono tra loro, arrivando a un minimalismo totale nell'ultima parte del film, ed offre scorci di un orrore che veste, letteralmente, la pelle delle persone più care per ingannare chi è vinto da un dolore vivo e recente. La cosa che più ho apprezzato del film, però, oltre all'ottimo setting e a un utilizzo coinvolgente della fotografia, è proprio l'alchimia che si viene a creare tra Colby Minifie e Kate Burton, le quali danno vita a scambi vivaci e plausibili, arricchendo una sceneggiatura fatta di dialoghi intensi e solenni, ma anche triviali, divertenti, talvolta ridicoli, tipici degli attimi che precedono e seguono un evento traumatico come la morte di una persona amata. Personalmente, mi sono commossa più di una volta guardando The Surrender, e ho provato simpatia (ma anche un inevitabile, temporaneo fastidio) per entrambe le umanissime donne protagoniste. Shudder ha dunque aggiunto l'ennesima uscita interessante al suo già vasto catalogo; augurandomi che, prima o poi, qualcuno faccia arrivare il film anche in Italia, vi consiglio la visione di The Surrender, magari non se siete reduci dalla morte di qualcuno a cui volevate bene o, anche se è passato del tempo, state ancora soffrendo molto. 

Julia Max è la regista e sceneggiatrice del film, al suo primo lungometraggio. E' anche produttrice e attrice. 


Colby Minifie
interpreta Megan. Americana, ha partecipato a serie quali Jessica Jones, Fear the Walking Dead, The Boys e Gen V. Ha 33 anni.



martedì 16 settembre 2025

La guerra dei Roses (1989)

Ho lasciato passare qualche giorno causa The Conjuring e challenge horror, ma dopo il remake tocca all'originale! Oggi parliamo infatti di La guerra dei Roses (The War of the roses), diretto nel 1989 da Danny DeVito e tratto dal romanzo omonimo di Warren Adler.


Trama: dopo aver messo su famiglia e una casa principesca, Oliver e Barbara Rose scoprono di non amarsi più. Comincia così una lotta senza esclusione di colpi per ottenere la casa voluta da entrambi...


La guerra dei Roses
è sempre stato uno dei miei film preferiti, fin da quando lo vidi per la prima volta in TV. Non poteva essere altrimenti, visto l'amore smisurato che provavo, all'epoca, per il trio Douglas/Turner/DeVito, protagonisti di due film che adoravo, All'inseguimento della pietra verde e Il gioiello del Nilo. Facendo due conti, avrò avuto 10 o 11 anni, e sicuramente non avrò capito tutto ciò che è passato sullo schermo, però La guerra dei Roses era un'opera che mi faceva lo stesso effetto di Fantozzi; mi divertiva molto, ma mi metteva anche tristezza, non solo per il finale scioccante che, lì per lì, non avevo creduto nemmeno essere così definitivo, alla prima visione. Non riguardavo La guerra dei Roses da almeno vent'anni e quando il film è cominciato è stato come rivedere un vecchio, amatissimo amico, con il quale è scattata una sintonia subitanea che, probabilmente, ha inficiato la visione del remake I Roses. A differenza del logorroico film di Jay Roach, l'adattamento di DeVito è molto semplice nella struttura e nei dialoghi, e la "ciccia" sta tutta negli atteggiamenti dei due protagonisti, che intessono la naturale morte di un amore, all'interno della cornice di un cautionary tale raccontato dall'avvocato Gavin al suo ultimo cliente, pronto a divorziare dalla moglie. E' una morte naturale, inevitabile e grottesca, che si innesca a causa della cultura yuppie anni '80 e di quell'atteggiamento retrogrado tipico di una società profondamente patriarcale. Oliver e Barbara "si scontrano e si incontrano", in un giorno di pioggia come Mirco e Licia, grazie a un'asta dove lei "ruba" a lui una preziosa statuetta orientale; si piacciono, fanno l'amore (lei si scopre multiorgasmica, con sommo orgoglio di lui) e da lì mettono su famiglia. L'idillio dei Roses viene eroso nel corso del tempo, in modo molto verosimile, dalle tante piccole disattenzioni di un uomo che valorizza la famiglia in base al proprio potere di acquisto e al prestigio lavorativo, e che si sente sempre su un gradino più alto rispetto alla moglie, valutata come un trofeo, o come una creatura scioccherella, bisognosa di una guida costante. Il menefreghismo di Oliver, per il quale l'amore è un diritto scontato che va vissuto in maniera melodrammatica, come nei film, apre progressivamente gli occhi a Barbara, la quale si accorge di aver sposato un uomo bravissimo nel suo lavoro, ma mediocre in tutto il resto, un peso morto di cui non ha bisogno per realizzarsi come donna indipendente. 


La voce narrante di Gavin, avvocato e migliore amico di Oliver, potrebbe trarre in inganno ed incasellare il film come misogino. Spesso il cliente muto di Gavin viene ammonito a prestare attenzione alle sue azioni nel corso di un eventuale divorzio, perché le donne sono terribili, vendicative e malvagie, degli idoli da placare con offerte in denaro e remissione. In realtà, il film contraddice le parole di Gavin; Barbara non è mai connotata come una gold digger, e il suo attaccamento alla casa deriva dal fatto di aver instaurato un legame quasi simbiotico con l'edificio, che per molti anni è stato la sua sola occupazione e la realizzazione faticosa di un'idea (maschile) di perfezione casalinga. Sono la testardaggine di Oliver e il suo orgoglio di maschio ferito a rendere "cattiva" Barbara, la quale viene portata dall'atteggiamento del marito a dibattersi e graffiare come un animale costretto in gabbia. Le ripicche progressivamente sempre più gravi tra moglie e marito vanno a toccare oggetti materiali e lavoro, perché sono le uniche due cose che Oliver riconosce come valori fondamentali; è Barbara, per prima, che pensa all'omicidio, messa talmente alle strette che la morte diventa l'unica via di fuga possibile da un marito convinto di rappresentare l'intero universo (economico, affettivo e sessuale) di una donna, a parer suo, semplicemente un po' stressata. La tristezza che percepivo da bambina, nascosta da abbondanti pennellate di humor nero e situazioni grottesche, esilaranti, è interamente di Barbara, soffocata e sminuita a partire dall'imbarazzante vigilia di Natale in cui le viene contestata persino una semplice stella da appendere all'albero, in quanto "dozzinale".


La regia di DeVito, che si ritaglia il ruolo di narratore, richiama i toni di una favola nera, con inquadrature sghembe ed insistenti primi piani degli oggetti materiali, e ha un gusto elegantissimo per la messa in scena e le geometrie, senza renderle preponderanti o invadenti; l'illusione è quella di avere di fronte una commedia americana tipica del periodo, ma sono questi dettagli e la colonna sonora di David Newman a dare a La guerra dei Roses la sua personalità spiccata e originale. E poi, ci sono gli attori. Ancora oggi è dura vedere il fascinoso Michael Douglas (all'epoca, poi, ero abituata a considerarlo alla stregua di Indiana Jones!) ridotto nei panni di una persona umanamente mediocre, ma l'attore è molto abile a non caricare eccessivamente la vena grottesca di Oliver, facendo del personaggio una figura a tutto tondo e tristemente realistica. Poiché la regia riprende spesso il punto di vista di Barbara, Oliver risulta disgustoso anche in circostanze normali, ancor più a causa del continuo professare comunque amore per la moglie perduta. Kathleen Turner, dal canto suo, è semplicemente meravigliosa. Il brillio di sfida che si legge nel suo sguardo fin dalle prime immagini diventa, nel corso del film, la fredda scintilla di chi ormai dentro di sé ha solo duro ghiaccio, e il disprezzo, la disillusione, l'odio che le si leggono in volto ogni volta che Oliver apre bocca farebbe scappare terrorizzato chiunque. Inutile dire che, anche nell'odio, l'alchimia tra i due attori è favolosa, ed entrambi eclissano il resto del pur valido cast, tranne per il solito Danny DeVito, in splendida forma. Se non avete mai visto La guerra dei Roses, o non lo ricordate, l'uscita de I Roses potrebbe essere un'ottima occasione di rinverdire un classico che rischia di venire dimenticato e che è attuale oggi come nel 1989.


Del regista Danny DeVito, che interpreta anche Gavin D'Amato, ho già parlato QUI. Michael Douglas
(Oliver Rose), Kathleen Turner (Barbara Rose) e Sean Astin (Josh a 17 anni) li trovate invece ai rispettivi link.


Dan Castellaneta
, voce storica di Homer Simpson, è l'uomo a cui Gavin racconta la storia dei Roses. Se La guerra dei Roses vi fosse piaciuto, oltre ad andare a vedere il remake I Roses, aggiungete Chi ha paura di Virginia Woolf? ENJOY!

venerdì 12 settembre 2025

2025 Horror Challenge: Humanoids from the Deep (1980)

Questa settimana la challenge horror prevedeva la visione di "un emulo di Alien". Nell'elenco c'era anche Humanoids from the Deep, diretto nel 1980 dalla regista Barbara Peeters.


Trama: in un villaggio di pescatori, le persone cominciano a morire per mano di anfibi mutanti dagli istinti pericolosi...


Cominciamo il post dicendo che, stavolta, l'elenco tra cui scegliere i film era un po' ingannevole in quanto, salvo per il finale che non spoilero, è ben difficile pensare ad Alien guardando Humanoids from the Deep. Al limite, ciò che mi è venuto in mente è una versione becera, pornografica e più gore de Il mostro della laguna nera, ma anche questa è una definizione sbagliata, in quanto viziata da un preconcetto che, ancora oggi, sicuramente fa male alla povera Barbara Peeters, regista del film. L'autrice, infatti, aveva in animo di girare (e ha, sicuramente, girato, almeno finché non è arrivato il produttore Roger Corman a metterci mano) un horror un po' più autoriale, privo di inutili inserti soft core, più concentrato sui personaggi e sulla vicenda ecologico-sociale che si intuisce guardando Humanoids from the Deep. Il problema, ovviamente, è che, davanti al film finito, Corman ha deciso che un'opera simile non sarebbe mai stata commercialmente appetibile per il pubblico che aveva in mente, quindi ha fatto girare ex novo scene di nudo, compresi alcuni stupri neppure tanto sottili, e li ha inseriti eliminando altre sequenze a suo parere inutili, senza dire nulla alla Peeters. La regista si è trovata davanti al fattaccio compiuto solo all'anteprima del film, ha chiesto che il suo nome venisse tolto dai credits, e Corman ha accettato a patto che fosse lei a coprire le spese della modifica dei suddetti, cosa che la Peeters ha rifiutato di fare. Quindi, ad oggi Humanoids from the Deep risulta, almeno nominalmente, l'ultimo film di una regista che è poi scomparsa nel limbo di oscure produzioni televisive, e, a fronte di un simile retroscena, è giusto giudicare la qualità del prodotto ignorando le starlette urlanti che sbattono le sise in faccia allo spettatore. E la qualità di Humanoids from the Deep, per quanto mi riguarda e per quanta poca esperienza possa avere relativamente all'exploitation dell'epoca, è superiore ad altri filmacci del genere. La regista cerca di costruire un racconto per immagini, in un efficace crescendo di tensione che parte da un esplosivo incidente in barca, passa per tremende (e tristissime) inquadrature di cani sventrati e, quando entra nel vivo, scatena artigli affilati di mostri orripilanti, che aprono i corpi come fossero di burro.


Sono notevoli non solo le sequenze buie, al crepuscolo oppure acquatiche, che sono tantissime e notoriamente difficili da realizzare, ma anche quelle in cui i mostri coinvolgono i personaggi in terribili corpo a corpo ravvicinati e, soprattutto, il massacro finale al festival del salmone. Quella sequenza in particolare ha dell'incredibile e rivela l'inventiva e l'abilità di Barbara Peeters. I mostri a disposizione della troupe, infatti, erano tre, e solo uno aveva tutte le carte in regola per venire ripreso da ogni angolazione; sfruttando inquadrature e montaggio, senza ricorrere a trucchetti cheap come sequenze ripetute o riciclate, la Peeters è riuscita a realizzare un'invasione cittadina in cui i mostri sembrano la metà di mille e dove la gente muore malissimo, trovando anche il tempo di alternare l'orrore "pubblico" a momenti ancora più ansiogeni ambientati in una claustrofobica casa isolata nel bosco. Indubbiamente, non c'era bisogno delle aggiunte di Corman (tra l'altro, in parte rimosse, perché persino il produttore ha capito che molte sembravano appiccicate con lo sputo, oltre al danno la beffa, povera Barbara!) per creare una profonda sensazione di disagio, in quanto la trama, tra mutazioni genetiche, razzismo, violenza e mostri che aggrediscono fanciulle con scopi palesemente riproduttivi, per di più con quel finale splatterosissimo, metteva già molta carne al fuoco. Per questo, le nudità gratuite di cui è infarcito Humanoids from the Deep danno ancora più fastidio, non tanto quelle in qualche modo direttamente collegate alla vicenda, quanto un paio di inserti aventi per protagonisti personaggi mai visti né nominati prima che mostrano tutte le loro grazie, o l'inevitabile "momento doccia" che fa molto film con Lino Banfi. Comunque, se queste aggiunte da vecchi rattusi non vi turbano (o magari vi interessano pure!) o non vi si rivolta lo stomaco all'idea di "umanoidi dal profondo" col pallino dell'accoppiamento e cercate un bell'horroraccio splatter,  Humanoids from the Deep è un film che vi consiglio. Lo trovate gratis su Tubi, se avete una VPN. 

Barbara Peeters è la regista del film. Americana, ha diretto film come The Dark Side of Tomorrow, Bury me an Angel e Le ragazze pon pon si scatenano. E' anche sceneggiatrice. 


Joe Dante
, da poco reduce dal successo di Piranha, ha declinato l'offerta di dirigere il film. Di Humanoids from the Deep esiste un omonimo remake televisivo del 1996, con  Robert Carradine e Clint Howard, che, pur riutilizzando buona parte delle scene girate al festival, ha livelli di sesso e violenza molto ridotti. Non l'ho mai visto, quindi non posso consigliarvi il recupero, ma se il genere vi piace buttatevi su Piranha e Slither. ENJOY!
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mercoledì 10 settembre 2025

The Conjuring - Il rito finale (2025)

Nel bene e nel male, è finita. Lunedì siono andata a vedere The Conjuring - Il rito finale (The Conjuring - Last Rites), diretto dal regista Michael Chaves.


Trama: i Warren si sono ritirati dal loro ruolo di esorcisti e cercano di pensare solo alla famiglia, ma un demone dal passato arriva a minacciare tutto ciò che i due hanno di più caro...


Come ho scritto nell'introduzione, è finita. Il cerchio che James Wan ha cominciato a tracciare con L'evocazione - The Conjuring, nel lontano 2013, si è chiuso per mano di chi ha ereditato il franchise, il regista Michael Chaves, seguendo fino in fondo il ciclo vitale dei Warren. Li abbiamo visti giovani, con una bambina piccola, nel primo film della saga, e oggi li vediamo più anziani e "appannati, persino fiaccati dalla malattia (Ed soffre i tremendi postumi dell'infarto avuto in Per ordine del diavolo) ma non meno innamorati. Anzi, l'amore è la loro ragion d'essere, dopo avere abbandonato la lotta al maligno, e la preoccupazione più grande è conoscere il fidanzato della figlia, ormai in età da marito ed erede dei poteri medianici di Lorraine. The Conjuring - Il rito finale indugia moltissimo, forse troppo, sui problemi familiari dei Warren, la cui felicità è direttamente legata a un passato abbandono, quando i giovani Ed e Lorraine sono fuggiti da un demone e dalle responsabilità legate alla loro professione, per salvaguardare la vita della neonata Judy. Adesso, giustamente, il demone è tornato alla carica, legandosi all'ennesima famiglia in pericolo e realmente esistita, in questo caso gli Smurl. The Conjuring - Il rito finale è "tutto qui". La sua struttura  horror è pressoché identica ai primi due capitoli (il terzo, con l'aggiunta di una strega e di un processo per omicidio istigato dal demonio, prendeva, seppur brevemente, altre strade): una famiglia numerosissima si ritrova bloccata all'interno di una casa infestata e vittima di fenomeni demoniaci sempre più invasivi, arrivano i Warren e, dopo aver fatto amicizia con tutti i membri della famiglia portando in primis conforto morale, ingaggiano una tremenda battaglia contro il demone di turno, uscendone più o meno invitti. L'unica differenza, in questo caso, è che i Warren e gli Smurl ci mettono molto ad entrare in contatto, e non viene a crearsi un legame simile a quello descritto nei film precedenti, il che inficia l'empatia provata verso le vittime. Un altro aspetto da considerare è che, all'interno di un metraggio molto lungo, l'aspetto drammatico della storia è preponderante rispetto all'elemento horror, il che scalda il cuore a chi, come me, vuole bene ai Warren cinematografici e starebbe ore a crogiolarsi nel loro idillio, ma potrebbe frantumare le gonadi a chi vuole solo spaventarsi.


Ci sarebbe da discutere anche su quest'ultimo punto. Gli spaventi messi in scena da Chaves sono meccanici, durano il tempo dello jump scare foriero di bestemmia, ma non lasciano un'inquietudine duratura; per dire, ho fatto più fatica a dormire per la scena post-credit e le registrazioni sui titoli di coda, che per il baraccone di esseri ghignanti e specchi semoventi messo in piedi dal regista. Anche la bambola Annabelle, mia nemica dal 2013 e affiancata da una maledettissima collega gattonante, ormai è messa a mo' di contentino per i fan, così come una serie di guest star"umane", ma non mette più angoscia come i primi tempi, e lo stesso vale per la "stanza degli orrori" dei Warren, a proposito della quale, avendo rivisto tutta la saga per prepararmi, a me è parso fossero ripetuti più o meno gli stessi dialoghi esplicativi. Ovviamente, potrei sbagliarmi, ma non credo. Purtroppo, Chaves non è un fuoriclasse come Wan, che sfruttava tagli di inquadratura e montaggio per fare ancor più paura, e il regista riesce ad azzeccare solo una sequenza veramente spaventosa e ben realizzata, quella che coinvolge Padre Gordon e che è non è stata ovviamente capita da parte dell'audience più giovane presente al cinema (i giovani d'oggi vogliono chiarezza, inquadrature esplicite, che sono queste suggestioni giocate sul montaggio??). Per fortuna, però, ci sono i Warren. Non la figlia, che mi ha detto poco come quel babbeotto del fidanzato, bensì Vera Farmiga e Patrick Wilson, che mettono ogni fibra del loro essere per mostrarci l'amore, la dedizione, l'essere uno l'ancora di salvezza dell'altro in un mondo non solo fatto di demoni, ma soprattutto di solitudine, incomprensioni, rifiuto verso il diverso. A me mette i brividi sentire la Farmiga urlare come una banshee il suo dolore o la sua rabbia, o mentre invoce i nomi dei familiari, mi viene voglia di abbracciarla e dirle che andrà tutto bene; quanto a Patrick Wilson, nella saga Insidious non mi smuove alcun sentimento, ma qui lo trovo umano e dolcissimo, il compagno di vita ideale dovesse mai venirmi in mente di sposarmi. La consapevolezza che The Conjuring - Il rito finale sarà l'ultimo film della saga con loro due come protagonisti mi ha lasciato un senso di perdita dolceamaro, per non dire un discreto magone (nella lunga sequenza introduttiva, quella del parto, ho pianto. Vorrà pur dir qualcosa) e anche se non smetterò di seguire sequel, spin-off, nuove generazioni (per quanto mosce) e chissà che altro, so che non sarà più la stessa cosa. Con buona pace di chi non li sopporta proprio questi adorabili baciapile.


Del regista Michael Chaves ho già parlato QUI. Vera Farmiga (Lorraine Warren), Patrick Wilson (Ed Warren) e Steve Coulter (Padre Gordon) li trovate invece ai rispettivi link.


Aguzzate bene la vista sul finale, durante il quale compaiono James Wan e alcuni protagonisti dei capitoli precedenti, come Carolyn e Cindy Perron (da L'evocazione - The Conjuring), Peggy e Janet Hodgson (The Conjuring - Il caso Enfield) e David Glatzel (The Conjuring - Per ordine del diavolo). Ovviamente, se The Conjuring - Il rito finale vi fosse piaciuto, il mio consiglio è guardare tutti e tre i film precedenti, aggiungere Annabelle, Annabelle: Creation, Annabelle 3, The Nun, The Nun 2 e La llorona - Le lacrime del male, e recuperare il film TV La casa delle anime perdute, che racconta la vicenda della famiglia Smurl. ENJOY!  

martedì 9 settembre 2025

I Roses (2025)

Non so nemmeno io perché ma, spinta da curiosità, lunedì sono andata a vedere I Roses (The Roses), diretto dal regista Jay Roach e tratto dal romanzo La guerra dei Roses di Warren Adler.


Trama: dopo un colpo di fulmine e un matrimonio durato dieci anni, qualcosa si spezza nell'idillio tra la cuoca Ivy e l'architetto Theo, che devono correre ai ripari prima di perdere tutto ciò che hanno di importante...


La guerra dei Roses
è sempre stato uno dei miei film preferiti e lo ricordavo ancora benissimo, anche se non lo avessi riguardato in occasione dell'uscita di questa rilettura del romanzo di Warren Adler. Uso il termine rilettura, perché anche se il succo della vicenda è la stessa, tra una casa contesa e sentimenti che si raffreddano fino a trasformarsi in odio, la sceneggiatura di Tony McNamara (lo stesso di La favorita e Povere creature!) si concentra, fin dal titolo che lascia cadere il termine "guerra", esclusivamente sui Roses. Sulle due individualità che compongono la coppia, sullo sviscerare, senza un attimo di pausa, i rispettivi pensieri, le riflessioni sul proprio carattere, le convinzioni relative all'educazione dei figli, i problemi e le soddisfazioni lavorative. I Roses 2.0 sono figli della generazione Z, che necessita di essere presa per mano e affrontare i conflitti spiegazione dopo spiegazione, anche a costo di ribadire l'ovvio, tanto che la sofferenza dell'architetto Theo, costretto a diventare "mammo" dopo aver perso ogni oncia di prestigio, è costellata di monologhi in cui il personaggio si ammonisce a non essere un maschio tossico ed invidioso, ma non solo. Tra dialoghi e monologhi, quello de I Roses è uno stream of consciousness in cui wit inglese, punzecchiature e pensieri messi in parole danno voce a due persone confuse che la guerra non vogliono proprio farla, ma che a un certo punto decidono che il loro ego è più importante di tutto il resto, e proprio nel momento in cui l'altro avrebbe più bisogno di aiuto. E' il grido disperato di un uomo narcisista che mal sopporta il successo della moglie, e di una donna che vorrebbe tutti i pro di carriera e famiglia e nessun contro, un grido che esplode quando i due, privi di figli e lavoro a distrarli, sono costretti finalmente ad affrontarsi e rivelarsi come due persone fondamentalmente piccine e superficiali, quindi perfette l'uno per l'altro. I Roses è, dunque, un film cerchiobottista che sceglie di appesantirsi stordendo lo spettatore di parole, facendo tutto sommato una satira innocua delle coppie moderne e di alcuni vezzi tutti americani (i figli, in questa versione della storia, sono usati in maniera egregia) e puntando su un registro più demenziale che grottesco, cosa che smorza parecchio l'amarezza e il pessimismo della vicenda originale. 


Fortunatamente, I Roses è anche un film graziato da una coppia di ottimi attori, anche se sarebbe meglio goderseli in lingua originale visto che buona parte dell'umorismo viene dallo scontro culturale tra inglesi e americani. Olivia Colman e Benedict Cumberbatch hanno un'alchimia tutta particolare, risultano affascinanti e carismatici pur non essendo delle bellezze canoniche, e le loro espressioni spesso stralunate fungono da perfetto contraltare ad un mondo di comprimari idioti. Questo però, a mio parere, è un altro difetto del film. Non è che non abbia riso davanti alla coppia formata da Andy Samberg e Kate McKinnon, quest'ultima pazza come non mai, ma tra loro, l'amico architetto stronzo e le due macchiette etniche di Ncuti Gatwa e Sunita Mani, c'erano troppi elementi bizzarri atti a distrarre dal fulcro della vicenda e, soprattutto, molta poca verosimiglianza, visto che sembra di avere avanti delle caricature più che delle persone vere. Apprezzabilissimo, invece, il lavoro svolto a livello di scenografia, arredamento e "cucina". Il gusto della splendida casa che diventa il pomo della discordia è stato aggiornato, diventando il sogno di ogni architetto moderno, e c'è da togliersi il cappello davanti all'abilità dello scenografo Mark Ricker, che ha ricostruito gli ambienti in studio. Il genio e l'ego di Theo vengono così ottimamente rappresentati, mentre l'estro creativo e la volontà di Ivy di essere anticonformista a tutti i costi trovano espressione negli splendidi piatti e nelle particolari torte degustati dai vari personaggi. In definitiva, I Roses non è un film da buttare e, appena sarà disponibile in streaming, credo che lo guarderò in lingua originale sperando di apprezzarlo di più, ma mi ha lasciata tutto sommato abbastanza fredda e in molti punti ho provato persino noia. Fortunatamente, c'è sempre il bluray del film di DeVito, di cui spero di riuscire a parlare nei prossimi giorni. 


Del regista Jay Roach ho già parlato QUI. Olivia Colman (Ivy Rose), Benedict Cumberbatch (Theo Rose), Kate McKinnon (Amy), Andy Samberg (Barry), Sunita Mani (Jane) ed Allison Janney (Eleanor) li trovate invece ai rispettivi link. 


Ncuti Gatwa
, che interpreta Jeffrey, è stato Il dottore delle recenti stagioni di Doctor Who. Se I Roses vi fosse piaciuto recuperate, ovviamente, La guerra dei Roses. ENJOY!

venerdì 5 settembre 2025

2025 Horror Challenge: Ghostwatch (1992)

La challenge horror di oggi prevedeva la visione di un'opera diretta da una donna. Ho scelto così Ghostwatch, film per la TV diretto dalla regista Lesley Manning nel 1992.


Trama: La notte di Halloween, un programma televisivo presenta una diretta da una casa presumibilmente infestata. La serata comincia all'insegna dello scetticismo, ma qualcosa di terribile inizia a succedere...


Ghostwatch
è un'altra di quelle opere di cui ho sentito parlare moltissimo e bene, nel corso degli anni, tuttavia non ero mai riuscita a vederla finché non è arrivato il momento di sceglierla per la challenge. Ghostwatch è anche uno dei motivi per cui mi piacerebbe avere una macchina del tempo e poter vivere in prima persona la notte di Halloween del 1992, quando la BBC ha mandato in onda, per la serie antologica Screen One, il mockumentary diretto da Lesley Manning, causando enorme scompenso in tutti quei telespettatori che o non hanno fatto caso alla schermata iniziale, oppure hanno acceso la TV in medias res; anzi, vorrei proprio essere stata una di quegli spettatori, visto che all'epoca avevo 11 anni, e poter dire di aver vissuto un ghost panic talmente reale da aver generato critiche, denunce e persino (purtroppo) causato un suicidio. Il fatto è che, nonostante il blando "avvertimento" iniziale, in cui si derubricava Ghostwatch a mera fiction, il film TV della Manning è realizzato con tutti i crismi ed è estremamente verosimile dall'inizio fino agli ultimi cinque minuti. In primis, perché coinvolge celebrità televisive dell'epoca conosciute per programmi reali, come i presentatori Michael Parkinson e Sarah Greene (qui presente come inviata, all'epoca presentatrice di un programma TV per bambini, nel quale ha dovuto dichiarare di stare bene, durante i giorni successivi alla messa in onda di Ghostwatch); poi, perché ha la stessa struttura di un programma in diretta, con un presentatore in studio, affiancato da un'esperta di paranormale, che segue e commenta il collegamento esterno in cui gli inviati intervistano gli abitanti del quartiere oppure, nel caso di Sarah Green, riprendono assieme a una troupe gli avvenimenti che accorrono all'interno di una casa presumibilmente infestata. Il tutto, mentre un centralino raccoglie le telefonate in diretta degli spettatori, ai quali viene chiesto di raccontare le loro esperienze paranormali, chiacchierandone appunto con Parkinson e con l'esperta che lo affianca in studio. Probabilmente, non vi sto rendendo l'idea di quanto sia perfetta l'illusione creata dalla Manning e dallo sceneggiatore Stephen Volk. In pratica è come se, nel 1992, Maurizio Costanzo avesse condotto una diretta a tema, sfruttando Cristina Parodi come inviata, testimoniando impotente non solo come la povera Parodi si trovasse sempre più in difficoltà con gli avvenimenti sovrannaturali accorsi in casa durante il collegamento, ma ricevendo telefonate sempre più inquietanti e legate alla diretta in corso, affiancato da un'esperta sempre più preoccupata e incerta, mentre sullo schermo cominciavano a mostrarsi strane ma inequivocabili manifestazioni di qualcosa di "sovrannaturale". Considerato quanta gente, all'epoca, si ritrovava le dita legate a causa di Giucas Casella, probabilmente ci saremmo tutti cagati in mano.


Visto "in differita", dopo decenni di mockumentary visionati a casa o al cinema, ovviamente Ghostwatch perde il vantaggio dell'illusione quasi perfetta, ma non risulta meno efficace. La sua natura, a patto di stare al gioco, lo rende molto coinvolgente e spaventoso, in particolare per il modo progressivo in cui il pericolo (già di per sé inquietante) legato alla casa da cui va in onda il collegamento si estende alla relativa sicurezza di uno studio televisivo, "protetto" dal cinico distacco di un presentatore razionale e scafato. Inizialmente, lo spettatore si ritrova testimone di ombre sbagliate, figure umanoidi confermate da poche telefonate assimilabili a episodi isterici, dopodiché i dettagli stridenti aumentano, diventando inequivocabili, così come la sensazione di trovarsi di fronte ad un pericolo insidioso e molto più articolato di una banale casa infestata. Per quanto mi riguarda, ho visto Ghostwatch in casa da sola, al buio, e ammetto di avere avuto parecchie difficoltà a prepararmi per andare a dormire dopo la visione, non tanto per il finale un po' "baracconesco", quanto per il fastidio causatomi da effetti sonori inquietanti, porte che si spalancano su un'oscurità terrificante, la generale sensazione di stare assistendo ad eventi orchestrati da un malvagio burattinaio invisibile, pronto a sfruttare il desiderio di sensazionalismo tipico della televisione, accompagnato da quella superficialità supponente di cui non ci si pente se non quando è ormai troppo tardi. Una superficialità che, per inciso, la BBC non ha mai più mostrato, almeno per quanto riguarda Ghostwatch: il film è stato bandito dalla televisione inglese (all'estero è stato invece trasmesso da alcuni canali), ed è stato distribuito in DVD solo 10 anni dopo, per il suo anniversario. Parlare di superficialità è però improprio. Purtroppo, Ghostwatch è un esempio di televisione all'avanguardia, intelligente a livello di scrittura e di messa in scena, e si sa che il pubblico televisivo è fondamentalmente stupido, tanto quanto la critica del settore è feroce. Forse sarebbero serviti avvertimenti ancora più chiari di quelli inseriti dalla BBC prima della messa in onda, ma così non avremmo avuto l'oggetto di culto che è oggi Ghostwatch, con tutto il suo codazzo di leggende metropolitane annesse, né tutta una serie di mockumentary,  a partire da The Blair Witch Project, che a quest'opera devono moltissimo, soprattutto per quanto riguarda il modo in cui giocano con le aspettative e i dubbi dello spettatore. Se non avete mai visto Ghostwatch recuperatelo, non ve ne pentirete! 

Lesley Manning è la regista del film, nonché la voce di Mary Christopher. Inglese, ha diretto film come The Agent, Leila e Honeycomb Lodge. E' anche produttrice, sceneggiatrice e attrice.


Nel 2013 è uscito il documentario Ghostwatch: Behind the Curtains, dedicato alla realizzazione del film e alle reazioni suscitate dopo la sua messa in onda. Non ho ancora avuto modo di vederlo ma, se Ghostwatch vi è piaciuto e l'argomento vi interessa, non posso fare altro che consigliarvelo! ENJOY! 

mercoledì 3 settembre 2025

Hallow Road (2025)

Nella sfera social horror che conta, la settimana scorsa si è fatto un gran parlare di Hallow Road, diretto dal regista Babak Anvari, quindi ho deciso di recuperarlo il prima possibile.


Trama: Maddie e Frank ricevono una telefonata dalla figlia, rimasta coinvolta in un incidente. I due partono in macchina per andare ad aiutarla, ma cominciano a succedere cose strane...


Hallow Road
è uno di quei film che, forse, non sarebbero da definire horror tout court. La maggior parte degli spettatori, infatti, potrebbero lamentarsi perché, nel corso del film, "non succede nulla", non si vede niente di spaventoso, non ci sono scene splatter né jump scares. Eppure, Hallow Road, per quanto mi riguarda, E' un horror, perché è interamente giocato su atmosfere più che angoscianti e sfrutta il non visto per spalancare un abisso di terrificanti possibilità interamente immaginate o, ancor peggio, ragionate a seguito della visione. Purtroppo, per chi apprezza solo le opere chiare dall'inizio alla fine, Hallow Road non offre risposte né soluzioni, ed ha un finale definitivo ma aperto, che non spiega, di preciso, cosa sia successo ad Alice durante la fatidica notte raccontata nel film. Hallow Road si apre con una lenta carrellata su un sottobosco notturno, che si conclude con l'immagine di una scarpa da ginnastica insanguinata, dopodiché presenta un'altra lenta carrellata, questa volta di una sala da pranzo in cui una cena è stata lasciata a metà e durante la quale si è rotto un bicchiere. E' passato del tempo dalla cena, perché Maddie e Frank, i padroni di casa, dormono entrambi e vengono prima svegliati dall'allarme antincendio scattato senza apparente motivo e, poi, costretti ad uscire dalla telefonata della figlia Alice, che comunica di avere avuto un incidente. La trama del film, scritta da William Gillies, verte interamente sul dialogo telefonico tra Alice e i suoi genitori, e l'unica cosa certa, per lo spettatore, è ciò che accade all'interno della macchina, durante il viaggio verso Hallow Road; ciò che invece accade nel luogo in cui si trova Alice, che noi non vediamo mai, è affidato interamente alle parole di una narratrice inaffidabile (giovane, preda dello shock, probabilmente alterata da sostanze stupefacenti) e agli inevitabili limiti del mezzo telefonico, tra linee che cadono e utenti irraggiungibili, atti a creare ancora più buchi all'interno di una storia di cui non è facilissimo rimettere insieme i pezzi. A un certo punto, poi, subentrano eventi inspiegabili a scombinare ancor più le carte, e l'orrore, che prima faceva affidamento sul montaggio e sulla bravura degli interpreti, diventa un incubo sonoro, fatto di violenti suoni scricchiolanti, da fare accapponare la pelle, e voci misteriose ma stranamente familiari.


Ricamare ulteriormente sulla trama di Hallow Road sarebbe un po' un delitto ma, oltre all'inquietudine legata alla comprensione di ciò che è accaduto ad Alice, c'è anche l'angoscia di vedere due esseri umani che, messi in condizioni di profondo stress, vomitano tutto ciò che li tormenta, nascosto a loro stessi e alla famiglia, mostrandosi nudi di fronte a verità dolorose e rendendosi conto, tragicamente, che il male, troppo spesso, ce lo attiriamo addosso con i nostri silenzi, la testardaggine e la diffidenza. In questo, Hallow Road non funzionerebbe senza l'incredibile bravura dei due attori principali. Rosamund Pike si riconferma un'attrice impressionante, un mostro di controllo che, a poco a poco, si sgretola rivelando una fragilità tristemente umana; Matthew Rhys le tiene testa nei panni di un uomo buono, ma disabituato al vedere andare all'aria i suoi progetti, pronto ad arrivare a conseguenze estreme pur di non deviare dal percorso stabilito per sé o per gli altri. Ai due grandissimi attori è consentito brillare grazie alla sinergia tra il regista Babak Anvari e il montaggio di Laura Jennings, la quale scandisce alla perfezione il ritmo della vicenda con tantissimi, importanti stacchi in grado di rendere incredibilmente vario quello che, potenzialmente, avrebbe rischiato di essere un noioso film ridotto ad un singolo ambiente, per di più buio. Invece, regia e montaggio catturano l'interesse dello spettatore alimentandone l'ansia (la sequenza della rianimazione cardiopolmonare è magistrale, spinge proprio a seguire le istruzioni di Maddie, muovendosi a ritmo con le sue mani esperte), dirigendo lo sguardo verso dettagli inquietanti, creando un importantissimo legame con una persona che non vediamo mai se non in foto, e per quanto mi riguarda questo è grande cinema. Ho un paio di teorie sul finale e, in generale, sull'intera vicenda, ma se volete ne parliamo nei commenti. Intanto, vi consiglio di recuperare appena possibile questo film (lo trovate a noleggio su tutte le piattaforme di streaming legale), tenendo in conto però che vi aspetta una serata all'insegna dell'ansia!


Del regista Babak Anvari ho già parlato QUI. Rosamund Pike (Maddie/voce della signora gentile) e Matthew Rhys (Frank/voce dell'uomo gentile) li trovate invece ai rispettivi link.



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