mercoledì 26 novembre 2025

Shelby Oaks (2024)

Nonostante la distribuzione imbarazzante, sono riuscita a vedere Shelby Oaks - Il covo del male (Shelby Oaks), diretto nel 2024 dal regista Chris Stuckmann.


Trama: i presentatori di un canale YouTube dedicato al paranormale vengono uccisi nella città fantasma di Shelby Oaks ma il cadavere di una di loro, Riley, non viene ritrovato. Dopo anni, sua sorella si imbatte in un indizio sconvolgente...


Di Shelby Oaks avevo sentito parlare per la prima volta dal mio insegnante di inglese, un ragazzo delizioso con cui facevo conversazione una volta a settimana fino a qualche mese fa (e che saluto, qualora passasse di qui!). Parlando di cinema e horror, un giorno mi ha detto che il critico di cui si fidava di più era Chris Stuckmann e che non vedeva l'ora che uscisse il suo primo lungometraggio, finanziato da una campagna Kickstarter dall'enorme successo. Questo lungometraggio era proprio Shelby Oaks, per questo ero molto curiosa di guardarlo e, come spesso accade, l'ho fatto a scatola chiusa, sapendo solo che si trattava di un found footage. In realtà, Shelby Oaks comincia come un found footage ma prosegue come horror dalla regia più classica. La vicenda narrata ha origine dalla morte dei presentatori del canale YouTube Paranormal Paranoids e da ciò che le loro telecamere hanno registrato prima che venissero uccisi. L'unica di cui non è stato rinvenuto il cadavere è la sensitiva del gruppo, Riley Brennan, che la sorella maggiore Mia non ha mai smesso di cercare per 17 anni. Dopo l'introduzione dei video in questione, e una serie di filmati televisivi o sul web che coprono "il caso" seguendo un pattern tristemente familiare di sensazionalismo, teorie complottiste e vuote vestigia di ricordi mitizzati, Shelby Oaks diventa un mockumentary, con tanto di interviste a Mia, agli spettatori di Paranormal Paranoids e all'ispettore che ha seguito la vicenda, ma anche questo stile dura poco. Infatti, accade qualcosa di scioccante che cambia completamente il registro del film, con tanto di stacco che anticipa i titoli di testa. Benché la presenza di Riley (e non solo) ne permei ogni sequenza, Shelby Oaks diventa, da quel momento in poi, la storia di Mia, una donna che ha smesso di vivere il giorno in cui la sorella è scomparsa, mettendo in pausa tutto ciò che non era "utile" alla sua ricerca, rapporto col marito compreso. E' una storia di testardaggine ossessiva, che in più occasioni fa dubitare della sanità mentale della protagonista, caratterizzata da una preoccupante mancanza non solo di spirito di autoconservazione, ma proprio di percezione di sé in quanto individuo, tanto la sua vita è legata a doppio filo al destino della sorella. E' anche una storia in cui, proprio per via di questa abnegazione totale verso Riley, Mia si ritrova preda di un'entità malevola senza neppure capirlo, almeno finché non è troppo tardi, ed è proprio questo che rende interessante Shelby Oaks, film che cambia spesso registro e "cliché" mantenendo sempre una coesione invidiabile e spiazzando lo spettatore con una bella serie di colpi di scena.


Proprio l'abilità di Chris Stuckmann di "nascondere" i fili che tengono unite le tante anime del film è ciò che impedisce Shelby Oaks di finire dritto nel cestone degli horror medi, o di risultare un semplice collage di cose già viste. Il rischio c'era, in effetti. La prima parte in particolare richiama tantissimi found footage e mockumentary famosi, non ultime opere recentissime come la saga di Hell House LLC.
Un altro aspetto positivo del film è che Chris Stuckmann, conoscendo molto bene il genere, è riuscito a mettere in pratica questa sua conoscenza creando sequenze che non si appoggiassero esclusivamente a prevedibili jump scare, quanto piuttosto alla tensione creata da spazi vuoti e bui o da dettagli quasi impercettibili (tante volte non ero sicura che ci fosse davvero ciò che mi sembrava di vedere), e giocata più sull'attesa che sul risultato finale. Considerato il budget microscopico, è interessante anche il modo in cui il regista è riuscito a ridurre gli effetti speciali all'osso, preferendo ricorrere a punti di luce, qualche immagine riflessa e alle percezioni incerte derivanti dall'uso della telecamera a mano per dare forma all'orrore di un incubo nell'accezione demoniaca del termine. Una scelta intelligente, perché i pochi effetti digitali sono abbastanza bruttini, e ciò fa ben sperare relativamente a cosa potrebbe fare in futuro Stuckmann con qualche soldo in più. Per il momento, direi che Shelby Oaks è un ottimo debutto, e l'unico vero difetto che gli imputo è la mancanza di coraggio nel perseguire una via che speravo fosse stata aperta una volta per tutte da Immaculate, nonostante sia una scelta di sceneggiatura coerente col passato e il carattere della protagonista. Vi consiglio quindi la visione di Shelby Oaks, magari al cinema, perché nella solitudine di casa il rischio è quello di non riuscire a chiudere occhio, soprattutto se dal letto riuscite a vedere una finestra e quello che potrebbe nascondersi dietro il vetro nel buio.


Di Camille Sullivan (Mia), Keith David (Morton Jacobson) e Derek Mears (Tarion) ho già parlato ai rispettivi link.

Chris Stuckmann è il regista e co-sceneggiatore della pellicola, al suo primo lungometraggio. Famoso principalmente come YouTuber e critico cinematografico, è anche produttore. Americano, ha 37 anni.


Se Shelby Oaks vi fosse piaciuto recuperate The Blair Witch Project, Hell House LLC e Lake Mungo. ENJOY!


martedì 25 novembre 2025

The Running Man (2025)

Temevo me lo sarei perso per via dell'influenza, ma martedì scorso sono riuscita a vedere The Running Man, diretto e co-sceneggiato dal regista Edgar Wright a partire dal romanzo L'uomo in fuga di Richard Bachman.


Trama: in una società distopica dove le televisioni detengono il potere effettivo, Ben Richards si ritrova a dover partecipare al mortale gioco a premi The Running Man, per poter curare la figlioletta malata...


L'uomo in fuga
è un romanzo del 1982, scritto da Stephen King sotto lo pseudonimo di Richard Bachman. Senza scendere troppo nei dettagli, Bachman era la "scommessa" di uno scrittore già famoso che voleva capire se sarebbe riuscito a scalare le classifiche anche privo di un nome importante, e che voleva essere libero di sperimentare, sfogarsi con opere un po' più grezze, rimaste magari nel cassetto per anni. Mi ritengo una kinghiana di ferro ma ammetto che tendo a dimenticarmi de L'uomo in fuga, perché è un romanzo scoperto in età più tarda e non è tra i miei preferiti dell'autore; non voglio essere antipatica ma è l'equivalente di uno di quei romanzetti di fantascienza mordi e fuggi, da Autogrill se vogliamo, ed è zeppo di situazioni surreali e personaggi tagliati con l'accetta, con qualche intuizione interessante che si perde in una trama abbastanza ordinaria, almeno per il mio gusto. Ritengo giusto che Edgar Wright abbia aggiornato il materiale di partenza, pur rimanendogli comunque molto fedele, calcando il pedale sul lato più grottesco ed umoristico della vicenda, perché così The Running Man diventa uno specchio della superficialità di cui siamo costantemente circondati. Il pugno di ferro pessimista, il nichilismo che governa il romanzo, qui viene diluito (ma, attenzione, non completamente cancellato!) accentuando la natura ridicola e baracconesca degli spettacoli vomitati addosso alle masse per addomesticarle attraverso la promessa di soldi facili, dando loro uno sfogo perverso verso chi "sta peggio" e muore in TV. Lo stesso Ben Richards, incazzato col mondo e duro come l'acciaio, accentua nel film quelle caratteristiche latenti di showman ed eroe suo malgrado che gli erano proprie anche nel romanzo, diventando più plausibile rispetto ad un superuomo malnutrito che riesce a fare fessa un'intera nazione. Il film punta il dito in maniera non banale sia sulla sovraesposizione mediatica che sulla facilità con cui le masse possono venire manipolate, ma anche sul pericolo dell'AI e dei deepfake, e lo fa con la leggerezza di un ottimo film d'azione, che non offre il fianco neppure a un minuto di noia e, pur seguendo la struttura di base del romanzo, reinventa ed arricchisce le "tappe" della corsa mortale di Ben Richards. 


La riuscita di The Running Man poggia, per buona parte, sulle larghe spalle di Glenn Powell, che aveva già dimostrato con Hitman - Killer per caso di saper reggere quasi da solo un intero film, grazie a un mix tra l'effettivo phisique du role, un'ottima versatilità e, soprattutto, quell'umorismo che me lo ha fatto adorare fin da subito in Scream Queens (mi spiace ma, per me, Powell sarà sempre il "Chad"). Qui l'attore riceve lo scomodo scettro di Arnold Schwarzenegger e poi se ne va per la sua strada, eclissando tutti gli altri pur bravi attori che lo affiancano, ad eccezione di Michael Cera, che mi da l'occasione per parlare di un altro aspetto del film, ovvero la regia di Wright. Ecco, il vero difetto di The Running Man è che è un po' anonimo. Questo non nel senso di "brutto" o "piatto",  quanto piuttosto che risulta quasi impossibile percepire la mano di Edgar Wright, se non per la cura dedicata alla colonna sonora, al montaggio e ad alcune sequenze in particolare come, appunto, quella ambientata nella casa di Perrakis. Nonostante la maggior parte delle scene siano notevoli, anche a livello di effetti speciali e ambientazioni (in particolare, spiccano la sede dell'emittente televisiva e, ovviamente, il palcoscenico dello show, ma anche l'aereo non scherza), tutto il segmento che coinvolge Parrakis e la madre è un mix perfetto di umorismo e azione, con booby traps dai risultati esplosivi e una fantastica sinergia tra la colonna sonora e quello che passa sullo schermo secondo dopo secondo. Insomma, The Running Man è un buon action distopico, ma privo di quella zampata autoriale perfettamente riconoscibile che riusciva a rendere indimenticabili le opere più famose del regista. A mio avviso, è un ottimo adattamento, perfetto per i tempi attuali, e smussa un paio di caratteristiche del romanzo che, ad oggi, sarebbero non solo anacronistiche, ma anche irricevibili. Di sicuro, anche se so di essere una brutta persona ad ammetterlo, l'ho apprezzato molto più de L'implacabile, di cui spero di parlare nei prossimi giorni. 


Del regista e co-sceneggiatore Edgar Wright ho già parlato QUI. Glen Powell (Ben Richards), Karl Glusman (Frank), Lee Pace (Evan McCone), Sean Hayes (Gary Greenbacks), Josh Brolin (Dan Killian), Colman Domingo (Bobby T), William H. Macy (Molie) e Michael Cera (Elton Perrakis) li trovate invece ai rispettivi link. 


Jayme Lawson
, che interpreta Sheila, ha partecipato a I peccatori nei panni di Pearline. Prima che Glen Powell venisse scelto come protagonista, la rosa di candidati per il ruolo di Ben Richards comprendeva Ryan Gosling, Chris Evans e Chris Hemsworth. ENJOY!

venerdì 21 novembre 2025

2025 Horror Challenge: Reazione a catena (1971)

La challenge horror, questa settimana, chiedeva la visione di un film non in lingua inglese. Ho scelto così Reazione a catena, diretto e co-sceneggiato nel 1971 dal regista Mario Bava.


Trama: dopo la morte, per apparente suicidio, di una contessa, speculatori ed eredi si affrontano per il possesso di una baia...


Dopo mesi passati a sbattermi nelle difficili ricerche di horror in lingua non inglese, sono stata colta, quasi alla fine della challenge, da un'illuminazione, ovvero che nella categoria rientrano anche film italiani. A tal proposito, sappiate che sia Chili che Plex vengono incontro, gratuitamente, allo spettatore che dovesse ritrovarsi privo di un DVD/Blu Ray di uno dei capolavori di Mario Bava, Reazione a catena, giustamente considerato il "nonno" dello slasher americano. Un "nonno" plagiato ed omaggiato più volte, soprattutto da Venerdì 13, che con Reazione a catena condivide l'ambientazione naturale e un paio di omicidi particolarmente efferati, ma anche l'indifferenza del killer nei confronti delle vittime, trattate alla stregua di sacchi di carne da uccidere nei modi più sanguinosi ma, attenzione, senza infierire. Non siamo nell'ambito del torture porn, per fortuna, e Reazione a catena ha comunque diverse attinenze col Giallo, di cui Bava era e rimane uno dei maestri indiscussi. Tutto parte, infatti, dall'omicidio di un'anziana contessa, anzi, da un doppio omicidio, in quanto, subito dopo la morte della donna, tocca al suo assassino perire per mano sconosciuta. I motivi sono da ricercarsi nell'eredità della contessa, proprietaria di una baia che fa molta gola agli speculatori edilizi, ma anche questi motivi, in realtà, poco importano a Bava e allo spettatore. Quello che è importante, all'interno di Reazione a catena, è dipingere personaggi sgradevoli che, per via della loro natura bieca, finiscono nelle maglie della reazione titolare ed intrappolati in un vortice di violenza che non risparmia nessuno, per motivi ben futili che si distanziano sempre più dall'idea di "eredità". Un' "ecologia del delitto" intesa, ovviamente, non come salvaguardia dell'ambiente (anche se, in alcuni dialoghi, viene toccato anche questo argomento, sempre usato come strumento per manipolare comunque l'ascoltatore e ripulirsi la coscienza), quanto studio della relazione tra gli uomini, attraverso l'occhio cinico e disincantato del regista. La violenza sembra quasi inevitabile, innata, e questo osservatore esterno si riserva il ruolo di studioso, di entomologo di questi insetti denominati "razza umana" (cit.), che si dibattono e si lanciano l'uno contro l'altro al punto che non importa più nemmeno perché; l'elemento giallo cade in secondo piano, ogni motivazione suona come una scusa perfettamente evitabile, c'è solo il gusto di "giocare" con la vita umana e tornare alla squallida vita di tutti i giorni come se non fosse successo nulla.


Questa scelta tematica è coerente con quella stilistica. I personaggi di Reazione a catena sono immersi in un ambiente naturale, all'interno del quale si muovono da una "tana" all'altra, accompagnati o da suoni naturali come il vento o gli uccelli, oppure da una colonna sonora tribale, che ne sottolinea la natura selvaggia, di scimmie violente. Dette scimmie possono darsi arie di intellettualità o raffinatezza, persino abbracciando hobby eccentrici come entomologia o cartomanzia, ma sempre scimmie restano, grette, violente ed impiccione, oppure, se giovani, mosse da irrefrenabili desideri sessuali. Accanto a questa natura grezza, ci sono le vestigia di una civiltà raffinata. Ville dall'arredamento moderno, night club abbandonati, magioni decadenti, sono tutti palcoscenici di delitti violentissimi, i cui effetti speciali terribilmente realistici sono stati affidati alla mano esperta di Carlo Rambaldi ed hanno assicurato a Reazione a catena un posto di diritto all'interno dei Video Nasties inglesi (ai quali, prima o poi, dovrò dedicare una rubrica). Effettivamente, alcune sequenze sono raccapriccianti. Gli omicidi all'arma bianca includono persone impalate, gole squarciate e teste spaccate come meloni ma, come ho scritto sopra, la caratteristica del film è che la cinepresa di Bava non mostra alcun compiacimento relativamente a queste sequenze. I delitti avvengono, punto, a prescindere che le vittime lo meritino o meno, ma sono rapidi ed efficaci, e la loro violenza indica disinteresse più che perversione. Sembra, insomma, che l'assassino colpisca con quello che ha sottomano, senza pensare alla sofferenza delle vittime, ma solo al modo più rapido di levarsele dai piedi (come dimostra il "due al prezzo di uno") e lo spettatore non può che rimanere angosciato non tanto dall'efferatezza, quanto dall'estrema futilità della vita umana. Nonostante ciò, Reazione a catena, come tutti i migliori gialli dell'epoca, non manca di ironia. E' un'ironia beffarda e gelida, per una volta non affidata a personaggi che ricoprono il ruolo di comic relief (anche se Laura Betti, in tal senso, è tristemente perfetta), quanto proprio alla reazione a catena del titolo, che tocca l'apice in un finale che è un compendio perfetto di humour nero, e che lascia lo spettatore di sale, davanti ad una delle opere più feroci della filmografia di genere italiana. 


Del regista e co-sceneggiatore Mario Bava ho già parlato QUI. Nicoletta Elmi, che interpreta, non accreditata, la figlioletta di Renata e Alberto, la trovate invece QUA.



 


martedì 18 novembre 2025

Eddington (2025)

Ho rimandato per via della Nuovi Incubi Halloween Challenge, ma alla fine sono riuscita a guardare Eddington, diretto e sceneggiato dal regista Ari Aster, solo per scoprire che io e lui ormai non andiamo più d'accordo.


Trama: durante la pandemia del COVID, lo sceriffo Cross e il sindaco Garcia si scornano a causa di dissidi sentimentali mai sanati. Le cose precipitano quando Cross decide di candidarsi come nuovo sindaco...


"Ad Aster servirebbe qualcuno di vessante e intimidatorio come la madre di Beau, che lo portasse a fermarsi e dubitare, invece di dare sfogo a tutto ciò che gli passa per la testa convinto che sia sempre cosa buona e giusta. Anche perché (diciamoci la verità senza timore di scatenare l'ira degli dèi) tre ore del pur bravissimo Joaquin Phoenix con la faccia triste del cane bastonato, che sciorina una lamentela dopo l'altra quando non è impegnato ad uggiolare o a balbettare scuse incomprensibili, sono un po' pesanti da sopportare." Apro il post con la citazione di un grande critico, ovvero la sottoscritta, che già ai tempi di Beau ha paura aveva le idee chiare relativamente alla logorrea cinematografica di Ari Aster e sperava che, nel frattempo, l'autore si sarebbe un po' ridimensionato. Aster mi ha ascoltata, in effetti, perché Eddington dura ben venti minuti meno di Beau ha paura. Peccato che, a differenza della sua penultima opera, che comunque non mi aveva spinta tra le braccia di Morfeo se non durante la sequenza dello spettacolo teatrale, Eddington sembri durare quanto un lockdown. Credo e spero fosse una cosa voluta, in quanto il film è ambientato proprio durante i primi tempi della pandemia mondiale, quando ancora pensavamo che non ne saremmo mai usciti e quando lo scontro tra le varie fazioni era all'apice della ferocia, tra mascherine, distanziamenti, decreti, paranoia, dubbi, complotti e quant'altro. Ci ricordiamo tutti (forse) com'era la situazione solo cinque anni fa, anche se sembra passato un secolo, e ricordiamo bene come ogni piccolo problema fosse esacerbato da un orribile clima di incertezza e nervosismo. Eddington parla proprio di questo, di piccole ma ben radicate antipatie e fastidi tutto sommato superabili, che si ingigantiscono fino a trasformare la cittadina di frontiera in una polveriera avente come fulcro due poli opposti. Da una parte c'è lo sceriffo Cross, un conservatore con moglie traumatizzata e suocera complottista a carico, il quale si oppone strenuamente a ogni prevenzione perché asmatico e perché convinto che il COVID non esista; dall'altra c'è lo sceriffo Garcia, sindaco democratico con mani in pasta ovunque e fautore di un progresso comunitario che in realtà porterà denaro solo a lui e pochi altri. Dopo una vita di reciproca diffidenza, alimentata da una (presunta?) passata relazione tra Garcia e Louise, la moglie di Cross, i due si scontrano definitivamente quando lo sceriffo, stufo della politica del rivale, decide di candidarsi sindaco, cominciando un'imbarazzante campagna elettorale a base di frasi fatte e scioccanti video su Facebook.


In mezzo a questo "duello" western 2.0, che avrebbe condotto John Wayne nella tomba tanto i contendenti sono molli, Aster infila le proteste per il black lives matter, il terrorismo, le derive estremiste di buona parte della popolazione americana, la questione delle armi, la pedofilia, gli imbonitori del web e chi più ne ha più ne metta. Un sovraccarico di informazioni e criticità che, sulla carta, sarebbe anche molto interessante, ma che preso così, a spizzichi e bocconi, si traduce in una pluralità di "spunti" assimilabile al bombardamento di informazioni da social e, allo stesso modo, fa poca presa sul cervello dello spettatore. Anche in questo caso, probabilmente, l'effetto era voluto. Per quanto mi riguarda, però, se l'aspetto portante della trama si perde in tanti piccoli punti appena accennati, trovo faticoso continuare a provare interesse per i protagonisti, ancor più se detti protagonisti sono ritratti come persone di rara antipatia, privi di spina dorsale, incapaci di esercitare anche un minimo controllo sulla propria vita. Tanti piccoli Beau, insomma, che non arriveranno ad avere paura di tutto, ma che non trovano altra risposta se non affidarsi alla violenza (che sia verbale, psicologica o fisica) ogni volta che si sentono messi con le spalle al muro. E pensare che Eddington non è privo di momenti coinvolgenti, anche perché Ari Aster, come ha già ampiamente dimostrato, ha un occhio di rara finezza per la messa in scena. Penso al prefinale del film, angosciante e concitato come quello dei migliori horror, alle ampie panoramiche sul grottesco finale, alla perfetta imitazione delle dinamiche che intercorrono all'interno dei social, alla rappresentazione della lucida follia dello sceriffo, a quel doppio, silenzioso schiaffo sulle note di Baby, You're a Firework, che fa crollare l'intera situazione. In quest'ultimo caso particolare, fanno molto Pedro Pascal e Joaquin Phoenix, che trasmettono in maniera incredibile la valenza grottesca e drammatica della sequenza; c'è da dire, purtroppo, che io ormai ho un problema enorme con Joaquin Phoenix e coi suoi "vinti", dopo una lunga serie di interpretazioni che, a mio avviso, hanno ulteriormente appesantito delle storie già non proprio leggere, Beau ha paura in primis. Come ho detto, problema mio, per carità, ma potrei anche aggiungere che avere tra le mani Austin Butler e, soprattutto, Emma Stone e sottoutilizzarli come ha fatto Ari Aster è un crimine punibile per legge. Io aspetto con ansia il momento in cui Aster lascerà un po' da parte la sua strabordante voglia di mostrare "quanto ne sa", per tornare alla carica con un'opera più asciutta e concentrata, magari rientrando nei ranghi dell'horror, a lui più congeniali. Insomma, gli servirebbe un bel trattamento Shyamalano, quella doccia di umiltà che potrebbe farmelo di nuovo amare. Non per augurargli il male, ma aspetto con fiducia.  


Del regista e sceneggiatore Ari Aster ho già parlato QUI. Joaquin Phoenix (Joe Cross), Emma Stone (Louise Cross), Pedro Pascal (Ted Garcia), Luke Grimes (Guy Tooley), Clifton Collins Jr. (Lodge) e Austin Butler (Vernon Jefferson Peak) li trovate invece ai rispettivi link.


Micheal Ward
, che interpreta Michael Cooke, era il coprotagonista del film Empire of Light, mentre Amélie Hoeferle, ovvero Sarah, era nel cast di Night Swim. ENJOY!

venerdì 14 novembre 2025

2025 Horror Challenge: Ginger Snaps (2000)

La Horror Challenge della settimana prevedeva la visione di un film uscito nel secondo millennio. Ho scelto Ginger Snaps, conosciuto in Italia col terrificante titolo Licantropia: Evolution, diretto e co-sceneggiato nel 2000 dal regista John Fawcett. Ginger Snaps si inserisce anche negli On Demand perché, neanche a farlo apposta, qualche settimana fa Patrizia mi aveva chiesto proprio di guardare la trilogia (lo farò più avanti, giuro!). 


Trama: Ginger e Brigitte sono due sorelle adolescenti morbosamente affascinate dalla morte. Un giorno, Ginger viene morsa da un lupo mannaro e Brigitte tenta disperatamente di arrestarne la progressiva trasformazione...


La saga di Ginger Snaps è un altro di quegli oggetti di culto che ho sempre evitato di guardare, forse perché, da sempre, ai licantropi preferisco i vampiri o forse perché i titoli italiani mi hanno sempre dato l'idea che i film fossero delle cretinate col botto. In realtà, almeno per quanto riguarda il primo capitolo, l'unica cretinata col botto è stata la distribuzione italiana: Ginger Snaps, infatti, è uscito col titolo Licantropia: Evolution (per sfruttare il richiamo commerciale del secondo capitolo di un'altra saga uscita in quegli anni, Underworld Evolution appunto) nel 2007, DOPO il terzo capitolo, intitolato in Italia Licantropia. Aiutami a guarire da questa mia malattia/affetto da una strana forma di licantropia, insomma. Scherzi a parte, è un peccato che queste scelte vengano portate avanti ciecamente, perché poi ci sono persone come me che aspettano 25 anni e una challenge per recuperare film molto belli ed interessanti, che si distinguono per originalità rispetto ad altre opere coeve. Ginger Snaps è la storia del rapporto tormentato di due sorelle, Ginger e Brigitte, che trovano l'una nell'altra la forza di sopravvivere allo schifo dell'adolescenza. Affascinate dalla morte, le due passano il tempo a mettere in scena suicidi splatterosissimi e si promettono di morire assieme prima dei 16 anni, nel caso la loro vita non cambi. Purtroppo, la svolta arriva quando Ginger viene morsa da un lupo mannaro e comincia, inesorabilmente, a trasformarsi; prima, le sue ferite guariscono nel giro di pochissimo tempo, poi cominciano a spuntarle i peli, e anche la sua psiche cambia di conseguenza. L'incidente coincide con l'arrivo della "maledizione", che per Ginger e Brigitte altro non è che il ciclo mestruale, un evento naturale che loro vivono come l'inizio della fine, la metafora di un'adolescenza sporca e disgustosa, sulla quale l'unico controllo è, appunto, una morte decisa da loro. La sceneggiatura di Ginger Snaps, attraverso l'elemento horror del lupo mannaro, racconta in primis lo schifo dell'adolescenza, un'età in cui tutto è difficile ed estremizzato, dove l'istinto sarebbe quello di fare branco per "appartenere" a qualcosa e afferrare una normalità anche squallida, ma spesso subentra l'autoconservazione che porta a starsene in disparte, al sicuro in una bolla di statica autocommiserazione e disprezzo. Il legame tra Ginger e Brigitte è quasi simbiotico, e nocivo per entrambe, ma tutto sommato consente loro di rimanere "sane". Quando Ginger viene morsa, il suo cambiamento in lupo mannaro diventa la metafora di una crescita incontrollata, in cui la ragazza diventa consapevole di tutte le sue possibilità inespresse, tra cui bellezza, sensualità, forza. Il disperato tentativo di salvarla, da parte di Brigitte, viene vissuto come l'azione di una sorella gelosa, ancora bambina (Brigitte non ha ancora avuto le mestruazioni), incapace di uscire dall'ombra di una ragazza più carismatica, e questo porta al doloroso, sanguinoso scontro tra le due.


Ginger Snaps
potrebbe sembrare un horror adolescenziale come tanti, a base di licei fighetti all'interno dei quali c'è una determinata tipologia di personaggi mutuati dai cliché anni '80-'90, ma in realtà non è così. Il liceo dove vanno Brigitte e Ginger è lo specchio di un disagio generalizzato, verosimile nel suo essere vittima dello squallore provinciale, e lì dentro persino le persone integrate o cool non sono nulla di che. I ragazzini sono goffi e poco carismatici e non fa eccezione quello che, in un film diverso, sarebbe connotato come il love interest della protagonista, e le ragazzine sono tutte bruttarelle, a partire dalla protagonista, tutte accomunate da frustranti problemi di insicurezza sociale. Anche la madre di Ginger e Brigitte è un personaggio peculiare, disperatamente desiderosa di condividere ogni esperienza, positiva e negativa, con le figlie, fino ad arrivare a dichiarazione estreme sul finale; a differenza del povero papà clueless, più vicino ai genitori assenti degli horror adolescenziali, Pamela si interessa attivamente di tutto ciò che riguarda le sue figlie, arrivando persino a giustificare ed appoggiare i loro passatempi morbosi, ma purtroppo nella sua foga ottiene risultati diametralmente opposti a quelli sperati. Se i personaggi sono interessanti e particolari, è anche merito delle due bravissime attrici protagoniste, senza le quali il film non funzionerebbe. Katharine Isabelle incarna una bellezza nervosa e ferina che, almeno nelle prime fasi della mutazione, sboccia libera come un'affascinante farfalla, salvo poi mostrare una mostruosità inaudita e una ferocia dolorosa nella solitudine della stanza condivisa con la sorella. Emily Perkins fa, per contro, tanta tenerezza nella sua interpretazione dimessa di una ragazza bruttina ed incolore, che è costretta a crescere e a prendere le redini della vita di entrambe, nel modo peggiore. Anche gli effetti speciali sono molto belli e, grazie anche ad accortezze di regia e fotografia che ovviano al budget limitato nei momenti in cui i lupi mannari si vedono nella loro interezza, resistono ancora all'usura del tempo. In particolare il make-up di Ginger si distingue per una progressione sottile, che inizialmente ne sottolinea la sensualità, per poi renderla, a poco a poco, sempre più mostruosa. Insomma, non avrei dato una lira a Ginger Snaps e invece l'ho molto apprezzato. Cercherò di non aspettare troppo a vedere i due film successivi!


Di Emily Perkins (Brigitte), Katharine Isabelle (Ginger), Kris Lemche (Sam), Mimi Rogers (Pamela), Jesse Moss (Jason) e Lucy Lawless (annunciatrice nell'audio della scuola) ho parlato ai rispettivi link.

John Fawcett è il regista e co-sceneggiatore del film. Canadese, ha diretto episodi di serie quali Nikita, Xena: Principessa guerriera, Taken e Queer as Folk. Anche produttore, ha 57 anni.


Il ruolo di Ginger era stato inizialmente offerto a Sarah Polley e Natasha Lyonne, ma entrambe hanno rifiutato. Il film ha un seguito, Gingers Snaps: Unleashed (in Italia, Licantropia apocalypse) e un prequel, Ginger Snaps Back: The Beginning (in Italia, Licantropia), che prima o poi finiranno negli On Demand. ENJOY!

mercoledì 12 novembre 2025

Hell House LLC: Lineage (2025)

Sono molto triste. Ho guardato Hell House LLC: Lineage, uno degli horror che aspettavo di più quest'anno, e Stephen Cognetti, regista e sceneggiatore dell'intera saga, mi ha delusa senza pietà.


Trama: sopravvissuta alla distruzione dell'Abaddon Hotel, Vanessa torna ad Abaddon e comincia ad avere incubi e visioni, come quasi tutti gli abitanti della città...


Cosa posso dire se non "sono costernata", come diceva il povero maggiordomo di un vecchio Dylan Dog? Cognetti aveva promesso, con Lineage, di risolvere tutti i misteri seminati negli anni dalla saga di Hell House LLC. Aveva anche promesso (e pare che, nonostante tutto, non abbia ritrattato) che Lineage sarebbe stato l'ultimo capitolo della saga. Peccato che Cognetti, durante la realizzazione del film, non abbia tenuto conto del budget e che abbia finito i soldi prima di rendersi conto che, ohibò, non sarebbe riuscito a tirare le fila del tutto. Il risultato è che Lineage non solo non svela nulla, ma aggiunge ulteriori domande e si conclude col colpo di scena più frustrante dai tempi di All Cheerleaders Die, soprattutto considerato che, come già il film di Lucky McKee, nemmeno questo prevede un seguito. La cosa, per inciso, sarebbe perdonabile, se non fosse che Cognetti passa l'intero film a ciurlare nel manico. Avesse dedicato meno tempo agli incubi di Vanessa, agli sproloqui della sua psichiatra, al marito della protagonista, alla sua coinquilina, ad altri settecento personaggi di cui non frega nulla ad anima viva e che, peggio ancora, muoiono off screen, sarebbe riuscito a concentrarsi sul passato dei due terrificanti adepti di Tully e su come Patrick Carmichael sia riuscito a confezionare la maledizione più terrificante del cinema recente. Dal momento in cui, già con The Abaddon Hotel, Cognetti aveva deciso di abbandonare l'efficace mistero del primo film e creare una lore di Abaddon, era giusto che andasse fino in fondo, ma così è una presa dei fondelli nei confronti dei fan. La cosa mi fa ancora più rabbia perché Cognetti, nel tentativo di ingraziarsi questi ultimi, ha commesso un altro errore imperdonabile, ovvero basare il film interamente sulla comparsa a intermittenza dei maledetti clown che ci fanno compagnia fin dal primo capitolo. Per chi, come me, soffre di coulrofobia, è ovviamente una sofferenza e non posso dire che non mi sia cagata in mano per tutta la durata di Lineage, scusate la finezza. Razionalmente, però, riconosco che ricorrere all'idea più iconica della saga per tutta la durata del film indica che di idee ne sono rimaste ben poche o, se ci sono, sono mal organizzate.


Per quanto riguarda la realizzazione, mi permetto di citare Lucia, costernata quanto me, e chiedere a Cognetti "ma perché non sei rimasto a fare found footage?". Lineage ha qualche momento efficace, perché comunque Cognetti ha un'ottima mano nel gestire i luoghi bui, i corridoi lunghi e tutto quello che non viene messo a fuoco alle spalle dei personaggi, e mentirei se non dicessi che, in più di un'occasione, ho guardato appena oltre l'angolo superiore dello schermo per non soccombere all'infarto. Purtroppo, però, Lineage è un film molto dialogato, e qui si inserisce un altro problema comune a tutti i film della saga, ovvero gli attori cani. Se, per motivi di budget, sei costretto a ricorrere ad attori poco espressivi o intensi, metterli all'interno di un found footage o un mockumentary potrebbe anche essere una carta vincente, per aumentare la verosimiglianza o la spontaneità del tutto, e tapullare eventuali difetti, cosa che, effettivamente, vale per i capitoli precedenti della saga (tranne per quella martellata sulle balle di Lake of Fire, di cui purtroppo Lineage riprende la protagonista). Utilizzare una tecnica classica, con abbondanza di di campi e controcampi, evidenzia tutti i limiti dell'operazione, e la povera Elizabeth Vermileya non è proprio eccelsa, così come non lo sono quasi tutti i suoi colleghi, col risultato che, spesso, Lineage ricorda tanto un episodio di una serie televisiva "media". Mi sento sporca a parlare male di questo film, giuro, perché quello con Hell House LLC è stato un amore improvviso e coltivato in poco più di un anno ma comunque intenso, e il mio cuore di fan si è riscaldato davanti a tutta una serie di citazioni, omaggi e rimandi agli altri capitoli della saga. Purtroppo, però, è un po' poco anche solo per definire Hell House LLC: Lineage un bel film. Cognetti ha dichiarato che la sua esperienza con Hell House LLC è finita, e che la sua idea sarebbe quella di passare la palla a un altro regista. La mia speranza è che Cognetti metta comunque mano alla sceneggiatura, che Shudder sganci dei soldi, e che qualcuno mi dia almeno una degna conclusione, fosse anche con uno spin-off a fumetti, una serie animata, un telefilm, perché altrimenti non mi riprenderò mai da questa delusione.

Stephen Cognetti è il regista e sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto i film Hell House LLC, Hell House LLC II: The Abaddon Hotel, Hell House LLC III: Lake of Fire, Hell House LLC Origins: The Carmichael Manor e 825 Forest Road. E' anche montatore e produttore. 

Ma ti mangiassero, guarda.

Elizabeth Vermilyea
, che interpreta Vanessa, riprende il ruolo dal terzo capitolo della saga. Oltre a lei, tornano anche tutti gli attori che, in Hell House LLC Origins: The Carmichael Manor, interpretavano le due vlogger protagoniste e i ragazzi della famiglia Carmichael. Lineage è, a quanto si evince dalle dichiarazioni di Cognetti, l'ultimo film di una saga che comprende Hell House LLC, Hell House LLC II: The Abaddon Hotel, Hell House LLC III: Lake of Fire, Hell House LLC Origins: The Carmichael Manor. Fino a ieri vi avrei consigliato di vederli, ma vista la frustrazione di sapere la saga incompiuta, non so neppure io che fare. ENJOY!

martedì 11 novembre 2025

The Toxic Avenger (2023)

Nei cinema, ad Halloween, è stato distribuito The Toxic Avenger, diretto e co-sceneggiato nel 2023 dal regista Macon Blair.


Trama: Winston vive solo col figliastro e sbarca il lunario come uomo delle pulizie di una losca ditta farmaceutica. Quando scopre di avere un tumore incurabile, Winston cerca di derubare la ditta, ma finisce in una pozza di liquami tossici e diventa un mostro...


Io mi chiedo in che mondo viviamo. The Toxic Avenger, remake di uno dei film più iconici e remunerativi della indipendente Troma, è stato presentato in un paio di festival nel 2023, dopodiché è finito in un limbo distributivo in quanto ritenuto troppo violento, praticamente impresentabile al pubblico odierno. Due anni dopo, The Toxic Avenger è arrivato in tutto il mondo, persino da noi, nella sua versione "unrated", e io mi chiedo se ormai sono diventata insensibile o se i produttori si sono rincoglioniti del tutto (propendo più per la seconda ipotesi, ma non metto limiti ai miei problemi). Se un film come The Toxic Avenger è impresentabile a un pubblico "generalista" (ma poi, a parte gli appassionati di horror, chi è che va a vedere gli horror al cinema, scusatemi?), Bring Her Back non avrebbe dovuto nemmeno uscire, perché guardando il lavoro di Macon Blair sembra di avere davanti un cartone animato. Questo non è un complimento, ovviamente. Non sono mai stata fan del Toxic Avenger della Troma, visto troppo tardi per elevarlo a cult e, comunque, troppo distante dai miei gusti, ma ne riconosco la carica sovversiva, l'ironia infantile ma comunque caustica, la patina grezza che lo rende disgustoso a più livelli, e che conferisce "spessore" al personaggio di Toxie proprio per la contrapposizione tra la sua natura buona e lo schifo che lo ha generato. Il film di  Michael Herz e Lloyd Kaufman dissacrava la figura del supereroe dotandolo di tutti i simboli del successo (potenza fisica, una fidanzata procace, l'ammirazione delle persone, persino una base segreta) ma declinati in chiave "trash", nel senso più letterale del termine, spingendo lo spettatore a tifare per lui pur provando un inevitabile disagio. Stessa cosa valeva per la origin story di Toxie, un povero verginello disagiato trasformato in un mostro per lo scherzo di un gruppo di bulli psicopatici che uccideva gente a caso; la casualità del tutto, e la crudeltà inaudita di ogni malvivente sul suolo di Tromaville, erano essenziali alla deriva violentissima intrapresa da un vendicatore non proprio brillante in partenza, preda di un odio sviscerato ed irrazionale verso il male. 


Nel film di Macon Blair, invece, tutto è normalizzato. Quella di Winston, uomo delle pulizie all'interno di una ditta farmaceutica, è una vita come tante. Il protagonista del nuovo Toxic Avenger è un uomo assolutamente normale, pur avendo la sua dose di problemi, e la sua origin story è legata a gravissimi problemi di salute e al disperato tentativo di risolverli o, perlomeno, di non lasciare privo di sostentamento il figlio dell'ex fidanzata, già traumatizzato dalla morte di quest'ultima e, per giunta, autistico. La vendetta di Winston/Toxie è comprensibile e lineare, in quanto va alla fonte di tutte le disgrazie che affliggono lui e la città di St. Roma, ovvero Bob Garbinger e la sua ditta farmaceutica, che fingono di curare le stesse malattie di cui sono la causa, per via di un inquinamento scellerato. Anzi, mi spingo persino a dire che il pattern per cui il villain decide di diventare un mostro ancora peggiore per battere Toxie è una strada battuta mille volte, stravista quanto il ripensamento di uno degli scagnozzi, le beghe familiari, la tizia ribelle che cerca di instillare un po' di coscienza sociale nel protagonista. Insomma, nel nuovo The Toxic Avenger non c'è un minimo di originalità, e non solo perché il film è un remake, ma soprattutto perché, quando si distanzia dall'originale, ricicla topoi vecchi quanto me. Inoltre, Macon Blair, che pur si professa amante indefesso della Troma, non riesce a fare a meno di dare un'immagine ripulita e patinata anche delle discariche a cielo aperto, degli scopettoni, di qualsiasi cosa dovrebbe destare istintivo disgusto.  


Questa tendenza a "ripulire" riverbera anche nelle sequenze che i trailer vendono come esagerate e scabrose, accomunando The Toxic Avenger alla saga di Terrifier. Allora, non scherziamo. Io non sono una "bimba di Leone", per carità, e lungi da me elevare i film dedicati ad Art il clown a capolavori dell'horror, ma se non altro Leone non teme di scatenare il vomito nello spettatore e si appoggia quasi in toto ad ottimi effetti speciali artigianali. The Toxic Avenger, di artigianale, ha solo il trucco di Toxie (sul quale poi torno...) e quel meraviglioso uccello mutante, il resto è schifezza digitale, splatter finto come i soldi del monopoli, macellate da sbadiglio compulsivo, che unite ad un umorismo tutto sommato ben poco corrosivo, contribuiscono alla palpebra calante nonostante qualche buona idea, un paio di citazioni azzeccate, e lo schermo smarmellato di colori acidi. In tutta sincerità, a me sono sembrati svogliati anche gli attori, nonostante il cast facesse ben sperare. In effetti, gli unici che meritano sono Kevin Bacon, ormai abbonato ai ruoli di villain fascinoso che non disdegna però l'essere preso a pesci in faccia come merita, e un Elijah Wood sempre più weird e perfettamente a suo agio nei panni del Pinguino/Gollum. Peter Dinklage, con tutto il rispetto, è una barzelletta, nel senso che recita solo al naturale, mentre sotto il pesante trucco di Toxie c'è una donna, e l'attore si limita a dargli la voce. La cosa risulta abbastanza ridicola perché non solo, effettivamente, Toxie somiglia ben poco a Dinklage (e ci sta, anche i due attori che interpretavano l'originale erano diversi), ma anche perché la voce a volte risulta falsata rispetto ai movimenti labiali dell'attrice e, soprattutto, il trucco di Toxie nelle sequenze in ospedale è completamente diverso da quello che definisce il personaggio in tutto il resto del film. Su Jacob Tremblay, povero amore, stendo un velo pietoso. A 15/16 anni, calcolando a spanne l'epoca delle riprese, il creaturo era in quell'età in cui i ragazzini non sono né carne né pesce, e qualunque cosa facciano sembrano molli come un'oloturia, il che probabilmente ha avuto ripercussioni sulla sua interpretazione. Purtroppo, la pubertà non è stata tenera con chi era un bimbo splendido e puccioso, quindi c'è solo da sperare che Mike Flanagan o altri trovino un modo per valorizzare gli altri suoi talenti. Purtroppo, Macon Blair non ne ha avuto la capacità, così come non è riuscito a rendere omaggio alla Troma, nonostante le buone intenzioni. Vi consiglio dunque di stare ben lontani da questa monnezza ripulita, e di dedicarvi ad altri horror più interessanti.


Del regista e co-sceneggiatore Macon Blair, che interpreta anche Dennis, ho già parlato QUI. Peter Dinklage (Winston/Toxie), Jacob Tremblay (Wade), Lloyd Kaufman (Lloyd), Kevin Bacon (Bob Garbinger), Elijah Wood (Fritz Garbinger) li trovate invece ai rispettivi link.

Taylour Paige interpreta J.J. Doherty. Americana, ha partecipato a film come Ma Rainey's Black Bottom e a serie quali Welcome to Derry. Anche produttrice, ha 35 anni e un film in uscita. 


Non c'è Peter Dinklage sotto il make up di Toxie, bensì un'attrice inglese di nome Luisa Guerreiro. Il film è il remake di The Toxic Avenger - Il vendicatore tossico, che vi consiglio di guardare a prescindere. ENJOY!

Se vuoi condividere l'articolo

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...