venerdì 7 marzo 2025

A Real Pain (2024)

Poche ore prima della Notte degli Oscar ho recuperato gli ultimi due film candidati che ancora mi mancavano. Uno era A Real Pain, scritto e diretto nel 2024 da Jesse Eisenberg e vincitore di una statuetta per il Migliore attore non protagonista, Kieran Culkin.


Trama: dopo la morte della nonna, due cugini decidono di andare in Polonia, per visitare il paese di nascita dell'anziana parente...


A Real Pain
. Un dolore reale, vero, profondo. Ma potrebbe anche stare per "A Real Pain in the Ass", cosa che, in effetti, è Benji, cugino del precisissimo David. I due non potrebbero essere più diversi ma sono cugini separati alla nascita giusto da pochi giorni, e sono sempre stati molto legati, finché la vita non ci ha messo lo zampino, distanziandoli sempre di più. L'occasione per riconnettersi è la morte della nonna, alla quale Benji era molto affezionato; la donna (fuggita all'Olocausto ed emigrata in America, sopravvissuta grazie ad una serie di non specificati "miracoli") ha chiesto, nel testamento, che i due andassero a fare visita al suo paese natale, in Polonia, quindi i due cugini decidono di fare un viaggio insieme, unendosi a un tour. Una simile trama, tipica di un road movie, normalmente darebbe il la ad uno sviluppo dei personaggi che si concluderebbe con una catarsi e la risoluzione di tutti i loro problemi. D'altronde, la Polonia è la terra d'origine della famiglia di David e Benji, e l'obiettivo finale del viaggio è pregno di simbolismi, per non parlare di tutte le situazioni al limite dell'assurdo, o profondamente spirituali, che i due si ritroveranno a vivere durante il tour. Ma quando il dolore è reale, e non ha una chiara origine o, ancora peggio, ci sembra non sia minimamente paragonabile al dolore di un popolo torturato e distrutto; quando le imprese eclatanti non possono compensare un'assenza durata anni, né quei piccoli gesti necessari a far sì che le persone percepiscano la realtà dei nostri sentimenti o, perlomeno, la nostra presenza; quando il dolore altrui è una misteriosa, tremenda rottura di coglioni perché non lo capiamo quanto capiamo i nostri problemi, soprattutto quando noi tendiamo a tenerceli dentro mentre altri li sbandierano ai quattro venti; in questi casi, quando il dolore ci toglie ogni speranza e l'amicizia quasi fraterna è talmente zeppa di crepe da stare in piedi giusto per miracolo, a cosa serve un ultimo viaggio riparatore? Probabilmente, ci lascerebbe con una serie di belle parole e un ultimo, stupido gesto eclatante prima che tutto torni esattamente come prima, ognun per sé, nella gioia, nel dolore e, soprattutto, nella pigrizia e nella volontà di nascondere la testa sotto la sabbia. Sono cose di cui siamo consapevoli, eppure è così triste e vergognoso vedercelo spiattellare in faccia da un film. Il cinema, in fondo, non dovrebbe farci evadere dalla spiacevole realtà? E nonostante la tristezza, tremenda, che mi ha presa guardando A Real Pain, è proprio la sua franchezza che me lo ha fatto amare. 


D'altronde, da un autore particolare come Jesse Eisenberg non mi sarei aspettata un compitino consolatorio. Però non mi sarei nemmeno aspettata una sceneggiatura che mescolasse così abilmente il dramma ad una farsa quasi triviale, né che il solito personaggio "sfattone" presente in questo genere di film riuscisse a risultare contemporaneamente respingente e meritevole di tutto l'amore del mondo. Benji è davvero un "pain in the ass"; imprevedibile, maleducato, noncurante, privo di filtri tra cervello e bocca, eppure, in tutto ciò che fa, c'è quel fondo di sincerità genuina tipico di chi non agisce per fare male agli altri o prenderli in giro, ma proprio per volontà di fare del bene. Ognuno dei due cugini fugge, a suo modo, dalla realtà, ma David ha scelto la via più "sana", sradicando da sé tutto ciò che lo rendeva strano, mentre Benji ha abbracciato la propria stranezza, facendosi divorare al punto da non avere più nient'altro. Concentrarsi sull'Olocausto, su un orrore tangibile che ha condizionato anche il loro posto nel mondo, è un modo per rimettere le cose in prospettiva. Anche lì, però, non è facile. E non è solo la scrittura di Eisenberg a dimostrarlo, ma anche la regia. Guardando A Real Pain, infatti, ho rivissuto le terribili visite fatte anni fa ai campi di concentramento, come se mi fossi trovata lì coi personaggi. Eisenberg cattura l'orrore di chi non ha mai provato sulla sua pelle esperienze così definitive e traumatiche, la solennità di quei luoghi, la vergogna di trovarsi al loro interno non da sopravvissuti, ma da estranei, quasi da "guardoni", passatemi il termine. E allo stesso modo, attraverso lunghe carrellate panoramiche, fa rivivere gli oziosi giri turistici prima e dopo la visita al campo di concentramento, il modo in cui il cervello dimentica, in un attimo, già proiettato sulle attrattive architettoniche, culinarie, "esotiche" del paese straniero ospitante. Come attore, Eisenberg è un'ottima spalla a un Kieran Culkin travolgente, giustamente meritevole dell'Oscar che gli è stato tributato, e che, di fatto, è protagonista tanto quanto lui, se non addirittura di più. Di fronte a una sovrabbondanza di film che si sbrodolano addosso, dove ogni dettaglio deve venire spiegato e sviscerato raggiungendo lunghezze titaniche, film piccolini come A Real Pain sono gli antidoti che preferisco e che riescono a riconciliarmi con un Cinema per cui faccio sempre più fatica ad entusiasmarmi. Recuperatelo, prima che lo tolgano dalle sale!


Del regista e sceneggiatore Jesse Eisenberg, che interpreta David Kaplan, ho già parlato QUI mentre Kieran Culkin, che interpreta Benji Kaplan, lo trovate QUA.

Jennifer Grey interpreta Marcia. Famosa per avere interpretato il ruolo di Baby in Dirty Dancing, la ricordo per altri film come Una pazza giornata di vacanza; inoltre, ha partecipato a serie quali Friends, Dr. House, Grey's Anatomy e, come doppiatrice, ha lavorato in Si alza il vento, Phineas e Ferb e American Dad!. Americana, anche produttrice, ha 65 anni.


Kurt Egyiawan
, che interpreta Eloge, era Padre Bennett nella serie L'Esorcista. Se A Real Pain vi fosse piaciuto recuperate Little Miss Sunshine e The Farewell - Una bugia buona. ENJOY!


mercoledì 5 marzo 2025

2025 Horror Challenge: In corsa con il diavolo (1975)

La challenge horror chiedeva, per la settimana scorsa, che ho saltato in occasione degli Oscar, un film uscito nel 1975. La mia scelta è caduta su In corsa con il diavolo (Race With the Devil), diretto proprio quell'anno dal regista Jack Starrett.


Trama: durante una vacanza in camper, due coppie assistono ad un brutale omicidio a sfondo satanico. Decisi a denunciare l'accaduto, i quattro si ritrovano a dover fuggire dalla persecuzione dei membri della setta...


Ogni tanto, sulla watchlist di Letterboxd (che sfrutto, quando possibile, per trovare il film legati alla challenge, così da sfoltirla un po') trovo cose che non ricordavo neppure di avere aggiunto. E' il caso di questo In corsa con il diavolo, titolo spuntato chissà dove e che, in tutta onestà, mi sono pentita di avere visto, in quanto nel 1975 credo ci fossero esempi di horror ben più ficcanti. Leggo che, col tempo, il film ha raggiunto lo status di cult; per me, considerata la fatica che ho fatto a rimanere sveglia guardandolo, soprattutto durante il secondo tempo, potrebbe divenire, nel tempo, un ottimo sostituto della melatonina, qualora avessi problemi a dormire. Il primo difetto di In corsa con il diavolo è quello di avere un titolo fuorviante. Il film comincia mostrando e sottolineando più volte la passione di Roger e dell'amico Frank per le moto da corsa, quindi pensavo che, proseguendo nella visione, mi sarei trovata davanti dei satanisti su due ruote e i protagonisti impegnati in una folle fuga a rotta di collo sulle strade polverose della provincia americana. In realtà, le moto vengono presto dimenticate e i nostri "fuggono" su un camper pluri-accessoriato, decisi a denunciare l'omicidio satanista ad autorità più centrate rispetto a quelle presenti nel buscio di chiulo d'America. Tra il dire il fare, però, ci sono di mezzo i membri della setta di cui sopra, i quali solo verso la fine del film decidono di affrontare i camperisti su strada, scomodando non solo camion, fuoristrada e automobili, ma persino un pullman pieno di bambini. Prima di questi infiniti, monotoni e barbosissimi inseguimenti su mezzi più o meno pesanti, i realizzatori tentano, quanto meno, di creare un clima di paranoia e disagio all'interno del camper, non solo sfruttando eventi terribili ai danni dei protagonisti e delle loro mogliettine (la scena del cane è agghiacciante oggi come allora), ma anche mettendoli di fronte ad interlocutori poco meno inquietanti dei tipici redneck da film horror. Certo, il concetto di "satanista" presente nel film è un calderone di imprecisioni e pregiudizi che rischiano, al giorno d'oggi, di risultare offensivi (le rune sono "il linguaggio delle streghe", non si fa differenza tra riti satanici e riti aztechi, il momento in cui le mogli vanno in biblioteca a consultare libri colmi di vaccate è probabilmente il picco più esilarante del film), tuttavia la costante sensazione di trovarsi in territorio nemico, spiati dal maligno e dai suoi adepti, si percepisce con grande chiarezza.


Purtroppo, il secondo difetto di In corsa con il diavolo è la regia piatta, televisiva, che priva di ritmo anche le corse in moto o gli inseguimenti in macchina, dando l'impressione che siano interminabili, oltre che noiosi. Probabilmente, in questo caso la colpa è anche un po' mia, visto che non ho mai amato le corse motociclistiche o automobilistiche, ma all'interno di un film di neanche un'ora e mezza, sprecare dieci minuti mostrando i personaggi che fanno i cretini con le moto da cross (senza collegare questo vezzo al resto della trama) è un reato punibile col carcere a vita. Anche gli attori non danno una mano a ravvivare il tutto. Peter Fonda è privo di quell'aura di figaggine a stelle e strisce che me lo ha fatto apprezzare in altre pellicole, mi ha dato quasi l'impressione che avesse voglia di recitare in In corsa col diavolo quanto ne avevo io di guardarlo, e il suo collega Warren Oates è un altro di quegli attori che, a 50 anni, sembrava già portarsene addosso venti di più, e sta lì giusto a fare la figura del fesso. Le due signore, poverelle, non sono pervenute, i personaggi sono scritti su un foglio di carta velina, e passano dal servizievole all'isterico, apportando ben poco aiuto ai nostri baldi uomini. D'altronde, in un film simile non mi aspettavo che le mogli avessero chissà quale ruolo, ma qui siamo proprio nell'ambito del minimo sindacale; oltretutto, il film è ambientato a gennaio e la cosa che mi ha fatta molto ridere è la varietà del guardaroba femminile, che contempla comunque vestitini estivi e persino costumi da bagno quando gli uomini sono spesso agghindati con pesanti parka. Va bene essere femminili, belle ed eleganti ma a tutto c'è un limite. Per quanto mi riguarda, per esempio, il limite sarà non riguardare più In corsa con il diavolo, talmente scialbo e noioso da farmi rimpiangere i bei tempi in cui Obsidian mi consigliava trashate italiane con le quali sganasciarmi in copiose risate! 


Di Peter Fonda, che interpreta Roger, ho già parlato QUI.

Jack Starrett è il regista della pellicola. Americano, ha diretto episodi di serie come Starsky & Hutch e Hazzard. Anche attore, è morto nel 1989, a 63 anni. 


Warren Oates
interpreta Frank. Americano, ha partecipato, assieme a Peter Fonda, ad altri due film, Il ritorno di Harry Collings e 92 gradi all'ombra; tra le altre sue pellicole ricordo 1941 - Allarme a Hollywood, inoltre è comparso in serie quali Ai confini della realtà. E' morto nel 1982, all'età di 54 anni. 


Loretta Swit
, che interpreta Alice, era Bollore in MASH, mentre Lara Parker, che interpreta Kelly, era Angelique nella serie Dark Shadows. ENJOY!

martedì 4 marzo 2025

The Brutalist (2024)

E' stata dura, ma sono riuscita a recuperare anche The Brutalist (al momento in cui scrivo candidato a ben 10 Oscar: Miglior film, Miglior regia, Miglior attore protagonista, Miglior attore non protagonista, Miglior attrice non protagonista, Miglior sceneggiatura originale, Miglior fotografia, Miglior montaggio, Miglior colonna sonora originale, Miglior scenografia), diretto e co-sceneggiato nel 2024 dal regista Brady Corbet.


Trama: l'architetto László Tóth, fuggito per miracolo ai campi di concentramento, trova rifugio in America. Lì, viene preso sotto l'ala protettiva dal ricco Harrison Van Buren, che gli commissiona un'opera monumentale...


Iniziamo il post ripassando un po' cos'è il Brutalismo, a beneficio di chi, come me, non tocca più un libro di storia dell'arte (in questo caso specifico, dell'architettura) dal lontanissimo 2005. Brutalismo deriva dal francese béton brut, che indica il cemento a vista, uno degli elementi tipici di questo movimento architettonico. Il cemento veniva utilizzato non solo per andare contro alla leggerezza degli stili precedenti, ma anche perché, nel primo dopoguerra, la necessità era quella di ricostruire in fretta, con materiali economici, utilizzando uno stile pratico e semplice, che prediligesse la funzionalità all'estetica. In realtà, c'era anche dietro un'idea di equità, fagocitata di lì a poco dal ritorno in piena forma del capitalismo, che avrebbe condannato il Brutalismo definendone gli edifici in gran parte obbrobriosi. Se vogliamo, all'interno di The Brutalist, si parla anche di Bauhaus, al quale Corbet si è ispirato per gli splendidi titoli di testa, somigliantissimi al Bilanz des Bauhauses di Theo van Doesburg, ma non stiamo a spaccare il capello. Tanto, l'epica opera di Corbet non pretende certo una conoscenza enciclopedica dell'architettura del dopoguerra: crea un parallelo tra il protagonista, l'architetto László Tóth, e gli edifici da lui costruiti, un mix di opprimente austerità monocromatica e un desiderio di libertà e respiro, di luce, di pace. Quella che è mancata e manca al povero László, sopravvissuto per miracolo ai campi di concentramento e pronto a ricominciare una nuova vita in America, con la speranza di riunirsi, prima o poi, con la moglie Erzsébet e la nipote Zsófia, ancora prigioniere. Non ci mette molto, l'architetto, a capire che l'America non è la land of the free, quanto piuttosto un mostro pronto a divorare gli stranieri e i poveracci, per nulla tenero con chi non riesce a conformarsi, magari rinnegando religione e convinzioni. Nel mucchio di immigrati, straccioni e poveri provenienti da tutto il mondo, l'unica speranza è attirare lo sguardo di qualche riccastro, e László riesce a conquistarsi quello di Harrison Van Buren, che decide di commissionargli un mausoleo per la madre, lieto di poter presentarsi ad amici e clienti come mecenate illuminato, protettore e benefattore della scimmietta ebrea dal grande talento. The Brutalist racconta del rapporto contrastato tra l'artista e l'uomo d'affari, per estensione del moderno rapporto tra arte e capitalismo, dipendente dalla moda e dagli umori del momento, con picchi di afflato poetico cancellabili con un colpo di spugna, quando i soldi cominciano a bruciarsi con troppa velocità. The Brutalist è anche il racconto della ricerca disperata di un posto da poter chiamare casa, dove non bisogna essere costretti a nascondersi o vergognarsi, dopo decenni di orrori perpetrati da chi ha scelto di condannare normali esseri umani a sentirsi dei mostri, dei diversi indesiderati. Il film di Corbet è tutto questo e anche di più, ed è il motivo per cui sono rimasta molto delusa nel constatare che, nonostante un potenziale enorme, sia riuscito sì ad interessarmi, ma senza mai commuovermi, se non all'inizio, di fronte a corpi sfiniti e animi confusi, assiepati sotto una Statua della Libertà giustamente capovolta. 


Girato interamente in VistaVision, per rispettare lo stile dell'epoca in cui è ambientato The Brutalist, il film di Corbet è una gioia per gli occhi, a cominciare da quelle riprese dove la cinepresa "corre" assieme alla strada, e grazie ad un montaggio dinamico che rende ancora più incredibili le immagini dei panorami, degli elementi naturali toccati dalla mano dell'uomo (le sequenze girate all'interno della cava di marmo sono da slogarsi la mascella) e dell'interno del mausoleo, un labirintico inferno di acqua e colonne. Ha una colonna sonora perfetta, che sottolinea non solo la solennità della narrazione, ma si adegua anche allo scorrere degli anni, cambiando completamente (così come lo stile di regia) nella Venezia anni '80 che chiude il film. Ha un cast d'eccezione, all'interno del quale spicca un Adrien Brody che, quasi sicuramente, vincerà l'Oscar, e regala il ruolo della vita a Felicity Jones, quello di un personaggio non proprio gradevole, distrutto da esperienze traumatiche, spezzato eppure costretto ugualmente a tenere in piedi chi avrebbe tutte le carte in regola per essere un marito esemplare e un buon compagno di vita, ma preferisce lasciarsi distruggere dalla propria vanità e dal disprezzo altrui. Come ho scritto sopra, The Brutalist ha un potenziale enorme e sfida lo spettatore a cogliere indizi, aggiungere tasselli mancanti, interpretare segni. E allora perché, sul finale, mi deve far crollare tutto forzando il pubblico ad ingoiarsi un monologo-spiegone che ne sottovaluta l'intelligenza come se Corbet fosse Van Buren e noi i poveri, ignoranti animaletti da catechizzare con "conversazioni stimolanti"? E' una scelta che non ho apprezzato, inutilmente strappalacrime e anche un po' supponente, soprattutto perché la sceneggiatura di The Brutalist non è complessa, né atta lasciare a bocca aperta quanto tutto il comparto tecnico che la sostiene, anzi. Sceglie sempre le soluzioni più semplici, con i cattivissimi capitalisti (razzisti, gretti, violenti, prevaricatori fino all'estremo) che annientano e sviliscono l'artista, sfruttandone anima e corpo, letteralmente; sceglie di spingere il protagonista a cercare rifugio nella droga senza mai, neppure una volta, mostrarci gli effetti che questa ha sulla sua arte e sui suoi demoni interiori; sceglie di usare il sesso come veicolo di sequenze controverse, disturbanti, rendendolo tossico nelle scene che vedono protagonisti moglie e marito, che mai una volta mostrano di provare un sano piacere l'uno nell'altro se non quando sono fatti come cocchi. Sceglie, infine, l'ennesima fuga verso un presunto paradiso, prima di consegnare i personaggi ad un timeskip blandamente consolatorio, dopo tutta l'oscurità inghiottita in quasi quattro ore. Ah, giusto, mi sembrava brutto non finire il post senza aver nominato la durata del film. A me, in tutta sincerità, non è pesata per nulla, ed è l'ennesimo punto a favore di un film bellissimo ma ben lontano dall'essere il capolavoro incensato da chiunque. Per quanto mi riguarda, The Brutalist va visto, va goduto sul grande schermo, andrà rivisto più di una volta, quello sicuramente; dovessi dire, però, non mi ha catturato il cuore, che ancora batte per altre storie, forse ancora più semplici, ma che non intendono camuffare la semplicità dietro un'architettura zeppa di fronzoli che, di brutalista, non ha proprio nulla.


Del regista e co-sceneggiatore Brady Corbet ho già parlato QUI. Adrien Brody (László Tóth), Felicity Jones (Erzsébet Tóth), Guy Pearce (Harrison Lee Van Buren Sr.), Raffey Cassidy (Zsófia), Stacy Martin (Maggie Lee) e Alessandro Nivola (Attila) li trovate invece ai rispettivi link.

Joe Alwyn interpreta Harry Lee. Inglese, ha partecipato a film come La favorita, Boy Erased - Vite cancellate, Maria regina di Scozia, Harriet e Kinds of Kindness. Ha 34 anni e due film in uscita. 


Il film era stato annunciato nel 2020 con un cast diverso, interamente rivisto nel 2023: Adrien Brody ha sostituito Joel Edgerton, Felicity Jones ha sostituito Marion Cotillard, Guy Pearce ha sostituito Mark Rylance e Joe Alwyn ha rimpiazzato Sebastian Stan. Se il film vi fosse piaciuto recuperate The Master e Il pianista. ENJOY!

lunedì 3 marzo 2025

Oscar 2025

Buon lunedì a tutti! Stanotte gatta Sandy ha pensato di svegliarmi in tempo per i premi più succulenti, consentendomi di testimoniare il ritorno di un Quentin in grandissima forma. Ero onestamente poco interessata, quest'anno, agli Academy Awards, consapevole che i due film per i quali facevo il tifo (The Substance e Nosferatu) sarebbero rimasti a bocca asciutta o quasi. La mia previsione si è rivelata, ovviamente, azzeccata, ma qualche sorpresa interessante c'è stata, tra cui il ridimensionamento di film che mi hanno lasciata un po' freddina, quali A Complete Unknown, giustamente snobbato, Conclave e il favoritissimo The Brutalist. Sono molto contenta per il successo di Anora, ma non mi nascondo dietro a un dito: la marea di premi piovuti sul film di Sean Baker, soprattutto quelli per miglior film e miglior attrice protagonista, derivano da crudissime polemiche sulle quali non mi sento nemmeno di spendere due parole, che hanno tolto dai giochi Emilia Pérez (che pur non ho amato), Fernanda Torres e lo stesso The Brutalist. La cosa buona è che finalmente, forse, Anora godrà di una ri-distribuzione migliore qui in Italia e magari, come auspicato da Baker, il cinema indipendente e le sale cinematografiche ritroveranno l'importanza perduta... Sognare non costa nulla. ENJOY!


Alla faccia di Brady Corbet (credo non dimenticherò MAI il modo in cui si è alzato in piedi, convinto che Quentin stesse per pronunciare il suo nome come miglior regista, un istante prima che il cameramen inquadrasse precipitosamente Sean Baker, reale vincitore), Anora ha vinto la statuetta come miglior film e Baker quella come miglior regista. I due importantissimi premi sono arrivati dopo le statuette per Mikey Madison come miglior attrice protagonista, miglior sceneggiatura originale e miglior montaggio. Ribadisco, sono MOLTO contenta delle vittorie di Anora ma trovo francamente esagerati i riconoscimenti di miglior regia e miglior attrice protagonista. Il premio di miglior film dipende da una serie di fattori talmente soggettivi che non sto nemmeno a discuterli, ma la regia della Fargeat e quella di Corbet mi sono sembrate nettamente migliori, e a stringere la statuetta come miglior attrice avrebbe dovuto essere Demi Moore, pochi cazzi. La Madison è bravissima ma non c'era paragone col mix di fascino, disgusto e pietà veicolato dalla povera Elizabeth. 


Nessuna sorpresa invece per la vittoria di Adrien Brody come miglior attore protagonista in The Brutalist (film di cui parlerò domani). Bravissimi Fiennes e Sebastian Stan, bellissimo ed intenso Colman Domingo mentre Chalamet può andare a mangiare ancora un po' di pane e Nutella, per quel che mi riguarda, ma non c'era paragone con l'intensità di Brody, visibilmente commosso sul palco. The Brutalist esce fortemente ridimensionato rispetto ai pronostici e alle candidature ricevute, vincendo solo altri due Oscar, quello per la miglior colonna sonora (che io avrei dato a Il robot selvaggio, ma vedere il giovanissimo Daniel Blumberg salire sul palco a mo' di novello Nosferatu di Murnau, talmente emozionato che sembrava dover scoppiare in lacrime da un momento all'altro, mi ha fatto tanta tenerezza) e quello, prevedibilissimo ma scandaloso, per la miglior fotografia. Quelle di Maria e Nosferatu, a mio parere, erano nettamente superiori.

Non riuscivo a staccare gli occhi dalla spilla della designer Elsa Jin. Splendida.

Vince l'Oscar come miglior attrice non protagonista Zoe Saldaña. Questo premio era sicuro quanto quello andato al suo "collega" di categoria e quello all'attore protagonista, anche se, come al solito, deriva dalla furba scelta di non candidare l'attrice come miglior protagonista, nonostante lo fosse. Comunque, un premio dovuto, la Saldaña è la "cosa" più bella di Emilia Pérez, film che a me ha detto davvero poco, al punto che ho dovuto riascoltare El mal, vincitrice del premio alla miglior canzone originale, per ricordare in quale scena fosse. 


Altro Oscar prevedibile ma graditissimo è quello andato a Kieran Culkin come migliore attore non protagonista in A Real Pain (anche se vale lo stesso discorso fatto per la Saldaña. E' protagonista Culkin quanto Jesse Eisenberg!), un film di cui parlerò nei prossimi giorni e che vi consiglio di recuperare, visto che è al cinema proprio adesso. Mi spiace per il dolcissimo Yura Borisov e per il mefistofelico Mark Strong, ma quest'anno non c'erano speranze, signori.


Conclave
, altro stra-favorito lasciato quasi a bocca asciutta, vince la miglior sceneggiatura non originale. E che vi devo dire; non è che gli altri candidati fossero granché, ma quello di Peter Straughan mi è sembrato un lavoro parecchio banale e svogliato.


E a proposito di favoriti caduti in disgrazia, Io sono ancora qui si "accontenta" del premio come miglior film straniero. Fernanda Torres, davanti alla vittoria della Madison, era incazzata nera, ma se non altro la statuetta è andata a un film bello ed importante. Ovviamente, avrei preferito una vittoria di The Girl with the Needle, ma era una speranza vana fin dall'inizio.


La vera sorpresa della serata è stata la vittoria di Flow, di cui parlerò nei prossimi giorni, come miglior lungometraggio animato. Mi ha lasciata basita non perché non mi sia piaciuto, anzi, l'ho adorato e sono felicissima della sua vittoria, ma a livello di animazioni era molto migliore Il robot selvaggio. Comunque, spero che il premio spinga più gente possibile a recuperare questo delizioso capolavoro!


Per concludere, riassumo (con la morte nel cuore, ve lo giuro) i premi "tecnici" andati ad altre pellicole. Perché con la morte nel cuore? Perché The Substance ha vinto un ridicolo contentino per il Miglior make-up, evidentemente l'unica categoria a cui possono ambire gli horror che non dissimulano la loro vera natura e osano "esagerare". Wicked si accontenta della Miglior scenografia e dei costumi (e se posso dirlo, ancora grazie!), mentre al grandioso Dune - Parte 2 sono stati "concessi" Miglior sonoro e Migliori effetti speciali. Aggiungo, come ogni anno, quelle categorie di cui non ho assolutamente conoscenza: No Other Land vince come Miglior documentario, In the Shadow of the Cypress come Miglior corto animato, I'm not a Robot come miglior corto live action e The Only Girl in the Orchestra: la storia di Orin O'Brien come Miglior corto documentario. E anche questi Oscar se li semo levati dalle... : da domani vi puppate i post dei film che ho visto durante l'Oscar Death Race e che non sono riuscita a pubblicare ma, per fortuna, tornerò anche a parlare di horror!

Il momento migliore della serata! aMMore!


venerdì 28 febbraio 2025

Il robot selvaggio (2024)

Ai tempi dell'uscita ne avevano parlato tutti benissimo. In occasione delle tre candidature (Miglior cartone animato, Miglior colonna sonora originale, Miglior sonoro), ho dunque recuperato Il robot selvaggio (The Wild Robot), diretto e co-sceneggiato nel 2024 dal regista Chris Sanders.


Trama: Un robot di ultima generazione viene abbandonato su un'isola popolata di animali. La programmazione del robot si troverà a dover interagire con imprevisti ed emozioni...


Come ho potuto perdermi questo trionfo al cinema? E' la domanda che mi sono fatta tra le lacrime di commozione alla fine de Il robot selvaggio, uno dei lungometraggi animati più provanti, a livello emotivo, tra quelli visti negli ultimi anni. Purtroppo, se non ricordo male, a tenermi lontana dalla sala è tata una terribile concomitanza di influenze e orari a misura bambino (come se il genere fosse adatto solo ai più piccoli...), ma poco male; certo, mi dispiace non aver goduto sul grande schermo delle splendide immagini de Il robot selvaggio, ma un bel film rimane bello anche visto in piccolo. E Il robot selvaggio è davvero bellissimo. La trama parte dalla perdita di un carico di robot su un isola deserta; il modello ROZZUM, in particolare, è stato progettato per servire gli umani facendosi carico, ogni volta, di compiti diversi da svolgere al meglio. Una direttiva semplice, quella di ROZZUM, ma ardua da mettere in pratica quando non ci sono umani nei dintorni e gli unici esseri viventi sono degli animali, ignoranti di fronte alla tecnologia e per nulla disposti a farsi "migliorare" la vita. Istinti atavici e naturali inimicizie si scontrano con la fredda logica, almeno finché l'unità robotica non si ritrova a darsi degli obiettivi per far sopravvivere un pulcino di oca, diventato orfano proprio per causa sua. Se non avete ancora avuto modo di guardare Il robot selvaggio non starei a fare altre anticipazioni sulla trama. Vi dico solo che la storia di ROZZUM, rinominata Roz, è una profonda, splendida storia di amore ed amicizia, in tutte le sue forme. Il messaggio del film non si lega "solo" ad un invito alla tolleranza e alla comprensione, ma all'impegnarsi affinché chi amiamo possa trovare un posto dove i suoi talenti possano venire sviluppati al meglio, anche a costo di fare un passo indietro e offrire il più grande dei doni, la libertà. Ne Il robot selvaggio i personaggi si lasciano alle spalle preconcetti legati a loro stessi e agli altri, e riescono a fare quel passo in più per uscire da un microcosmo fatto di paura e limitazioni, affiancando ad idee "favolistiche" (come quella di animali di specie diverse che imparano a convivere per non rendere vano lo sforzo di un "mostro") immagini molto adulte e reali di morte (lunga vita agli opossum e al loro concetto di maternità!), tristezza e dolore, con un happy ending che non è scontatissimo, benché contenga il sapore della speranza. 


Chris Sanders
, partendo dal libro illustrato di Peter Brown, prende il meglio dai capolavori che lo hanno elevato tra i maestri dell'animazione odierna, e confeziona un'altra poetica storia dove i personaggi fanno della diversità la loro forza. Benché non abbia nessuna caratteristica umana o animale, il robot Roz è incredibilmente espressivo, dotato di una gamma emotiva interamente rappresentata da luci, colori, movimenti ed inquadrature ad hoc, e il bestiario che gravita attorno alla protagonista ha un sembiante contemporaneamente realistico e molto accattivante, soprattutto la volpe Fink (adoro le volpi animate fin da quando ero bambina e questa, a mio parere, è una delle migliori viste su schermo). La cosa incredibile de Il robot selvaggio, nonché quella che più mi ha fatta pentire di non averlo visto l cinema, è il modo in cui riescono a fondersi, rispecchiando alla perfezione in senso della trama, la tecnologia 3D di animazione dei personaggi e e una tecnica di colorazione ed illuminazione dotata delle stesse caratteristiche della pittura a mano libera. I fondali e le scene ambientate nella foresta sono dotati di una ricchezza e una profondità unici, ed è interessante vedere come i colori e la texture di Roz cambino mano a mano che la programmazione viene meno e subentra l'istinto che rende il robot, per l'appunto, selvaggio e sempre più integrato ed accettato dalla natura che lo circonda. Il risultato sono scene di pura perfezione, quasi dei quadri in movimento, che toccano l'apice nella splendida sequenza delle farfalle, o quella della migrazione delle oche, ma per quanto mi riguarda ogni fotogramma del film è un piccolo capolavoro. Importantissima anche la colonna sonora di Kris Bowers, epica e commovente, e il parterre di splendide voci che danno vita ai singoli personaggi, riconfermando (come se ancora servisse) Lupita Nyong'o come una delle attrici migliori in circolazione, talmente brava da infondere una profondissima umanità a Roz, pur mantenendo intatte le sue caratteristiche di "freddo" robot. Non ho ancora guardato Flow, e sapete quanto sia parziale verso i gatti, quindi non sono sicura che non lo preferirei a Il robot selvaggio; a prescindere, il film di Sanders è comunque un capolavoro che merita più di una visione, coi bambini ma anche da soli, così c'è meno vergogna a piangere senza ritegno!!


Del regista e co-sceneggiatore Chris Sanders ho già parlato QUI. Lupita Nyong'o (Roz / Rummage), Pedro Pascal (Fink), Kit Connor (Beccolustro), Bill Nighy (Collolungo), Ving Rhames (Fulmine), Mark Hamill (Spina) e Catherine O'Hara (Codarosa) li trovate invece ai rispettivi link.


Se Il robot selvaggio vi fosse piaciuto recuperate Il gigante di ferro, Lilo & Stitch e Wall.E. ENJOY!

mercoledì 26 febbraio 2025

Wallace e Gromit: Le piume della vendetta (2024)

Tra gli Oscar per il miglior lungometraggio animato non poteva mancare Wallace e Gromit: Le piume della vendetta (Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl), diretto nel 2024 dai registi Nick Park (anche co-sceneggiatore) e Merlin Crossingham.


Trama: in un impeto di pigrizia inventiva, Wallace crea uno gnomo tuttofare per aiutare Gromit in giardino. Ma un vecchio nemico trama per impadronirsi di questa nuova tecnologia e vendicarsi...


Correva l'anno 1999 e, durante la programmazione di Natale, Italia 1 mandò in onda il corto I pantaloni sbagliati, il mio primo incontro con la premiata ditta Wallace e Gromit. Nonostante fosse un cortometraggio assai ironico, quello che ricordo ancora oggi de I pantaloni sbagliati è la terrificante atmosfera thriller che si respirava per tutta la sua breve durata, grazie a un personaggio che sembrava uscito dritto da un episodio di Leone cane fifone, ovvero il muto, inquietantissimo pinguino Feathers McGraw. E' passato un quarto di secolo dall'esordio del criminale pennuto (in Italia. In realtà, il film è stato fatto uscire per celebrare i trentacinque anni de I pantaloni sbagliati), ma il personaggio dev'essere rimasto nel cuore dei fan e di Nick Park, perché eccolo tornare ad esigere vendetta nel secondo lungometraggio dedicato a Wallace e Gromit, distribuito direttamente da Netflix. Loro, al cinema, li avevamo lasciati alle prese con i conigli mannari, nell'altrettanto lontano 2005 e, nel frattempo, la storica pigrizia di Wallace è aumentata, al punto da aver creato persino una macchina per dispensare carezze al povero Gromit. Il punto di non ritorno di questa dipendenza totale dalla tecnologia, triste specchio della nostra società odierna, è l'invenzione di un nano da giardino in grado di sbrigare qualsiasi lavoro, Norbot. Nonostante le buone intenzioni di Wallace, Norbot sconvolge la vita "analogica" di Gromit, povero cane che, almeno in giardino, vorrebbe rilassarsi e tornare ad avere contatti naturali, se non umani. Ancor peggio, come accade nei migliori film di fantascienza, la tecnologia può venire facilmente corrotta dalle mani di un genio votato al male, ed è ciò che accade quando Feathers McGraw, condannato all'ergastolo all'interno di uno zoo, decide di sfruttare Norbot per vendicarsi, finalmente, di chi lo ha mandato al fresco. Non vi spoilero gli sviluppi di questo interessante canovaccio ma, se siete un minimo abituati alle avventure del dinamico duo, sapete già cosa vi aspetta: un'ora e mezza di goffaggine umana, astuzia canina, pericoli, azione e tanto, tantissimo umorismo inglese, con l'unico grande difetto di una durata brevissima a fronte di un'attesa ventennale. Purtroppo, queste sono le gioie e i dolori dell'adorata stopmotion.


Come sempre accade davanti a questo tipo di opere, durante la visione di Wallace e Gromit: Le piume della vendetta non si può fare altro che ammirare in silenzio la perfezione certosina di una tecnica che costringe gli animatori a lavorare un giorno intero per ottenere qualche secondo di metraggio, e che, nonostante ciò, dà l'illusione che i personaggi sullo schermo godano di vita propria. Di più, i lungometraggi di Wallace e Gromit trasudano inside joke e dettagli esilaranti che non vengono affidati ai dialoghi, ma sono lì sullo sfondo, nelle scenografie, pronti ad essere colti da occhi attenti e meravigliati. Vero è che, stavolta, si è preferito evitare le scene troppo affollate e i realizzatori hanno preferito concentrarsi sul design di pochi personaggi (facendosi aiutare da stampanti 3D per un aspetto della trama legato a Norbot), ma, considerato che Wallace e Gromit: Le piume della vendetta avrebbe dovuto essere un corto, e che l'azienda produttrice della plastilina utilizzata ha chiuso due anni fa, una grandeur minore rispetto a La maledizione del coniglio mannaro è comunque grasso che cola. Fantastica anche la regia, ovviamente. Le atmosfere horror che tanto mi avevano elettrizzata ai tempi de I pantaloni sbagliati non sono venute meno (Norbot a un certo punto sembra la scimmia di King, e la suora sembra uscita dritta da l'Esorcista III), ma i cinefili, come sempre, hanno di che gioire. Tra Scorsese e il suo Cape Fear, Terminator, James Bond e Batman Returns, le citazioni cinematografiche si sprecano, arrivando a toccare non solo aspetti macroscopici come l'iconografia dei titoli citati, ma riproponendo persino il taglio delle inquadrature, la colonna sonora e l'illuminazione. Come facciano Nick Park e soci, al ritmo di un minuto di girato alla settimana, a tenere uniti tutti gli elementi che fanno di questi film dei capolavori, devo ancora capirlo; ma la cosa importante è che non smettano mai di regalare al mondo gioiellini come Wallace e Gromit: Le piume della vendetta!


Del co-regista e co-sceneggiatore Nick Park ho già parlato QUI

Merlin Crossingham è il co-regista della pellicola. Inglese, è al suo primo lungometraggio. E' anche doppiatore, animatore e sceneggiatore. 


Se Wallace e Gromit: Le piume della vendetta vi fosse piaciuto, recuperate innanzitutto il corto I pantaloni sbagliati, anzi, guardatelo prima del film. Proseguite poi con Wallace & Gromit: La maledizione del coniglio mannaro e coi corti Una fantastica gita, Una tosatura perfetta e Questione di pane o di morte, assieme a Shaun, vita da pecora - Il film e Shaun, vita da pecora: Farmageddon - Il film. ENJOY!

martedì 25 febbraio 2025

Wallace & Gromit: La maledizione del coniglio mannaro (2005)

Con l'uscita su Netflix e la nomination ai Golden Globes del nuovo film dedicato a Wallace e Gromit, ho riguardato assieme al Bolluomo Wallace & Gromit: La maledizione del coniglio mannaro (Wallace & Gromit: Curse of the Were-Rabbit), diretto e sceneggiato dai registi Nick Park e Steve Box nel 2005.


Trama: Wallace e Gromit, proprietari di una ditta di disinfestazione caritatevole, si ritrovano per le mani un'enorme gatta da pelare, quando un coniglio mostruoso minaccia di far razzia della verdura di tutti i cittadini, alla vigilia del Concorso di Verdura Gigante...


Sono già passati 20 anni dalla visione al cinema di Wallace & Gromit: La maledizione del coniglio mannaro. 20 anni durante i quali, benché mi fiondi sempre sui cartoni animati in stop motion, non ricordo di avere mai rivisto i due personaggi in qualche corto o film, anche se di opere a loro dedicate ne sono uscite. Avevo quindi paura di conservare un ricordo positivo alterato dal tempo, come spesso succede, ed ero un po' restia a rivedere col Bolluomo quella che, ai suoi occhi, avrebbe potuto essere una cretinata per bambini. Ovviamente, e per fortuna, mi sbagliavo. Wallace & Gromit: La maledizione del coniglio mannaro riprende le due fortunate creature di Nick Park, l'inventore mangiaformaggio Wallace e il cane Gromit, inserendole all'interno di un lungometraggio che mantiene i toni scanzonati ma anche le atmosfere sottilmente inquietanti dei corti che lo hanno preceduto, soprattutto quelle de I pantaloni sbagliati. Le rispettive personalità dei protagonisti si inseriscono alla perfezione all'interno di una storia che più horror non si può, il trionfo dei cliché del genere, con un mostro vegetariano pronto a sconvolgere una cittadina di agricoltori, dove l'onore più grande è quello di vincere il Concorso di Verdura Gigante. Wallace, pigro e fessacchiotto ma fondamentalmente buono, è la fucina continua di idee che genera le invenzioni più strampalate, fantastiche sulla carta e dannose all'atto pratico, mentre il povero Wallace è la muta voce della ragione, spesso ignorata in quanto proveniente dall'eloquente sguardo di un cane. Combinati all'elemento horror, e all'aggiunta di un parterre di personaggi spassosissimi (Quatermaine e Lady Tottington sono due esilaranti estremizzazioni di tipici comprimari horror e senza di loro il film non funzionerebbe, ma il mio cuore è volato al prete e all'isteria con la quale si ritrova a gestire la crisi mannara), tutti questi elementi danno vita a un film perfetto per bambini e adulti, un'avventura piena di ritmo che non offre il fianco nemmeno a un istante di noia, condita da un pizzico di umorismo british che da il meglio goduto nella versione in lingua originale. 


Per quanto riguarda l'aspetto tecnico, si rasenta la perfezione. Nick Park già all'epoca aveva fatto ricorso alla CGI (in primis per il "volo" dei conigli ma anche nel corso del finale, modificato perché il regista non era soddisfatto del primo risultato), ma il suo è un utilizzo intelligente, atto a far risparmiare agli animatori settimane di modifiche al posizionamento dei pupazzi, e, soprattutto, è un utilizzo mai invasivo né percettibile, perché il cuore del film è la stop-motion. Pensare al miracolo di una tecnica simile, all'incessante, certosino lavoro che c'è dietro, vedere che non esistono sbavature nei movimenti dei personaggi e nelle sequenze più concitate od affollate, mi lascia sempre a bocca aperta per l'ammirazione. La presenza dei segni delle impronte digitali sul muso di Gromit, nei primi piani, per me non è un difetto, ma l'importantissima testimonianza del lavoro manuale degli animatori, della natura artigianale di quella che può essere ben definita un'opera d'arte; sempre parlando di Gromit, è incredibile il modo in cui i realizzatori siano riusciti a renderlo espressivo, a convogliare la mancanza di dialoghi in un linguaggio corporeo assolutamente comprensibile. Ammirevole, ovviamente, anche il character design. Tolto che i coniglietti, con quel loro "weee", sono il trionfo della pucciosità, sfido chiunque a non voler infilare le mani nelle cicce pelosissime del coniglio mannaro; passando, poi, agli esseri umani, tutti gli abitanti del paesino hanno peculiarità distintive e il guardaroba di Lady Tottington, sempre in tema con qualche verdura, è da antologia. Fossi in voi, quindi, approfitterei dell'uscita di Le piume della vendetta per recuperare questo gioiello animato, se non lo avete mai visto, o per riguardarlo e immergervi in un'opera che non ha perso smalto nemmeno dopo 20 anni!

 


Di Ralph Fiennes (voce originale di Victor Quartermaine), Helena Bonham Carter (Lady Campanula Tottington) e Mark Gatiss (Miss Blight) ho già parlato ai rispettivi link.

Nick Park è il co-regista e co-sceneggiatore del film, nonché creatore dei personaggi Wallace e Gromit, dei quali ha diretto ogni corto (gli episodi delle serie TV sono invece stati affidati ad altri registi). Ha diretto anche i film Galline in fuga e I primitivi. Anche produttore, animatore e attore, ha 67 anni. 


Steve Box
è il co-regista e co-sceneggiatore della pellicola. Inglese, era al suo primo e, finora, unico lungometraggio. Anche animatore e produttore, ha 58 anni.


Se Wallace & Gromit: La maledizione del coniglio mannaro vi fosse piaciuto, recuperate ovviamente tutti i corti dedicati al dinamico duo: Una fantastica gita, I pantaloni sbagliati, Una tosatura perfetta e Questione di pane o di morte. Aggiungerei anche Shaun, vita da pecora - Il film e Shaun, vita da pecora: Farmageddon - Il film. ENJOY!

venerdì 21 febbraio 2025

The Girl With the Needle (2024)

Uno dei candidati all'Oscar come miglior film straniero è The Girl With The Needle (Pigen med nålen), diretto e co-sceneggiato nel 2024 dal regista Magnus von Horn.


Trama: Karoline, il cui marito è da tempo disperso al fronte, lavora all'interno di una fabbrica di tessuti. La sua vita, già di per sé non facile, cambia quando il padrone della fabbrica si invaghisce di lei e la mette incinta, per poi abbandonarla...


Tratto da una tremenda storia vera, The Girl With the Needle è il triste, lucidissimo ritratto della condizione della donna in Danimarca all'inizio del '900, a cavallo della prima guerra mondiale. La storia (che prenderà tutta un'altra piega che non vi sto a spoilerare) segue l'esistenza precaria di Karoline, un'indesiderata che si arrabatta come può per sopravvivere. Arrabattarsi, però, non vuol dire che la protagonista sia una prostituta, o una criminale; Karoline lavora in fabbrica per un pugno di spiccioli che non le bastano per vivere in un appartamento dignitoso, e non può ottenere il sussidio di vedova perché, di fatto, il marito non è morto in guerra, ma risulta da anni disperso al fronte. In realtà, più che indesiderata come ho scritto sopra, Karoline è invisibile agli occhi della società. Non è qualcosa di cui sbarazzarsi, ma non è neppure un elemento importante, e, forse, se non ci fosse ci sarebbe più spazio per consentire ad altri nella sua stessa condizione di sopravvivere meglio. Un barlume di speranza le arriva quando il padrone della fabbrica si invaghisce di lei, scegliendola tra tante sue colleghe, ma si tratta solamente dell'ennesima spinta verso il baratro: tenuto per le palle dalla madre, una nobildonna dal pugno di ferro, il padrone disconosce in un secondo tutte le promesse di matrimonio e paternità, lasciando Karoline senza lavoro, con un figlio a carico e, per di più, con un marito (nel frattempo tornato a casa) sfigurato e vittima di pesanti sintomi di stress post traumatico. Ce ne sarebbe abbastanza per sconfortare un santo, e Karoline non lo è. Lucida ed egoista, la protagonista di The Girl With the Needle non è un personaggio positivo, o una damsel in distress, ma è figlia della sua condizione e della società in cui vive. Lo stesso vale per Dagmar, la donna alla quale Karoline si rivolge per dare un futuro migliore alla propria figlia, e con la quale instaura un rapporto complesso, stratificato, che diventa il cuore stesso del film. Non mi va di elaborare oltre, per non togliere la sorpresa a chi dovesse ancora vedere The Girl With the Needle, ma qualcosa vorrei dirla ancora, sulla trama. Il film di Magnus von Horn è freddo e diretto, evita ogni tipo di sensazionalismo o presa di posizione, non si dilunga sugli aspetti macabri della vicenda ma va dritto al punto, senza fare sconti a uno spettatore che si ritrova coinvolto in questa vicenda talmente orribile da non sembrare neppure umana. Eppure, i protagonisti sono umanissimi, e il contesto è così realistico che, a volte, sembra quasi di vedere un documentario sulla strenua lotta di una donna per sopravvivere senza diventare un mostro, con sprazzi di luce che si incontrano nei luoghi più impensati, quelli dove la disperazione dovrebbe farla da padrone.


A proposito di luce, Michał Dymek alla fotografia fa un lavoro stupendo, impreziosendo The Girl with the Needle con un bianco e nero splendido, espressionista, che sembra tirare fuori il film da un'altra epoca. Le strenue lotte psicologiche dell'espressionismo tedesco sono richiamate anche da momenti in cui sequenze oniriche entrano, a gamba tesa, a stravolgere ancor più una realtà insostenibile; nelle scene introduttive, bocche, occhi, mani e volti si sovrappongono gli uni sugli altri a creare immagini di sofferenza e disagio, come persone che volessero fuggire dai corpi e dalla realtà, invano. La fuga dalla realtà, la liberazione nella morte, la speranza che si infrange contro un orrore ancora più grande, sono temi che ricorrono per tutto il film e si esprimono nello sguardo stranito della bravissima Vic Carmen Sonne, che interpreta Karoline. Gli occhi, neri ed enormi, dell'attrice, sembrano rivolgere una muta accusa allo spettatore, esprimono lo sconcerto di una donna ormai arrivata a un punto di rottura, stanca di sperare in una vita migliore o anche solo di provare ad andare avanti. Nonostante Karoline sia un personaggio oggettivamente rozzo e poco affascinante (gli stessi aggettivi coi quali definirei l'ambientazione del film, perché il regista non cerca di ammorbidire nulla, a livello di contenuti o immagini), c'è in lei della poesia, la stessa che si può trovare nella ferocia di Dagmar e, ancor più, nella figura spezzata di Peter, freak al quale la guerra ha tolto tutto tranne la capacità di accettare ed accogliere i "peccati" altrui. The Girl with the Needle non è un film facile né accattivante, e, onestamente, non capisco come abbia fatto ad essere accettato dall'Academy, con tutti i compitini innocui presenti in gara quest'anno. Non è un horror, ma usa il linguaggio tipico del genere, e getta in pasto allo spettatore vicende orrende, verosimili, senza un briciolo di compiacimento, costringendolo a farsi moltissime domande scomode. E' un film difficile da riguardare, ma anche da dimenticare, per questo ve lo consiglio. Lo trovate su Mubi, siete ancora in tempo ad abbonarvi per tre mesi al prezzo di un euro.

Magnus von Horn è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Svedese, ha diretto film come The Here After. Anche attore, ha 42 anni.



mercoledì 19 febbraio 2025

2025 Horror Challenge: Grafted (2024)

Siccome questa settimana la challenge prevedeva di scegliere un film a caso, spinta da molte recensioni positive, ho recuperato Grafted, uscito di recente per la piattaforma Shudder, diretto e co-sceneggiato nel 2024 dalla regista Sasha Rainbow.


Trama: dopo la morte del padre, scienziato specializzato in trapianti di pelle, Wei si trasferisce dalla zia in Nuova Zelanda e prova a portare avanti gli studi del genitore. L'astio della cugina e delle compagne di scuola, però, la costringeranno a ricorrere a drastiche, sanguinose misure....


Grafted
è una buona opera prima, che si inserisce nel genere del body horror e cerca di dire la sua sul disagio dell'adolescenza, il desiderio di possedere la bellezza per poter fare parte di un gruppo ed integrarsi. La protagonista, Wei, è figlia di uno scienziato morto in circostanze tragiche nel tentativo di perfezionare una tecnica rigenerativa della pelle. Come il padre, Wei ha il collo e parte del viso deturpati da una voglia scura, per questo vorrebbe proseguire le ricerche del genitore e avere, finalmente, un aspetto "normale". Per sua sfortuna, Wei è costretta ad andare ad abitare in Nuova Zelanda dalla zia (che, guarda un po', tratta prodotti di bellezza. In realtà, la cosa non influenza minimamente la trama, ed è un peccato) e frequentare una prestigiosa università con l'odiosa cugina e le sue amiche. Vero, la protagonista è un po' sfigatella, appende in camera foto discutibili ed è troppo "cinese" per l'ambiente in cui vive, ma fondamentalmente viene vessata senza motivo dalla cugina e dalla bimbo bionda che si porta appresso; in più, le ricerche vanno a rilento e ci si mette anche il laido professore di scienze a metterle i bastoni tra le ruote. Nonostante l'offerta di amicizia di Jasmine (outsider anche lei ma perfettamente integrata) e l'empatia di un senzatetto deforme, Wei a un certo punto sbrocca e commette un omicidio. Da lì in poi, Grafted diventa il frenetico tentativo di arginare una diga piazzandoci, letteralmente, dei tapulli ben poco resistenti; il desiderio di liberarsi della deformità si mescola in maniera inestricabile alla necessità di nascondere peccati sempre più grandi, e il risultato è che la mente già fragile di una ragazza poco più che adolescente va in frantumi, divorata da quella stessa bruttezza esteriore che mai, prima, l'aveva forzata ad essere brutta anche dentro. Niente di nuovo sotto il sole, come vedete, e Grafted patisce un po' l'inesperienza dei coinvolti e alcune forzature nella sceneggiatura, risultando più superficiale di quanto fosse nelle intenzioni degli autori; empatizzare con Wei e capirla non è difficile, ma i suoi antagonisti sono eccessivamente stereotipati e ogni twist intraprende la strada più banale possibile, sorprendendo giusto sul finale, gettato via troppo in fretta.


La cosa buona di Grafted è che non si trattiene dal punto di vista del gore. Tra scalpelli che affondano, automutilazioni e facce scarnificate, ce n'è un po' per tutti i gusti, e l'uso creativo che Wei fa dell'invenzione di suo padre consente alla regista e ai tecnici degli effetti speciali di divertirsi parecchio. Proprio l'"uso creativo" di cui sopra, richiede più del minimo impegno sindacale anche alle attrici protagoniste, soprattutto alla bellissima Eden Hart e a Jess Hong, entrambe aiutate da un make-up che le rende "sporche", sudaticce e sciatte. Joyena Sun, che interpreta Wei, è forse più acerba delle sue colleghe, e sarà difficile che possa marchiare a fuoco la memoria degli appassionati come la Angela Bettis di May o la Katharine Isabelle di American Mary, ma anche lei passa da un'interpretazione trattenuta e timida a dar sfogo a tutta la bruttezza "assorbita" dagli stronzi che la circondano, e nel complesso l'ho trovata una valida protagonista. Ho molto apprezzato anche la fotografia pop, zeppa di colori "girlie" ma anche pronta a virare nei toni cupi di un incubo, e un paio di trovate a livello di scenografia, in primis la terrificante, squallidissima casa incompleta della zia di Wei, zeppa di nylon e pertugi dove poter nascondere la qualunque; anche in questo caso, probabilmente la casa poteva venire utilizzata meglio e in maniera più fantasiosa, ma è comunque un ottimo tocco weird all'interno di un film che ne è pieno. Nel complesso, se vi piace il genere, Grafted è un film simpatico, che vi consiglio di recuperare, magari continuando la visione anche durante i titoli di coda, ravvivati da una trovata perfetta per gli assidui frequentatori del sito Does the Dog Die?  

Sasha Rainbow è la regista e co-sceneggiatrice della pellicola, al suo primo lungometraggio. Americana, è anche produttrice.


Se Grafted vi fosse piaciuto recuperate The Substance, May e American Mary. ENJOY!

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