martedì 16 dicembre 2025

Lupin the IIIrd - The Movie - La stirpe immortale (2025)

Grazie all'infinita pazienza di Mirco, la settimana scorsa sono andata a vedere Lupin the IIIrd - The Movie - La stirpe immortale (LUPIN THE IIIRD THE MOVIE 不死身の血族), diretto dal regista Takeshi Koike.


Trama: Lupin e soci si recano su un'isola non segnata sulle mappe, per scoprire chi, da anni manda loro contro degli assassini per ucciderli. Scoprono così che l'isola è il regno di Muom, una creatura apparentemente immortale che ha deciso di eliminare dalla faccia della Terra Lupin e compagni...


Sono passati tredici anni da quando il nome di Takeshi Koike ha cominciato a fare capolino nel franchise di Lupin the IIIrd, nella fattispecie da quando era uscita quella meraviglia di La donna chiamata Fujiko Mine, di cui Koike era character designer e capo animatore. Il suo design "selvatico", che richiamava tantissimo lo stile pop di Monkey Punch, unito alle tematiche molto adulte e ad una punta di psichedelia, era la forza della serie e molte delle caratteristiche che l'avevano resa una boccata d'aria fresca all'interno di un franchise (ammettiamolo) ormai un po' stantio erano state trasposte in quell'altro capolavoro de La lapide di Jigen Daisuke. Mai avrei pensato, nel 2014, anno di uscita del mini-film dedicato a Jigen, che Koike ne avrebbe in seguito realizzati altri tre, ognuno avente per protagonista un diverso personaggio della saga, e che tutto ciò sarebbe culminato nella prima uscita cinematografica a tema Lupin dopo Lupin e le profezie di Nostradamus, ormai del 1995. E mai avrei pensato, detto in tutta sincerità, che la qualità dell'ambizioso progetto sarebbe andata via via scemando, sotto tantissimi aspetti, e mi sarei ritrovata alla fine de La stirpe immortale con un po' di amaro in bocca e la sensazione che persino Koike, col tempo, sia stato "addomesticato", vuoi per limiti di budget, di tempo o che so io. C'è da dire che La stirpe immortale non è un'opera compiuta, o meglio, offre delle risposte a tutti gli indizi che erano stati seminati nelle opere precedenti, ricollegandosi persino a La pietra della saggezza, del 1978, ma apre a tantissime domande, non ultima la fondamentale "chi o cosa cavolo è Lupin?". Un concetto astratto di "ladro", un'idea filosofica che può assumere mille incarnazioni e mille identità, come si ventilava nell'ardito Lupin III: Verde contro rosso e come aveva accennato, sia pur timidamente, la quinta stagione della serie regolare? Non lo sapremo mai, mentre forse prima o poi scopriremo se ci sarà un confronto diretto con il Mamo originale (a quanto pare, quello morto ne La pietra della saggezza era solo un clone, oppure è esattamente il contrario), visto che stavolta lo sceneggiatore Yuya Takahashi si limita a ciurlare nel manico come già ai tempi dell'orrenda Avventura italiana, sfidando i limiti psicofisici di Lupin e compagni mettendoli contro a un essere immortale, Moum, con velleità di ripulire il mondo dai "rifiuti", loro compresi. 


Al solito, Takahashi introduce concetti interessanti, come avversari quasi sovrannaturali che spingono i personaggi sull'orlo della disperazione e generano mondi surreali, perfetti per la regia di Takeshi Koike, ma poi si perde. Tra dialoghi "elevati" che puzzano di aria fritta lontano un chilometro, e scontri ripetitivi con un personaggio imbattibile, in sostanza il film risulta un brodo allungato a dismisura con pochissimi elementi degni di nota, che forse avrebbero potuto venire sviluppati un po' meglio (carina la bimbetta inquietante ma risulta una mera pennellata di colore, interessante l'idea di una tribù di assassini "scartati", dal tempo limitato, anche se il veleno non agisce sempre in 24 ore, o come farebbero gli ex avversari di Jigen e Goemon ad essere lì sull'isola?, bellissimi la biblioteca sotterranea e il passaggio dorato che si apre ma, e quindi?, il personaggio dell'arciera che senso ha se me lo mostri in due scene e poi te ne dimentichi?), e si appoggia a un "non lo famo ma lo dimo" francamente irritante, soprattutto sul finale. Anche i rapporti tra i personaggi non sono gestiti meglio. Al di là del fortissimo legame di amicizia e rispetto vigente tra Jigen e Lupin, c'è poco altro, e anche quello scompare quando c'è da salvare la pellaccia, come dimostra la tremenda scena iniziale dell'aereo che precipita; lo stesso Zenigata, che nel prequel Zenigata e i due Lupin avrebbe ulteriormente cosparso di benzina il ladro gentiluomo nel caso di un incendio, qui si ammorbidisce al punto da diventare un alleato che si affida in toto alle parole di Lupin, senza mai metterle in dubbio. Fujiko e Goemon, poverini, rimangono a fare la carta da parati, soprattutto la prima, come se i due personaggi ormai non avessero più granché da dire, salvo mostrare le grazie nel primo caso e mostrare l'abilità con la katana nel secondo (ma ormai i bei tempi in cui Goemon tagliava qualsiasi cosa sono andati).


Purtroppo, assieme alla trama ambiziosa ma poco sostanziosa, c'è una cosa ancora peggiore, ovvero delle animazioni approssimative. Io non so se ricordo male la serie Una donna chiamata Fujiko Mine, se ormai sono arrivata a mitizzarla perché non la riguardo da qualche anno, ma salvo un paio di personaggi grotteschi a me pare che le animazioni e il character design fossero bellissimi. La stirpe immortale vanta un antagonista orrendo, con quelle mutande in mezzo alle chiappe che non si possono proprio guardare, e una sciatteria a livello di dettagli francamente imbarazzante. I volti dei personaggi sono molto basilari, le linee si sono ammorbidite avvicinandosi di più al design delle serie televisive recenti, persino i tratti sbozzati di Zenigata non hanno più la profondità delle opere precedenti di Koike e, spesso, le proporzioni dei personaggi travalicano il buon senso anatomico, sia presi da soli sia rapportati a mezzi o edifici. Qualcosina di interessante ancora c'è, come per esempio i colori allucinati dell'isola di Moum, tutte le animazioni che riguardano i disastri naturali legati alla rabbia del villain, oppure ciò che si nasconde nelle acque dell'isola e nel santuario di Moum, ma non c'è nulla di particolarmente memorabile o impressionante, che mi faccia dire ne sia valsa la pena di approfittare di un giro a Torino per vedere La stirpe immortale in sala. Ci sono solo due cose davvero positive del film, almeno per quanto mi riguarda. La prima è che Jigen è vestito in maniera davvero stilosa ed è spesso senza cappello, anche se avrei preferito la pettinatura de La lapide, ché quel ciuffo alla Elvis è un po' inguardabile; la seconda, è stato poter vedere il film in v.o., perché dopo decenni passati a liberarmi il cervello dal doppiaggio italiano, ci mancava solo di sorbirmi i nuovi doppiatori, con tutto il rispetto. Peccato, davvero, che un film atteso da anni si sia rivelato ben poca cosa! Koike, redimiti, fammi questo favore!


Del regista Takeshi Koike ho già parlato QUI.


Lupin the IIIrd - The Movie - La stirpe immortale
segue direttamente il suo prequel "ufficiale", Lupin the IIIrd - Zenigata e i due Lupin, ed è il compimento di un percorso che comprende Lupin the IIIrd - La lapide di Jigen Daisuke, Lupin the IIIrd - Ishikawa Goemon getto di sangue e Lupin the IIIrd - La bugia di Fujiko Mine; per capire proprio tutto, però, vi consiglio anche il recupero di Lupin III - La pietra della saggezza. ENJOY!

venerdì 12 dicembre 2025

2025 Horror Challenge: Slugs - Vortice d'orrore (1988)

Per la challenge horror settimanale bisognava scegliere un horror dalla lista di un altro partecipante, in base a quanto ci colpisse la locandina. Ecco perché oggi mi ritrovo a parlare di Slugs - Vortice d'orrore (Slugs, muerte viscosa), diretto nel 1988 dal regista Juan Piquer Simón e tratto dal romanzo Slugs di Shaun Hutson.


Trama: una cittadina americana viene invasa da lumache mutanti carnivore. Il primo ad accorgersene e ad agire, pur avendo tutte le autorità contro, è un ispettore sanitario...


Slugs
è una co-produzione tra Spagna e America, che vede coinvolta anche Francesca DeLaurentiis, figlia di Dino DeLaurentiis e dell'attrice Silvana Mangano, la quale compare brevemente all'interno della scena del ristorante italiano. E' una schifezzuola citata in parecchie trasmissioni e libri dedicati al cinema di serie Z, disconosciuta dallo stesso Shaun Hutson (il quale, col tempo, ha però imparato a volerle bene), zeppa di difetti e con qualche sporadico pregio. E' un'opera ascrivibile al genere eco-horror, o se volete animal horror, perché in fin dei conti è un misto tra i due: le lumache sono diventate carnivore e velenose per l'uomo, in quanto la cittadina protagonista del film ha nascosto le sue scorie radioattive "sotto il tappeto" e, pur sapendolo, le autorità hanno scelto di vendere terreni contaminati per realizzare un centro commerciale. Arrivati a più o meno a metà film, sapere il motivo per cui le lumache si sono trasformate in mostri carnivori non ha poi così importanza, perché la sceneggiatura e la messa in scena sono così soporifere che l'attesa tra un attacco e l'altro delle lumache diventa un'ordalia, ma tant'è. Slugs è composto per la maggior parte di questo "contorno", affidato a un protagonista che, pur impegnandosi tantissimo, non è particolarmente carismatico e si limita a girare come una trottola per la città, sperando di trovare, prima o poi, qualcuno che gli dia retta e pianifichi, assieme a lui, lo sterminio delle limacce ipertrofiche e zannute. Purtroppo per lui, come da miglior tradizione di questo genere di film, sceriffi, sindaci ecc. sono pessimi, corrotti o cretini, e i pochi comprimari intelligenti sono mosci da far paura. Vi dico solo che, all'interno di Slugs, il personaggio migliore è il cuoco del ristorante, il quale a un certo punto si profonde in una sequela di invettive ai danni dello sceriffo, pronunciate in italiano perfetto, culminanti in un "gli infilo un minchione su per il culo" che mi ha portata a dover mettere in pausa il film causa grasse risate incontrollabili. 


Il cuoco italiano, lo avrete capito, è il primo pregio del film. Il secondo, fortunatamente, ha fruttato a Slugs un meritatissimo premio Goya per i migliori effetti speciali. Nonostante la pochezza della messa in scena, che raggiunge i livelli di bruttezza e piattume di un telefilm anni '80, Slugs è un film parecchio efferato e la cinepresa non si sottrae dal mostrare i dettagli più scabrosi e sanguinolenti. Al di là del sembiante tenerino delle lumache, dotate di quattro dentini aguzzi, è il risultato dell'azione di queste zannine che conta, ovvero corpi scarnificati, volti sfigurati e sangue a secchiate, che aumenta esponenzialmente quando, assieme alle lumache, ci si mettono dei parassiti che divorano le loro vittime dall'interno. Ammetto che la scena del ristorante, cuoco a parte, mi ha smosso un paio di conati, ma l'aspetto del film che più mi ha messo a soqquadro lo stomaco è la terrificante colonna sonora: l'idea di fingere che le lumache strillino nei titoli di coda è talmente weird da risultare simpatica, un po' meno lo è accompagnare ogni spostamento in macchina dei personaggi con una musichetta allegra in perfetto stile Hazzard. Per quanto riguarda il cast, gli attori sono tutti abbastanza medi, non proprio dei cani ma di sicuro nemmeno memorabili, il che è una lunga definizione che calza a pennello un po' a tutto il film, che pure, se non ho capito male, è comunque riuscito a ritagliarsi un posticino all'interno della lista di horror cult anni '80. Chissà, se l'avessi visto all'epoca, forse la visione sarebbe stata filtrata dall'indulgenza dei ricordi d'infanzia, ma così ho rischiato di addormentarmi più volte, quindi non è una visione che consiglio. Ma, se siete curiosi di sentire inveire l'iracondo cuoco, e in tal caso non potrei biasimarvi, trovate Slugs su Tubi

Juan Piquer Simón è il regista del film. Spagnolo, ha diretto film come Monster Island e La cosa dagli abissi. Anche sceneggiatore, produttore e attore, è morto nel 2011.


Se Slugs vi fosse piaciuto recuperate Slither, Piranha e Ticks - Larve di sangue. ENJOY!

mercoledì 10 dicembre 2025

Vicious - I tre doni del male (2025)

Tra una cosa e l'altra, ho aspettato un po' per vederlo ma, finalmente, anch'io ho guardato Vicious - I tre doni del male (Vicious), diretto e sceneggiato dal regista Bryan Bertino.


Trama: il giorno prima di un importante colloquio di lavoro, Polly riceve la visita di una donna misteriosa che, dopo averle affidato una scatola, le predice un destino di morte imminente...


Vicious
è stato schifato, sputato e dileggiato dalla maggior parte di quelli che lo hanno visto, tanto che a un certo punto ho voluto guardarlo apposta per capire quanto Bertino si fosse rincoglionito, a cadere così in basso. Spoiler: come al solito, la gente esagera e Vicious è un horror dignitoso, né più né meno di tanti altri. Non è l'opera migliore di Bertino, ma scorre "tranquilla" e fa il suo dovere, che poi è quello di inquietare, più che di spaventare, come molti dei suoi colleghi recenti. Vicious, infatti, è uno di quei film che usa l'orrore per veicolare un disagio comune, al quale spesso persino quelli che lo provano non riescono a dare un nome. E' la depressione di una persona comune, che magari non ha radici precise, però è lì, ad impedire una vita "normale", a costruire muri di rinunce che si traducono in un mero sopravvivere, o in un'inconsapevole attesa della morte, a zittire finalmente le insistenti domande di familiari, amici e conoscenti che non riescono a capire i motivi di una malattia così insidiosa. La protagonista di Vicious, Polly, è proprio in questa condizione. Non ha un lavoro, non ha prospettive, la famiglia la maneggia coi guanti perché "strana", e alla vigilia di un importante colloquio che dovrebbe portarla a riprendere le redini di una vita "normale", il destino le bussa alla porta in forma di vecchietta confusa. Impietosita, Polly la fa entrare, e la vecchia le lascia una scatola, dopo averle detto: "Tu stanotte morirai". Il segreto per non morire è mettere nella scatola tre cose: una cosa che odi, una cosa di cui hai bisogno, una cosa che ami. Per Polly comincia un'infinita ordalia, che probabilmente è ciò che ha fatto storcere il naso a più, perché Vicious non è un film sottile, ma la chiara metafora di un percorso che dovrebbe portare la protagonista a rendersi conto del valore di ciò che ha, e lottare per non perdere la vita nel modo peggiore. Nulla di nuovo sotto il sole, ma di Bertino a me piace il pessimismo, e qui ce n'è a palate, tanto che il finale sottolinea la natura infida della depressione, sempre prona ad una ricaduta, e anche la sua casualità, perché anche un'esistenza apparentemente perfetta può celare minuscole crepe in cui la malattia riesce ad intrufolarsi.


Il modo in cui è realizzato Vicious sottolinea anche la natura solitaria della malattia. Il film è ambientato in una casa enorme ma male illuminata, piena di anfratti bui, e quando Polly mette piede all'esterno, ciò che la accoglie è la desolazione di un quartiere innevato dove gli abitanti sono quasi tutti andati via per le feste di Natale, che per inciso è il periodo dell'anno in cui la depressione picchia ancora più forte. Attraverso la regia e la fotografia plumbea, Bertino crea un universo senza via d'uscita, all'interno del quale il terrore distorce ancor più le percezioni della protagonista, che si ritrova bloccata in un incubo di sensi di colpa e traumi, ovviamente materializzati in orrori tangibili. Alcune sequenze di Vicious, soprattutto quelle più fisiche, sono insostenibili e ammetto di aver distolto un paio di volte lo sguardo dallo schermo; viceversa, i jump scare sovrannaturali sono l'aspetto un po' più debole del film, anche a causa della solita CGI orribile, ma per fortuna poco utilizzata. La vera forza di Vicious, però, è l'interpretazione di Dakota Fanning. Ho scorso alcune recensioni che si pregiano di sottolineare come l'attrice sia monoespressiva, e mi viene un po' da dire grazie al cazzo, visto che la depressione prosciuga l'afflato vitale e ottunde le sensazioni di chi ne è vittima. Personalmente, a me è parso invece che la Fanning reggesse da sola l'intero film, coinvolgendo lo spettatore nel dramma di una persona di cui, obiettivamente, viene detto poco, e con la quale, inizialmente, risulta difficile empatizzare; nello sguardo e nei gesti della protagonista si leggono però fin da subito una confusione e una disperazione molto verosimili, che proseguendo col film si arricchiscono di sfumature dolorosamente umane, e più volte mi sono ritrovata col fiato mozzo, a pensare cosa metterei io nella scatola se mi capitasse una vecchietta alla porta, con una scatola misteriosa in mano. Mi spiace per le vecchiette bisognose, ma dopo Vicious in casa mia non entreranno più nemmeno le persone a me più vicine, perché potrebbero essere la fregatura di qualche demone stronzo. Se anche voi cercate una scusa per starvene un po' in pace nella solitudine di casa vostra, quindi, recuperate Vicious senza indugio e senza dare retta alla recensioni impietose.


Del regista e sceneggiatore Bryan Bertino ho già parlato QUI. Dakota Fanning, che interpreta Polly, la trovate QUA e QUI trovate Michael Abbott Jr., che presta la voce al padre di Polly.

Kathryn Hunter interpreta la donna. Americana, ha partecipato a film come Orlando, Harry Potter e l'Ordine della Fenice, Il racconto dei racconti, Macbeth, Povere creature! e a serie quali Grotesquerie. Anche produttrice, ha 68 anni e un film in uscita.



martedì 9 dicembre 2025

Zootropolis 2 (2025)

Mercoledì scorso sono andata a vedere Zootropolis 2 (Zootopia 2), co-diretto dai registi Byron Howard e Jared Bush, anche sceneggiatore.


Trama: dopo aver risolto il caso dei predatori impazziti ed essere entrati entrambi in polizia, la coniglietta Judy e la volpe Nick rischiano di venire separati. Cercano così un nuovo caso per dimostrare il loro valore...


Nove anni sono passati dal primo Zootropolis, che ci aveva conquistati non solo grazie alla storia della strana amicizia tra la coniglietta Judy e la volpe Nick, ma anche per l'idea di un luogo dove animali di ogni specie potessero vivere in armonia, uniti benché separati da zone climatiche ben precise ma tranquillamente attraversabili da chiunque. In realtà, non è propriamente vero che Zootropolis avesse mostrato ogni specie animale. Mancavano sicuramente i rettili, per esempio, e il nuovo capitolo di quella che promette di diventare una saga composta da almeno tre film risponde alla domanda che forse qualcuno si era fatto, raccontando perché a Zootropolis si vedessero solo mammiferi. Zootropolis 2 racconta anche il periodo successivo all'apparente coronamento dei sogni di Judy e Nick. Avevamo lasciato i due protagonisti nel momento di maggior trionfo, ma non è tutto oro quello che luccica. Nonostante sia riuscita a farsi un nome all'interno del dipartimento di polizia, Judy è sempre alla ricerca di qualcosa che dimostri il suo valore agli occhi di colleghi tosti e rudi che continuano a sottovalutarla, mentre pare che a Nick non freghi nulla di nulla e si limiti a farsi trascinare svogliatamente dall'esagitata coniglietta. La coppia vincente del primo film si scopre assai male assortita, e il comandante Bogo minaccia di "scoppiarla"; l'anniversario della fondazione di Zootropolis, con conseguente esposizione di un antico libro contenente i progetti dei macchinari per mantenere le diverse zone climatiche, è la scusa, per Judy e Nick, per scoprire chi abbia intenzione di rubarlo e dimostrare nuovamente il loro valore. Il progetto, sulla carta semplice, andrà malissimo e il sodalizio di ferro verrà messo duramente alla prova, in primis dal carattere dei due protagonisti e dalla loro incapacità di essere sinceri l'uno con l'altro. Come già succedeva in Zootropolis, anche nel secondo capitolo si sfruttano i topoi del buddy cop movie per affrontare temi più profondi, in primis il razzismo e l'incapacità di andare oltre i preconcetti radicati; qui, inoltre, si cerca di mandare un messaggio positivo agli spettatori, sottolineando l'importanza dell'impegno e della perseveranza nel realizzare i propri obiettivi ma, anche, del "lasciare andare", se necessario, valutando di volta in volta ciò che è davvero importante. Zootropolis 2 è, infatti, una celebrazione dell'amicizia e della famiglia in senso lato; quella in cui nasciamo è importante, ma non tanto quella che ci creiamo con chi è in grado di farci stare bene e ci sprona, con la sua sola presenza, ad essere delle persone migliori. E' vero che il web impietoso è pieno di fanfiction che coronano una storia d'amore fittizia tra Judy e Nick (ammetto che animali antropomorfi così carismatici farebbero capitolare anche chi rabbrividisce all'idea del furry) ma la bellezza del rapporto tra i due protagonisti è proprio l'incanalare la tensione romantica in un'amicizia sempre più grande e profonda, che sul finale smuove lacrime di commozione.


Se Zootropolis 2 è un seguito con tanto cuore, gli animatori non si sono dimenticati di appagare anche l'occhio. Visto sul grande schermo il film è uno spettacolo dettagliatissimo, zeppo di animali talmente ben realizzati e caratterizzati che persino quelli sullo sfondo catturano l'attenzione, tra piccole gag riuscite e miriadi di citazioni. La più bella, quella che mi ha portata ad urlare in sala, è l'omaggio inquadratura per inquadratura ad una delle sequenze più iconiche di Shining, però qui parliamo di qualcosa di macroscopico (non che l'omaggio al "silenzio degli agnelli" sia meno geniale, ma è più breve e sottile). Dietro a Zootropolis 2 c'è un lavoro enorme soprattutto per quanto riguarda gli sfondi, le luci e i colori, le minuzie che rendono viva sia la città titolare che gli ambienti che la circondano, realizzati in modo da essere realistici e "cartooneschi" in egual misura, con un gusto estetico che esplode nel momento in cui si scopre un intero quartiere perduto in cui andrei a vivere anche domani. Molto bello anche il character design dei nuovi personaggi. Le linci sono perfette e il goffo Pawbert mi ha ricordato, nei suoi momenti migliori, la tenerezza del PJ di Ecco Pippo!; il serpente Gary, che lì per lì sembrerebbe il personaggio più ordinario, buca lo schermo nei momenti in cui ai toni freddi viene sostituito il scintillante calore del fuoco e, in generale, i rettili e tutti gli abitanti del quartiere paludoso regalano delle gioie, con un picco supremo raggiunto da un branco di trichechi che farebbero un figurone appaiati ai gabbiani de Alla ricerca di Nemo. Alla colonna sonora ritroviamo Michael Giacchino, che riprende un paio di melodie dal capitolo precedente e poi si sbizzarrisce creando suoni nuovi che accompagnano alla perfezione il ritmo e le situazioni del film. Torna anche la scatenata Shakira, con quella Zoo davanti alla quale non sono riuscita a rimanere ferma in poltrona, ad aprire e chiudere Zootropolis 2 nel migliore dei modi. Zootropolis 2 è uno di quei rari casi in cui un sequel è bello quanto il film che lo ha preceduto e, soprattutto, non ne ripropone pedissequamente le situazioni. Certo, il film è pieno di omaggi a Zootropolis, tornano personaggi amatissimi e anche un paio di gag, ma tutto sommato non c'è quel senso di dejà vu e noia che è poi il rischio di questo genere di operazioni e, per quanto mi riguarda, qualora dovesse uscire un terzo capitolo mi fionderò al cinema senza pensarci due volte, sperando che la qualità della saga continui a rimanere così alta!


Dei due registi Jared Bush (anche sceneggiatore) e Byron Howard ho già parlato QUI QUAGinnifer Goodwin (voce originale di Judy Hopps), Jason Bateman (Nick Wilde), Ke Huy Quan (Gary De'Snake), Andy Samberg (Pawbert Lynxley), David Strathairn (Milton Lynxley), Idris Elba (Comandante Bogo), Patrick Warburton (Sindaco Winddancer), Danny Trejo (Jesús), Bonnie Hunt (Bonnie Hopps), Jean Reno (Bûcheron/Chèvre), Alan Tudyk (Duke Weaselton/Chef francese/Molt Kahl/Reporter), Macaulay Culkin (Cattrick Lynxley), John Leguizamo (Antony Snootley), Jenny Slate (Bellwether), Tommy Chong (Yax), Michael J. Fox (Michael J. The Fox), Josh Gad (Paul Moledebrandt) e Dwayne Johnson (Zeke, il dik-dik incastrato nella tuba) li trovate invece ai rispettivi link.


Il marito di Ginnifer Goodwin, l'attore Josh Dallas, continua a prestare la voce al "maiale agitato", la bellissima Michelle Gomez, che interpretava Mary Wardwell ne Le terrificanti avventure di Sabrina, è la voce originale del Capitano Hoggbottom, Brenda Song doppia Kitty Lynxley e l'attrice Tig Notaro interpreta Big Tig, uno degli animali nel carcere; Ed Sheeran, che ha scritto la canzone Zoo, cantata da Shakira/Gazelle sul finale, è invece il doppiatore di una delle pecore dal barbiere. Il film è il seguito di Zootropolis, che vi conviene guardare prima di gettarvi su questo! ENJOY!

venerdì 5 dicembre 2025

2025 Horror Challenge: The Other Lamb (2019)

Il tema della challenge horror questa settimana era "horror a tema setta". Ho così scelto The Other Lamb, diretto nel 2019 dalla regista Malgorzata Szumowska.


Trama: la giovane Selah fa parte di una setta di sole donne, votata al culto di un unico uomo, il Pastore. Quando, assieme alle consorelle e al Pastore, Selah è costretta a spostarsi verso una nuova dimora, la sua fede comincia ad andare in crisi...


The Other Lamb
non è un horror nel senso stretto del termine, ma racconta, spesso attraverso immagini oniriche, l'orrore dei cambiamenti della pubertà, all'interno di un ambiente psicologicamente insalubre. L'opera è un coming of age, ambientato in una setta, che comincia "in medias res", senza dare modo allo spettatore di capire come e quando la setta si è formata e cosa abbia spinto il fantomatico Pastore a radunare attorno a sé un gregge di donne che, a suo dire, avevano bisogno di essere protette dal mondo esterno. Tutto ciò che conosciamo è la gerarchia che governa il gregge, all'interno del quale le donne sono divise in figlie e mogli; una differenza di status all'interno della quale si annida la falla principale di una "religione" che predica un'amorevole sorellanza sotto l'occhio attento del Pastore, e che in realtà alimenta una rivalità sottesa e un risentimento reciproco, atto ad indebolire le donne impedendo loro di aprire gli occhi alla squallida realtà. L'apice del percorso religioso delle adepte, infatti, è ricevere la "grazia" del Pastore, ovvero essere scelte per avere rapporti con lui, con conseguente gelosia (reciproca ma anche rivolta verso le madri) delle figlie abbastanza grandi da avere le prime pulsioni sessuali, come Selah, ed invidia delle madri che, col tempo, vedono sfiorire la propria bellezza e scemare l'interesse del Pastore verso di loro. La fede di Selah, assieme alla sua attrazione fisica verso il Pastore, subiscono uno scossone nel momento in cui, raggiunta la maturità sessuale, la ragazza ha le sue prime mestruazioni, un passaggio traumatico per due motivi: l'arrivo del ciclo la priva della condizione di bambina, proiettandola verso la possibilità di concretizzare le sue aspirazioni e diventare moglie, ma le mestruazioni sono anche considerate una cosa impura, e le donne che le hanno vengono separate dalle altre finché non finiscono. Vittima di questi scossoni fisici e mentali, Selah viene a conoscenza del suo passato e di quello di sua madre grazie alla vicinanza con una donna considerata "rotta", e per questo tenuta costantemente separata dalle altre. Per lo stesso motivo, Selah comincia a vedere oltre l'aura "salvifica" del Pastore e a riflettere su tutte le contraddizioni incarnate dalla sua religione, a immaginare altre possibilità, per se stessa e le sue consorelle.


Come ho scritto all'inizio del post, The Other Lamb non è un horror, ma un thriller psicologico giocato interamente sui silenzi, i gesti e gli sguardi dei personaggi, sulla comunione tra pochi esseri umani e una natura che si fa sia ventre protettivo sia spietata matrigna, soprattutto quando la guida del gregge viene affidata ad un mostro egocentrico. L'elegantissima regia di Malgorzata Szumowska spalanca le porte di un mondo con un piede appena fuori dallo scorrere del tempo, tanto che i pochi elementi moderni presenti all'interno delle sequenze (il caravan, la Barbie, più avanti le automobili) aumentano l'effetto straniante dato dalla presenza di questo culto creatosi attorno a un singolo uomo che si crede Cristo in terra. L'elemento umano, così come un'idea delle regole che governano la setta, si esprimono prevalentemente attraverso i colori vividi degli abiti delle sorelle, che spiccano nei colori plumbei della fotografia di Michał Englert; il rosso con tocchi di porpora delle vesti delle mogli, l'azzurro e il verde di quelli delle figlie attirano l'occhio dello spettatore verso i travagli emotivi di queste donne di cui non sappiamo nulla, tranne che sono state plagiate, catturate all'interno della tela di un ragno nero e gonfio di veleno (quest'immagine mi è venuta in mente perché il bosco dove dimora la setta è pieno di intricate strutture fatte di fili di diversi colori, prevalentemente bianchi, alle quali non viene data alcuna spiegazione, ma dubito siano messe lì sono perché sono coreografiche e bellissime). Il vero cuore del film è però l'interpretazione della bravissima Raffey Cassidy, all'epoca ancora minorenne, il cui sguardo trasmette una rabbiosa fame di vita e libertà, un carisma tale da eclissare tutte le sue compagne e da riuscire a convogliare, in maniera assai credibile e disturbante, l'osceno desiderio di un Pastore (magistralmente interpretato da Michiel Huisman) che parla di figlie e madri, ma è smosso solo da un insaziabile, vomitevole istinto sessuale. The Other Lamb è un film affascinante, che tuttavia ha un ritmo molto lento e, nonostante la presenza di sequenze da incubo che coinvolgono cadaveri e sangue, potrebbe non incontrare il gusto di chi vorrebbe qualcosa di meno rarefatto. A me però è piaciuto molto, quindi lo consiglio. 


Di Raffey Cassidy, che interpreta Selah, ho già parlato QUI mentre Michiel Huisman, che interpreta il pastore, lo trovate QUA.

Malgorzata Szumowska è la regista del film. Polacca, ha diretto film come Elles, In the Name of, Body, Non cadrà più la neve e Questa sono io. Anche sceneggiatrice e produttrice, ha 52 anni e un film in uscita. 


Se The Other Lamb vi fosse piaciuto recuperate The Endless e The Invitation. ENJOY!

mercoledì 3 dicembre 2025

Black Phone 2 (2025)

C'è voluto un po', ma alla fine sono riuscita a vedere anche Black Phone 2, diretto e co-sceneggiato dal regista Scott Derrickson.


Trama: dopo qualche anno dalla morte del Rapace, Gwen comincia ad avere strane visioni legate al serial killer. Assieme al fratello Finn e a un compagno di classe, la ragazza va ad indagare in un campeggio cristiano dove un tempo lavorava la loro defunta madre...


Black Phone,
uscito nel 2021 e tratto da un racconto di Joe Hill, era un horror gradevolissimo che aveva visto il ritorno di Scott Derrickson al genere a lui più congeniale, ovvero l'horror sovrannaturale con bambini e visioni/video inquietanti. Non mi aspettavo che il Rapace sarebbe tornato sul grande schermo, invece, quattro anni dopo, è successo. Il film, che ormai non si appoggia più a un'opera cartacea, segue una sceneggiatura scritta sempre da Scott Derrickson e C. Robert Cargill e riprende le vicende di Finn e Gwen qualche anno dopo la morte del Rapace. Finn è diventato un ragazzotto che picchia chi non gli va a genio e si fa le canne, traumatizzato dall'incontro col serial killer, mentre Gwen è cresciuta ma non ha perso il potere di avere sogni premonitori, anzi. A poco a poco, le sue visioni vanno fuori controllo e iniziano a collegarsi pericolosamente alla figura del Rapace, il quale torna ad ossessionare anche Finn. Per capire cosa stia succedendo, i due, assieme al fratello di uno dei ragazzini morti nel film precedente, vanno in mezzo alle montagne, in un campeggio cristiano frequentato, in passato, proprio dalla madre di Gwen e Finn, e dove il Rapace pare avere mosso i primi passi. Black Phone 2, rispetto al primo film, calca molto più la mano sull'aspetto sovrannaturale della vicenda, trasformando un serial killer umano e orribilmente plausibile in un mostro uscito dritto da un inferno di ghiaccio, e ambientando buona parte del film all'interno dei sogni di Gwen. Anzi, a dirla tutta, come avrete sicuramente letto da più parti, Black Phone 2 è praticamente un remake di Nightmare, soprattutto de I guerrieri del sogno, in quanto i rinnovati poteri del Rapace rendono i sogni di Gwen pericolosamente mortali e per batterlo i protagonisti devono imparare a sfruttare la logica del mondo onirico contro di lui. La cosa diventa un po' farraginosa a un certo punto, perché Gwen è priva del potere di trascinare gli altri nei suoi sogni, il Rapace trae forza dai ragazzini morti, e le due cose vengono omesse e/o dimenticate sul finale, ma viste quante brutture ci siamo dovuti sorbire con la saga dedicata a Freddy Krueger, direi che sono questioni sulle quali si può serenamente sorvolare.


Anche perché, a differenza dei sequel di Nightmare, i due protagonisti principali di Black Phone continuano ad essere ben delineati, e il loro saldo legame continua ad essere il cuore dell'intera vicenda. Finn è un ragazzo spezzato, che è rimasto bloccato all'interno del sotterraneo in cui lo ha rinchiuso il Rapace e, nonostante sia stato lui stesso ad ucciderlo, ciò non gli ha permesso di superare il terrore derivante dall'esperienza. Gwen, dal canto suo, vede scivolare via un fratello che comincia ad avviarsi verso lo stesso percorso di violenze e dipendenze del padre, ed è terrorizzata all'idea di fare la medesima fine della madre, suicidatasi per via delle sue visioni. Il disperato tentativo dei due ragazzi di mantenere il nucleo della forza della loro unione è toccante, anche grazie alle belle interpretazioni dei due giovani protagonisti, e coinvolge nonostante comprimari non proprio all'altezza, come per esempio il "love interest" di Gwen, ma anche lo stesso padre, impegnato in una difficile riabilitazione. A livello stilistico, Black Phone 2 mi è piaciuto molto, in primis perché trovo sempre assai suggestive le ambientazioni nevose e l'idea che l'inferno sia un posto zeppo di ghiaccio, più che di fiamme. Inoltre, come spesso accade all'interno delle opere più riuscite e famose di Derrickson, l'incubo ha i contorni di un vecchio Super-8 casalingo. Poiché i sogni di Gwen diventano preponderanti, buona parte del film è stata girata su pellicola 8mm, usando una telecamera Super-8, cosa che ovviamente richiama i terrificanti snuff di Sinister e contribuisce così ad aumentare l'ansia, oltre a differenziare chiaramente il mondo del sogno da quello reale (non c'è mai incertezza tra i due piani, diversamente da ciò che accade spesso negli horror), come se non bastasse la presenza dell'efficacissima maschera del Rapace a mettere paura. A tal proposito, per quanto mi riguarda, trovo più terrificante l'idea del Rapace "vero", ma anche l'insidiosa onnipotenza del suo spirito mette abbastanza i brividi, soprattutto perché Derrickson mostra più di quanto facesse nel primo film, nel quale la folle ipocrisia del mostro lo portava ad essere più trattenuto. Qui, il Rapace è scatenato ed assetato di vendetta, e la sua maschera non cela più un'apparenza di finta umanità, con tutte le conseguenze del caso, che potrebbero far storcere il naso agli spettatori più sensibili. Per gli amanti del genere, invece, il mio consiglio è quello di non dar retta alle tante recensioni negative che sono piombate addosso a Black Phone 2. Non è di sicuro l'horror più bello dell'anno, ma è un prodotto dignitosissimo con tante belle idee e omaggi gustosi, quindi merita almeno una visione. 


Del regista e co-sceneggiatore Scott Derrickson ho già parlato QUI. Ethan Hawke (il Rapace), Madeleine McGraw (Gwen), Demián Bichir (Mando) e Jeremy Davies (Terrence) li trovate invece ai rispettivi link. 

Mason Thames interpreta Finn. Americano, ha partecipato a film come Black Phone e Dragon Trainer. Ha 18 anni e un film in uscita.  


Miguel Mora
, che interpreta Ernesto, era già comparso in Black Phone nel ruolo di suo fratello, Robin. Ovviamente, se Black Phone 2 vi fosse piaciuto, recuperate il primo capitolo e aggiungete Sinister, Sinister 2 e la saga di Nightmare. ENJOY!

martedì 2 dicembre 2025

Wicked: For Good (2025)

Per dovere di completezza, la settimana scorsa sono andata a vedere Wicked: For Good, diretto dal regista John M. Chu e tratto dal musical Wicked, a sua volta ispirato dal romanzo Wicked: The Life and Times of the Wicked Witch of the West di Gregory Maguire.


Trama: elevata al rango di nemico pubblico di Oz, Elphaba cerca di usare i suoi poteri e l'orribilario rubato al Mago per migliorare la condizione degli animali, mentre Glinda è diventata il volto buono del reame...


Siccome in mezzo ci si è messo il recupero della prima parte di Stranger Things, è passata una settimana prima che riuscissi a buttare giù due righe su Wicked: For Good e giuro che ho fatto fatica persino a pensare a cosa dire nel breve accenno di trama iniziale. Se dovessi usare una metafora per definire Wicked: For Good, "aria fritta" sarebbe la migliore. Non conosco il musical ma, documentandomi qui e là, ho scoperto che il film ne coprirebbe gli ultimi 50 minuti, a detta dei fan già non molto interessanti in partenza; il fatto che la sceneggiatura li allunghi fin quasi ad arrivare a due ore e mezza, aggiungendo due canzoni non particolarmente memorabili, ovvero No Place Like Home (cantata da Elphaba come rimando a Il mago di Oz, mentre cerca di spronare gli animali a non abbandonare il regno che dovrebbero considerare casa propria) e The Girl in the Bubble ("monologo" cantato in cui Glinda si rende conto, finalmente, di quanti danni abbia fatto la sua smania di apparire), è un'ottima misura della pesantezza del film. Ancor peggio, nonostante il metraggio sia stato allungato a dismisura, i pochi snodi fondamentali della trama vengono sbrigati in quattro e quattr'otto, mentre il legame di amore/odio, amicizia e reciproco arricchimento di Elphaba e Glinda è sviscerato in mille modi, in particolare per quel che riguarda la lenta maturazione della Fata Buona, che diventa il fulcro dell'intero film. Non è che Elphaba venga messa da parte, però la sua decisione finale salta tutta una serie di passaggi che, a mio avviso, avrebbero dovuto concretizzarsi in azioni più feroci ed estreme dopo la canzone No Good Deeds, invece la poveraccia si accontenta di imprigionare Dorothy reclamando (inutilmente) le scarpette d'argento della sorella. A tal proposito, l'apice della serie di risate involontarie che mi sono fatta guardando il film (almeno il capitolo precedente mi aveva commossa!) è stata la repentina trasformazione di Nessarose in Annie Wilkes, l'autogaslighting che la spinge ad odiare la sorella quando la vera pazza è proprio lei, e il terrificante, deludente catfight tra Glinda ed Elphaba davanti al cadavere invisibile di Nessarose. Probabilmente, mostrare due gambe che uscivano da sotto le fondamenta della casa sarebbe stato ancora più grottesco, ma due sgallettate che si prendono a schiaffi non si possono proprio vedere. E mi taccio anche sulla ridicola scena d'amore tra Elphaba e Fiyero, con lei che canta al vento in body nero e golfino di lana mentre lui, lentamente, si leva le bretelle: quando Elphaba alla fine dice una cosa tipo "adesso mi sento davvero cattiva" (con un adattamento che, ovviamente, sorvola sul doppio significato di "wicked" in inglese, ma lasciamo perdere) ho riso sguaiatamente in sala.   


Questo continuo utilizzo di registri sbagliati, il cozzare della messinscena con ciò che la situazione contingente dovrebbe veicolare, era già un problema di Wicked, tuttavia il primo film riusciva ad azzeccare alcune sequenze, in primis quella del ballo che segna l'inizio della vera amicizia tra Elphaba e Glinda. Qui non c'è una sola scena memorabile (d'altronde, come scrivevo nella recensione di Wicked, John M. Chu è un cane arrabbiato maledetto) e, oltretutto, la saturazione dei colori e la post-produzione continuano ad essere un problema enorme, perché lo spettatore è sottoposto a tre alternative: o vedere tutto smarmellato da un alone lattiginoso, o perdere la vista davanti a colori carichissimi, oppure non vedere una mazza, tanto sono scure le immagini. Il risultato di questa pessima gestione delle luci e dei colori è che tutto ciò che di artigianale esiste all'interno del film, come i bellissimi costumi e qualche set, appare posticcio, di bassa qualità, leggermente superiore allo schifo che si vede in roba come Descendants, ma non è un complimento di cui andare fieri. Peccato, neanche a dirlo, per Cynthia Erivo e, soprattutto, per Ariana Grande, vero fulcro del film. Finalmente, i responsabili dell'edizione italiana hanno capito che doppiare le canzoni era un delitto perseguibile per legge, e hanno scelto di lasciarle in originale coi sottotitoli. In questo modo, anche il pubblico italiano ha potuto godere della bellissima voce delle due attrici e della loro interpretazione (nonostante sarebbe stato meglio far funzionare il cervello già in occasione del primo film, che aveva una colonna sonora molto più bella ed iconica), e capire quanto le due credano davvero nell'intero progetto. Peccato, ripeto, che il contorno sia sciapo e che tutto l'impegno profuso dalle due attrici non sia abbastanza per salvare Wicked: For Good dall'essere un'opera mediocre e con enormi problemi di ritmo. Qualora il musical arrivasse in Italia, ovviamente in versione originale, mi piacerebbe dargli una chance e capire di preciso cosa sia andato storto nella trasposizione da un medium all'altro, ma per il momento mi limito a tremare all'idea di quante nomination immeritate porterà a casa 'sta baracconata e giuro solennemente di non riguardarlo mai più.      


Del regista Jon M. Chu ho già parlato QUICynthia Erivo (Elphaba), Jeff Goldblum (Il fantastico Mago di Oz), Michelle Yeoh (Madame Morrible), Colman Domingo (voce originale del Leone Codardo) li trovate invece ai rispettivi link.

Ariana Grande interpreta Glinda. Americana, la ricordo per film come Zoolander 2, Don't Look Up, Wicked e serie quali Scream Queens; come doppiatrice ha lavorato ne I Griffin. Anche cantante, sceneggiatrice, produttrice e regista, ha 32 anni e un film in uscita, l'ennesimo seguito di Ti presento i miei, dal titolo Focker In-Law, e dovrebbe partecipare anche alla prossima stagione di American Horror Story


Il film, ovviamente, è il seguito di Wicked e oltre a consigliarvi di leggere l'omonimo libro da cui il musical è tratto, magari senza regalarlo alle vostre figlie/parenti minorenni che si troverebbero davanti qualcosa di ben diverso da questo trionfo di buoni sentimenti, vi invito a recuperare Il mago di Oz e Nel fantastico mondo di Oz. ENJOY!

venerdì 28 novembre 2025

2025 Horror Challenge: Frankenstein (2025)

Siccome la challenge di questa settimana chiedeva di scegliere un film liberamente, dopo più di un mese, sono riuscita anch'io a guardare Frankenstein, diretto e sceneggiato dal regista Guillermo del Toro a partire dall'omonimo romanzo di Mary Shelley.


Trama: Victor Frankenstein, scienziato ossessionato dall'idea di garantire l'immortalità agli umani, crea un essere vivente assemblando pezzi di vari cadaveri ma qualcosa va storto...


Del Frankenstein di del Toro hanno ormai parlato tutti, tra chi lo ha amato, chi lo ha odiato e chi conosce la poetica del regista a menadito e ha sicuramente da dire cose molto più interessanti di quelle che potrei scrivere io, quindi sarò molto terra terra. Comincio dicendo la più trita delle banalità, ovvero che Frankenstein è un film visivamente splendido, che avrebbe meritato una capillare diffusione in sala, e non un paio di proiezioni speciali e poi via!, su Netflix, sui televisori scrausi della gente poraccia come la sottoscritta, che non ha spazio per quei catafalchi che prendono mezzo muro e un impianto sonoro adeguato. Vista a casa, la bellezza delle immagini create dal regista è sprecata. Le sequenze di Frankenstein sono dei richiami costanti all'arte, sia pittorica che scultorea; in esse i personaggi vivono immersi all'interno di palazzi sontuosi e strabordanti quadri, le tavole anatomiche sono dei capolavori realizzati a matita, i cadaveri nascondono terrificanti imperfezioni, sistemati in eleganti pose plastiche, ogni edificio è dotato di una simmetria eccelsa, persino la casetta del povero cieco, e i paesaggi sembrano usciti da quadri del periodo romantico, per non parlare dei colori degli abiti femminili, con i rossi accesi, il verde che richiama il dorso iridescente dei maggiolini, e l'azzurro delle piume degli uccelli esotici. Come sempre, del Toro non lascia nulla al caso ed ipnotizza lo spettatore, aiutato da effetti speciali digitali atti ad enfatizzare un gusto per il gotico e il teatrale a cui il regista riuscirebbe a dare forma anche da solo, e realizza un film all'interno del quale convivono un orrore quasi triviale e un lirismo leggero, commovente, caratteristiche che si ripropongono nei personaggi, al di là di ogni preconcetto e convenzione. Anche in questo caso, infatti, del Toro ha ripreso il materiale originale di Mary Shelley e lo ha rivisitato assecondando la propria poetica, che ha sempre un occhio di riguardo nei confronti dei diversi e dei mostri. Così, la creatura interpretata da Jacob Elordi esterna in un sembiante "rattoppato" ma mai sgradevole la sua natura di creatura pura ed innocente, un neonato nel corpo di adulto costretto a subire le angherie di un uomo che non ha mai superato i traumi di un'infanzia priva di affetto e colma di orrore. 


Il carattere di Victor Frankenstein, già non molto gradevole nel romanzo, si estremizza all'interno del film concretizzandosi in un uomo egoista, superbo e cattivo, un immaturo spinto dal fuoco della scienza che, di fronte a un risultato (a suo parere) inferiore a quello sperato, si stufa, letteralmente, della creatura da lui messa al mondo. Nell'opera di Mary Shelley il protagonista inorridisce e quasi impazzisce di fronte all'abominio creato, fugge dalla propria responsabilità finché non è lo stesso mostro, disperato, a decidere di richiamare la sua attenzione nel peggiore dei modi. Qui, invece, Frankenstein inizialmente cerca di educare il mostro attraverso lo stesso crudele distacco del padre, ma rinuncia dopo pochissimo tempo, preferendo intessere una tela di inganni per sviare chi ha capito che la creatura, nonostante l'aspetto, è innocente da far pietà, in primis Elizabeth. Anche quest'ultima è ben diversa dal personaggio creato dalla Shelley, ed è fondamentale per aumentare l'empatia del pubblico nei confronti del "mostro", perché Elizabeth è l'unica che riesce, fin da subito, ad entrare in risonanza con l'animo puro di una creatura che non riuscirà mai ad integrarsi in una società che rifiuta la diversità e l'imperfezione, due caratteristiche che appartengono anche alla ragazza, dolorosamente consapevole di doversi piegare alle leggi del mondo fino a rinnegare se stessa. Una consapevolezza che, ovviamente, non si addice all'arroganza di Frankenstein il quale, combattendo contro le leggi umane e divine, diventa causa della sua stessa rovina. Infatti, tutte le tragedie che colpiscono Frankestein nel film avvengono o direttamente per mano sua, oppure sono una conseguenza immediata delle sue azioni scellerate, mentre la creatura agisce per disperazione o vendetta, ma senza quella vena di malizia crudele che, nel romanzo della Shelley, la spingeva a compiere atti ingiustificabili. Questo cambiamento è perfettamente coerente con la poetica del regista, e mantiene comunque quell'ambiguità che impedisce di connotare i personaggi come semplicemente buoni o cattivi, tanto che sul finale il confronto tra il padre, Victor, e il figlio da lui creato, risulta assai commovente. Non tanto quanto avrei sperato, in effetti, e lo stesso vale un po' per tutto Frankenstein, dal quale mi aspettavo di venire travolta come è successo con altre opere passate di del Toro. Di fatto, ho apprezzato tantissimo l'estetica e gli attori, ma alcune cose a livello di trama mi hanno lasciata freddina. Siccome, però, non vorrei che queste sensazioni derivassero dalle aspettative fomentate dall'entusiasmo della maggior parte degli spettatori, mi riservo di riguardare Frankenstein tra qualche anno, e di lasciarmi conquistare in toto dalla magia di del Toro


Del regista e sceneggiatore Guillermo del Toro ho già parlato QUI. Oscar Isaac (Victor Frankenstein), Jacob Elordi (la creatura), Christoph Waltz (Harlander), Mia Goth (Elizabeth/Claire Frankenstein), Charles Dance (Leopold Frankenstein), David Bradley (il cieco), Ralph Ineson (Professor Krempe) e Peter MacNeill (Professor Maurus) li trovate invece ai rispettivi link.


Felix Kammerer
, che interpreta William Frankenstein, era il protagonista di Niente di nuovo sul fronte occidentale. Andrew Garfield era stato scelto per il ruolo della creatura, ma ha dovuto rinunciare per via di altri lavori. Se Frankenstein vi è piaciuto, recuperate le fonti di ispirazione di del Toro, ovvero il Frankenstein del 1931, La moglie di Frankenstein e aggiungete anche La forma dell'acqua e Crimson Peak. ENJOY!

mercoledì 26 novembre 2025

Shelby Oaks (2024)

Nonostante la distribuzione imbarazzante, sono riuscita a vedere Shelby Oaks - Il covo del male (Shelby Oaks), diretto nel 2024 dal regista Chris Stuckmann.


Trama: i presentatori di un canale YouTube dedicato al paranormale vengono uccisi nella città fantasma di Shelby Oaks ma il cadavere di una di loro, Riley, non viene ritrovato. Dopo anni, sua sorella si imbatte in un indizio sconvolgente...


Di Shelby Oaks avevo sentito parlare per la prima volta dal mio insegnante di inglese, un ragazzo delizioso con cui facevo conversazione una volta a settimana fino a qualche mese fa (e che saluto, qualora passasse di qui!). Parlando di cinema e horror, un giorno mi ha detto che il critico di cui si fidava di più era Chris Stuckmann e che non vedeva l'ora che uscisse il suo primo lungometraggio, finanziato da una campagna Kickstarter dall'enorme successo. Questo lungometraggio era proprio Shelby Oaks, per questo ero molto curiosa di guardarlo e, come spesso accade, l'ho fatto a scatola chiusa, sapendo solo che si trattava di un found footage. In realtà, Shelby Oaks comincia come un found footage ma prosegue come horror dalla regia più classica. La vicenda narrata ha origine dalla morte dei presentatori del canale YouTube Paranormal Paranoids e da ciò che le loro telecamere hanno registrato prima che venissero uccisi. L'unica di cui non è stato rinvenuto il cadavere è la sensitiva del gruppo, Riley Brennan, che la sorella maggiore Mia non ha mai smesso di cercare per 17 anni. Dopo l'introduzione dei video in questione, e una serie di filmati televisivi o sul web che coprono "il caso" seguendo un pattern tristemente familiare di sensazionalismo, teorie complottiste e vuote vestigia di ricordi mitizzati, Shelby Oaks diventa un mockumentary, con tanto di interviste a Mia, agli spettatori di Paranormal Paranoids e all'ispettore che ha seguito la vicenda, ma anche questo stile dura poco. Infatti, accade qualcosa di scioccante che cambia completamente il registro del film, con tanto di stacco che anticipa i titoli di testa. Benché la presenza di Riley (e non solo) ne permei ogni sequenza, Shelby Oaks diventa, da quel momento in poi, la storia di Mia, una donna che ha smesso di vivere il giorno in cui la sorella è scomparsa, mettendo in pausa tutto ciò che non era "utile" alla sua ricerca, rapporto col marito compreso. E' una storia di testardaggine ossessiva, che in più occasioni fa dubitare della sanità mentale della protagonista, caratterizzata da una preoccupante mancanza non solo di spirito di autoconservazione, ma proprio di percezione di sé in quanto individuo, tanto la sua vita è legata a doppio filo al destino della sorella. E' anche una storia in cui, proprio per via di questa abnegazione totale verso Riley, Mia si ritrova preda di un'entità malevola senza neppure capirlo, almeno finché non è troppo tardi, ed è proprio questo che rende interessante Shelby Oaks, film che cambia spesso registro e "cliché" mantenendo sempre una coesione invidiabile e spiazzando lo spettatore con una bella serie di colpi di scena.


Proprio l'abilità di Chris Stuckmann di "nascondere" i fili che tengono unite le tante anime del film è ciò che impedisce Shelby Oaks di finire dritto nel cestone degli horror medi, o di risultare un semplice collage di cose già viste. Il rischio c'era, in effetti. La prima parte in particolare richiama tantissimi found footage e mockumentary famosi, non ultime opere recentissime come la saga di Hell House LLC.
Un altro aspetto positivo del film è che Chris Stuckmann, conoscendo molto bene il genere, è riuscito a mettere in pratica questa sua conoscenza creando sequenze che non si appoggiassero esclusivamente a prevedibili jump scare, quanto piuttosto alla tensione creata da spazi vuoti e bui o da dettagli quasi impercettibili (tante volte non ero sicura che ci fosse davvero ciò che mi sembrava di vedere), e giocata più sull'attesa che sul risultato finale. Considerato il budget microscopico, è interessante anche il modo in cui il regista è riuscito a ridurre gli effetti speciali all'osso, preferendo ricorrere a punti di luce, qualche immagine riflessa e alle percezioni incerte derivanti dall'uso della telecamera a mano per dare forma all'orrore di un incubo nell'accezione demoniaca del termine. Una scelta intelligente, perché i pochi effetti digitali sono abbastanza bruttini, e ciò fa ben sperare relativamente a cosa potrebbe fare in futuro Stuckmann con qualche soldo in più. Per il momento, direi che Shelby Oaks è un ottimo debutto, e l'unico vero difetto che gli imputo è la mancanza di coraggio nel perseguire una via che speravo fosse stata aperta una volta per tutte da Immaculate, nonostante sia una scelta di sceneggiatura coerente col passato e il carattere della protagonista. Vi consiglio quindi la visione di Shelby Oaks, magari al cinema, perché nella solitudine di casa il rischio è quello di non riuscire a chiudere occhio, soprattutto se dal letto riuscite a vedere una finestra e quello che potrebbe nascondersi dietro il vetro nel buio.


Di Camille Sullivan (Mia), Keith David (Morton Jacobson) e Derek Mears (Tarion) ho già parlato ai rispettivi link.

Chris Stuckmann è il regista e co-sceneggiatore della pellicola, al suo primo lungometraggio. Famoso principalmente come YouTuber e critico cinematografico, è anche produttore. Americano, ha 37 anni.


Se Shelby Oaks vi fosse piaciuto recuperate The Blair Witch Project, Hell House LLC e Lake Mungo. ENJOY!


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