venerdì 20 giugno 2025

2025 Horror Challenge: Valerie and Her Week of Wonders (1970)

Il tema della challenge, questa settimana, era un film degli anni '70. Ho scelto quindi Valerie and Her Week of Wonders (Valerie a týden divů), diretto e co-sceneggiato nel 1970 dal regista Jaromil Jires a partire dal romanzo omonimo di Vítězslav Nezval.


Trama: Valerie, che vive con la religiosissima nonna, viene minacciata dal "Conestabile", un uomo mascherato che punta ad ottenere i suoi orecchini di perle. In soccorso di Valerie arriva il giovane Orlik...


Leggete pure l'abbozzo di trama di Valerie and Her Week of Wonders, ma poi dimenticatela. E' arduo, infatti, spiegare di cosa parli il film di Jaromil Jires, il quale ha già avuto enormi difficoltà a portare su schermo la fiaba gotica e surreale di Vítězslav Nezval, ma posso provarci, almeno un po'. Valerie and Her Week of Wonders è un coming of age gotico e sottilmente erotico, che racconta le prime pulsioni adolescenziali, i primi passi verso la maturità sessuale, della tredicenne Valerie. Lo fa attraverso immagini fortemente oniriche, zeppe di simbologie legate alla natura (fiori, animali, uccelli e insetti la fanno da padrone), ai colori e alla religione, ed è talmente raffinato nella sua rappresentazione di un erotismo dolce, innocente e libero, che il titolo italiano Fantasie erotiche di una tredicenne è un vergognoso, fasullo richiamo per rattusi. I "poveri" pervertiti italiani dell'epoca, probabilmente, a guardare il film si saranno fatti due palle cubiche, oltre a non averci capito nulla; la tredicenne Valerie, infatti, mostra ben poco delle sue grazie, e sembra più una sorta di Alice nel Paese delle Meraviglie con un piede nella fanciullezza e uno nell'età adulta. La "settimana delle meraviglie" della ragazza, il cui inizio coincide con la sua prima mestruazione, consiste in un continuo tira e molla tra l'amore puro incarnato dal giovane Orlik, la libertà portata da una compagnia teatrale ambulante, e tutta una serie di cupe minacce alla sua castità e alla sua vita, che provengono da chi la vorrebbe sottomessa, in un modo o nell'altro. C'è il terrificante "Conestabile", un vampiro mutaforma che ambirebbe ad ottenere gli orecchini di Valerie, simbolo di salute e giovinezza (oltre che del "bocciolo" ancora intatto della ragazza); c'è il leppegosissimo prete missionario che tenta di violentare Valerie; c'è la nonna, che alla nipote invidia bellezza e giovinezza e per questo la consegna al "Conestabile" senza pensarci due volte. Valerie, nella sua inesperienza, è sia disgustata che attirata da tutta questa oscurità che la circonda, e affronta ogni situazione col coraggio incosciente di chi ha l'adolescenza dalla sua. Purtroppo, così non è per le altre donne del paese. Per ogni candida fanciulla che vive in comunione con la natura o per ogni ragazza che si abbandona al sesso senza vergogna, c'è almeno una giovane che va in sposa contro la sua volontà, privata di ogni slancio vitale, una signora matura abbandonata perché ormai vecchia e brutta, una donna costretta a vergognarsi di provare piacere. 

La trama di Valerie and Her Week of Wonders è più una raccolta di suggestioni che una storia vera e propria, soprattutto verso il finale, che vira ancor più verso l'onirico e il surreale, ed è un viaggio che ogni spettatore dovrebbe intraprendere lasciando che il film gli parli in base alle esperienze pregresse, alle conoscenze e all'umore. Spesso e volentieri, infatti, i pochi dialoghi riportano cose che vengono contraddette dopo poche sequenze e le atmosfere da feuilleton, contaminate da caratteristiche tipiche del romanzo gotico, si mescolano ad aspetti che richiamano i racconti popolari ed altre forme d'arte come la danza e l'arte. Per questo, il film di Jires è soprattutto una gioia per gli occhi. Realizzato con una fotografia "morbida", che lo rende anche visivamente un sogno ad occhi aperti, Valerie and Her Week of Wonders non ha una sola immagine che non sembri un quadro in movimento. Bisognerebbe guardare il film una volta e poi rivederlo andando avanti per fermi immagine, riempendosi il cuore di una bellezza, un gusto per la composizione dello spazio, per la disposizione dei colori, per le scenografie e i costumi, che hanno pochi eguali, almeno per quanto riguarda la mia esperienza cinematografica (pare, infatti, che In compagnia dei lupi di Neil Jordan sia un omaggio al film di Jires, ma l'ho visto da ragazzina e non ricordo nulla). Ogni sequenza, inoltre, ha fortissimi valori simbolici, che nascondono significati che vanno oltre il semplice proseguimento del racconto. Anche la colonna sonora del film, realizzata da Luboš Fišer, è incredibilmente originale. Rispettando le atmosfere della pellicola, la musica che l'accompagna si divide equamente tra melodie cupe, altre più solenni, quasi religiose, dolci nenie infantili e allegre fanfare popolari, il tutto mescolato senza soluzione di continuità, cosa che conferisce alla colonna sonora caratteristiche oniriche, che fluttuano tra l'inquietante e il meraviglioso. Di sicuro, per parlare di tutti gli elementi che compongono il film non basterebbe il mio breve post né la mia scarsa conoscenza del medium cinematografico, ma spero vi bastino queste mie poche, sconnesse parole entusiaste per convincervi a recuperare Valerie and Her Week of Wonders e a guardarlo, almeno una volta nella vita, perché è un'esperienza splendida, in grado di rinfocolare l'amore per il Cinema con la C maiuscola!

Jaromil Jires è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Nato nella ex Cecoslovacchia, ha diretto film come Lo scherzo, Il caso del coniglio e Eclissi parziale. E' morto nel 2001.



mercoledì 18 giugno 2025

The Woman in the Yard (2025)

In ritardo di qualche settimana, ho recuperato anche The Woman in the Yard, diretto dal regista Jaume Collet-Serra.


Trama: Ramona, piagata da difficoltà motorie causate dall'incidente d'auto in cui ha perso la vita suo marito, vive in una casa isolata assieme ai due figli. Un giorno, una misteriosa donna compare nel campo davanti all'edificio...


The Woman in The Yard
è l'ennesimo horror "medio" prodotto dalla Blumhouse, che ha trovato distribuzione cinematografica quando sarebbe stata un'aggiunta molto più dignitosa all'accozzaglia di spesso indegni film prodotti direttamente per Prime Video. Alla sua prima sceneggiatura per un lungometraggio, Sam Stefanak sceglie di giocare la carta dell'horror psicologico, andando ad indagare i recessi più oscuri dell'animo di Ramona, donna che, nonostante la presenza di due figli, non riesce a scrollarsi di dosso la depressione che l'ha inghiottita dopo la morte del marito in un incidente stradale. Ramona, da quell'incidente, ha riportato ferite gravi alla gamba, che le impediscono non solo di badare ai bambini, ma anche di muoversi agevolmente all'interno di una casa enorme e ancora da ristrutturare, zeppa di "barriere architettoniche"; detta casa, per inciso, è anche una fonte costante di debiti, e il film si apre con la probabile interruzione del servizio elettrico per qualche bolletta non pagata, e una famiglia ancora più isolata perché priva di cellulare. Ce n'è abbastanza per fare scoppiare una bomba, e la miccia si incarna in una misteriosa donna vestita di nero che, improvvisamente, compare in mezzo al campo davanti a casa di Ramona, dichiarando "Oggi è il giorno", prima di cominciare a terrorizzare seriamente Ramona e suoi figli. The Woman in the Yard parla di depressione, sensi di colpa e "forza", quest'ultima intesa non necessariamente in senso ottimista, come l'energia che spinge a guardare a un futuro più luminoso sopportando un presente orribile, quanto piuttosto come la freddezza di prendere lucidamente scelte scomode e all'apparenza egoiste, liberando gli altri (prima ancora di noi stessi) da situazioni senza sbocco. La presenza della donna in nero fa precipitare una situazione già gravemente compromessa, incrinando la fiducia di due bambini (il maschio è già adolescente, ma la femmina è piccola) verso una madre distante e rinchiusa nel suo dolore fisico e mentale, e aumentando l'allucinato senso di irrealtà di quest'ultima. L'idea, probabilmente, era quella di realizzare una sorta di Babadook che riaffermasse come i mostri, in realtà, siamo noi e tutto ciò che vomitiamo sugli altri a causa del dolore, della solitudine e dello stress quotidiani, ma Stefanak non è Jennifer Kent e rende difficile empatizzare con la protagonista. Ramona infatti, nonostante tutto quello che le è successo, non è rappresentata sotto una luce particolarmente positiva e viene connotata fin dall'inizio come narratrice inaffidabile, come primo agente degli eventuali traumi dei figli, come una donna che vive la famiglia come un impedimento alla sua espressione personale (Ramona è un'artista che non dipinge più) e lascia nell'incuria due bambini tutto sommato normali, che non si meritano le sfuriate della donna.


A fronte di queste considerazioni, ho trovato il finale ambiguo un po' paraculo e, sicuramente, di scarso impatto rispetto a quello di altri film dall'argomento simile. Anche l'idea dello specchio e di un mondo oltre ad esso, benché evocativa, è sfruttata maluccio, e arrivati alla fine di The Woman in the Yard sembra molto meno importante rispetto a ciò che lasciavano intendere i molti indizi seminati nel corso della pellicola. Non che lo spunto iniziale di una donna nel cortile, portatrice di presagi nefasti, sia sfruttato in maniera originale; alla fine la signora velata è uno spauracchio come tanti altri, e inquieta più quando rimane immobile a fissare Ramona e i figli, rispetto a quando passa effettivamente all'azione. Il vero punto debole di The Woman in the Yard è dunque questa sceneggiatura ambiziosa che si ferma un po' in superficie, perché poi regia e attori non sono malaccio. Jaume Collet-Serra, come al solito, fa il suo; non è un regista particolarmente innovativo ma ha il senso del ritmo e il polso della messinscena, e riesce a sfruttare bene il setting della casa fatiscente e l'handicap fisico della protagonista, inoltre gestisce bene il frequente passaggio tra allucinazione e realtà, senza confondere lo spettatore in modo negativo. Danielle Deadwyler, dal canto suo, si impegna più che può a far sì che il pubblico si affezioni alla sua Ramona nonostante la scrittura la voglia imperfetta e poco accattivante, e lascia trapelare dai gesti e dagli sguardi tutta la stanchezza e la tristezza di una donna molto umana, costretta ad affrontare una vita che, forse, non voleva, e che si è evoluta nel peggiore dei modi. Purtroppo, nonostante gli sforzi dell'attrice e nonostante il potenziale del concetto che vorrebbe veicolare, The Woman in the Yard non decolla. E' un film che non fa paura, anche perché la donna del titolo è troppo affascinante per instillare una simile sensazione, non inquieta e non porta lo spettatore a mettersi in discussione. Avrei preferito sedermi in mezzo a un yard a leggere un libro, sinceramente. 


Del regista Jaume Collet-Serra ho già parlato QUI



martedì 17 giugno 2025

Bolla Loves Bruno: The Jackal (1997)

Rirendiamo un po' le fila del discorso anche con la rubrica Bolla Loves Bruno, dopo ben quattro mesi. Oggi tocca a The Jackal, diretto nel 1997 dal regista Michael Caton-Jones.


Trama: dopo la morte del fratello per mano di agenti dell'FBI e di un maggiore russo, un potente boss della mala decide di ingaggiare il misterioso killer The Jackal per vendicarsi. L'FBI chiede così l'aiuto di Declan Mulqueen, ex membro dell'IRA recluso in un carcere americano, nonché l'unica persona al mondo a conoscere il volto dello "sciacallo"...


Dopo l'insuccesso commerciale di Ancora vivo, Bruno ha azzeccato uno dei ruoli migliori della sua carriera grazie al Korben Dallas de Il quinto elemento e si è dato a qualche doppiaggio, prima di comparire in un episodio di Innamorati pazzi nei panni di se stesso. The Jackal arriva nel 1997 sotto i peggiori auspici, perché è il remake del Il giorno dello sciacallo, ed è talmente distante dalla trama fantapolitica imbastita dallo scrittore Frederick Forsyth che quest'ultimo chiede e ottiene di non venire mai citato nei credits. The Jackal, dunque, si dichiara "ispirato", non tratto, dal film Il giorno dello sciacallo (perché nemmeno i realizzatori di quella pellicola erano felici di essere stati tirati in ballo!) e sposta l'azione dalla Francia post seconda guerra mondiale a un'America post guerra fredda in cui FBI ed esercito russo collaborano in apparente serenità. Durante un'operazione congiunta tra le due agenzie, ci rimette la pelle il fratello di un boss della mala russo, il quale si vendica commissionando all'inafferrabile killer The Jackal l'omicidio del capo dell'FBI. Una volta capito che la minaccia è reale, l'FBI e l'esercito russo tirano fuori dal carcere Declan Mulqueen, ex membro dell'IRA che, per motivi legati al suo violento passato, conosce sia il volto che il modus operandi di The Jackal e, soprattutto, ha un conto in sospeso con lui. The Jackal è il tipico "thriller" a base di spie e assassini, che porta lo spettatore a fare il giro del mondo mettendo in campo un killer internazionale che preferisce confondere le acque fino all'estremo, piuttosto che andare da punto A a punto B. La sensazione di stare seduti sulle montagne russe deriva non solo dal continuo cambio di setting ma, soprattutto, dal fatto che Bruce Willis, nei panni di The Jackal, utilizza almeno una ventina di travestimenti diversi, a seconda delle persone con le quali deve interagire e di ciò che è meglio per il compimento della sua missione. La sovrabbondanza di versioni di Bruce Willis, per inciso, era uno dei motivi per cui avevo guardato The Jackal almeno tre volte, all'epoca, approfittando di una videocassetta acquistata assieme a Panorama.


Riguardando The Jackal oggi, ci si rende conto che quei travestimenti sono un po' cheesy e si affidano anche troppo alla natura idiota delle persone che interagiscono con l'assassino (un esempio su tutti: quando, poco prima del finale, The Jackal si traveste da poliziotto durante un evento di massima sicurezza e si permette di farsi i cazzi propri seduto su una panchina, come uno spettatore qualsiasi, e nessuno passa a dirgli di alzare il culo e tornare a lavorare!). Da un punto di vista strettamente attoriale, invece, è una soddisfazione vedere Bruce Willis mantenere un'aura di freddezza glaciale anche sotto i travestimenti più innocui e "compagnoni", così che The Jackal spicchi sempre per carisma rispetto a chi lo circonda, anche quando indossa una camicia di flanella. Lo stesso non si può dire, purtroppo, per Richard Gere, impegnato nell'ennesimo ruolo di piacione dal triste passato. Se, talvolta, il film risulta noioso, è proprio perché il personaggio di Mulqueen non ha la ruvidezza di un terrorista dell'IRA che è stato rinchiuso in un carcere di massima sicurezza per decenni ma sembra, piuttosto, un poliziotto mancato, buonino come Lupo de Lupis. Aggiungo, inoltre, che il doppiaggio italiano (all'epoca ancora meritevole di essere annoverato tra i migliori del mondo) ha messo una pezza all'atroce accento OIRISH in cui si profonde Richard Gere, più fasullo dei travestimenti di Willis. Fa invece sorridere, sempre parlando di attori, vedere un giovanissimo Jack Black nel ruolo di nerd irritante, un J.K. Simmons non ancora famoso usato come un qualsiasi, anonimo attore da infilare nel ruolo di agente dell'FBI, e Daniel Dae Kim come semplice comparsa. Il cast femminile sarebbe anche interessante, purtroppo The Jackal è un film di uomini in cui anche le donne forti, di riffa o di raffa, vengono ridotte al rango di donzelle da difendere, sedotte dal fascino mariuolo di Mulqueen, quindi sia Valentina che Isabella sono degli archetipi, più che dei personaggi con una profondità. In sostanza, The Jackal è il tipico film fine anni '90, con tante belle facce più o meno famose ma privo di stile o guizzi particolari; non è brutto, perché si guarda con piacere, ma è anonimo e sempre a un passo dall'essere mediocre, più che "medio". Per fortuna, c'è tantissimo Bruce Willis in tutte le salse, quindi non potrò mai volergli male. 


Di Bruce Willis (The Jackal), Richard Gere (Declan Mulqueen), J.K. Simmons (Witherspoon), Jack Black (Lamont), Sophie Okonedo (Ragazza giamaicana) e Daniel Dae Kim (Akashi) ho parlato ai rispettivi link.

Michael Caton-Jones è il regista della pellicola. Inglese, ha diretto film come Doc Hollywood - Dottore in carriera, Rob Roy e Basic Instinct 2. Anche produttore, attore e sceneggiatore, ha 68 anni. 


Sidney Poitier
interpreta Preston. Americano, lo ricordo per film come La parete di fango, I gigli del campo, La più grande storia mai raccontata, La calda notte dell'ispettore Tibbs, Indovina chi viene a cena?, Omicidio al neon per l'Ispettore Tibbs, 'L'organizzazione' sfida l'ispettore Tibbs, Nikita spie senza volto e I signori della truffa. Anche regista, produttore e sceneggiatore, è morto nel 2022.


Il ruolo di The Jackal era stato offerto inizialmente a Richard Gere, che ha rifiutato perché preferiva interpretare l'eroe (per il ruolo di Declan erano in lizza Richard Dean Anderson, Alec Baldwin, Jeff Bridges, Gary Busey, Kevin Costner, Harrison Ford, Mel Gibson, Tommy Lee Jones, Michael Keaton, Liam Neeson, Ron Perlman, Dennis Quaid, Arnold Schwarzenegger, Steven Seagal, Sylvester Stallone e Patrick Swayze); non è la prima volta che Richard Gere era stato chiamato per un ruolo andato poi a Bruce Willis, a cominciare dal John McClane di Trappola di cristallo. Rimanendo in tema attori, The Jackal è stato l'ultimo film distribuito in sala in cui ha lavorato Sidney Poitier, prima di dedicarsi a film TV e documentari. Come ho scritto nella recensione, The Jackal è ispirato a Il giorno dello sciacallo, che vi consiglio di vedere se vi interessa l'argomento, per poi provare la serie The Day of The Jackal, uscita qualche anno fa. ENJOY! 



venerdì 13 giugno 2025

Bolle di recensioni: Heart Eyes (2025) e Presence (2025)

Siccome rischiavano di cadere nel dimenticatoio e slittare a chissà quando, ho deciso di accorpare un paio di brevi opinioni su due horror (totalmente diversi tra loro) visti qualche tempo fa, anche perché nel frattempo, finalmente, Heart Eyes è uscito anche nei cinema italiani (alla buon'ora, gente!!). Quello di Soderbergh, invece, è ancora inedito nel nostro Paese, chissà perché! ENJOY!

Heart Eyes (Josh Ruben, 2025)

Avevo visto Heart Eyes già parecchio tempo fa, ma era finito vittima della marea di post ai quali avevo dato la precedenza. Nulla di male, perché nel frattempo è stato distribuito anche in Italia, e va bene parlarne oggi, anche se sarò un po' più stringata nel parlare del nuovo film di Josh Ruben. E non perché non sia bello, beninteso! Heart Eyes è uno slasher "di cuore", letteralmente. Segue tutte le regole del genere ma, siccome tra gli sceneggiatori c'è l'adorabile Christopher Landon, l'horror si mescola senza soluzione di continuità ad un altro tipo di film, in questo caso la commedia romantica. Sì perché Heart Eyes, o HEK, come viene chiamato nel film, adora uccidere le coppie proprio il giorno di San Valentino e l'intero film ruota attorno all'equivoco che vede la protagonista, Ally, e un suo nuovo collega di lavoro, Jay, venire scambiati per due innamorati che tubano, per tutta una serie di circostanze che vi lascio il piacere di scoprire. Inutile dire che, come in tutte le commedie romantiche che si rispetti, i due protagonisti si innamoreranno davvero l'uno dell'altra nel corso della pellicola. Superfluo anche dire che Heart Eyes li seguirà molto da vicino, lasciandosi dietro una scia di persone uccise con metodi molto fantasiosi e coreografici. Josh Ruben, con un budget più consistente rispetto al suo primo film da regista (parlo di Scare Me, purtroppo non ho ancora avuto modo di vedere A cena con il lupo), conferma di saperci fare, di avere un occhio brillante per la messinscena e per i dettagli stilosi o originali, mai fini a se stessi, come conferma il favoloso look del killer (opera di Tony Gardner, che già aveva realizzato le maschere di Freaky, Auguri per la tua morte e Totally Killer) e non avete idea di quanto mi piacerebbe vederlo all'opera con qualche horror più "serio". Per quanto mi riguarda, Heart Eyes merita anche solo per l'esilarante inizio, la somma presa per il culo di tutte le falsissime storie a tema amore, fidanzamento e matrimonio che si vedono nei feed di Instagram, ma in generale è una visione divertentissima e intelligente, che non annoia neppure per un secondo, oltre che zeppa di belle facce (Devon Sawa in primis, sempre graditissimo!). Se ci fosse un sequel non mi lamenterei, anche perché vorrei vedere la faccia dello sugar daddy di Monica.  

Presence (Steven Soderbergh, 2024)

Tra challenge, uscite cinematografiche e altri film, ci ho messo un po' a scrivere un post su Presence, il che si tradurrà in maggior brevità rispetto al solito, anche perché la mia memoria ha delle difficoltà a richiamare alla mente un'opera così poco emozionante, dopo due settimane dalla visione. Presence avrebbe dovuto uscire il 6 febbraio in Italia ma si è perso nel limbo distributivo di una Lucky Red evidentemente interessata a portare altri film al cinema, e ora pare abbiano deciso di distribuirlo il 24 luglio, quando la maggior parte dei cinema saranno chiusi. Poco danno, se mi posso permettere. Presence non mi ha granché entusiasmata, anzi, ammetto di avere avuto non poche difficoltà a rimanere sveglia durante la visione, e questo nonostante sia molto interessante dal punto di vista dell'esecuzione. Il film, infatti, è stato girato con una piccola videocamera digitale direttamente dal regista, e mostra per tutta la sua durata il punto di vista soggettivo di una presenza (da qui il titolo), di uno spirito, all'interno di una casa. La narrazione è costituita esclusivamente di ciò che la presenza vede e sente, con tutto ciò che ne consegue. Il problema di Presence, per quanto mi riguarda, è che la trama non è nulla di che, i personaggi sono appena abbozzati e, spesso, vengono introdotte alcune questioni in apparenza importantissime che si concludono in un nulla di fatto, come se la presenza non avesse alcun interesse a seguirle. Lo stesso tema dell'elaborazione del lutto, da cui prende il via tutta la vicenda (la famiglia della giovane Chloe decide di cambiare casa dopo il trauma subito dalla ragazza, alla morte improvvisa della sua migliore amica), dà semplicemente il la ad una serie di conflitti familiari isterici, con la giovane colpevolizzata dal fratello, ignorata dalla madre e sostenuta solo da un padre privo di polso, una serie ripetuta di dinamiche familiari fastidiose all'interno delle quali si inserisce, da un certo punto in poi, una vena thriller angosciante. Presence, salvo per il modo in cui è stato realizzato, riesce in effetti a sorprendere solo sul finale, con una conclusione spiazzante in grado di dare un perché anche alle scelte tecniche. Peccato che il film diventi interessante solo nei suoi ultimi, concitati e persino commoventi minuti.

mercoledì 11 giugno 2025

Follemente (2025)

Qualche sera fa, su richiesta del Bolluomo, abbiamo guaradato Follemente, diretto e co-sceneggiato dal regista Paolo Genovese, disponibile da poco su Disney +.


Trama: al primo appuntamento, un uomo e una donna devono fare i conti con le rispettive personalità e gli imput contraddittori delle"voci" nella loro testa...


Non temete, il Bolluomo non è impazzito e nemmeno io. Il fatto è che lo porto al cinema praticamente una volta alla settimana e, per un lungo periodo, tutti il film che guardavamo erano preceduti dal trailer di Follemente. In effetti, detto trailer invogliava: Follemente era chiaramente ispirato ad Inside Out, con le "personalità" nella testa dei due protagonisti impegnate a risolvere tutti i problemi legati a un primo appuntamento, o a complicarlo ulteriormente, e c'erano un paio di gag divertenti che facevano ben sperare. Ci siamo guardati bene dallo spendere soldi per vederlo al cinema, ché dopo tanti anni un po' di istinto l'ho affinato, ma quando è stato disponibile su Disney + (che, peraltro, ha co-prodotto il film) ci siamo buttati, e abbiamo capito che tutto il buono di Follemente, salvo forse una sequenza, era contenuto nel trailer. L'ultimo film di Paolo Genovese è un'ora e mezza di canovaccio esile tirato per le lunghe, tanto che, alla fine, sembra di essere rimasti seduti sul divano per tre ore. La sceneggiatura, scritta a dieci mani, è la summa di tutto ciò che ha rovinato il cinema italiano a partire dall'anno di uscita de L'ultimo bacio, con l'aggiunta di dialoghi che sembrano scritti da un algoritmo, tanto sono innaturali da sentire pronunciare, e con almeno una gag presa direttamente da un meme di Internet. "Quante volte si può essere imbarazzanti in una vita?", chiede una delle "voci" nella testa di Lara, impegnata nel primo appuntamento con Piero. La risposta non la so, ma ho perso il conto di quanto mi sono sentita imbarazzata io nel guardare Follemente e l'interazione tra i due tipici archetipi borghesi dalla commedia/dramma nevrotica nostrana. Lei è, ovviamente, una matta umorale dalle idee femministe e con hobby non convenzionali, con un disperato bisogno di caz... di essere capita e accettata da un uomo capace di "normalizzarla"; lui è Edoardo Leo che, da Smetto quando voglio, fa sempre il solito personaggio di maschio sfigato, maniaco del controllo, goffo e pseudo-intellettuale con un disperato bisogno di fig... d'affetto, perché nonostante tutti i suoi difetti sarebbe un padre esemplare e un marito perfetto, se solo esistesse una donna (non la ex moglie stronza, ovviamente) capace di sopportarli e, magari, arricchirgli la vita con qualche "stranezza" atta a farlo uscire da un guscio che gli sta sempre più stretto. Il film è costruito sull'unità di tempo e di luogo che è l'appuntamento tra Lara e Piero, e hai voglia a rendere interessante una serata tra disagiati che devono ancora conoscersi, anche introducendo il monotono paesaggio mentale dei due protagonisti, abitato dai quattro aspetti che li governano.

Se si fosse dato più spazio alle personalità all'interno della mente dei personaggi, se ci si fosse impegnati a lavorare di scenografia e regia per rendere il "luogo" in cui vivono un minimo interessante, particolare e fantasioso, FORSE il film sarebbe stato molto più interessante, perché anche a fronte della banalità dei quattro differenti aspetti (ego, superego, id e... boh, la principessa disneyana per Lisa e il babbalone sensibile per Piero?), le interazioni tra di loro sono talvolta divertenti. Dico forse perché, purtroppo, il terzo atto del film è una gigantesca sega mentale in cui i due protagonisti devono decidere se passare assieme la notte nella stessa casa e, magari, anche il mattino e il pomeriggio successivi (rinunciando, oddio, alla propria libertà, ai programmi per la giornata!!!), ed è una decisione talmente dirimente, per la loro felicità futura, che arrivano a discuterne assieme persino le rispettive personalità, incontrandosi. Ora, Cristo, io sono sicuramente l'antiromanticismo fatto a persona, ma non credo che tornare ognuno a casa propria dopo un (imbarazzante, irreale) amplesso da primo appuntamento significhi che non ci si rivedrà mai più e che la nostra vita sarà quindi segnata da solitudine ed infelicità perenni. Ma, ovviamente, i personaggi di Follemente non sono persone normali, sono bambini quasi quarantenni lei e ultracinquantenni lui, che al primo appuntamento parlano già di figli e matrimonio, alternando dialoghi di una stupidità rara e filosofia da Bacio Perugina, scomodando qui e là Calvino, Che Guevara e Carla Lonzi e io, scusatemi, ma mi sono rotta le palle di una distribuzione italiana e di un sistema di finanziamenti che premia questa sciatteria e condanna all'oblio opere innovative come La città proibita di Mainetti. Spezzo una lancia solo per gli attori. Edoardo Leo e Pilar Fogliatti, poveri Cristi, non è che possono cavare sangue dalle rape, e cercano di interpretare i loro personaggi improbabili al meglio, mentre il resto del cast (nel quale spiccano Giallini, Santamaria, Lastrico e Papaleo, la mente maschile, più varia e divertente nelle interazioni rispetto a quella femminile) approfitta della possibilità di estremizzare le caratteristiche dei vari stati mentali, con risultati sicuramente migliori. Probabilmente, sono io ad avere un problema con questo tipo di film italiani in generale e col sopravvalutato Paolo Genovese in particolare, ma non riesco proprio a consigliarvi di guardare Follemente. Piuttosto, come ho detto a un amico su Instagram, mettete il trailer in loop per un'ora e mezza, tanto la ciccia è tutta lì.

P.S. A proposito di ciccia. La cena inizia con le lasagne, continua con una focaccia (Ma la focaccia??? Per secondo, dopo le lasagne???!!), prosegue con una vaschetta di gelato a settecento gusti diversi, uno per ogni cliché, e si conclude con una pasta aglio, olio e peperoncino? Ma a voi vi camallano, che pesantezza!!!


Del regista e co-sceneggiatore Paolo Genovese ho già parlato QUI. Edoardo Leo (Piero), Marco Giallini (Professore), Rocco Papaleo (Valium) e Claudio Santamaria (Eros) li trovate invece ai rispettivi link. 

Claudia Pandolfi interpreta Alfa. Nata a Roma, la ricordo per film come Ovosodo, Auguri professore, La prima cosa bella, La profezia dell'armadillo, Tutta colpa di Freud, Il ragazzo dai pantaloni rosa, e a serie quali Amico mio, Un medico in famiglia, Distretto di polizia. Ha 51 anni. 


Vittoria Puccini
interpreta Giulietta. Nata a Firenze, la ricordo per film come Ma quando arrivano le ragazze?, Baciami ancora, Tutta colpa di Freud, The Place e serie come Elisa di Rivombrosa. Ha 45 anni. 


Pilar Fogliati
, che interpreta Lara, è stata la doppiatrice italiana di Ansia per Inside Out 2 mentre Emanuela Fanelli, che interpreta Trilli, era la fruttivendola Marisa di C'è ancora domani. ENJOY!


martedì 10 giugno 2025

2025 Horror Challenge: Fear Street: Prom Queen (2025)

Sto recuperando un paio di uscite perse durante il viaggio in Campania e siccome per la challenge di oggi c'era un free pick, ne ho approfittato per guardare l'atteso Fear Street: Prom Queen, diretto e co-sceneggiato dal regista Matt Palmer a partire dal romanzo omonimo di R.L. Stine


Trama: Lori si candida come reginetta del ballo per cambiare la sua vita e riabilitare la sua famiglia, distrutta da un tragico evento passato. La ragazza, però, deve vedersela non solo con le acerrime rivali del Wolfpack, capitanate dall'odiosa Tiffany, ma anche con un assassino che sembra avere preso di mira le candidate...


Prom Queen
è, purtroppo, un passo indietro rispetto alla trilogia di Fear Street che ci aveva conquistati qualche anno fa su Netflix. Per motivi imperscrutabili, vi sono solo sparute tracce della lore messa in piedi da Leigh Janiak, e i collegamenti con la saga si riducono a qualche piccolissimo omaggio (più un blink and you'll miss it) e alla reiterazione della rivalità tra Shadyside, dove si ambienta il film, e Sunnyvale, nominata qui e là come luogo ideale dove vivere. Tolti questi pochi dettagli, Prom Queen sembra uno slasher qualsiasi al quale è stato imposto, in fretta e furia, di fare parte ANCHE di una saga, e da questo punto di vista è sbagliato fare paragoni con i tre Fear Street che lo hanno preceduto. I film della Janiak, infatti, erano un tornado di depistaggi e idee innovative, che giocavano a fare a pezzi le aspettative dei personaggi e dello spettatore, mentre Prom Queen segue pedissequamente tutte le regole dello slasher anni '80 e ne ripropone i topoi con un rispetto quasi filologico. Preso per quel che è, il film non è affatto aberrante (ovviamente, deve piacervi il genere) e si propone come una confortevole coperta di Linus per passare un'ora e mezza in letizia, tra uno smembramento e l'altro. L'importante è non cercare i significati più o meno profondi dei primi Fear Street, perché qui i personaggi sono tagliati, talvolta letteralmente, con l'accetta e, salvo un personaggio a mio avviso sprecato (ciao, Melissa!), non hanno né il tempo né il modo di evolversi. I buoni, come la protagonista in cerca di riscatto dopo una vita di prese in giro crudeli per la morte del padre e lo spettro di una madre omicida, rimangono buoni e, al limite, si rendono conto che non basta una coroncina di alluminio per cambiare la triste realtà; i cattivi sono delle facce di merda da primato, le tipiche high school bitches che non esitano a sputare in faccia ad etica, compassione e buon senso, pur di far stare male il prossimo. Nel mezzo, ci sono un paio di "personaggi", nel vero senso della parola, ovvero qualche comprimario caratterizzato da comportamenti eccentrici, e i soliti adulti clueless o matti come cavalli, gente che si permette di riprendere una ragazzetta perché balla al ritmo di Gloria o si scambia sguardi timidi col belloccio di turno. 


Come in uno slasher di cassetta che si rispetti, dunque, non importa chi, importa come. E c'è parecchio "come" in Prom Queen. A differenza dei film per adolescenti della Blumhouse, spesso PG-13, Prom Queen non si tira indietro nel mostrare teste spaccate, gole tagliate, gente impalata e sangue a profusione, con degli effetti speciali anche belli a vedersi, senza grande ingerenza di CGI. Si sono sforzati un po' poco con l'aspetto che killer, che mi ha ricordato il Red Devil della serie Scream Queens, e francamente ho trovato stupidissima la rivelazione dell'identità dietro la maschera, ma il percorso per arrivare alla fine me lo sono abbastanza goduto. L'unico, vero difetto di Prom Queen, per quanto mi riguarda, sono gli attori, soprattutto quelli scelti per interpretare i giovani protagonisti e, in particolare, la final girl Lori e la queen bee Tiffany. Il volto di quest'ultima è anonimo e lei è del tutto inespressiva; non fosse per i dialoghi al veleno che le vengono messi in bocca, il personaggio non avrebbe nemmeno un briciolo del carisma necessario per essere davvero la reginetta stronza della scuola. Quanto a Lori, Dio me ne scampi. Siccome Silvia ha apprezzato, ribadisco anche qui la definizione di "pittima" della final girl. Intanto, si innamora di un mollo senza speranza, poi passa il 70% del film o a piangere o a guardare nel vuoto col sappìn' di chi sta per farlo, senza mai rivolgere una parola scortese o prendere a giuste sberle le ragazze del Wolfpack, limitandosi a subire in silenzio con la lacrima nell'occhio. Due marroni, figlia mia, a un certo punto speravo che il killer prendesse anche te, sono sincera. Voto dieci, invece, alla migliore amica di Lori. E' un po' assurdo pensare che una diciottenne possa avere un'esperienza tale da poter rivaleggiare con Sergio Stivaletti ma, a parte questo e l'inutile marchetta queer che non trova sbocco, se non altro possiamo goderci un'horror geek anni '80, con tanti piccoli oggetti di scena e filmati che fanno sicuramente la felicità degli appassionati! In conclusione, Prom Queen è, purtroppo, un passo indietro che rischia di mettere a repentaglio l'eventuale futuro della saga ma, se vi piace lo slasher e avete voglia di passare una serata divertente, ve lo consiglio perché è sanguinolento e non si perde in orpelli inutili che ne rallenterebbero il ritmo.


Del regista e co-sceneggiatore Matt Palmer ho già parlato QUI. Lili Taylor (Vicepreside Dolores Brekenridge) e Katherine Waterston (Nancy Falconer) le trovate invece ai rispettivi link. 


Chris Klein
, che interpreta Dan Falconer, era l'Oz di American Pie mentre Ariana Greenblatt, che interpreta Christy, era la figlia di America Ferrera in Barbie; quanto ad Ella Rubin, che interpreta Melissa, l'abbiamo vista poche settimane fa come protagonista di Until Dawn. Se Fear Street: Prom Queen vi fosse piaciuto, recuperate Fear Street Parte 1: 1994, Fear Street Parte 2: 1978 e Fear Street Parte 3: 1666. ENJOY!

venerdì 6 giugno 2025

Lilo & Stitch (2025)

Ci ho messo un po' perché volevo andare a vederlo con Nora (con la quale eravamo andate a vedere l'originale, diventato uno dei nostri film preferiti), ma domenica ho finalmente guardato Lilo & Stitch, diretto dal regista Dean Fleischer Camp.


Trama: un violento, dispettoso alieno fugge dai suoi creatori e finisce per rimanere bloccato alle Hawaii. Lì, per mero spirito di autoconservazione, si finge un cane e si fa adottare da Lilo, bimba orfana e senza amici, che rischia di venire separata anche dalla sorella maggiore...


Un po' per mancanza di tempo, un po' per timore reverenziale, non ho riguardato Lilo e Stitch prima di andare in sala a vedere il remake live action. Questo potrebbe essere il motivo principale per cui non ho odiato il film di  Dean Fleischer Camp e sono arrivata a ritenerlo addirittura uno dei migliori live action Disney recenti (viste quelle monnezze mezze o totali di Pinocchio, La sirenetta e Biancaneve, non è che ci volesse molto). Pur con qualche "licenza poetica", infatti, il nuovo Lilo & Stich mantiene inalterati i capisaldi che hanno decretato il successo del cartone, in primis il percorso di crescita combinato che vede protagonisti i due personaggi titolari. Sia Lilo che Stitch nascono come due agenti di caos, scombinati da una situazione familiare che li vuole privi di regole, perennemente arrabbiati e tristi, soli e disprezzati; l'incontro tra queste due anime affamate d'amore, inizialmente sarà fonte di ulteriori guai, poi darà vita ad una nuova amicizia, un'Ohana che porterà anche altre persone, sia umani che alieni, a fare cerchio attorno a loro. E' una storia semplice e tenera, quella di Lilo e Stitch, con molto umorismo e un pizzico di avventura. Il live action punta molto sull'aspetto sentimentale e, soprattutto nella prima parte, gioca su un terreno assai simile a quello di Un sogno chiamato Florida, col risultato di risultare MOLTO più triste del cartone animato. Non solo, infatti, gli sforzi di Nani per tenere con sé Lilo sembrano ancora più ardui, peggiorati da una povertà e un disagio difficili da edulcorare, ma si scorgono indizi di una disparità sociale, tra autoctoni e turisti, che fa ribollire il cuore dello spettatore di rabbia. Questa è però un'arma a doppio taglio, nonché l'unico, vero difetto del film. Il terreno di gioco, infatti, è sì simile a quello di Un sogno chiamato Florida, ma i giocatori sono molto diversi. Turismo di lusso e gentrificazione sono dipinti come la giusta norma in Lilo & Stitch, infatti Lilo viene bonariamente dissuasa dall'utilizzare la piscina del resort e tenuta ai margini del baracconesco luau dove lavora Nani. Le due sequenze dovrebbero fungere da recurring joke (la prima) e da catalizzatore per il fallimento di Nani (la seconda), ma entrambe non fanno altro che normalizzare un concetto aberrante, che trova il suo compimento nel deludente finale, in cui il significato di Ohana viene distorto proprio in virtù di tale concetto: le Hawaii non appartengono più agli autoctoni, ed è bene che questi ultimi lo accettino, perché per avere un futuro roseo l'unica soluzione è abbandonare tutto e volare in America (solo se si è belli, intelligenti e capaci, ovvio). 


Forse questi aspetti c'erano anche nel cartone animato del 2002, forse a 21 anni non ci facevo caso; sicuramente, all'epoca, la disperazione di Nani all'idea di perdere Lilo era tangibile e la lotta tra la ragazza e le istituzioni cieche alle esigenze particolari della piccola metteva davvero ansia, perché sappiamo tutti che il sistema di foster care non è una passeggiata, soprattutto in comunità già svantaggiate. Qui, invece, abbiamo la bonaria ed elegante Tia Carrere, sempre pronta a tendere una mano (che poi, tanto casino, se la soluzione al "problema" di Nani era così semplice perché non lasciare subito Lilo ai bravissimi vicini?), e una tecnologia aliena che giustifica la paraculaggine di qualsiasi decisione. Ok, alla fine questo post è diventato una critica, e mi dispiace, perché mi sono sinceramente divertita guardando Lilo & Stitch, quando non avevo il magone, ovviamente. "Colpa" del musetto adorabile della piccola Maia Kealoha, perfetta per interpretare Lilo, e anche del sembiante morbidoso e puccio del pelosissimo Stitch. Sapete che ODIO la CGI ma, per una volta, non ho percepito scollature tra i personaggi reali e quelli generati al computer, forse grazie alla perizia di Dean Fleischer Camp, che già si era fatto le ossa col poetico Marcel the Shell (non a caso, il regista ha preteso che la Kealoha avesse uno Stitch a grandezza naturale, benché inanimato, col quale interagire, evitandole la fredda, allucinante pallina da tennis). Anche i personaggi secondari, benché un po' modificati nel carattere e nelle intenzioni, mi sono piaciuti, così come la riproposizione di alcune scene iconiche, che non hanno perso un briciolo della loro forza originale. Certo, avrei voluto un po' più Elvis e anche un po' più crossdressing, ma il Pleakley di Billy Magnussen è abbastanza fluido da aver causato sicuramente un po' di scompensi in quelli che urlano alla "wokeizzazione" del mondo. Lasciando da parte inevitabili delusioni e qualche sproloquio personale, vi consiglio sicuramente la visione di Lilo & Stitch e, se ne avete la possibilità, ve la consiglio in sala, nonostante sia nato come un film da far uscire direttamente su Disney +,  perché non si percepiscono minimamente gli eventuali difetti dovuti al passaggio tra i due media. 


Del regista Dean Fleischer Camp ho già parlato QUI. Chris Sanders (voce originale di Stitch), Zach Galifianakis (Jumba), Billy Magnussen (Pleakley), Courtney B. Vance (Cobra Bubbles) e Tia Carrere (Mrs. Kekoa) li trovate invece ai rispettivi link.


Tia Carrere
era la voce originale di Nani nel cartone animato originale. A Ving Rhames, che invece doppiava Cobra Bubbles, era stato offerto un piccolo ruolo ma ha dovuto declinare perché già impegnato in  Mission: Impossible - The Final Reckoning. Ovviamente, se Lilo & Stitch vi è piaciuto dovete assolutamente recuperare il cartone animato originale del 2002. ENJOY!

mercoledì 4 giugno 2025

2025 Horror Challenge: Pesce d'aprile (1986) e Scherzo letale (2008)

Grazie ad un piccolo barbatrucco dovrei essere tornata in carreggiata con la challenge. Questo perché il tema della settimana corrente era la visione del remake del film scelto per la settimana precedente, quindi ho deciso di accorpare la recensione di Pesce d'aprile a quella del suo remake straight to video, Scherzo letale. ENJOY!

Pesce d'aprile (April Fool's Day - Fred Walton, 1986)

Fred Walton torna a farmi compagnia nel corso della challenge. Dopo il thriller di Quando chiama uno sconosciuto, il regista ha fatto un passo avanti dirigendo uno slasher o, meglio, un whodunnit horror. Mi è difficile, infatti, definire slasher un film dove i personaggi muoiono off screen, ma c'è anche un altro motivo che non vi spoilero se fatico a definirlo tale, anzi, IL motivo. Quello che rende Pesce d'aprile un film originalissimo e molto avanti rispetto ai tempi, nonché meritevole di più visioni in seguito alla prima. Prendendo in considerazione questo aspetto molto particolare, risulta fondamentale che Pesce d'aprile segua tutti i topoi degli slasher, a prescindere che rientri o meno nella categoria. C'è una casa isolata, dove si riunisce un gruppo di adolescenti (ognuno archetipo di una precisa tipologia di personaggi da film horror) per festeggiare le vacanze primaverili alla vigilia, appunto, del primo di aprile; c'è una mano sconosciuta che li elimina uno per uno, con un crescendo che parte dalla totale ignoranza delle prime vittime, alla terrorizzata consapevolezza dei ragazzi rimasti, i quali cercano sia di salvarsi che di capire chi voglia fare loro del male e perché; ci sono indizi relativi a qualcosa di oscuro avvenuto in passato, e la possibilità che uno dei ragazzi sia uno psicopatico; ci sono, ovviamente, i jump scares e le morti causate da un'arma tagliente, che si mostra in tutta la sua gloria nel prefinale. Sempre elegantissimo, Fred Walton gioca con la percezione dello spettatore, nasconde indizi mettendoli in piena vista, inserisce dettagli creepy e zeppi di humour nero, come il carillon con pupazzo annesso che introduce gli eventi della pellicola e la conclude con un occhiolino malizioso. L'unico aspetto negativo del film, a mio avviso, sono gli attori, tutti piuttosto anonimi; nel cast si salva solo Deborah Foreman, che spicca sui suoi colleghi sin dalle scene iniziali. Se non lo avete mai visto, vi consiglio di guardarlo e di non lasciarvi ingannare dai suoi cliché; se, invece, lo avete visto, fategli un po' di pubblicità, perché mi sembra sia molto poco conosciuto qui in Italia (io, per esempio, non lo avrei mai guardato, non fosse stato per la challenge).

Curiosità: il finale originale era molto più cupo rispetto a quello attuale e, a mio avviso, avrebbe condannato Pesce d'aprile ad essere un horror come tanti altri. Per una volta, dunque, ben venga l'ingerenza dei produttori!


Scherzo letale
(April Fool's Day - The Butcher Brothers, 2008)

Evitate invece come la peste questa schifezza che sembra uscita dritta dagli scarti delle programmazioni di canali televisivi come La5 o peggio. Scherzo letale non è un remake del film originale, parte più da una situazione alla So cos'hai fatto: due anni dopo una "burla" finita male (se si può definire burla drogare una ragazza per riprenderla mentre fa sesso con un tizio, con l'intento di ricattarla online), i riccastri presenti al momento del fattaccio vengono contattati e fatti fuori uno dopo l'altro da una persona sconosciuta che chiede al responsabile dell'incidente di farsi avanti. L'intreccio, salvo un paio di cazzate col botto, che non tengono conto dell'unità di luogo e tempo che erano fondamentali per la verosimiglianza di Pesce d'aprile, non sarebbe nemmeno malvagio, e il finale rispetta lo spirito dell'originale aggiungendoci del suo, ma Scherzo letale è proprio brutto da vedere. Regia e fotografia sono quelle anonime di un brutto film della Hallmark, gli attori sono un branco di cani e cagne della peggior specie; quando non è in overacting si salva giusto Scout Taylor-Compton, la Laurie Strode degli Hallowen di Rob Zombie, gli altri sono inqualificabili, in primis Taylor Cole e Josh Henderson, i due protagonisti. A tutto ciò, aggiungete anche il fatto che Scherzo letale vorrebbe essere una critica al mondo superficiale e crudele dei ricchi rampolli delle famiglie "bene" americane, quindi i personaggi sono tutti mediamente odiosi e meritevoli di morti ben più tremende rispetto a quelle cretinate che (non) vengono mostrate. Purtroppo, la superficialità della sceneggiatura, unita all'incapacità degli attori, fa sì che il tutto risulti una parodia forzata, un compendio di banalità che fa venire voglia di morire allo spettatore. Dopo mesi di challenge, una sòla ci voleva, ma questa è davvero indegna di qualsiasi visione. 

Curiosità: buona parte del cast ha lavorato con i Butcher Brothers nei loro film più famosi, The Hamiltons e il suo sequel, The Thompsons.

 


martedì 3 giugno 2025

La trama fenicia (2025)

Siccome io e l'amico Toto siamo bimbi di Wes Anderson, siamo corsi a vedere il suo ultimo film, La trama fenicia (The Phoenician Scheme), il giorno stesso dell'uscita.


Trama: il ricco industriale e avventuriero Zsa-zsa Korda, sopravvissuto all'ennesimo attentato, decide di nominare come erede universale la figlia Liesl, una novizia in procinto di prendere i voti. Tutto ciò per riuscire a realizzare la sua opera più ambiziosa, una complessa infrastruttura in Fenicia...


Su Facebook e Instagram, dove butto giù brevissimi pensieri a caldo sulle visioni concluse, ho messo in guardia i miei sparuti followers relativamente all'odio (o la noia) che molti, dopo anni di onorata carriera, sono arrivati a provare verso Wes Anderson. Per queste persone, lo ribadisco, La trama fenicia sarà una sofferenza, perché la trama, benché complicatina a livello di "schema", apparentemente è molto semplice e lineare, e sembra proprio un mero esercizio del solito stile andersoniano. Come sempre, però, "oltre alle simmetrie e ai colori pastello c'è di più". Gli ultimi film di Wes Anderson, diciamo a partire da The French Dispatch, hanno il potere di lasciarmi perplessa alla fine dei titoli di coda. Il che non significa che non mi piacciano ma, poiché ho ormai una certa età, faccio un po' fatica ad introiettare tutti gli stimoli uditivi e visivi che si affastellano con la stessa rapidità con cui i personaggi del regista snocciolano dialoghi lunghissimi, quindi, solitamente, mi serve un giorno per riflettere con calma su cosa avesse voluto raccontare Wes Anderson. In questo caso, La trama fenicia narra il viaggio fisico e spirituale di un freddo, cinico e ambiguo uomo d'affari, abituato a diffidare dei legami familiari e a contare solo su se stesso, fin dalla più tenera età. Le famiglie disfunzionali non sono una novità per Wes Anderson, anzi, si può tranquillamente dire che tutti i suoi personaggi o quasi partano (e spesso rimangano bloccati) all'interno di una condizione anaffettiva o siano comunque incapaci a relazionarsi in modo "normale" con gli altri. Forse, però, è la prima volta che Anderson tocca il tema della redenzione anche in senso religioso, dando al protagonista de La trama fenicia la possibilità di "morire" e "risorgere" più e più volte, fino ad una rinascita finale definitiva (d'altronde, non credo sia un caso tirare in ballo, almeno nei toponimi, il mitologico uccello che rinasce dalle sue ceneri). La scelta di affiancare a Korda una figlia suora, oltre ad offrire la possibilità di una critica ad una Chiesa che predica bene ma razzola male, soprattutto quando in ballo ci sono molti soldi, apre uno squarcio sul pensiero di Anderson e del co-sceneggiatore Roman Coppola; in uno splendido dialogo rivelatore si dice che va bene fingere che Dio risponda alle nostre preghiere, basta mettere in pratica quello che pensiamo farebbe Lui... e, spesso, si tratta di cose molto semplici, banali, di puro buon senso. Anderson e Coppola, insomma, non vogliono dichiarare la non esistenza di Dio o prendersi gioco di chi crede in qualcosa, anzi, sottolineano l'importanza di avere qualcosa che funga come bussola morale e ci apra gli occhi su ciò che è fondamentale nella vita, benché magari poco glamour, avventuroso, remunerativo o originale. Korda diventa così il Cristo andersoniano, costretto ad una via crucis a tappe (o a scatole, come volete) partita con un obiettivo decisamente materiale, lentamente tramutatosi in un'evoluzione umana e spirituale.


A livello più superficiale, La trama fenicia tira parecchie stoccate ad oligarchi e riccastri zeppi di figli che "potrebbero" essere geni, oltre ad un mercato globale facilmente manipolabile e a guerriglieri sui generis. Purtroppo, la critica sociale e contemporanea si perde un po', perché il film non esce quasi mai dai binari della commedia surreale e, rinunciando ad atmosfere di più cupe e satiriche, non morde mai davvero. Poco danno, perché comunque mi sono ritrovata spesso a ridere di cuore per alcune gag particolarmente azzeccate (una su tutte, quella reiterata delle bombe/ananas offerte agli interlocutori), e poi perché, insomma, a me piace Wes Anderson in primis per quello stile che ora va tanto di moda odiare. Sarei stata ore a guardare i titoli di testa, con la stanza d'ospedale di Korda ripresa dall'alto e le figure umane che si muovono in quella che sembra un'enorme, elegante piastrella quadrata, ma ogni elemento d'arredo disposto con gusto e simmetria (ci sono persino quadri famosissimi presi in prestito da gallerie, santo cielo!!), ogni diorama semovente, ogni abito, anche quelli più dimessi, mi trasportano gioiosamente all'interno della Wunderkammer del regista, zeppa di oggetti e colori nei quali mi perdo senza possibilità di recupero. Gli attori, poi, sono un altro motivo di felicità. In un cast di facce ormai familiari ai fan del regista, tutte impegnate in piccoli, esilaranti ruoli che arricchiscono il bestiario de La trama fenicia, Bill Murray ha finalmente ottenuto il ruolo più adatto al suo status e Benicio del Toro, per quanto sbattuto ed invecchiato, è sempre più patato ed è un protagonista esemplare. Il più a suo agio all'interno del mondo bizzarro di Anderson, stavolta, è però la new entry Michael Cera, uno dei motivi per cui mi è dispiaciuto non poter godere del film in v.o.. L'entomologo Bjorn è sfaccettatissimo, forse il personaggio più ricco di sorprese, e Cera offre una performance incredibile (soprattutto in un momento puramente "fisico", in cui cambia letteralmente davanti agli occhi dello spettatore aggiustando impercettibilmente abiti, accessori e postura. La mia mascella, probabilmente, è ancora in sala), al punto che mi sono chiesta perché mai Anderson abbia aspettato così tanto per chiamarlo in uno dei suoi film, visto che l'attore sembra uscito direttamente da una sua pellicola. Spero sia l'inizio di una lunga e fruttuosa collaborazione! Con questa nota speranzosa, invito i fan di Anderson ad andare a vedere La trama fenicia. Non è il miglior film del regista, questo no, ma è bello e divertente, una piccola chicca colorata in una triste e grigia realtà, e a volte, non so a voi, ma a me basta solo questo per essere soddisfatta. I detrattori si astengano, senza criticare i bimbi di Anderson come me!


Del regista e co-sceneggiatore Wes Anderson ho già parlato QUI. Benicio Del Toro (Zsa-zsa Korda), Steve Park (Il pilota), Willem Dafoe (Knave), F. Murray Abraham (Profeta), Rupert Friend (Excalibur), Michael Cera (Bjorn), Riz Ahmed (Principe Farouk), Tom Hanks (Leland), Bryan Cranston (Reagan), Charlotte Gainsbourg (prima moglie), Mathieu Amalric (Marseille Bob), Jeffrey Wright (Marty), Scarlett Johansson (Cugina Hilda), Bill Murray (Dio), Hope Davis (Madre superiora) e Benedict Cumberbatch (Zio Nubar) li trovate invece ai rispettivi link.


Mia Threapleton
, che interpreta Liesl, è figlia dell'attrice Kate Winslet. ENJOY!



venerdì 30 maggio 2025

2025 Horror Challenge: Rabid Grannies (1988)

Il tema della challenge horror della settimana scorsa, saltata per le ferie, era "Video Store Rules #1. Pick a film solely on its poster". Seguendo questo saggio criterio di ricerca, ho scelto Rabid Grannies (Les mémés cannibales), diretto e sceneggiato nel 1988 dal regista Emmanuel Kervyn.


Trama: il giorno del loro compleanno, due anziane signore invitano i nipoti a cena. La pecora nera della famiglia, un nipote in odore di satanismo, invia alle zie una scatola di legno, il cui contenuto le trasforma in sanguinari demoni...


Da quando gestisco il blog, raramente vado a leggere recensioni complete di film che devo ancora vedere, perché non voglio venire condizionata da ciò che scrivono gli altri, né venire accusata di "plagio" nemmeno per sbaglio. Sbirciando qui e là nel discutibile sistema di "voti" presente su vari siti, mi sono resa comunque conto che Rabid Grannies viene considerato da tutti un film pessimo, una trashata di serie Z della peggior specie. La colpa di un simile giudizio, stavolta, è da ricercarsi anche nella Troma, che ha distribuito Rabid Grannies con svariati tagli e un montaggio arbitrario, operazioni condotte senza consultarsi col regista Emmanuel Kervyn, novellino belga con pochi soldi a disposizione che non è riuscito ad andare in America e far sentire la sua opinione; peggio ancora, gli attori sono stati costretti a recitare in inglese per "facilitare" il ridoppiaggio ma, siccome molti di loro non conoscevano assolutamente la lingua e si limitavano a riprodurne la pronuncia, i doppiatori hanno dovuto lavorare su un ritmo e su un labiale incoerenti, facendo i salti mortali e cercando di rimediare con un terrificante accento british. Qualunque persona dotata di senno, dunque, dovrebbe giustamente odiare Rabid Grannies, ed ero convinta che anch'io avrei finito la visione del film mandando al diavolo tutti i coinvolti. Invece, con molta vergogna, devo ammettere di essermi divertita tantissimo e mi spingerei persino a dire che Rabid Grannies, proprio grazie a tutti i suoi difetti, è una perlina di serie Z da affrontare con spirito lieto, apprezzando tutte le vaccate di cui è infarcito. Il film racconta la svolta horror di una cena di compleanno organizzata da due facoltose vecchiette, alla quale sono stati invitati tutti i membri della famiglia tranne un nipote, estromesso in quanto "pecora nera" in odore di satanismo. Ora, sicuramente il nipote disconosciuto sarà stato un mostro, ma anche gli altri non scherzano: tra preti decisamente poco cristiani, mariti codardi, beghine false, produttori d'armi senza scrupoli e, in generale, persone con ben poco amore nel cuore per le due zie, alle quali tutti leccano il culo solo per avere una fetta della ricca eredità, non c'è praticamente nessuno per cui provare pena quando l'orrore colpisce duro. A un certo punto, infatti, le ziette ricevono in regalo una scatola dal nipote lontano, e il fumo che si sprigiona dal contenitore le trasforma in due demoni beffardi e sanguinari, che cominciano a mutilare, uccidere e talvolta mangiare i terrorizzati membri della famiglia.


Ho apprezzato, di Rabid Grannies, il fatto che non si prenda mai sul serio. Il film è zeppo d'ironia, mette alla berlina la famiglia, la religione, la società, e non fa sconti nemmeno quando si tratta di toccare l'intoccabile, innanzitutto i bambini. Forse perché pronunciati con l'accento british posticcio di cui ho parlato sopra, i dialoghi risultano ancora più spocchiosi e allucinanti, e i personaggi diventano i protagonisti di una terribile commedia nera in salsa splatter. Facendo un paragone ardito, il film gioca nel campo di bizzarrie come i primi film di Peter Jackson, nelle quali era praticamente impossibile empatizzare coi personaggi, anzi, si finiva quasi per trovare simpatici i mostri che li smembravano. Cito Peter Jackson nonostante la Troma abbia (stranamente) tagliato, a quanto pare, i momenti più splatter, ma diciamo che è tutto molto più pecoreccio, più vicino a quei deliri di serie Z, girati con due soldi, prodotti in Italia negli anni '70-'80; è una sensazione difficile da spiegare a chi non ne ha mai visto uno, quel senso di vertigine dato da personaggi che interagiscono superficialmente, per poi venire gettati dentro incubi montati con l'accetta, dove scenografia e fotografia ignorano ogni regola dell'orientamento e della consecutio temporum, perché conta solo l'elemento shock e la sensazione di non potersi salvare dall'orrore. Anche perché, come spesso accade in questo genere di film, il "male" non ha regole. Talvolta le nonnine sono solidi demoni costretti a camminare con le loro gambe, in altri momenti pare abbiano il dono di teletrasportarsi, quando gli gira sono ciarliere come i deadites de La casa, altrimenti sono silenziose ed implacabili, parrebbero avere poteri sovrannaturali ma ne usufruiscono solo se serve alla sceneggiatura. Insomma, un delirio. Eppure, ammetto che, guardandolo a casa da sola, un po' avevo paura che, nel buio, comparissero le nonnine a staccarmi la testa dal collo. Se poi penso che il tecnico degli effetti speciali aveva 18 anni quando ha realizzato il film, onestamente non mi sento di condannare Rabid Grannies all'oblio che molti gli hanno augurato. Anzi, vi sfido a recuperarlo e a farmi sapere cosa ne pensate, ricordandovi che la Notte Horror è imminente e che questo è un film perfetto per celebrare un'estate a base di brividi cheesy!

Emmanuel Kervyn è il regista e sceneggiatore della pellicola. Belga, anche attore, dopo Rabid Grannies non ha più lavorato come regista.



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