martedì 29 luglio 2025

So cosa hai fatto (2025)

E' passata più di una settimana dalla visione di So cosa hai fatto (I Know What You Did Last Summer), legacy sequel dell'omonimo film del 1998, diretto dalla regista Jennifer Kaytin Robinson, e finalmente riesco a scrivere due righe in merito.


Trama: Di ritorno dalla festa di fidanzamento di due di loro, cinque vecchi amici causano un incidente stradale e scappano senza prestare soccorso alla vittima. Un anno più tardi, i cinque cominciano a venire perseguitati e uccisi da un misterioso killer...


Non solo è passata più di una settimana da quando ho visto So cosa hai fatto, ma saranno quasi dieci giorni che non scrivo un post, quindi perdonatemi se sarò più raffazzonata e moscia del solito. La cosa mi dispiace parecchio, anche perché ero partita seriamente convinta del fatto che avrei odiato questo nuovo So cosa hai fatto, o almeno che mi sarei addormentata durante la visione. Invece, sul finale, ho cominciato a incrociare le dita perché uscisse un altro capitolo, quindi vorrei parlarne al meglio. Ma bando agli indugi. So cosa hai fatto è un legacy sequel che, come tale, ripropone, riaggiornandoli al gusto attuale ma con un occhio per i nostalgici fan, lo stesso concept iniziale del suo predecessore, la stessa struttura e gli stessi personaggi con l'aggiunta di nuovi protagonisti. Se già quello degli anni '90 partiva da un'idea stupida mutuata, ricordiamolo, da un romanzo young adult, il film della Robinson alza il livello di stupidità di almeno due tacche, adeguandosi alla shallowness della generazione Z, tanto che, all'inizio, stavo per abbandonare la sala, lo ammetto. Non è proprio spoiler se vi dico che i protagonisti anni '90 investivano un pedone, mentre quelli attuali causano involontariamente l'uscita di strada di un automobile con conseguente morte dell'autista e, nonostante la loro colpa sia ancora meno perseguibile penalmente, non chiamano comunque i soccorsi e giurano di mantenere il segreto in saecula saeculorum per motivi ancora più idioti dei loro predecessori. Fortunatamente, è stata proprio l'idiozia a rimettere sul binario giusto (molto vicino peraltro a quello di Incubo finale) un film che non pretende di prendersi sul serio neppure per un istante e, tra manzi il cui unico pregio è il fisico scolpito nonostante l'alcoolismo, youtuber regine di pessimo gusto, poliziotti da operetta e preti ambigui, consegna allo spettatore il personaggio migliore dell'intera saga, quella Danica che parte come principessina sui piselli e diventa il motore comico, nonché il cuore, dell'intera vicenda, eclissando una protagonista dimenticabile. Quanto ai vecchi ritorni, le sceneggiatrici sanno benissimo quali erano i personaggi migliori dei due film precedenti, e riservano alle due pittime Julie e Ray il minutaggio e il trattamento che meritano, innescando una riflessione non banale su tante piaghe sociali, come la dannosa nostalgia conservatrice dei fan, il maschilismo tossico e la tendenza a psicanalizzare ogni cosa, al punto da farsi di pietra contro dolore e senso di colpa. Che, sottolinea il film, non se ne va mai via, anche se si può spazzare temporaneamente sotto il tappeto, come il passato atroce di una cittadina che mira a diventare un gioiello turistico. 


Forse per questo, il nuovo So cosa hai fatto è più splatter dei suoi predecessori, e inscena parecchie morti anche esilaranti, atroci nella loro stupidità. C'è chi va incontro alla morte senza accorgersi di averla a un centimetro dal naso, chi se la sogna in una delle sequenze migliori del film, chi viene ironicamente esposto come memento del passato cittadino e chi paga ad altissimo prezzo la mancanza di rispetto, ma anche chi tenta di corrompere il killer col proprio portafoglio digitale e chi non dimentica la skincare nemmeno nei momenti più tragici. In tutto questo, lo sguardo della Robinson, anche co-sceneggiatrice, è così affettuoso e lieve che dispiace quasi vedere morire persino chi è stato designato come carne da macello fin dall'inizio, a differenza di quanto accadeva per gli odiosi, vuoti manichini dei primi due film (ripeto, salvo un paio di importanti eccezioni). Inoltre, per un film che cerca di fare meno presa possibile sull'amore dei fan accaniti della saga, lasciando che storia e personaggi camminino con le proprie gambe spinti da un flebile vento del passato, il nuovo So cosa hai fatto gioca un paio di jolly capaci di esaltare anche chi, come me, non ha mai provato interesse per gli "episodi" precedenti, e assesta un bel colpo di coda che lo rende più menefreghista e "libero" rispetto ai legacy sequel di Scream. A proposito dei quali, direi che So cosa hai fatto non supera il primo Scream di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett, ma si fa volere quasi bene quanto Scream VI e ha sicuramente il pregio di avere rinfocolato il mio interesse per una saga che ho sempre trovato derivativa e noiosina. Se non altro, stavolta, mi sono divertita molto!


Della regista Jennifer Kaytin Robinson ho già parlato QUI. Freddie Prinze Jr. (Ray Bronson) e Jennifer Love Hewitt (Julie James) li trovate invece ai rispettivi link.

Madelyn Cline interpreta Danica Richards. Americana, ha partecipato a film come Boy Erased - Vite cancellate, Glass Onion - Knives Out e a serie quali Stranger Things. Ha 27 anni e un film in uscita. 


Ci sono altre due guest star che non vi spoilero, perché per me sono state una sorpresa inaspettata e deliziosa, vi consiglio solo di non alzarvi durante i titoli di coda. Chase Sui Wonders, che interpreta Ava, aveva partecipato al film Bodies Bodies Bodies mentre Jonah Hauer-King era il principe Eric de La sirenetta versione live action; Billy Campbell, che interpreta Grant Spencer, era invece il baffuto Quincey di Dracula di Bram Stoker. Per apprezzare al meglio So cosa hai fatto è indispensabile non solo recuperare il primo film, ma anche Incubo finale. ENJOY!

venerdì 25 luglio 2025

2025 Horror Challenge: The Burning (1981)

La challenge chiedeva di guardare un horror uscito nel mio stesso anno di nascita, e io ho scelto The Burning, diretto e co-sceneggiato nel 1981 dal regista Tony Maylam (so che non interessa a nessuno ma il prompt era della settimana scorsa. Pubblico il post oggi, approfittando di un "buco" lasciato dai corti horror, perché nei giorni scorsi volevo parlare di un paio di film usciti di recente in Italia!).  


Trama: a causa di una burla finita male, il custode di un campeggio rimane orribilmente sfigurato in un incendio. Cinque anni dopo, l'uomo esce dall'ospedale e cerca vendetta...


A volte è brutto guardare per la prima volta i film dopo 40 e fischia anni dalla loro uscita, perché nel frattempo sono successe un sacco di cose non proprio bellissime nel mondo dell'entertainment, e uno ha difficoltà a tenere fuori pensieri intrusivi durante la visione. Per esempio, The Burning nasce da un'idea di Harvey Weinstein, ed è stato sceneggiato dal fratello Bob assieme a Peter Lawrence; guardando il film, non riuscivo a smettere di chiedermi se le varie scene in cui le ragazze vengono pesantemente approcciate da teenager in fregola che non riescono ad accettare un "no" come risposta fossero un "omaggio" di Bob al fratellino, in particolare quella in cui Eddy riduce in lacrime la ragazzotta (un po' scema, fatemelo dire) rea di avere accettato una nuotata nudi ma di avere comunque rifiutato di fare sesso con lui. Probabilmente sono io che penso troppo, ma quelle scenette di ordinario arrapamento adolescenziale mi hanno messo i brividi più del killer armato di forbici da potatura che fa scempio di campeggiatori, ed è un peccato perché Bob Weinstein e Peter Lawrence, a differenza di tanti altri loro colleghi, hanno dato vita a dinamiche e personaggi abbastanza verosimili e tridimensionali. Sì, come in Venerdì 13 c'è un killer vendicativo che torna dopo anni sul luogo dell'incidente che gli ha rovinato l'esistenza e comincia ad uccidere adolescenti, ma non tutte le vittime sono carne da macello, anzi, alcuni hanno una personalità interessante, e non è facilissimo capire chi di loro sarà il final boy o la final girl. Dopo un inizio cupissimo, che offrirebbe potenziale per altri due film d'orrore (uno dei quali ambientato in un ospedale) The Burning ci introduce infatti alle atmosfere di un tipico campeggio estivo, dove accanto ai soliti manzetti e manzette tanto amati dagli slasher, ci sono anche ragazze incerte sui loro sentimenti, adolescenti allegri che fanno gruppo e tentano di coinvolgere anche gli outsider, capigruppo protettivi e sinceramente preoccupati per i ragazzi che sono stati loro affidati, momenti di cameratismo e la goffaggine imbarazzante tipica di quell'età, quando comportamenti bizzarri vengono esasperati fino a diventare disgustosi, sprofondando nella disperazione più nera chi ancora non riesce a trovare il suo posto nel mondo. Insomma, c'è un po' di investimento emotivo in The Burning (anche perché lo scherzo iniziale ai danni del custode del campeggio è qualcosa di tremendo, nonostante la vittima fosse una persona orribile), e molti dei personaggi si muovono all'interno di zone morali più o meno grigie, senza essere totalmente buoni o cattivi.  


The Burning
è particolare anche perché molte delle scene più gore sono baciate dalla luce del sole, in primis quella che lo ha reso giustamente famoso, che si svolge in un ambiente acquatico, il fiume, dove la luminosità viene ulteriormente enfatizzata da riflessi e riverberi. Il make-up di Tom Savini è eccelso e non risparmia nulla alle povere vittime della furia del killer. Proprio nella sequenza della zattera, dopo un'iconica ripresa dal basso del maniaco e una carrellata di terrificanti ferite mortali, il colore vivido del sangue riempie tutto lo schermo, prima che il montaggio passi alla scena successiva; il volto sfigurato del killer (realizzato in soli tre giorni), poi, è talmente disgustoso che viene da ringraziare il fatto di poterlo vedere solo per pochi secondi, e le lame fanno il loro dovere, che siano quelle delle cesoie che tagliano dita e gole, o che siano quelle di un'ascia che sfonda teste come angurie mature. Anche lo showdown finale ambientato in un'evocativa miniera abbandonata è interessante, grazie a carrellate ravvicinate dei protagonisti, che trasformano l'ambiente in un vero e proprio labirinto senza via d'uscita e rendono palpabile il terrore derivante da un mortale nascondino. Nota di merito, infine, per la colonna sonora di Rick Wakeman, che mi ha ricordato parecchio lo stile di alcuni lavori di Fabio Frizzi e gli conferisce un sapore adorabilmente fulciano. Sapete bene che non vado matta per gli slasher, quindi trovare così tanti meriti in un prodotto anni '80 mi ha piacevolmente stupita; perciò, non posso fare altro che consigliarvi il recupero di quello che, a ragione, tanti appassionati considerano superiore a Venerdì 13, pur essendo meno famoso. Io stessa non lo avevo mai visto prima d'oggi, e ne avevo sentito parlare solo sporadicamente! 


Di Fisher Stevens, che interpreta Woodstock, ho già parlato QUI, mentre Holly Hunter, che interpreta Sophie, la trovate QUA.

Tony Maylam è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Inglese, ha diretto film come Detective Stone. Anche produttore, ha 82 anni.


Se vi sembra di conoscere Brian Baker, che interpreta Alfred, dai tempi della vostra infanzia, è perché l'attore era in Scuola di polizia 4 nei panni del teppistello Arnie; Jason Alexander, che interpreta Dave, era invece George Costanza, il co-protagonista della sit-com Seinfeld. The Burning è stato uno dei film inseriti nell'elenco dei Video Nasty britannici, a causa della scena della zattera. Se The Burning vi fosse piaciuto recuperate Venerdì 13. ENJOY!


mercoledì 23 luglio 2025

Incubo finale (1998)

Siccome ho fatto trenta, prima della visione del reboot di So cosa hai fatto ho deciso di riguardare Incubo finale (I Still Know What You Did Last Summer), diretto nel 1998 dal regista Danny Cannon. Il reboot dovrei averlo visto ieri ma da domani sarò a Roma, quindi probabilmente ne parlerò martedì prossimo, tanto so che non tratterrete il fiato nell'attesa di conoscere la mia opinione! 


Trama: un anno dopo gli eventi del primo film, Julie è ancora traumatizzata dal ricordo di Ben Willis e il suo rapporto con Ray è diventato burrascoso. Per tirarle su il morale, l'amica Karla decide di portarla con sé dopo avere vinto un viaggio alle Bahamas, assieme al suo ragazzo Tyrell e all'amico Will, innamorato di Julie. Nel resort, però, cominciano ad accumularsi i cadaveri per mano di chi sembrerebbe proprio Ben Willis redivivo...


Di cos'è successo quando sono andata al cinema a vedere Incubo finale ho già parlato QUI, non starei a ri-raccontarvi l'aneddoto. Diciamo che se avessi guardato So cosa hai fatto prima del suo sequel magari mi sarei divertita di più all'epoca, cosa che ho fatto ora, ma forse non per i motivi che pensate. Anzi, probabilmente non sarebbe andata così, perché non avrei avuto il senso dell'umorismo adatto e "il senno di poi" che mi hanno portata a prendere Incubo finale per la cazzata mortale che è, un film pieno di momenti cringissimi e nato solo per amor di sequel. Se ci riflettete, So cosa hai fatto finiva con Julie nella doccia che veniva attaccata da un Ben Willis che, giustamente, le aveva detto come ultima cosa di "controllare sempre che i morti siano tali", o una cosa del genere. Per dare plausibilità a un seguito, quell'ultima sequenza viene considerata un incubo, e il nuovo film si apre dunque con un altro incubo, cosa che ha reso la vita molto facile ai titolisti italiani, benché malvagi come il loro solito. Quindi, Julie è ancora traumatizzata dagli eventi accorsi negli ultimi due anni (in realtà tutto è cominciato due estati prima, ma il killer se l'è legata al dito, perché lui sa ANCORA cos'ha fatto l'estate scorsa. Mollaci, per Dio.) e continua a non dormire per colpa dei brutti sogni. Per lo stesso motivo, rifiuta di tornare nella cittadina di pescatori dove, invece, è rimasto Ray; il rapporto va male perché lei non torna a casa e lui non ha il belino di andare a trovarla, e la nuova migliore amica di Julie non perde occasione per consigliarle, giustamente, di mandarlo al diavolo, ché lei è fidanzata con un coglione malato di figa, quindi massima esperta in fatto di fidanzati. In tutto questo, ciccia fuori il terzo incomodo, Will, tanto caruccio e con una crush enorme per Julie, e l'occasione per una svolta sentimentale arriva quando Julie e Karla vincono un viaggio alle Bahamas rispondendo telefonicamente a una domanda stupidissima. In realtà, il vero nemico di Julie e Karla è il sistema scolastico americano, quindi gli spettatori mangiano la foglia e loro no, col risultato di correre felici alle Bahamas a fine stagione, e di trovarsi in un resort deserto, flagellato dalle tempeste tropicali, con personale scazzato; in pratica, la riserva di caccia personale del "killer dell'uncino", che riserverà a Julie non solo tanto dolore e paura, ma anche un sacco di Carràmbate, ché Incubo finale è peggio di Beautiful.


Quello che a me non piace della saga (ma magari il nuovo film mi smentirà) è che, a differenza di quanto succedeva a Sidney in Scream, Julie non evolve e Ben lasciamo pure perdere, era inutile nel primo e qui è proprio l'apice della futilità. Però, c'è da dire che Julie sa scegliersi bene le migliori amiche perché, nonostante i gusti discutibili in fatto di uomini, Karla è tosta, simpatica, nonché l'unico personaggio principale che non avrei voluto vedere morto fin dall'inizio. Brandy avrebbe meritato sicuramente più credito come attrice,  perché qui, pur interpretando la tipica ragazza di colore sassy e sensuale, mostra carisma da vendere ed eclissa spesso e volentieri la protagonista. Ciò non accade, invece, per la marea di guest star sfruttate malissimo. Jeffrey Combs compare dieci minuti nei panni di addetto alla reception talmente scoglionato che potrebbe venire nominato ligure ad honorem, Bill Cobbs funge da momentaneo "sospetto" in un omaggio al voodoo che non viene sfruttato se non come nota di colore, e Jack Black... beh, cosa vuoi dire a Jack Black, oltre a "Cristo se sei imbarazzante"? Parrucchetta rasta di ordinanza, una canna o un bong perennemente in mano, umorismo dozzinale, l'attore sembra pronto per una comparsata in Scary Movie, più che in uno slasher "serio", e non sorprende che il suo nome non venga citato nei titoli; anche cercando sul web, troverete solo delle speculazioni sul motivo di questa scelta, ma le ipotesi puntano maggiormente su assennati consigli di manager vinti da vergogna, e non riesco a dare loro torto. L'unico motivo per cui mi sentirei di consigliare Incubo finale, al netto di un paio di momenti splatter ben riusciti, è per concludere in bellezza una serata ad alto tasso alcolico dove ridere fino a stare male della dabbenaggine dei protagonisti (la sequenza del lettino abbronzante è un capolavoro di nonsense) e delle arrampicate sugli specchi dello sceneggiatore Trey Callaway, ma la vita è oggettivamente troppo breve, meglio utilizzare tempo prezioso per qualcosa di più interessante!


Di Jennifer Love Hewitt (Julie James), Freddie Prinze Jr. (Ray Bronson), Bill Cobbs (Estes), Jeffrey Combs (Mr. Brooks), John Hawkes (Dave) e Jack Black (non accreditato, interpreta Titus Telesco) ho parlato ai rispettivi link.

Danny Cannon è il regista della pellicola. Americano, ha diretto film come Dredd - La legge sono io ed episodi di serie quali CSI: Miami, CSI - Scena del crimine e Gotham. Anche sceneggiatore e produttore, ha 56 anni. 


Brandy
(vero nome Brandy Rayana Norwood) interpreta Karla Wilson. Americana, famosissima come cantante, ha partecipato a film come The Front Room e a serie quali Sabrina vita da strega e 90210. Anche produttrice e sceneggiatrice, ha 46 anni.


Mekhi Phifer
interpreta Tyrell. Americano, lo ricordo per essere stato il Dr. Pratt di E.R. Medici in prima linea. Ha partecipato a film come Clockers, Girl 6, Shaft, O come Otello, 8 Mile, Honey e L'alba dei morti viventi. Anche produttore e regista, ha 51 anni. 


Jennifer Esposito
, che interpreta Nancy, è l'ex moglie di Bradley Cooper. A Peter Jackson era stato chiesto di dirigere il film ma ha rifiutato, immagino perché dopo The Frighteners aveva qualcosa di più epico per la testa. Incubo finale è il seguito diretto di So cosa hai fatto, la saga è continuata poi con Leggenda mortale, col reboot uscito da qualche giorno in sala e con una serie che potete trovare su Prime Video, So cosa hai fatto. ENJOY!

martedì 22 luglio 2025

Il Bollalmanacco On Demand: L'innocenza (2023)

Per la rubrica Il Bollalmanacco On Demand avrei dovuto parlare oggi di The gangster, the cop, the Devil, ma Lory ha deciso di cambiare il titolo scelto con L'innocenza (怪物 - Kaibutsu), diretto nel 2023 dal regista Hirokazu Koreeda. Il film di  Lee Won-tae sarà comunque il prossimo della rassegna!


Trama: Minato è un ragazzino delle medie che vive solo con la madre, dopo che il padre è morto. Un giorno, Minato comincia a comportarsi in modo strano, a tornare a casa ferito e senza scarpe; indagando, sua madre scopre che la colpa sembrerebbe essere del professor Hori...


In un mondo in cui la gentilezza è diventata merce rara, è successo che una delle mie lettrici, Lory, ha deciso di chiedermi un film On Demand al posto di un altro che aveva proposto da tempo, perché un'altra lettrice, Patrizia, ha chiesto un parere proprio su L'innocenza, dichiarandosi "stupita , confusa, non sono sicura mi sia piaciuto al 100%". Sono stata comunque un po' lenta nel recupero, e mi dispiace, ma devo ringraziare sia Lory che Patrizia per avermi permesso di guardare un film veramente particolare e bellissimo, un "thriller" di sentimenti, raccontato attraverso quattro punti di vista diversi. Cercherò di non fare troppi spoiler, e di invogliare chi non dovesse conoscere L'innocenza a vederlo lasciandosi sorprendere dagli argomenti trattati. La storia è quella di Minato, un ragazzino che frequenta la sesta elementare giapponese (in pratica, l'equivalente di un nostro studente di prima media). Minato vive solo con la giovane madre vedova, Saori; il rapporto tra i due è sereno ma, ovviamente, Saori deve lavorare per mantenere entrambi, e spesso non riesce a stare accanto al figlio come vorrebbe. La donna rimane quindi sconvolta quando Minato comincia a farle domande strane su bambini ai quali verrebbero trapiantati cervelli di maiale, a tornare a casa tardi, a presentarsi con delle ferite oppure senza scarpe, finché un giorno il ragazzo arriva addirittura a buttarsi dall'automobile in corsa guidata dalla madre e finisce in ospedale, pur senza riportare danni gravi. Messo alle strette, Minato confessa di essere vittima delle angherie del giovane professor Hori, e Saori corre a scuola pretendendo soddisfazione, trovandosi davanti però un muro di insegnanti (direttrice compresa) distaccati e freddi, poco interessati ai problemi di Minato o alla rabbia di sua madre. Questo è l'incipit de L'innocenza anche se, per essere esatti, il film inizia in medias res, quando una serie di eventi ha già travolto Minato, ma prima che queste vicende cambino irrimediabilmente le vite di tutti i coinvolti. La sceneggiatura riparte altre tre volte dall'inizio, presentando la storia da altri punti di vista, e lascia allo spettatore il compito di unire tutti i puntini, ottenendo il quadro complesso di un delicato, malinconico coming of age che vede due mondi completamente diversi scontrarsi.


Il titolo italiano, L'innocenza, e quello giapponese, traducibile come "mostro", sono intercambiabili, perché dipendono dai punti di vista dei personaggi presenti nel film e rappresentano due mondi che si incontrano ogni giorno senza capirsi quasi mai, ovvero quello degli adulti e quello dei bambini. Minato e il suo compagno di classe Yori vivono e si rapportano tra loro con l'innocenza della loro età, scevri da pregiudizi o secondi fini, con una semplicità quasi commovente. E' la percezione altrui che è falsata, e da vita a tanti piccoli e grandi equivoci; ciò che è innocenza per alcuni, diviene dapprima stranezza, poi mostruosità per altri, e questo vale per tutti i protagonisti del film, che introiettano questa percezione estranea, arrivando a sentirsi davvero dei mostri e a comportarsi come tali, anche solo spinti da un istinto di autoconservazione. Anche i ruoli di "vittime" e "carnefici" si scambiano costantemente all'interno de L'innocenza, tanto che, se inizialmente si prova odio verso un personaggio, facilmente si verrà mossi a pietà in seguito, quando tutte le tessere del puzzle saranno andate al loro posto. Persino chi, sul finale, si scoprirà essere davvero colpevole di un atto gravissimo, benché involontario, racchiude in sé un dolore e un senso di colpa talmente grandi che è difficile non commuoversi durante la sequenza in sala musica; anche lì, un "semplice" momento di condivisione diventa qualcosa di più, perché rappresenta anche la salvezza fisica di un'altra persona, ed è l'ennesimo esempio di come L'innocenza sia un film complesso e mai univoco, la perfetta rappresentazione della natura spesso soggettiva della "verità". L'alternanza di una dura, prosaica realtà e la fuga verso un perfetto mondo di fantasia e libertà è un altro aspetto fondamentale de L'innocenza, all'interno del quale i personaggi combattono duramente per preservare un minuscolo spazio felice da cui vengono costantemente strappati, persino per mano di chi vuole loro bene. Il finale, in tal senso, è emblematico, e lascia aperta la porta a più interpretazioni, persino negative, anche se lo stesso regista ha parlato di rinascita metaforica, di un'accettazione di se stessi e di un futuro da accogliere con animo più leggero, senza timore di venire nuovamente ingabbiati o frenati.


Le vicende di Minato, Yori, Saori e Hori, vengono narrate attraverso una regia partecipe ma non invasiva, con inquadrature che lasciano ampio spazio allo spettatore per indagare volti, gesti, dettagli apparentemente insignificanti; la regia di Koreeda mima lo sguardo altrui, talvolta utilizzando splendide soggettive, altre volte replicando lo stupore provato da panorami stupefacenti o terribili, spesso lasciando particolari importanti appena fuori dall'inquadratura, a dimostrare che le persone vedono quasi sempre ciò che si aspettano di (o vogliono) vedere. Anche la direzione degli attori è incredibile, in primis quella dei giovanissimi interpreti di Minato e Yori, considerato l'argomento difficile trattato dal film. Gli atteggiamenti dei due ragazzini, così come il modo in cui interagiscono, è molto verosimile, sia nei loro giochi infantili che nei loro drammi, così complicati che schiaccerebbero degli adulti molto più navigati; per quanto riguarda il cast più "maturo", invece, gli attori apportano tantissime sfumature impercettibili ai personaggi, assecondando il costante cambio di punti di vista, dando vita ogni volta a una persona diversa e sempre più complessa. Se la regia di Koreeda è solida ma perfettamente "mimetizzata", la bellissima colonna sonora di Ryūichi Sakamoto, l'ultima realizzata dal talentuoso compositore (il quale ha composto solo due brani nuovi per pianoforte, il resto della colonna sonora comprende vecchi pezzi di Sakamoto scelti per l'occasione, da lui o da Koreeda), sembra sgorgare direttamente dalle immagini, naturale e necessaria quanto i silenzi che spesso accompagnano le vicende dei personaggi. Il brano che si sente sul finale, allungandosi nei titoli di coda, rende difficile allo spettatore staccarsi dalle atmosfere malinconiche e misteriose del film, ed alimenta il desiderio di riguardare L'innocenza da capo, più volte, per cogliere tutto ciò che magari è sfuggito alla prima visione e riuscire a catturare l'essenza di questi personaggi così sfuggenti e complicati.


Del regista Hirokazu Koreeda ho già parlato QUI.

Sakura Andou interpreta Saori Mugino. Giapponese, ha partecipato a film come Love Exposure, Un affare di famiglia e Godzilla -1.0. Ha 39 anni.






venerdì 18 luglio 2025

You'll Never Find Me (2023)

Con tutta la calma del mondo, è uscito ieri in pochissimi cinema italiani un film che gli appassionati conoscono da più di un anno, ovvero You'll Never Find Me, diretto nel 2023 dai registi Josiah Allen e Indianna Bell (anche sceneggiatrice).


Trama: durante una tempesta, una donna bussa alla porta del trailer di un uomo. I due si confrontano, cercando di reprimere la diffidenza reciproca...


Ho un piccolo disclaimer da fare, prima di iniziare la recensione. Se siete stanchi, malaticci, assonnati, reduci da una sessione di palestra più o meno intensa, vecchi come la sottoscritta, aspettate prima di mettervi a guardare You'll Never Find Me, o rischiate di addormentarvi dopo 10 minuti. Parlo per via di un'esperienza personale durata ben due giorni, dopo i quali, al terzo giorno, sono finalmente riuscita a vedere il film per intero senza addormentarmi ignominiosamente. Il problema, se così si può dire, di You'll Never Find Me, è quello infatti di essere uno slow burn molto ma molto slow. Il che non è un male, ma bisogna avere il cervello reattivo, pena il rischio di non gustarsi lo spettacolare, tesissimo confronto tra gli unici due personaggi presenti nel film. E' una notte da tregenda, un uomo se ne sta solo all'interno del suo squallido trailer a bere e rimuginare, ascoltando il vento e i tuoni che sembrano voler sradicare da terra il suo fragile rifugio, ed altri rumori non meglio definiti. A un certo punto, bussa alla porta una ragazza scalza e bagnata fradicia che, sorpresa dalla tempesta, vorrebbe usare il telefono per farsi venire a prendere. Partendo da questo incipit semplicissimo, You'll Never Find Me imbastisce un'opera dall'impianto teatrale, basata sul diffidente confronto tra due persone che hanno evidentemente qualcosa da nascondere e si ritrovano a dover condividere un ambiente piccolo e claustrofobico per motivi di convenienza. Naturalmente, la maggior parte delle sensazioni disturbanti proviene da Patrick, uomo burbero e solitario che induce la nuova arrivata a rimanere all'interno del trailer sfruttando un mix di altruismo e gaslighting da manuale, aiutato dalle condizioni esterne assai poco favorevoli, ma anche la ragazza emana vibrazioni "sbagliate" e si trincera dietro tante piccole bugie che esulano dalla semplice autoconservazione; ad aggravare il tutto, ci sono svariati indizi che darebbero l'impressione di un qualcosa di sovrannaturale all'opera nel trailer, tra visioni sanguinolente, voci nel vento e la canzone Sleepwalk che si ripete in loop, sempre più distorta. 


Non voglio fare l'esperta che "se la crede", ma il twist di You'll Never Find Me è intuibile dopo pochi minuti. Il valore del film, però, risiede soprattutto nella performance di Brendan Rock e Jordan Cowan, che sembra quasi camminino sulle uova onde evitare che il sottilissimo filo di (s)fiducia teso tra i loro due personaggi si spezzi; i dialoghi tra Patrick e la sconosciuta non sono particolarmente innovativi o ficcanti, ma coinvolgono nella misura in cui ogni volta riverbera qualcosa di sbagliato anche nei discorsi più banali o cortesi, un nervosismo sotteso che fa eco al delirio meteorologico che imperversa all'esterno e che i protagonisti vogliono evitare si riproponga in casa con uno scoppio di violenza. Inevitabilmente, lo spettatore si ritrova coinvolto da questa tensione, dall'attesa che succeda qualcosa di orribile, e queste sensazioni vengono enfatizzate a dismisura dall'uso di un sonoro snervante (a un certo punto mi sono alzata per vedere se qualcuno o qualcosa fosse entrato in casa mia, coperto dai rumori incessanti della pioggia, del vento, dei tuoni e degli infissi scricchiolanti che riecheggiano per tutto il film) e da una fotografia cupa che, impercettibilmente, vira sempre più nei toni del rossastro, garantendo un senso di claustrofobia assecondato anche dalle inquadrature ravvicinate e sghembe della regia. Il pre-finale è un delirio visionario che dà sfogo a tutte le emozioni trattenute fino a quel momento, ma in tutta onestà l'ho trovato un po' poco soddisfacente, mi è sembrato che i realizzatori abbiano voluto dare mostra della loro intelligenza e della loro bravura senza però riuscire a centrare un punto, qualunque esso fosse, né a sconvolgermi con qualcosa di inaspettato. Ciò non toglie che, per essere alla loro prima esperienza nel lungometraggio, Josiah Allen e Indianna Bell abbiano realizzato un'opera notevole, con tantissimi aspetti positivi, quindi aspetto con trepidazione il loro prossimo film, sperando rimangano nell'ambito horror. 

Josiah Allen e Indianna Bell sono i registi della pellicola. Australiani, anche produttori, sono al loro primo lungometraggio ma hanno all'attivo già alcuni corti realizzati insieme.



 

mercoledì 16 luglio 2025

Clown in a Cornfield (2025)

Per ovvi motivi, appena è uscito anche in Italia con l'innominabile titolo Il clown di Kettle Springs, ho recuperato Clown in a Cornfield, diretto e co-sceneggiato dal regista Eli Craig partendo dal romanzo di Adam Cesare.


Trama: Quinn si traferisce con suo padre nella cittadina di Kettle Springs. Lì, fa amicizia con Cole e con altri suoi coetanei, minacciati dall'inquietante presenza del clown Frendo...


Gli ovvi motivi, se seguite da un po' il mio blog, si trovano nel titolo del film. Due delle cose che mi terrorizzano di più, da quando ho cominciato a guardare gli horror, sono i clown e i campi di grano. Diciamo che Adam Cesare avrebbe fatto filotto se, nel titolo, avesse inserito anche bambole e burattini ma, anche così, il suo romanzo mi ha abbastanza incuriosita da leggerlo, quando ho saputo che ne avrebbero tratto un film. Clown in a Cornfield è uno young adult in salsa horror, scritto da un autore nato nel 1988 e quindi abbastanza vecchio da poter essere genitore di uno dei protagonisti; nonostante la "vecchiaia", o forse proprio grazie ad essa, Cesare ha basato il suo romanzo più famoso sulla lotta generazionale e sulla pessima abitudine che abbiamo noi Millenials (e le generazioni prima di noi) di rifiutare il passare del tempo, aggrappandoci testardamente a una nostalgia che sta progressivamente devastando il mondo in generale, e quello dell'entertainment in particolare. A questo, bisogna aggiungere che Clown in a Cornfield è ambientato nella cosiddetta flyover country, in bifolcolandia, dove le diavolerie moderne e il progresso sono guardati ancora più con sospetto, quindi terreno fertile per tradizioni stagnanti e potenzialmente pericolose. A Kettle Spring, paese dove si trasferiscono Quinn e suo padre, chiamato a ricoprire il ruolo di dottore locale, dette tradizioni (vecchie di BEN 100 anni!!) ruotano tutte attorno alla fabbrica di sciroppo di mais Baypen e della sua mascotte Frendo, un clown celebrato dalla gente del luogo come un eroe leggendario. Gli unici immuni al fascino di Frendo sono Cole e i suoi amici, i quali, da bravi zoomers, sognano un futuro migliore e lontano ma, nel frattempo, si divertono a tutto spiano cercando fama e followers su internet caricando video di burle pesanti, arrivando persino a screditare Frendo presentandolo come un serial killer. I problemi, ovviamente, iniziano quando gli adolescenti di Kettle Springs cominciano a cadere davvero come mosche per mano dell'inquietante clown.

Il film di Eli Craig segue in buona misura la trama del libro, con un'unica differenza davvero importante, ovvero quella di riservare il plot twist al finale, mentre Cesare scopre le carte ben prima. Il medium cinematografico è anche più rapido e divertente, popolato da personaggi un po' più stereotipati e superficiali (protagonista compresa), che seguono modelli di comportamento più esasperati e meno inquietanti rispetto alle loro controparti cartacee. Il risultato, però, non è affatto disprezzabile ed è un simpatico dito medio rivolto agli slasher nostalgici, un horror per i ragazzi di oggi e per gli adulti che hanno abbastanza cervello da ridere di loro stessi, magari riconoscendosi un po' negli abitanti di Kettle Springs e nel goffo padre di Quinn (la battuta pronunciata dalla ragazza, "Sai che gli anni '80 sono lontani da me quanto lo erano per te gli anni '40?" mi ha stesa anche se, come direbbe Titty Ferro, fa "male, male, male da morire"). A livello di gore, Clown in a Cornfield regala un paio di morti molto belle ai danni di poveri ragazzetti, mentre il sembiante del clown Frendo, riproposto in un terrificante carillon con pupazzo a molla che non vorrei in casa nemmeno me lo regalassero, è inquietante a sufficienza per il pubblico a cui è rivolto (non supererà MAI l'orrore dei clown di Hell House LLC, ci mancherebbe, ma fa il suo). Anche gli attori sono molto validi. La ragazza che interpreta Quinn è bellina e cazzuta, Cole è come me lo sarei aspettato leggendo il libro e Kevin Durand regala sempre grandi gioie; continuo a contestare un po' il casting di Will Sasso nei panni dello sceriffo, e anche personaggi come Janet e Ronnie sono un po' sottotono, ben diverse dalla queen bee e dalla zoccolotta del libro, per non parlare di quel blocco di tufo che interpreta Rust, ma non si può avere tutto dalla vita. Sarei curiosa di vedere adattati gli altri romanzi della serie, arrivata ormai al terzo capitolo, ma temo che rispecchierebbero un po' troppo la realtà Trumpiana, soprattutto Frendo Lives!, e servirebbe un approccio meno giocoso rispetto a quello di Eli Craig. Ma mai dire mai, comunque!


Del regista e co-sceneggiatore Eli Craig ho già parlato QUI. Kevin Durand (Arthur Hill) e Will Sasso (Sceriffo Dunne) li trovate invece ai rispettivi link. 


Se Clown in a Cornfield vi fosse piaciuto, recuperate Tucker and Dale vs Evil. ENJOY!

martedì 15 luglio 2025

The Surfer (2024)

In occasione della triste ed inaspettata dipartita di Julian McMahon ho deciso di guardare il suo ultimo film, The Surfer, diretto nel 2024 dal regista Lorcan Finnegan.


Trama: un uomo d'affari torna nella cittadina costiera australiana dov'è nato, nella speranza di acquistare la vecchia casa di suo padre e fare surf col figlio nella spiaggia della sua infanzia. Nel frattempo, purtroppo, il posto è diventato ritrovo di una gang di surfisti ostili nei confronti degli autoctoni...


Lorcan Finnegan
si era imposto all'attenzione degli amanti dell'horror in tempo di pandemia, quando col suo Vivarium aveva dato voce al terrore claustrofobico di una vita ripetuta sempre nelle stesse modalità e all'interno dello stesso ambiente ristretto. Insomma, era uscito col film giusto al momento giusto, alimentando incubi radicati in una percezione tristemente attuale della realtà dell'epoca. Nel frattempo, sono usciti Nocebo Nightmare Radio: The Night Stalker, due film che purtroppo devo ancora recuperare, quindi non saprei dire se il suo discorso sulla progressiva perdita dell'individualità e sui non luoghi che inducono alla pazzia sia proseguita ininterrotta; di sicuro, però, The Surfer ha molte similarità con Vivarium. La sceneggiatura racconta di un uomo senza nome (il "surfista", nei titoli di coda), nato in Australia ma vissuto in America fin dall'adolescenza, che torna nella cittadina dove ha passato l'infanzia per ricomprare la casa paterna. Il protagonista è molto benestante, ma non abbastanza da acquistare l'immobile senza dare fondo a tutte le sue finanze aggiungendo anche ingenti prestiti; ciò, tuttavia, non lo ferma, perché il suo obiettivo è dare al figlio l'opportunità di vivere proprio in quella casa, e fare surf nella spiaggia poco distante. Purtroppo, il luogo è anche ritrovo di una banda di violenti surfisti che lo hanno riservato ad uso esclusivo dei "locals", e il protagonista viene brutalmente invitato ad andarsene e non mettere mai più piede lì. Determinato a non cedere, e a rivivere i tempi felici che furono, l'uomo decide di piantonarsi lì ad aspettare la conferma della banca, decisione che lo condannerà a vivere un incubo sempre più surreale e allucinato, perdendo brandelli di se stesso ad ogni ordalia impostagli dai surfisti. 


Fin da quando ho visto Fuori orario di Scorsese, ho capito che uno dei concetti che più mi inquieta è quello di perdere il controllo della propria vita non per mano di forze sovrannaturali, ma della propria "ingenuità", della "sfiga" e della cattiveria altrui (persino Roba da matti mi mette inquietudine, per dire). In Fuori orario, il protagonista "osava" uscire dalla sua comfort zone e ne pagava le conseguenze rischiando di morire o finire in galera, perdendo tutto ciò che lo caratterizzava. In The Surfer, il concetto di base è un po' diverso, perché il protagonista non è un outsider, almeno dal suo punto di vista, anzi, ritiene di avere tutto il diritto di riottenere ciò che percepisce come "suo", ma il risultato finale non cambia. A differenza di Paul, che non vedeva l'ora di tornare a casa, il protagonista di The Surfer non si smuove di un passo, ed è lui stesso a fornire ai suoi nemici i mezzi per rinchiuderlo saldamente in una realtà da incubo, sia fisica che psicologica. Nonostante la dimensione ridotta della sua prigione, inoltre, il labirinto di insidie di cui è popolata è grande quanto l'intera New York, questo perché l'Australia non perdona; ti frigge il cervello col sole a picco, ti cattura col suo bush, ti minaccia con pericolosi animali, ti isola con l'accento incomprensibile dei suoi abitanti, ti illude con la promessa di una civiltà tanto rara quanto preziosa, travestendosi da paradisiaca meta turistica. La setta di surfisti capitanata da Scally, riccastro che si spara le pose di santone, è figlia del territorio e i suoi membri sfruttano tutti questi elementi per ridurre "l'invasore" a un groviglio di puro istinto animale, andando a pungolare non solo la sua volontà di sopravvivere, ma anche un orgoglio e un pensiero elitario che non lo rende poi così dissimile dai suoi carnefici. A un certo punto, l'alternativa è arrendersi e morire come un guscio svuotato di ogni consapevolezza di sé, oppure lasciarsi assimilare, perdendo comunque la propria individualità; l'aspetto angosciante di The Surfer è proprio il modo infido in cui, pur nella consapevolezza dello schifo incarnato da Scally e soci, instilla nello spettatore una sorta di colpevole sollievo all'idea di riottenere tutti i diritti che dovrebbero essere garantiti da una società civile.  


Lorcan Finnegan
rinfocola il disagio dello spettatore dando vita a un'Australia bruciata dal sole, fotografata con colori nitidissimi in cui prevale un'arancione ambivalente, che rappresenta sia la letterale fornace che minaccia di inghiottire il protagonista privato di cibo, acqua e refrigerio, sia memorie baciate da un ingannevole tramonto. Le inquadrature di Finnegan fanno sentire tutto il caldo che risale a ondate dall'asfalto e indugiano su degradanti, puzzolenti schifezze alternandole a momenti in cui ogni cosa che circonda il protagonista sembra un incubo da disidratazione, mentre un sapiente montaggio contribuisce a instillare dubbi su cosa sia vero e cosa sia falso (il fatto che a un certo punto sia difficile distinguere il protagonista dal barbone è geniale). Non aiuta l'ingannevole colonna sonora chill out, che punteggia ironicamente le inquadrature di Luna Bay e delle onde del mare, irraggiungibili miraggi da cartolina e status symbol di una vita da sogno tenuti saldamente nelle mani abbronzatissime di un Julian McMahon mefistofelico. Ho sempre avuto un debole per Julian, la sua morte mi ha spezzato il cuore, ma sono contenta che la sua ultima interpretazione sia stata questa; carismatico, con sorriso assassino d'ordinanza e una cappa rossa che non avrebbe sfigurato in una puntata di Streghe, l'attore non si lascia rubare la scena da Nicolas Cage e diventa un capobranco da antologia, ma anche un inquietante guru, santone e salvatore di un'orribile umanità che verrebbe voglia di vedere annegata nei flutti. Quanto a Nic, lui fa il suo, e non mi aspettavo di meno. Anzi, stavolta riesce persino ad essere misurato nella sua follia ed angosciante, tristissimo in quella che non è altro che la massima rappresentazione di un'ossessione scambiata erroneamente per sana, doverosa rincorsa verso la felicità. The Surfer lo trovate su quasi tutti i servizi streaming italiani, fatevi un favore e recuperatelo, perché è un film bellissimo!


Del regista Lorcan Finnegan ho già parlato QUI. Nicolas Cage (Il surfista) e Julian McMahon (Scally) li trovate invece ai rispettivi link.



venerdì 11 luglio 2025

2025 Horror Challenge: Mon Mon Mon Monsters (2017)

Questa settimana la challenge chiedeva di guardare un horror che non fosse in lingua inglese. Siccome, grazie a questo post di Lucia, avevo da tempo in watchlist il film Mon Mon Mon Monsters (報告老師!怪怪怪怪物!), diretto e sceneggiato dal regista Giddens Ko nel 2017, ho deciso di colmare la lacuna!


Trama: Lin Shuwei è lo zimbello della classe e le cose peggiorano quando viene accusato ingiustamente di avere rubato dei soldi proprio dai veri ladri, il bulletto Renhao e i suoi amici. Quando l'insegnante costringe tutti i ragazzi coinvolti a fare ammenda attraverso lavori sociali, Shuwei e i suoi aguzzini trovano per caso una ragazza mostruosa e cannibale, e decidono di tenerla prigioniera...


Mon Mon Mon Monsters
è uno dei film più ingannevoli visti recentemente. Pubblicizzato, fin dalla giocosa locandina, come una commedia horror, in realtà è un'opera di rara cupezza, colma di personaggi orrendi, che fanno le peggio cose col sorriso sulle labbra. Il pessimismo che permea Mon Mon Mon Monsters è comprensibile, perché la sceneggiatura è stata scritta da Giddens Ko come "reazione" alle pesantissime critiche arrivategli quando ha ammesso di avere tradito la fidanzata di lunga data con una reporter; il regista ha dichiarato di volere "spaventare i Taiwanesi che lo odiavano" ma, in realtà, ciò che traspare dal film è un disgusto totale verso la società, che spinge anche chi è innocente, o cerca di vivere senza dare fastidio a nessuno, a diventare un mostro assetato di sangue altrui. Il fulcro di Mon Mon Mon Monsters non è tanto l'orrore inspiegabile di bulli crudeli che si accaniscono contro i deboli per divertimento, quanto la necessità di chi è bullizzato di "rimediare", in qualche modo, di ottenere l'approvazione dei suoi aguzzini, protetti da un inspiegabile status quo sociale. In particolare, Shuwei si abbassa a diventare il giocattolo di Renhao e soci, andando contro la sua natura mite per venire accettato dal branco; un obiettivo praticamente impossibile da raggiungere, almeno finché un mostro non incrocia il loro cammino, prendendo il posto di Shuwei come bersaglio di vessazioni quotidiane. La situazione precaria di Shuwei, in realtà, cambia poco, anzi, peggiora. Il mostro catturato dal branco, infatti, non è altro che una ragazzina, pericolosa e mortale quanto si vuole, ma non troppo difficile da rendere impotente, e per sopravvivere Shuwei deve lasciare che Renhao e gli altri la torturino, riscoprendosi non già mite ed innocente, quanto piuttosto pavido, egoista, segretamente desideroso di poter a sua volta diventare un bullo ed esercitare potere sugli altri. L'atmosfera da commedia demenziale studentesca che caratterizza le sequenze iniziali si affievolisce in maniera impercettibile ma sempre più inesorabile, e lascia spazio ad un'anima nerissima, che si cristallizza nei pianti disperati di due sorelle, due mostri che, nonostante si nutrano di esseri umani, fanno molto meno schifo e paura dei ragazzi coi quali hanno avuto la sfortuna di scontrarsi. 


Anche la regia e la performance degli attori si evolve pian piano, assecondando i cambiamenti della sceneggiatura. In generale Mon Mon Mon Monsters è realizzato molto bene, ma l'inizio ha i toni pop della tipica commedia adolescenziale asiatica, e i giovani interpreti fanno a gara a chi è più scemo; Shuwei non fa pena, verrebbe voglia di tirargli due schiaffi per svegliarlo, e i bulletti che lo tormentano sembrano ancora più stupidi e innocui di lui. Ad accrescere la sensazione di avere davanti una commedia bizzarra ci pensano la caratterizzazione assurda dell'insegnante responsabile di classe (una giovane professoressa devotissima al buddhismo, che sminuisce ogni lamentela di Shuwei e giustifica ogni angheria di Renhao, almeno finché non le parte la placca col monologo più spietato di sempre) e di un anziano eroe di guerra, amarissimo comic relief di cui ci si vergogna di avere riso, col senno di poi. E' andando avanti che il tormento di Shuwei e la natura mostruosa di Renhao e soci si palesano in tutta la loro forza, mentre l'arrivo delle due creature cancella con un colpo di spugna tutti i cliché della commedia, per spingere il film nel territorio dell'horror. Sangue che scorre a fiumi, corpi mutilati, zanne, strumenti di tortura e persino elementi da body horror si inseriscono perfettamente nella narrazione, e la regia di Giddens Ko li amalgama con un'eleganza che farebbe invidia a registi ben più addentro al genere. Il regista confeziona persino un paio di sequenze memorabili, come il finale (che mi ha lasciata senza fiato e con un gelo addosso che nemmeno le temperature torride hanno potuto alleviare) e quel gioiellino di montaggio e colonna sonora che è l'attacco all'interno dell'autobus, dove immagini di pura carneficina si alternano alla preparazione di uno smoothie all'anguria, con una bella versione di My Way che suona in sottofondo. L'unico difetto di Mon Mon Mon Monsters, se proprio bisogna dirne uno, è che non è proprio facilissimo da trovare, ma merita l'impegno, perché è un film originale, in grado di sorprendere anche gli spettatori più scafati. Provare per credere, con un po' di cautela e senza farsi ingannare dal poster e dai suoi gioiosi caratteri fucsia. 

Giddens Ko è il regista e sceneggiatore della pellicola. Taiwanese, ha diretto film come Till We Meet Again e Miss Shampoo. Anche produttore, ha 47 anni e un film in uscita. 



giovedì 10 luglio 2025

Lupin the IIIrd: Zenigata to Futari no Rupan (2025)

Lo so, non si fa, ma non esiste che io aspetti per vedere Lupin the IIIrd: Zenigata to Futari no Rupan (LUPIN THE IIIRD 銭形と2人のルパン), ONA diretto dal regista Takeshi Koike.

EDIT: è notizia proprio di oggi che quest'autunno Anime Factory porterà in Italia sia questo ONA, con titolo Lupin III: Zenigata e i due Lupin, che verrà distribuito sulle principali piattaforme streaming, sia Lupin III: La stirpe immortale, che uscirà al cinema (spero non col solito sistema: 3 giorni in tre sale in tre città principali, o piangerò lacrime di sangue). Riguarderò molto volentieri Zenigata e i due Lupin, e spero di riuscire a veder proiettato La stirpe immortale anche dalle mie parti!


Trama: un aeroporto della Federazione di Robiet viene fatto saltare in aria da un terrorista che, sotto gli occhi di Zenigata, si palesa con lo stesso volto di Lupin III. Messosi a caccia del ladro, Zenigata scopre una terribile verità...


No, non mi sento in colpa. A casa ho due versioni de La donna chiamata Fujiko Mine e un cofanetto dedicato alla trilogia di Koike a dimostrare che acquisterò qualsiasi versione home video di Lupin the IIIrd: Zenigata to Futari no Rupan, quando riterranno opportuno distribuirlo finalmente in Italia, anche se ciò significasse avere in casa un altro cofanetto di bluray. Premesso questo, io lo avevo detto già nel 2017 che avrei voluto un "trattamento Koike" anche per Zenigata, e sebbene il regista, da buon vecchio marpione, abbia preferito dedicarsi prima alle bugie di Fujiko, ha infine esaudito il mio desiderio. E' valsa la pena aspettare così tanto? Sì, dai. Lupin the IIIrd: Zenigata to Futari no Rupan punta i riflettori sul bistrattato ispettore, rendendolo un integerrimo uomo di legge dal fascino hard boiled, un poliziotto che nella vita ha visto di tutto, ma si tiene ancora stretta un'integrità morale adamantina, quasi d'altri tempi. Il sentimento che Zenigata prova verso Lupin è un odio smisurato, a livello quasi istintivo, e non stupisce quindi che l'ispettore venga ingannato, all'inizio del film, dal terrificante attentato che spazza via un aeroporto e buona parte degli innocenti passeggeri che hanno avuto la sfortuna di transitare di lì per caso; il terrorista ha il volto di Lupin, Lupin normalmente è un ladro ma è comunque un criminale, quindi il colpevole DEVE essere Lupin. Quel rispetto diffidente che, nelle varie serie dell'anime, è diventato un rapporto assai simile a quello tra Tom e Jerry, con Zenigata costretto nelle vesti di comic relief, nell'universo di Koike non esiste, e ciò che arriva a legare i due personaggi alla fine di Lupin the IIIrd: Zenigata to Futari no Rupan è qualcosa di ancora diverso, ovvero un reciproco riconoscimento delle rispettive abilità che genera la consapevolezza di avere di fronte un avversario formidabile e pericoloso. 


Questo piccolo ma soddisfacente character study viene inserito all'interno di una trama dal sapore anni '70-'80, la quale si snoda in un Paese che richiama tanto l'Unione Sovietica dell'epoca (Robieto, potete pronunciarlo anche "Roviet", direi che l'assonanza è palese), in guerra aperta con gli Stati Uniti di Arka. Una metafora sottile come un tubo Innocenti e altrettanto leggera, ma le storie di Lupin ambientate nei climi da guerra fredda sono anche le migliori, e dovete tenere presente che le opere di Koike hanno sempre un sapore un po' vintaggio. Inoltre, ancor più dei tre film che lo hanno preceduto, Lupin the IIIrd: Zenigata to Futari no Rupan è asservito ad una trama generale che fa capo a un lungometraggio uscito da pochissimo in Giappone, ovvero Lupin the IIIrd the Movie: The Immortal Bloodline. I due Lupin del titolo originale sono, infatti, il vero Lupin e un folle dinamitardo che ha il suo stesso viso, il che ci porta direttamente al primo film dedicato al personaggio di Monkey Punch, che noi avremmo anche intitolato Lupin III e la pietra della saggezza, ma che in originale è "Lupin vs il Clone". L'ombra di Mamo (o di un personaggio che gli somiglia molto), d'altronde, si profila sinistra sin dalle immagini post credit di quel capolavoro di Lupin the IIIrd - La lapide di Jigen Daisuke, a proposito del quale mi sento di dire che l'unico, reale difetto di Lupin the IIIrd: Zenigata to Futari no Rupan è un Jigen sottoutilizzato, relegato un po' al ruolo di beone brontolone che, l'unica volta in cui tira fuori la pistola, è per farsi fregare da Zenigata. E' giusto e doveroso che i riflettori siano puntati sull'Ispettore, ma cosa deve fare una fangirl di Jigen, salvo lamentarsi e sperare in un altro film in solitaria?


Sto divagando, scusate. In realtà, all'inizio del post ho scritto " E' valsa la pena aspettare così tanto? Sì, dai.", quindi qualcosina che non va nell'ultimo ONA diretto da Takeshi Koike c'è, e non è tanto la poca attenzione dedicata a Jigen, quanto la solita tendenza alla sciatteria per quanto riguarda character design e animazioni. Questo stile più asciutto e meno barocco rispetto a La donna chiamata Fujiko Mine e La lapide di Jigen Daisuke era già un grosso difetto di Lupin the IIIrd - Ishikawa Goemon getto di sangue; anche in questo caso, nei campi lunghi e medi i personaggi risultano appena abbozzati, in contrasto con primi piani fatti di linee pesanti e chiaroscuri marcati, una scelta che, probabilmente, aiuta in primis a contenere il budget, ma che non ha mai incontrato il mio favore (per dire quanto disattenti sono animatori e disegnatori, c'è un corpo a corpo tra Jigen e Zenigata in cui il primo è privo del "pizzetto" distintivo di Koike, che parte subito sotto il labbro inferiore, e sembra senza barba, come potete vedere nell'immagine sotto). Chapeau invece alle scene d'azione, il cui montaggio trasforma ogni attentato del Lupin malvagio in uno jump scare coi fiocchi, e all'abbondanza di sangue e violenza che rende soddisfacente anche una scazzottata tra Lupin e Zenigata, al netto di favolose esagerazioni anatomiche che rendono i personaggi praticamente immortali. E, a proposito di "immortali", chiudo dicendo che non vedo l'ora che esca anche in Italia Lupin the IIIrd the Movie: The Immortal Bloodline, un film che aspetto quasi più di qualsiasi opera horror o d'autore, anche se segnerà la fine della collaborazione tra  Lupin e Takeshi Koike, l'unico autore capace di infondere nelle creature di Monkey Punch quel fascino underground e adulto che le rende affascinanti ancora oggi. Che la Koch Media mi ascolti, magari senza limitarsi a qualche evento speciale al Lucca Comics, al Far East Festival o alle solite proiezioni di tre giorni che dalle mie parti non si vedono nemmeno per sbaglio, grazie!
 
Ma cosa mi tocca vedere?

Del regista Takeshi Koike ho già parlato QUI.

Ma cosa mi tocca leggere??? O Takeshi!!! MA....!

Il mediometraggio è una prosecuzione degli special dedicati ai singoli comprimari del franchise (Lupin the IIIrd - La lapide di Jigen DaisukeLupin the IIIrd - Ishikawa Goemon getto di sangue Lupin the IIIrd - La bugia di Mine Fujiko), ed è il prequel di Lupin the IIIrd the Movie: The Immortal Bloodline, che dovrebbe essere uscito nelle sale giapponesi il 27 giugno e chissà se e quando arriverà mai da noi. Nell'attesa, le opere precedenti di Koike sono racchiuse in un ottimo cofanetto edito da Koch Media, che vi consiglio di recuperare, aggiungendo l'indimenticata serie Lupin the Third - La donna chiamata Fujiko Mine. ENJOY!

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