lunedì 6 ottobre 2025

Nuovi Incubi Horror Challenge Day 6: Demeter - Il risveglio di Dracula (2023)

Sesto giorno di Nuovi Incubi Halloween Challenge, con un horror per chi è agli inizi col genere. Pensandoci un po' su mi è parso perfetto Demeter - Il risveglio di Dracula (The Last Voyage of the Demeter), diretto nel 2023 dal regista André Øvredal.


Trama: durante la traversata dal porto di Varna a Londra, l'equipaggio della nave mercantile Demeter si trova a fare i conti con un clandestino terrificante...


Avevo letto le peggio cose su The Last Voyage of the Demeter (con tutto il rispetto, il titolo italiano è orribile, ma che risveglio e risveglio?), forse per questo mi sono accinta a guardare il film senza grandi aspettative. In virtù di ciò, o del fatto che l'ho visto spezzato in un paio di giorni per la mia consueta mancanza di tempo, l'ho apprezzato più di quanto pensassi e non ho patito la mancanza di ritmo iniziale, anzi, mi sono fatta prendere abbastanza dall'atmosfera. D'altra parte, è anche vero che adoro Dracula e, a prescindere dalla qualità delle opere, mi diverto quasi sempre con le varie versioni del romanzo di Stoker, anche quando la trama, come in questo caso, si prende alcune libertà che sconfinano nella minchiata (per esigenze narrative, il contagio ha durata variabile, questa è l'unica cosa che mi ha indispettita). Per chi non lo sapesse, e senza fare troppi spoiler, The Last Voyage of the Demeter racconta, per l'appunto, l'ultimo viaggio di una nave condannata a un infausto destino nel momento esatto in cui viene designata per portare le casse di terra di Dracula verso la magione britannica scelta dal vampiro per "espandere la sua attività"; i protagonisti del film sono tutti dei dead men walking e c'è solo da aspettare l'inizio di una mattanza che non risparmia nessuno e che ha la struttura di un survival horror girato in un unico ambiente chiuso ed inospitale. La sceneggiatura si impegna persino a dare un minimo di personalità ai vari membri dell'equipaggio, salvo per un paio connotati come mera carne da macello, così che allo spettatore venga dato il tempo non solo di affezionarsi/interessarsi inutilmente, ma anche la possibilità di non prevedere perfettamente l'ordine di dipartita, il che consente di ravvivare un po' il ritmo del film. 


La pellicola punta inoltre a rendere Dracula un mostro privo di alcuna coscienza umana e praticamente muto, distante anni luce dalla figura romantica o elegante sdoganata da anni di opere a tema. Non ci sono sequenze di seduzione o ipnosi, ma solo la caccia feroce di una bestia che sfrutta le ombre di una nave zeppa di anfratti e le condizioni meteo avverse, e il risultato è che Øvredal può sfogarsi con sequenze fulminee e sanguinose, oppure giocare con l'interessante architettura della nave titolare senza neppure offrire il fianco a banali jump scares. Purtroppo, nonostante le mille possibilità legate a scenografia, fotografia e montaggio, The Last Voyage of the Demeter si affida ad una CGI non sempre all'altezza, soprattutto nel momento in cui alle movenze inquietanti dello snodatissimo Javier Botet si sostituiscono le inquadrature nitidissime di un mostro zannuto e nerboruto, finto come i soldi del Monopoli. Per fortuna, non è una scelta preponderante, ed è anche gradevole osservare le interazioni sempre più tese e disperate tra gli ottimi attori di un cast variegato, tra i quali spiccano l'adorato David DastmalchianAisling Franciosi (anche se dal suo personaggio si dipartono parecchie storture di sceneggiatura che mi hanno perplessa), Liam Cunningham nel ruolo del capitano e il piccolo, bravissimo Woody Norman, di cui spero di vedere il musotto tenerello in un altro horror, prossimamente. In breve, The Last Voyage of the Demeter non è la schifezza demolita da tantissimi spettatori e nemmeno un film imperdibile, bensì una perfetta via di mezzo per passare una serata in lieta tensione.


Del regista André Øvredal ho già parlato QUI. Corey Hawkins (Clemens), David Dastmalchian (Wojchek) e Javier Botet (Dracula / Nosferatu) li trovate invece ai rispettivi link.

Liam Cunningham interpreta il capitano Eliot. Irlandese, ha partecipato a film come Il cartaio, Harry Brown e a serie quali Doctor Who e Il trono di spade. Anche regista e produttore, ha 63 anni. 


Per la serie, dove li ho già visti: Aisling Franciosi, ovvero Anna, era la protagonista di The Nightingale; Chris Walley, che intepreta Abrams, era nel cast di 1917 e Unwelcome (o La maledizione dei Far Darrig); Stefan Kapicic, che interpreta Olgaren, ha doppiato Colosso nei due film dedicati a Deadpool; Nikolai Nikolaeff (Petrofsky) era l'Ivan della quarta stagione di Stranger Things; il piccolo Woody Norman è il protagonista del bellissimo Cobweb. Siccome sono 20 anni che questo film è in progetto, tra i vari registi che, prima o poi, hanno "rischiato" di dirigerlo c'erano Marcus Nispel, Neil Marshall e David Slade, mentre tra gli attori "caduti" figurano Viggo Mortensen, Noomi Rapace e Ben Kingsley. Ovviamente, se Demeter - Il risveglio di Dracula vi è piaciuto dovete recuperare Nosferatu, Dracula, Dracula di Bram Stoker e anche la miniserie del 2020 Dracula, con uno splendido episodio interamente ambientato sul Demeter. ENJOY! 

domenica 5 ottobre 2025

La voce di Hind Rajab (2025)

Causa challenge di Halloween in corso ho scelto un giorno strano per pubblicare, lo so. Probabilmente, così, nessuno leggerà il post, ma fa nulla, perché davanti a tragedie simili mi chiedo come si possa pretendere di dire qualcosa di intelligente. Ma tant'è, due parole su La voce di Hind Rajab (Sawt Hind Rajab), diretto e sceneggiato dalla regista Kaouther Ben Hania, volevo comunque scriverle.


Trama: nel gennaio del 2024, gli operatori della sede palestinese della Mezzaluna Rossa ricevono la telefonata di Liyan Hamada, un'adolescente intrappolata all'interno di un'auto presa di mira dall'esercito israeliano, che ha già ucciso i genitori e i suoi fratelli. Quando anche Liyan viene uccisa, gli operatori scoprono che nell'auto c'è una bimba di 6 anni ancora viva, Hind Rajab, e cercano disperatamente di salvare almeno lei...


Quando ho deciso di andare a vedere La voce di Hind Rajab mi aspettavo che avrei pianto non solo tutte le mie lacrime, ma anche quelle della mia compagna di visione. In realtà, come ho scritto su Facebook, ho pianto, certo, ma di rabbia. E' la stessa sensazione provata guardando Diaz, derivata da un'impotenza angosciante e dall'assurda consapevolezza che chi potrebbe fare davvero qualcosa per evitare lo sterminio di un intero popolo se ne batte i coglioni minimizzando, oppure dichiarando che il problema non esiste proprio. Non è giusto che serva un film per risvegliare le coscienze, anche perché Hind Rajab è una sola bambina, dotata di un nome, un volto e una voce, mentre a migliaia ne muoiono ogni giorno nell'anonimato, senza che la loro orribile storia ci raggiunga. Non è giusto, ripeto, ma è necessario, perché un film come La voce di Hind Rajab ci sbatte in faccia la realtà sepolta in una quotidianità fatta di lavoro, notifiche, video di gattini, cazzi nostri, e ci ricorda che c'è un posto (anzi, più di uno, ché la guerra non è solo in Palestina) dove, quale che siano le loro ragioni, delle persone hanno deciso di diventare dei mostri e sterminare indiscriminatamente altri esseri umani. L'aspetto ancora più tremendo del film di Kaouther Ben Hania, nonché un enorme dito medio nei confronti di chi sicuramente denigrerà la natura "strappalacrime" del film, è che in realtà si tratta di un'opera molto asciutta, che non si concentra esclusivamente sulle ultime ore di vita di una bimba, ma soprattutto sulle vite di chi, ogni giorno, rischia la pazzia per salvarne altre. La voce di Hind Rajab è l'equivalente di un thriller. La pressione psicologica che vomita sullo spettatore è fortissima, ed è la stessa che hanno subito Omar, Rana, Mahdi e Nisreen, quattro operatori impotenti di fronte alle maglie di una burocrazia bellica spaventosa e all'orrore di non sapere se i paramedici che quotidianamente mandano in soccorso faranno ritorno vivi. La voce della piccola è ovviamente fondamentale, ma è una delle tante; il dramma umano che si consuma all'interno della sede della Mezzaluna Rossa racconta tutta la frustrazione, la disperazione, l'ansia e il panico di chi è costretto a portare sulle spalle, ogni giorno, un peso enorme.


Kaouther Ben Hania
punta la cinepresa sui volti dei protagonisti, tutti bravissimi, sceglie uno stile asciutto e senza fronzoli, quasi documentaristico, soffermandosi su pochi gesti di cameratismo e conforto (quelli commuovono realmente) e annullando il confine tra drammatizzazione ed eventi reali grazie all'uso intelligente di file audio e cellulari. Bastano questo, il tempo scandito con un pennarello impietoso e le inquadrature finali di una madre compresa in un dignitoso dolore, a stringere il cuore di chi vuole ascoltare e capire, anche quando c'è solo silenzio. Perché è sicuramente la voce, reale, terrorizzata, di Hind Rajab, puntellata da spari e dal suono dei cingoli di un carro armato, a schiacciare come un macigno, ma è ancora più orribile ciò che non si vede e non si sente. Non si sente la voce di chi sta comodo in poltrona a distribuire con ostentazione una stiracchiata salvezza, solo perché "importante"; non si vedono i soldati israeliani, impegnati in un folle gioco tra gatto e topo (nel dialogo più terribile del film si sottolinea l'impossibilità che i soldati non si siano accorti della presenza di una persona ancora viva, e la certezza che la conversazione venisse intercettata, e visto il livello tecnologico dell'esercito israeliano solo chi è in malafede potrebbe sostenere il contrario); non si vede l'ultimo, disperato viaggio di un'ambulanza che non ha mai raggiunto la destinazione, rappresentata dal disegno di un'auto su una mappa digitale. Non si vede tutto ciò che hanno vissuto gli operatori della Mezzaluna Rossa prima di quella terribile telefonata, né tutte le tragedie che sono seguite, e davanti all'orrore di tante vite spezzate inutilmente, la vera domanda che mi tormenta dalla fine del film è se chi non è morto abbia ancora la forza psicologica di resistere e combattere per rimanere sano di mente, perché io non so proprio se riuscirei. Lasciate perdere le diatribe oziose da festival cinematografici e le critiche dei cosiddetti esperti del settore e, per una volta, date retta al cuore, anche se rischia di spezzarsi; correte a vedere La voce di Hind Rajab e tenetevi strette a lungo le sensazioni che vi lascerà, perché ce ne sarà bisogno, se vorremo rimanere umani nei tempi bui che ci aspettano.

Kaouther Ben Hania è la regista e sceneggiatrice del film. Tunisina, ha diretto film come L'uomo che vendette la sua pelle e Quattro figlie. Anche montatrice e direttrice della fotografia, ha 48 anni.


La vicenda di Hind Rajab è stata raccontata anche in due corti, che non guarderò mai, Close Your Eyes Hind Hind Under Siege. Se vi sentite di star ancora più male, recuperateli, io non posso farcela. 

venerdì 3 ottobre 2025

Nuovi Incubi Halloween Challenge Day 3: Tenebre (1982)

Terzo giorno della Nuovi Incubi Halloween Challenge, che oggi ha come tema "Slasher". Siccome ci sono di mezzo rasoi e accette ho scelto di guardare Tenebre, diretto e sceneggiato nel 1982 dal regista Dario Argento.


Trama: Lo scrittore Peter Neal si reca a Roma per presentare il suo ultimo romanzo, Tenebre. Poco dopo, un misterioso assassino comincia ad uccidere delle donne seguendo proprio il modus operandi del killer protagonista del romanzo...


Allora, io non so se Tenebre rientra proprio nella definizione di slasher, visto che lo stesso Argento lo ha dichiaratamente girato per riaffermare il suo predominio sul genere che ha contribuito a portare al successo, il giallo. Tuttavia, il giallo è un po' il nonno o il papà dello slasher (un figliolo molto meno raffinato e più rozzo, almeno agli inizi), quindi il legame di parentela comunque c'è. Ma vediamo, banalmente, se Tenebre ha tutte le caratteristiche dello slasher. L'assassino è motivato da un trauma passato, che lo ricordi o meno, e che viene "triggerato" da qualcosa? Sì. Ci sono scene di inseguimenti e omicidi, magari anche un po' legati alla sfera sessuale, che titillino la natura voyeuristica dello spettatore? Direi di sì. L'assassino usa lame, stalkera le vittime, che sono più di una? Di nuovo, sì. C'è una final girl? Ma non ve lo dirò mai, se ancora non avete guardato Tenebre o se, come me, lo avevate visto una volta vent'anni fa e ricordavate solo Eva Robin's sulla spiaggia, sconvolti dal fatto che una personalità televisiva percepita allora come un po' "trash" avesse partecipato a un thriller-horror. Se l'ho dimenticato è perché, almeno a parer mio, Tenebre non è una delle opere migliori di Dario Argento, di cui preferisco altri film, almeno a livello di trama. Lasciando perdere il twist, sul quale si potrebbero fare le pulci per ore relativamente a tempistiche e spostamenti vari, Tenebre è l'espressione cinematografica con cui Argento ha cercato di esorcizzare il terrore provocatogli dalle minacce di un vero stalker, oltre a ricusare con cupa ironia le accuse di misoginia che gli aveva fatto piovere addosso la critica, e ripete ossessivamente sequenze in cui una mano sconosciuta massacra donne prive di legami tra loro. Il whodunnit entra in campo a metà film, quando finalmente il protagonista decide di indagare, invece di aspettare passivo come se la cosa non lo riguardasse (il killer sta seguendo la trama del tuo libro, insomma!!), ma in quel momento i personaggi rimasti sono un po' pochini per poter venire sviati, e Argento, anche sceneggiatore, ricorre a mezzucci scorretti per instillare dubbi (un esempio su tutti, la telefonata tra Anne e Jane, anche se, in generale, il personaggio della ex di Peter per me è forzato in generale). Altra cosa che rallenta, sempre a mio avviso, il ritmo del film, è una generale impressione di "spaesamento" che sembra affliggere tutti i protagonisti, spesso persi in silenziose riflessioni o sogni ad occhi aperti; d'altra parte, questo isolamento, anche fisico (il regista ha dichiarato che Tenebre è ambientato in un futuro prossimo in cui la popolazione è diminuita), prelude a una maggiore angoscia nell'attesa che l'assassino colpisca e contribuisce alla bellezza degli omicidi presenti nel film.


Dal punto di vista della messa in scena, infatti, ho trovato Tenebre un'ottima espressione della creatività e della cura che Argento metteva, decenni fa, nella regia dei suoi film. Intanto, Tenebre ha una fotografia nitidissima e molto luminosa; la maggior parte dei delitti avviene alla luce del giorno e, anche quando avvengono in interni oppure di notte, non ci sono quasi ombre e le immagini sono chiare e dettagliate. Le sequenze che mi hanno colpita maggiormente sono l'omicidio di John Saxon, girato nella piazza assolata del Centro commerciale Le Terrazze di Roma, mentre attorno all'attore si svolgono almeno tre micro-storie di ordinaria vita quotidiana, e l'incredibile panoarmica realizzata con la camera crane che precede l'omicidio di Tilde e della sua compagna. Questa, in particolare, potrebbe essere una di quelle sequenze in grado di respingere uno spettatore ai nostri giorni, perché "è lunga e non succede nulla"; in realtà, è un modo per rappresentare la falsa sicurezza instillata da un condominio o da una casa, dà l'impressione che il killer, come una presenza sovrannaturale che tutto vede, cerchi meticolosamente un punto debole da cui penetrare nella vita delle sue vittime, fa crollare ogni illusoria certezza. E' notevole anche la sequenza del dobermann (probabilmente l'origine di tutte le false credenze su questa povera razza di cani), incalzante e ansiogena, e ho apprezzato molto anche le architetture di un paio di appartamenti, sempre zeppi di vetri e finestrone come piace ad Argento, e alcuni complementi di arredo utili solo per fungere da arma impropria, come quello che impala il killer sul finale. Per quanto riguarda la colonna sonora, a 15 anni mi sono ascoltata in loop, per mesi, il tema portante di Tenebre, con quel "paura" campionato e distorto che si ripete a ritmo di musica, quindi ho avuto una botta di nostalgia terribile, riguardando il film, adorando ogni singolo momento in cui viene utilizzato il brano. In definitiva, non so ancora se ho azzeccato il tema di oggi, con Tenebre, ma sono comunque contenta di averlo rivisto, perché con tutti i suoi difetti è ancora una valida espressione dell'abilità ormai perduta di Dario Argento.  


Del regista e sceneggiatore Dario Argento ho già parlato QUI. John Saxon (Bullmer) e Daria Nicolodi (Anne) li trovate invece ai rispettivi link.

Giuliano Gemma interpreta il Capitano Germani. Nato a Roma, lo ricordo per film come Il gattopardo, Angelica, La meravigliosa Angelica, Una pistola per Ringo, Anche gli angeli mangiano fagioli, Il deserto dei tartari e Tex e il signore degli abissi. E' morto nel 2013.


Veronica Lario
, che interpreta Jane McKerrow, sarebbe diventata nel 1990 la seconda moglie di Berlusconi; altra persona diventata molto famosa negli anni '90 è Eva Robin's (la quale all'epoca dava "scandalo" in quanto nata uomo), che qui interpreta la ragazza sulla spiaggia, presente nei ricordi dell'assassino. Se Tenebre vi fosse piaciuto recuperate Profondo Rosso, L'uccello dalle piume di cristallo, Il gatto a nove code e 4 mosche di velluto grigio. ENJOY!

giovedì 2 ottobre 2025

Nuovi Incubi Halloween Challenge Day 2: I vivi e i morti (1960)

La Nuovi Incubi Horror Challenge di oggi è dedicata Roger Corman e, per l'occasione, ho scelto I vivi e i morti (House of Usher), diretto dal regista nel 1960.


Trama: Philip Winthrop si reca a casa della ragazza di cui è innamorato, Madeline Usher, per chiederle di sposarlo. Lì conosce il fratello di Madeline, Roderick, uomo nevrotico e convinto che la famiglia sia vittima di una terribile maledizione...


Erano tantissimi anni, almeno 20, che non guardavo un gotico diretto da Corman. All'epoca ricordavo per filo e per segno l'origine delle numerose incursioni cormaniane nella letteratura di Edgar Allan Poe, e ne avevo viste anche parecchie, ma ora sono vittima di una spaventosa ignoranza di ritorno causata dall'impossibilità di leggere e documentarmi, quindi per un approfondimento più ampio vi rimando QUI. I vivi e i morti, titolo italiano che poco c'entra con l'originale House of Usher è, appunto, molto liberamente tratto dal racconto di Poe, La caduta della casa degli Usher, adattato per lo schermo da Richard Matheson. Il film conferisce un background al protagonista senza nome del racconto, e quest'ultimo viene asciugato da orpelli, libri "triggeranti" e suggestioni misteriose, insomma va all'osso della vicenda e ci mette anche parecchio del suo. In primis, Matheson introduce un conflitto tra Winthrop e Roderick, imperniato sulla sorella di quest'ultimo, Madeline. Winthrop si è invaghito di lei a Boston e si reca alla casa degli Usher per chiederla in sposa. Arrivato lì, trova una donna ben diversa da quella allegra e solare che ricordava; cupa e terrorizzata dalla certezza di una morte imminente, l'animo di Madeline echeggia le paturnie del fratello Roderick, il quale vuole impedire in tutti i modi a Winthrop di farsi una famiglia con la sorella, convinto che gli Usher siano portatori di una maledizione destinata a concludersi proprio con loro due. Questa evoluzione della trama cambia anche le carte in tavola per quanto riguarda la sepoltura di Madeline, pronta per diventare l'anticamera della scena più scioccante del film, e la natura di Roderick, più affine a quella di un mostro, nonostante i modi eleganti e malinconici che lo caratterizzano. Non più osservatore esterno, Winthrop diventa invece l'eroe che dovrebbe salvare l'amata, il che accresce il pathos, il coinvolgimento dello spettatore ed estremizza quegli elementi melodrammatici che vengono richiamati anche dalla recitazione degli attori, in particolare di Vincent Price


Senza baffo e coi capelli ossigenati, Sir Vincent, già all'epoca molto famoso, si adopera per accrescere ulteriormente la sua nomea di icona dell'horror, e dà vita a un personaggio più ambiguo del solito. Roderick, infatti, è di sicuro ben poco gradevole, soprattutto verso il finale, ma Vincent Price lo interpreta con la nota dolente e malinconica di chi non agisce per cattiveria o follia (almeno, non consapevolmente), quanto piuttosto per una triste, calma rassegnazione, ed è quindi difficile odiare il protagonista, anche di fronte ai suoi gesti inqualificabili. Certo, quel guizzo beffardo e ironico nello sguardo che si coglie talvolta potrebbe anche sbugiardarmi, ma anche questo rende Price semplicemente irresistibile. Con tutto il rispetto per i tre attori che dividono la scena con lui, davanti a Vincent Price ogni altra cosa scompare, salvo ovviamente l'altro aspetto del film che, nel tempo, si è codificato fino a diventare uno stile ben riconoscibile, ovvero la regia di Corman e la sua ferma decisione di andare oltre il budget ridicolo del cinema di consumo dell'epoca e girare l'equivalente horror di un colossal. Spinto dall'ambizione di realizzare qualcosa di paragonabile ai contemporanei gotici della Hammer, Corman presta particolare attenzione alle scenografie sontuose, alla desolazione dei set esterni, all'ampia gamma di colori vividi (soprattutto i rossi) concessi da un glorioso technicolor. Conseguenza di ciò è che I vivi e i morti, ancora oggi, risulta incredibilmente ricco ed elegante, ma non solo. Il contrasto tra gli arredi opulenti e i cupi sotterranei pieni di tombe e ragnatele, che diventano ancora più spaventosi quando deformati dal filtro onirico dell'incubo di Winthrop, rispecchiano la decadenza di una famiglia ricca ma afflitta da un misterioso morbo che, lentamente, la sta portando alla rovina; il tutto, inoltre, viene reso ancora più weird dai favolosi quadri di Burt Shonberg, che catturano l'occhio coi loro colori malati e lo sguardo demoniaco dei membri degli Usher ritratti. Se non vi è mai capitato di vedere il film, dovreste poterlo trovare ancora su Prime Video, sia in inglese che in italiano. E' un ottimo modo per introdursi alle opere più famose di un regista che ha dato moltissimo all'horror! 


Di Vincent Price, che interpreta Roderick Usher, ho già parlato QUI.

Roger Corman è il regista della pellicola. Americano, ha diretto film come La piccola bottega degli orrori, Il pozzo e il pendolo, Sepolto vivo, I racconti del terrore, I maghi del terrore, La vergine di cera, L'uomo dagli occhi a raggi X, La maschera della morte rossa, La tomba di Ligeia Frankenstein oltre le frontiere del tempo. Anche produttore, attore e sceneggiatore, è morto l'anno scorso, a 98 anni.


Se I vivi e i morti vi fosse piaciuto, recuperate i titolo seguenti realizzati da Corman e tratti dalle opere di Poe: Il pozzo e il pendolo, Sepolto vivo, I racconti del terrore, I maghi del terrore, La città dei mostri, La maschera della morte rossa e La tomba di Ligeia. ENJOY!

mercoledì 1 ottobre 2025

Nuovi Incubi Halloween Challenge Day 1: La mosca (1986)

Comincia oggi il mese più bello dell'anno e la Spooky Season entra nel vivo con la Halloween Challenge del podcast Nuovi Incubi, la creatura di Lucia e Marika. Quest'anno ho deciso di partecipare o, almeno, di provarci. L'idea sarebbe quella di pubblicare ogni giorno un post sul blog, tranne nei weekend (per quello, vi rimando alla mia pagina Instagram e quella Facebook del blog), unendo una volta alla settimana, come in questo caso visto che la scelta del film era libera, anche la Horror Challenge che seguo ormai da gennaio. Non penso ce la farò fino in fondo ma sono sicura che il viaggio mi darà molte soddisfazioni, anche se dovesse interrompersi. Il tema di oggi è "Scienza che sbrocca", che mi ha portata a scegliere La mosca (The Fly) diretto nel 1986 da David Cronenberg e tratto dal racconto The Fly di George Langelaan.


Trama: lo scienziato Seth Brundle mostra alla giornalista Veronica Quaife la sua ultima invenzione, due capsule per il teletrasporto di oggetti ed esseri viventi. Decide di testare le macchine su se stesso, dopo essere riuscito a teletrasportare un babbuino, ma qualcosa va storto...


Bei tempi gli anni '80. La mosca faceva parte di un paio di videocassette che il mio vicino di casa Piero, un signore molto esperto di audiovisivi e computer, aveva deciso di regalarmi per testare il mio videoregistratore nuovo di pacca. A conti fatti, avrò avuto 9 o 10 anni, e Piero sapeva benissimo che sarei stata la sola utilizzatrice dell'aggeggio infernale, ma il ragionamento dei tempi era: lo passano in TV in prima serata, va bene per i bambini. In effetti, non ricordo di essere rimasta traumatizzata da La mosca. Avevo sicuramente provato schifo ma non paura, probabilmente per un preconcetto inconscio legato all'idea (sbagliata) di non stare guardando un horror, ma un film di fantascienza. Insomma, non si parlava di "naitmer" o di mostri sotto il letto, ma di un povero cristo che veniva trasformato in mosca; un mostro, sì, ma umano, nulla di cui avere paura. La mosca l'ho poi rivisto parecchie volte nel corso del tempo, ma sono passati anni dall'ultima e, onestamente, sono rimasta piacevolmente sorpresa nel ritrovarmi non solo orripilata durante la visione, ma soprattutto completamente presa da una storia di cui ricordavo ogni cosa, e che ho trovato comunque freschissima ed originale. Giusto per non sbagliarsi: La mosca avrà anche una base fantascientifica, ma è un horror a tutti gli effetti, un body horror col quale Cronenberg ha voluto rappresentare la condizione (fisica, ma anche psicologica) di una persona alla quale è stato diagnosticato un male incurabile, e il modo in cui si deteriorano i rapporti con chi gli sta accanto. Il film è una metafora dell'abbruttimento e della disumanizzazione di chi non riconosce più il proprio corpo e affronta i diversi stadi del dolore, tutti toccati dal protagonista nel corso del film. Brundle, infatti, affronta la sua terrificante metamorfosi rifiutandosi, inizialmente, di credere a Veronica quando lo mette in guardia davanti alla negatività del suo cambiamento, che lui percepisce come un miglioramento; in seguito subentrano la rabbia, la paura di fronte alla conferma che il suo corpo si sta corrompendo, il "patteggiamento" (Brundle cerca di arrestare il processo, ma a spese di un altro essere umano) e, infine, la dolorosa accettazione in cui umanissimi occhi su un corpo di insetto implorano Veronica di mettere fine a un'esistenza ormai inaccettabile. La mosca è splendido proprio per questo, perché utilizza l'horror per raccontare qualcosa che potrebbe succedere a chiunque; approfittando dell'etichetta di genere, può quindi permettersi di rifiutare un happy ending forzato, oppure limiti "morali" che sarebbero stati imposti in un dramma o in una commedia. Il naturale disgusto verso la malattia, la difficoltà tangibile di rimanere accanto a chi stentiamo a riconoscere come la persona che amavamo, sono tutte sensazioni che passano attraverso l'incredula disperazione di Veronica, che ci prova, poverina, a sopportare e andare oltre la rabbia, il dolore, il pericolo tangibile di venire divorata o peggio, ma è comunque un essere umano.


E Cronenberg, da bravo profeta della nuova carne, non le rende la vita facile, perché Brundle diventa davvero orribile a vedersi. Se la sua trasformazione psicologica è affidata interamente al bravissimo Jeff Goldblum (il quale, inizialmente, sfrutta il suo aspetto da nerd per interpretare un Brundle accattivante ma insicuro, quindi regala alle fanciulle e ai fanciulli di tutto il mondo un uomo talmente sexy che non ci si crede, per poi abbandonarsi completamente alla rabbia, alla follia e agli inquietantissimi tic da uomo-mosca), sono gli effetti speciali ad aver giustamente conquistato un Oscar a La mosca, grazie al make-up di Chris Walas. Walas è colui che ha creato i Gremlins, ma la visione di un Ciuffo Bianco non riesce a preparare lo spettatore all'orrore di Brundle-mosca, con fluidi viscosi che escono da ogni orifizio, la pelle sempre più arrossata, la testa e il corpo deformi, denti che si staccano e, soprattutto, unghie che vengono via in una sequenza che mi sono letteralmente rifiutata di guardare, tanto mi stava venendo da vomitare. Al confronto, l'incubo di Veronica è una passeggiata, anche se fa specie vedere come, negli anni '80, anche una donna forte e indipendente, messa di fronte a eventi terribili, dovesse affidarsi completamente a un uomo, per di più deprecabile come Stathis, che è un ben strano "cavaliere senza macchia". A tal proposito, però, c'è da dire che La mosca ha alla base della sceneggiatura una storia d'amore talmente dolce e appassionata che il dolore dello spettatore, messo di fronte a un decadimento progressivo che rispecchia quello di Brundle, risulta addirittura triplicato. Come ho scritto sopra, Brundle attraversa una tremenda fase di rabbia, e le parole che il protagonista, all'apice del furore e del rifiuto, rivolge a Veronica, sono delle coltellate al cuore, specialmente di fronte alla chimica perfetta tra due attori che, all'epoca, si amavano anche al di fuori dal set. Questo aspetto gossiparo è un'altra espressione di come La mosca sia uno dei film più commerciali di Cronenberg, sicuramente uno dei più accessibili allo spettatore comune se non addirittura IL più accessibile (perciò è anche uno dei più piacevoli da riguardare, anche se il mio preferito rimane sempre Videodrome); nonostante questo, il regista ha potuto imporre la sua spiccata personalità, le sue idee ed idiosincrasie, e sebbene leggermente "ripulito" La mosca non stona affatto all'interno della filmografia del regista canadese. Vi consiglio, pertanto, di approfittare della challenge per riguardarlo e apprezzarlo oggi come quasi 40 anni fa!!


Del regista e co-sceneggiatore David Cronenberg, che interpreta anche il ginecologo, ho già parlato QUI. Jeff Goldblum (Seth Brundle) e Geena Davis (Veronica Quaife) li trovate invece ai rispettivi link.


La mosca ha vinto un Oscar per il miglior make-up, conferito a Chris Walas e Stephan Dupuis. Cronenberg aveva rinunciato a dirigere il film in quanto già impegnato in un altro lavoro, Atto di forza, ma le profonde divergenze col produttore Dino De Laurentiis, assieme alla defezione di Robert Bierman a causa di un lutto in famiglia, gli hanno infine permesso di partecipare al progetto. Il ruolo di Seth Brundle era stato proposto a Michael Keaton, Mel Gibson, James Woods e Richard Dreyfuss ma hanno rifiutato tutti, soprattutto a causa delle lunghe ore di make-up richieste dalla parte; Linda Hamilton, la prima scelta di Cronenberg per il ruolo di Veronica, ha invece rifiutato perché trovava la sceneggiatura, in particolare la scena del parto, troppo inquietante. De La mosca esiste un'opera teatrale andata in scena in Francia nel 2008, per la regia di David Cronenberg, con musiche di Howard Shore e testi di David Henry Hwang, mentre i vari progetti di remake sono naufragati a inizio millennio, per fortuna. A tal proposito, lo stesso film di Cronenberg è un remake, tratto da L'esperimento del Dr. K (seguito da La vendetta del dottor K. e La maledizione della mosca), e ha generato un seguito, La mosca 2, che vede il ritorno di John Getz nei panni di Stathis Borans. Se La mosca vi fosse piaciuto, recuperate tutti questi titoli! ENJOY!

martedì 30 settembre 2025

Una battaglia dopo l'altra (2025)

Non ero granché convinta ma, siccome ne stavano parlando tutti bene, ho deciso di andare al cinema a vedere Una battaglia dopo l'altra (One Battle After Another), diretto e sceneggiato dal regista Paul Thomas Anderson, ispirato al romanzo Vineland di Thomas Pynchon.


Trama: "Ghetto" Pat Calhoun, ex un rivoluzionario esperto di esplosivi, è costretto a darsi alla fuga e andare a vivere in una cittadina sperduta assieme alla figlia quando la sua ex compagna, Perfidia Beverly Hills, viene catturata dal governo. Anni dopo, il passato di Pat, ora Bob, torna a mettere in pericolo lui e la figlia ormai sedicenne...


Come ho scritto su, non ero molto convinta di andare a vedere Una battaglia dopo l'altra. Il motivo è che, all'epoca, la premiata ditta Paul Thomas Anderson/Thomas Pynchon mi aveva fatto venire il latte alle ginocchia con Vizio di forma, e l'ultimo film del regista, Licorice Pizza, mi aveva entusiasmata poco. Complice la durata di quasi tre ore, temevo sarei stata uccisa dal Bolluomo, trascinato allo spettacolo delle 21, dopo pochi minuti dall'inizio e, soprattutto, che avrei accolto la morte con gioia, invece Una battaglia dopo l'altra si è rivelato inaspettatamente gradevole. Girato per la maggior parte in Vista Vision, cosa che purtroppo qui in Italia conta quanto il due di coppe a briscola, Una battaglia dopo l'altra è un esempio di magnifica regia, di intelligentissimo montaggio, di splendida fotografia, di attenzione ai costumi (ci sono alcuni capi di vestiario che si ripropongono di personaggio in personaggio, con diverse valenze) ed è uno dei rari film recenti in cui la colonna sonora è fondamentale per definire il ritmo del racconto. Che, fin dalla prima scena, inanella appunto "una battaglia dopo l'altra", come da citazione presa da una dichiarazione del 1969 e attribuita al gruppo rivoluzionario The Weather Underground. Non c'è mai un istante di stasi all'interno del film, che inizia come se ci trovassimo davanti la scena madre di un film action e da lì non diminuisce né in tensione né in movimento, visto che la cinepresa non sta ferma un secondo e, attraverso lunghi piani sequenza, segue personaggi perennemente in agitazione, anche quando stanno immobili a stordirsi di droga sul divano. Persino quest'immobilità, infatti, è la facciata di animi tormentati, di un nervosismo che precede o segue un'azione importante per il destino del personaggio stesso, che sia o meno volontaria; il risultato è che lo spettatore non sa mai cosa aspettarsi da Una battaglia dopo l'altra, e si trova sempre sul chi va là, che si parli di Bob, Willa e Perfidia, oppure della misteriosa "agenda" del terribile colonnello Lockjaw. Nel primo caso, la cinepresa segue i personaggi nel corso dei frenetici ingressi all'interno di luoghi chiave per la riuscita della loro rivoluzione e poi nella loro precipitosa fuga dalle autorità (culminante in un inseguimento in macchina allucinante, che dà l'illusione di trovarsi davvero sull'auto guidata da Willa); nel secondo caso, Anderson indugia sul volto indurito di un Sean Penn disgustoso, sul tormento di un uomo deprecabile, diviso tra la brama sessuale verso Perfidia, rivoluzionaria di colore, e il desiderio di entrare a far parte dell'imbarazzante élite di uomini bianchi, eterosessuali, potenti, razzisti e misogini che rispondono al nome di "Pionieri del Natale". Come ho scritto sopra, questo movimento frenetico, di persone sballottate e tormentate, si riflette sulla colonna sonora. Salvo alcune canzoni il cui testo richiama la situazione contingente, buona parte dello score di Jonny Greenwood è composto da accordi di piano dissonanti (non me ne intendo ma mi è sembrato che venisse ripetuta spesso la stessa nota), con qualche altro strumento che interviene sporadicamente a creare delle fughe ansiogene. 


A fronte di un comparto tecnico di prim'ordine, ciò che mi impedisce di definire "capolavoro" Una battaglia dopo l'altra è che la trama, un mix di action, commedia nera e dramma, è piuttosto semplice, se posso permettermi di usare un termine simile. Anderson si ispira a Pynchon e, pur trasportando la storia di Vineland ai giorni nostri (non è troppo difficile scorgere richiami a MAGA e Antifa), da ad intendere che le battaglie per la libertà, contrapposte allo schifo di valori che vanno contro ogni idea di democrazia, sono radicati da sempre all'interno della storia americana. E il messaggio di Anderson è chiaro, ovvero che nessuno dei due estremi è una via auspicabile, quello di destra per ovvi motivi, quello di sinistra perché porta a risoluzioni violente che rischiano di distruggere quanto di buono esiste in un messaggio di libertà, condivisione e apertura mentale. Perfidia, in primis, è un personaggio borderline, che farebbe qualunque cosa per la sua causa, ed è egoisticamente drogata dell'adrenalina che deriva dalla sua furiosa lotta per la rivoluzione; quasi di rimando, dopo essere stato abbandonato, Bob drogato lo diventa davvero, ed acuisce in questo modo la paranoia instillatagli in decenni di "indottrinamento" contrario alla sua natura di uomo "statico". Forse per questo il personaggio migliore di tutti è il Sensei di Benicio Del Toro, impegnato ma equilibrato, consapevole della necessità di una mente sana che organizzi con rigore una ribellione votata innanzitutto al bene delle persone, non al terrorismo. Poiché, a parer mio, i concetti e il canovaccio di base sono molto semplici ed immediati, quello che mi ha fatta un po' storcere il naso è l'impressione che Anderson abbia voluto "complicare" le cose, intrecciando vicende e inserendo innumerevoli personaggi che compaiono pochi minuti, giusto per allungare un brodo che avrebbe potuto durare una mezz'oretta in meno. Nonostante questo, le quasi tre ore passano in un lampo e il film è leggero come una piuma, soprattutto grazie alle interpretazioni di Sean Penn, della cazzutissima virago Teyana Taylor, che si mangia la maggior parte delle eroine action degli ultimi anni, e dell'adorabile Leonardo DiCaprio. Sapete che da ragazzina non lo sopportavo, segaligno ed efebico com'era, ma ora che ha smesso di curare l'aspetto fisico e ha accettato di diventare la versione moderna di Jack Nicholson nel finale de Le streghe di Eastwick, con una punta di fattanza alla Drugo Lebowski, lo trovo adorabile, e ogni sua interpretazione mi strappa l'applauso, come in questo caso. Una battaglia dopo l'altra è dunque l'ennesima conferma di come Paul Thomas Anderson sia uno dei pochi Autori completi rimasti a combattere una disperata guerra cinematografica contro remake, reboot, revival, seguiti ed opere mastodontiche che finiscono dritte nel tritacarne dello streaming, e anche solo per questo Una battaglia dopo l'altra merita di essere visto in sala (possibilmente una con le palle). Ne vale davvero la pena!


Del regista e sceneggiatore Paul Thomas Anderson ho già parlato QUI. Leonardo DiCaprio (Bob), Sean Penn (Col. Steven J. Lockjaw), Benicio Del Toro (Sensei Sergio St. Carlos), Tony Goldwyn (Virgil Throckmorton) e Jena Malone (voce al telefono) li trovate invece ai rispettivi link.

Regina Hall interpreta Deandra. Americana, ha partecipato a film come Scary Movie, Scary Movie 2, Scary Movie 3, Scary Movie 4, Superhero - Il più dotato tra i supereroi e a serie quali Ally McBeal. Anche produttrice, ha 55 anni e tre film in uscita.


Teyana Taylor
, che interpreta Perfidia Beverly Hills, è una nota cantante R&B americana. Alana Haim, protagonista di Licorice Pizza, compare nel ruolo della rivoluzionaria bianca che mette l'esplosivo nella banca. ENJOY! 


venerdì 26 settembre 2025

2025 Horror Challenge: Cure (1997)

La challenge horror chiedeva, questa settimana, di guardare un film uscito negli anni '90. Ho scelto così Cure (キュア), scritto e diretto nel 1997 dal regista Kiyoshi Kurosawa.


Trama: un ispettore indaga su una serie di brutali omicidi, caratterizzati da una ferita a forma di X sul collo, compiuti da persone che ricordano il delitto ma non i motivi che le hanno spinte a compierlo.


Dopo Il guardiano di notte, la challenge mi ha portata a guardare a un altro thriller dalle pesanti sfumature horror, Cure, che sconfina spesso e volentieri nel territorio del perturbante, dell'horror psicologico, addirittura nel sovrannaturale, pur non avendo, in realtà, a che fare con quest'ultimo sottogenere. L'impressione, però, è quella, visto che Cure sembra un po' la versione ancora più oscura e pessimista de Il tocco del male. La trama, infatti, è imperniata su una serie di omicidi dai tratti comuni inquietanti. Gli assassini non avevano alcun motivo di uccidere e, di fatto, pur ricordando l'atto non rammentano perché lo abbiano compiuto, e ogni omicidio è seguito dalla mutilazione delle vittime con una raccapricciante X sul collo, come se fosse parte di un rito. L'ispettore Takabe, la cui moglie soffre di disturbi psichiatrici legati a una progressiva, invalidante perdita di memoria, si ritrova a dover cercare il comune denominatore di questi delitti e scopre che gli assassini avevano avuto a che fare, poco prima di impazzire, con un giovane afflitto da un pesante caso di perdita di memoria a breve termine. Il come e il perché questo ragazzo sia fondamentale alla risoluzione del caso, ve lo lascio scoprire se non avete mai visto Cure, preferirei quindi concentrarmi sul perché il film di Kurosawa sia visto come uno dei precursori del J-Horror. Di base, Cure è un'opera fortemente pessimista, dallo stile freddo e asciutto, dove ogni personaggio, anche quelli che hanno una famiglia o degli amici, si ritrova solo ad affrontare, in primis, se stesso e le proprie angosce. Le istituzioni non sono né utili né sicure e persino le persone al disopra di ogni sospetto, come medici, insegnanti o poliziotti, possono essere inghiottiti da un orrore senza nome o divorati dai demoni che li accompagnano quotidianamente, cedendo ad istinti brutali solitamente tenuti sotto controllo. Così, gli omicidi compiuti nel film sembrano frutto di un'epidemia di follia collettiva, da cui nessuno è al sicuro, una "maledizione" che si propaga senza un vero perché (come riportato nel dialogo tra Takabe e lo psicologo Sakuma), come sarebbe accaduto di lì a poco con i film "manifesto" del J-Horror, Ringu e Ju-On. Il mostro di Cure non è sovrannaturale, benché la sua conoscenza dell'animo umano venga percepita come tale, ma i suoi motivi sono imperscrutabili, mossi da una perversa volontà di mostrare la "verità" alle sue vittime, probabilmente di "liberarli" dai vincoli sociali per abbracciare la loro oscura essenza.


Kurosawa
, da regista, affronta questa storia terribile con una regia fredda e distaccata, incarnando uno sguardo esterno che non ha pietà delle vittime e le lascia in balia di un destino inevitabile; la cinepresa segue, con lunghe sequenze prive di stacchi, i personaggi su campo lungo, caricando le scene di tensione, in quanto Kurosawa costringe lo spettatore all'attesa di uno scoppio di violenza o follia all'interno di un quadro tutto sommato tranquillo. Il regista, inoltre, non lesina inquadrature raccapriccianti, e lo stile quasi documentaristico si fa, col proseguire della pellicola, più ermetico e onirico, specchio della progressiva perdita di calma e raziocinio di un protagonista costretto ad affrontare un'oscurità sconosciuta. Alcune sequenze sono, inoltre, debitrici dello stile occidentale dei più importanti thriller horror anni '90, quali Seven o Il silenzio degli innocenti; in particolare, alcune interazioni tra Takabe e Mamiya ricordano tantissimo quelle tra Clarice e il dottor Lecter, anche se personalmente ho trovato Mamiya molto più inquietante e bastardo dell'elegante cannibale. L'allora ventiseienne Masato Hagiwara rappresenta la banalità del male, infonde sottile inquietudine con le sue domande reiterate, monocordi, e un terrore reale quando la sua natura si svela senza possibilità di errore (la scena con la dottoressa, dolorosa ed umiliante, e il confronto con Takabe in cella sono da pelle d'oca); Koji Yakusho è un'inamovibile roccia che si erode nel tempo, rivelando, dietro la facciata di integerrimo ispettore, tutto il marcio racchiuso all'interno di un animo ormai stanco, ingabbiato da valori fondamentali quali amore, dovere, rispetto, che in una società come quella giapponese moderna, sono solo belle parole o poco più. Il finale di Cure è più angosciante di quello di tantissimi horror "puri" visti negli ultimi anni, e se riuscirete a dormire sereni, o a non sentirvi nemmeno un po' sporchi, dopo avere guardato questo capolavoro che persino il divin Scorsese ritiene tra i più terrificanti di tutti i tempi, avete il mio rispetto. Provare per credere! 


Di Koji Yakusho, che interpreta il Detective Kenichi Takabe, ho già parlato QUI.

Kiyoshi Kurosawa è il regista e sceneggiatore della pellicola. Giapponese, ha diretto film come Pulse - Kairo, Tokyo Sonata, Retribution e Journey to the Shore. Anche attore e compositore, ha 70 anni.


Se Cure vi fosse piaciuto recuperate Memorie di un assassino e I Saw the Devil. ENJOY!

mercoledì 24 settembre 2025

The Life of Chuck (2024)

Aspettavo da due anni e finalmente, lunedì, sono riuscita a vedere The Life of Chuck, diretto e co-sceneggiato nel 2024 dal regista Mike Flanagan, partendo dal racconto Vita di Chuck, contenuto nella raccolta Se scorre il sangue.


Trama: la vita del contabile Chuck Krantz viene raccontata, a ritroso, dalla sua fine all'infanzia...


Amo Stephen King dall'età di 13 anni e adoro Mike Flanagan fin dal suo primo film, quindi forse sarò un po' (tanto) di parte parlando di Life of Chuck. King è Maestro d'orrore, ma quelle rare opere in cui il sovrannaturale sfiora appena i personaggi, e dove il Tessitore di Storie si concentra maggiormente a raccontare della vita, della morte, e di tutto ciò che sta nel mezzo, forse sono quelle che gli riescono meglio. E anche quando l'Orrore è preponderante, King, se è al massimo della propria forma, restituisce a tutto tondo sensazioni e verità universali, una quotidianità che non è mai straordinaria, bensì prosaica, spesso brutale ed ingiusta. In questo, Mike Flanagan è molto simile, e al centro delle sue opere, sia cinematografiche che televisive, mette sempre le persone, e il concetto di come il tempo che hanno da passare su questa terra sia più o meno limitato. Da quest'unione non poteva che uscire fuori un'opera leggera come un passo di danza e profonda come l'immensità dell'universo. The Life of Chuck racconta tre tappe dell'esistenza di Charles "Chuck" Krantz, un ordinario contabile che, a 39 anni, sta morendo per un tumore incurabile. Le tre tappe non vanno in ordine cronologico, ma partono dalla fine, dalla tremenda apocalisse personale che coincide con la morte di ognuno di noi. Nell'ormai stra-abusato "Io contengo moltitudini" si consuma la fine di un micro-universo che contiene il nostro bagaglio culturale, la nostra essenza più profonda, ricordi importanti e presenze durate un battito di ciglia; ogni morte è la fine di un mondo, ed ogni mondo è fondamentale per chi lo ha vissuto, a prescindere dalle carte che ci ha servito la vita, dalla spietata legge delle probabilità che ci hanno voluto banali contabili invece che famosissimi ballerini o cantanti. Che la morte sia ineluttabile e spesso ingiusta è un concetto che accomuna i due autori, la differenza è che King spesso lascia degli spiragli, la speranza che ci sia una luminosa mano esterna a guidarci e, forse, ad accoglierci alla fine; Flanagan è tranchant, e per nulla interessato a raccontarci ciò che verrà dopo, perché probabilmente il "dopo" è solo una nera dissolvenza, un buco nero che ci inghiotte. 


Però, c'è la vita. "The rest is confetti" va di pari passo con "I am wonderful. And I have a right to be wonderful". Siamo dei miracoli e, per quanto la vita faccia spesso schifo, c'è sempre qualcosa che, a un certo punto, ci ha resi meravigliosi, anche solo ai nostri occhi (e magari nemmeno ce ne siamo accorti). Può essere una passione che si riaccende all'improvviso, un ultimo guizzo di eccentricità all'interno di un'esistenza che credevamo ormai regolata da una piacevole, rassegnata routine, un ricordo che ci fa sorridere, una parola fondamentale, un atto di coraggio, quello che volete. E' un concetto semplice, che Flanagan e King rendono lapalissiano senza ricorrere ad enfasi strappalacrime, visto che The Life of Chuck riesce a strappare il cuore pur rimanendo trattenuto dall'inizio alla fine. Se la cosa peggiore è l'attesa (della morte, ma non solo), l'unica fortuna che abbiamo è di scegliere cosa fare di quest'attesa. Aspettare passivamente, schiacciati dal peso di un'idea orribile, oppure aggrapparci all'idea che sì, "l'universo è grande, e contiene moltitudini ma, vaffanculo, contiene anche me" e quindi tanto vale goderci il tempo che ci è stato concesso senza rovinarcelo da soli (ci pensa già il mondo. Il primo capitolo del film è angosciante e sembra uno scorcio di imminente futuro. Ho debellato, a fatica, il principio del primo attacco di panico mai avuto al cinema, a dieci minuti dall'inizio di The Life of Chuck, e non penso fosse dovuto solo alla stanchezza). E, ribadisco, The Life of Chuck non parla di un uomo con chissà quali qualità. Chuck è un uomo comune, un contabile che ha abbandonato i sogni di gloria della giovinezza, e noi non abbiamo idea di cosa sia successo, effettivamente, nei suoi 39 anni di vita, perché non è quella la cosa importante. Ciò che conta, ai fini di un discorso più grande, sono la sua morte, il desiderio di toccare nuovamente con mano la meraviglia, il potenziale inizio dell'attesa e il suo deciso rifiuto.


Siccome sto piangendo mentre scrivo (Romina, se mai leggerai queste righe sì, sono una sega. Beata te che hai il pelo sullo stomaco) è meglio che mi rifugi in un discorso più cinematografico. Flanagan omaggia l'origine letteraria del film ricorrendo a un narratore esterno onnisciente, che a mio avviso non stona all'interno di una struttura che conserva la divisione in tre capitoli del racconto originale. Anzi, contribuisce a tenere "distanti" gli spettatori (quelli normali, non certo quelli emotivi come me) da ciò che viene mostrato sullo schermo, fungendo da filtro talvolta ironico. Quanto ai tre capitoli, la prima parte è quella più horror, perché evoca un'atmosfera apocalittica da manuale e veicola un'angoscia tangibile, di cui sono la prova vivente. La seconda è quella più difficile da incasellare e a molti potrebbe sembrare completamente inutile. In realtà, oltre a contenere (come anche la terza parte) molti degli elementi presenti nel primo capitolo, come attori, melodie, dialoghi e luoghi, rappresenta l'ultimo, rabbioso guizzo di eccentricità di cui ho parlato sopra. Non c'è gioia, non c'è catarsi nel ballo a cui si abbandonano Chuck e Janice, non c'è il glamour di un musical, nonostante l'intera sequenza contenga tutti i cliché del genere. Non si tratta, insomma, dell'inizio di un cambiamento epocale, ma "solo" una parentesi sottolineata dal ritmo di una batteria. E' un momento piacevole condiviso con altre persone, una magia che dura il tempo di un numero musicale, che lascia l'amaro in bocca per tutte le possibilità passate e future sfumate ma che, comunque, non influisce in alcun modo sulla vita di Chuck, trasformandosi in un ricordo prezioso e nulla più, come spesso succede. L'ultima parte ha il sapore e il ritmo di una ghost story malinconica, e la bellezza di uno di quei coming of age di cui King è maestro (a tal proposito, in Se scorre il sangue c'è anche Il telefono del signor Harrigan, racconto molto bello che è stato adattato in maniera orribile per Netflix), oltre a contenere la chiave di volta del film e tante bellissime facce amate. Flanagan, con la sua solita, elegante maestria, è riuscito ad adattare alla perfezione il racconto del Re, smussando le differenze di stile tra i tre capitoli del film pur lasciando ad ognuno una personalità ben riconoscibile, e per quanto mi riguarda ha confezionato l'ennesima opera in grado di toccare in profondità le corde del mio animo e straziarlo, anche se forse non era questa la sua intenzione. Lo amo per questo, ma un po' anche lo odio, e mi farò presto di nuovo del male riguardando The Life of Chuck in lingua originale, ché di piantini non ce n'è mai abbastanza. 


Del regista e co-sceneggiatore Mike Flanagan, che compare nelle scene al cimitero, ho già parlato QUI. Tom Hiddleston (Charles 'Chuck' Krantz), Jacob Tremblay (Charles 'Chuck' Krantz), Chiwetel Ejiofor (Marty Anderson), Karen Gillan (Felicia Gordon), Carl Lumbly (Sam Yarborough), Mark Hamill (Albie Krantz), David Dastmalchian (Josh), Matthew Lillard (Gus), Violet McGraw (Iris), Annalise Basso (Janice Halliday), Kate Siegel (Miss Richards), Heather Langenkamp (Vera Stanley), Carla Gugino (voce del notiziario e delle pubblicità), Axelle Carolyn (voce della reporter francese) e Lauren LaVera (voce della reporter italiana) li trovate invece ai rispettivi link.

Nick Offerman è la voce narrante. Sposato con la mitica Megan Mullally, ha partecipato a film come City of Angels - La città degli angeli, Cursed - Il maleficio, Sin City, L'uomo che fissa le capre, Love & Secrets, 7 sconosciuti a El Royale, Civil War e serie quali E.R. Medici in prima linea, 24, Detective Monk, Una mamma per amica, CSI: NY, Parks & Recreation, Fargo, Will & Grace e Pam & Tommy; come doppiatore, ha lavorato in The Cleveland Show, I Simpson, The Lego MovieL'era glaciale 5 - In rotta di collisione, Sing e Sing 2 - Sempre più forte. Anche produttore, sceneggiatore e regista, ha 55 anni e due film in uscita.


Mia Sara
, che interpreta Sarah Krantz, ha avuto un breve ma intenso momento di fama nei primi anni '80, come protagonista dei film Legend e Una pazza giornata di vacanza. Nel film, a colloquio con Anderson, compare Harvey Guillén, visto nella serie What We Do in the Shadows e Companion, mentre i tra i collaboratori fissi o quasi di Flanagan segnalo Michael Trucco (il padre di Dylan), Rahul Kohli (Bri), Samantha Sloyan (Miss Rohrbacher), Molly C. Quinn (La madre di Chuck), Sauriyan Sapkota (Ram), Matt Biedel (Dottor Winston) e Hamish Linklater (voce del reporter americano), senza dimenticare Cody Flanagan, figlio di Mike e Kate Siegel, che interpreta Chuck da piccolino. ENJOY!

martedì 23 settembre 2025

2025 Horror Challenge: Il guardiano di notte (1994)

Ho traslato la horror challenge di qualche giorno per lasciare spazio a La valle dei sorrisi, e il risultato è che questa settimana ci saranno due post a tema. La scorsa settimana, la challenge proponeva di guardare un film in lingua non inglese. Ho dunque scelto il film danese Il guardiano di notte (Nattevagten), diretto e sceneggiato nel 1994 dal regista Ole Bornedal.


Trama: Martin, giovane studente di giurisprudenza, va a lavorare come guardiano di notte di un ospedale. Nei dintorni si aggira però un misterioso assassino di donne...


De Il guardiano di notte avevo visto solo il remake americano con Ewan McGregor, di cui non ricordo neppure un fotogramma, solo le parole della mia amica Nora che, ridendo dopo che ero tornata dalla pausa tra un tempo e l'altro con un minuto di ritardo, mi ha detto "Bolla, nel minuto che sei stata via è successo di tutto". E' quindi in stato di semi-ignoranza che ho guardato Il guardiano di notte, memore giusto di un paio di punti fermi, ovvero il lavoro del protagonista e il fatto che, a un certo punto, i cadaveri dell'ospedale assumevano un'importanza preponderante. Non ricordavo, invece (probabilmente perché nel remake non ci sono? Chissà) le sfide tra Martin e l'amico Jens, quest'ultimo insofferente all'idea di una vita "normale" e già tracciata, fatta di studio, lavoro, matrimonio, figli. In tutta onestà, alla fine del film non ho capito a cosa servissero questi inserti, che a me sono sembrati avulsi dalla struttura thriller-horror de Il guardiano di notte, ma potrebbero rappresentare una sorta di riflessione su come vita e morte vadano costantemente a braccetto, e la speranza di scuotere la quotidianità con dei colpi di testa atti a "rovinarla" sia solo un modo per evitare di pensare che, alla fine, ciò che ci aspetta è solo la morte. In realtà, una delle sfide, che coinvolge una prostituta, serve a Martin per capire di essere nelle mire di un serial killer, ma mentirei se non dicessi di avere trovato molto pesanti le interazioni tra il protagonista e l'insopportabile Jens. Assai diverso, invece, il clima che si "respira" all'interno dell'ospedale, e che consegna in toto un thriller come Il guardiano di notte alla sfera dell'horror. L'ospedale dove lavora Martin è l'equivalente di un tunnel degli orrori, un luogo claustrofobico di cui, ogni notte, il protagonista è costretto a percorrere i corridoi, trovando in ogni stanza e sala qualcosa di terrificante, che dà voce alle paure più ataviche dell'uomo. Le cose, ovviamente, peggiorano ulteriormente quando il serial killer comincerà a giocare con Martin, portando sia lui che il personale dell'ospedale a mettere in dubbio la sua sanità mentale.


Anche la regia de Il guardiano di notte richiama più l'horror che il thriller. Bornedal non lesina immagini scioccanti come quelle dei cadaveri della morgue, sia nascosti da un pietoso lenzuolo sia insanguinati o profanati da una mano sconosciuta, e le sequenze in cui Martin, da solo, si ritrova ad aver a che fare con ombre misteriose, luci che non si accendono, file di cadaveri tra cui passare in mezzo, morti che si muovono e resti umani messi in formaldeide, mettono un'angoscia terribile. Le paure di Martin sono un eco delle nostre e non è difficile immaginarsi nella stessa situazione, né partire per la tangente e pensare a qualcosa di sovrannaturale pronto a trascinare il poveretto nelle ombre o peggio. Non che la sequenza in cui Kalinka si trova a pochi passi dal serial killer sia una passeggiata di salute. Lì subentra anche un intelligente montaggio, che per un attimo ci convince che Kalinka farà un'inevitabile brutta fine, e un interessante uso della colonna sonora (utilizzata alla perfezione anche in tutto il resto del film, comunque), mutuato da un caposaldo del cinema di genere come M - Il mostro di Düsseldorf. Per i fan di Jaime Lannister, vedere un Nikolaj Coster-Waldau agli esordi, decisamente più implume e dall'immagine meno costruita rispetto a quella a cui siamo abituati oggi, potrebbe essere scioccante, ma l'attore è molto bravo ad interpretare Martin; probabilmente perché giovanissimo a sua volta, l'attore conferisce al personaggio una sfumatura sbruffona e ingenua, del bravo ragazzo di buona famiglia che vorrebbe fingersi più duro di quello che è, e fa quasi tenerezza vederlo coinvolto in una situazione terribile come quella descritta nel film. Se vi piacciono i thriller che vanno a stretto braccetto con l'horror, Il guardiano di notte è un ottimo film da recuperare, a patto di non lasciarvi scoraggiare dalla confezione un po' fredda e poco patinata, tipica delle produzioni danesi. 

 

Di Nikolaj Coster-Waldau, che interpreta Martin, ho già parlato QUI.

Ole Bornedal è il regista e sceneggiatore del film. Danese, ha diretto film come Nightwatch - Il guardiano di notte, The possession e Nightwatch - Demons are forever. Anche produttore e attore, ha 66 anni.


Sofie Gråbøl
, che interpreta Kalinka, era la madre della protagonista in Attachment. Kim Bodnia, che interpreta Jens, e Ulf Pilgaard, che interpreta Wormer, compaiono anche nel sequel Nightwatch - Demons are forever, che devo ancora vedere ma che vi consiglio di recuperare, se il film vi fosse piaciuto, assieme al remake Nightwatch - Il guardiano di notte. ENJOY!

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