venerdì 7 febbraio 2025

Companion (2025)

Nonostante la natura caprina dei programmatori del multisala savonese, è miracolosamente uscito anche qui Companion, diretto e sceneggiato dal regista Drew Hankock, quindi mi sono subito fiondata in sala (ormai dovreste sapere di cosa parla il film, anche perché il trailer è abbastanza chiaro, ma seguono SPOILER, nelcaso siate vissuti su Marte finora)!


Trama: Iris e Josh, giovani e innamorati, decidono di trascorrere un weekend sul lago, nella villa di un ricco amico di lui. La vacanza viene però stravolta da eventi terribili...


Companion
è una divertentissima commedia horror che guarda ad esempi "alti" come La fabbrica delle mogli. C'è chi si è lamentato che il film di Drew Hancock non sia granché horror, e in effetti non ha torto. Si tratta più di un mix tra fantascienza e thriller, perché va a toccare importantissimi temi che sono il fondamento di molte opere seminali del genere fantascientifico, soprattutto il dilemma sull'autodeterminazione e sulla natura "umana" delle macchine progettate per replicare alla perfezione i sentimenti dei loro creatori umani. In questo caso, Companion parte da una storia d'amore, quella tra Iris e Josh, incontratisi nel solito modo carino/imbarazzante in cui iniziano tutte le migliori rom-com che ci hanno propinato fin dall'infanzia. Infatti, questo incontro per caso (non in un giorno di pioggia, ma in un supermercato) è talmente perfetto da essere semplicemente un impianto nel cervello di Iris, splendido sex-bot o "compagno" che Josh ha noleggiato invece di uscire a cercarsi una ragazza vera. Per quanto sia più o meno discutibile la scelta di Josh (Companion lascia intendere che, nella società rappresentata all'interno del film, in un futuro molto prossimo, una simile pratica sia molto diffusa, con tutto ciò che ne consegue), non ci sarebbe nulla di male se quest'ultimo non decidesse, a un certo punto, di violare tutti i protocolli di Iris per spingerla a compiere un omicidio, oggettificandola ancora più di quanto facesse in precedenza. Da questo punto in poi, Companion diventa una storia di sopravvivenza e dolorosa presa di coscienza, in quanto Iris non solo deve cercare di non farsi disattivare (o peggio) ma deve anche venire a patti con la consapevolezza di essere stata indotta ad amare un pezzo di merda. Companion è, dunque, la metafora neppure troppo sottile di una società che martella le persone (non necessariamente donne ma, non neghiamolo, succede soprattutto a noi) con un ideale d'amore che consiste nell'annullarsi per il compagno, sacrificarsi per renderlo felice, arrivare a cambiarlo con la forza della gentilezza e del martirio, sorvolando sui difetti macroscopici di chi accanto vorrebbe, appunto, solo un'automa compiacente. Non è un caso che Kat, un'umanissima, imperfetta persona, a un certo punto confessi ad Iris di odiarla per la paura di venire un giorno sostituita da "quelle come lei", con le quali non è facile competere, visto che sono programmabili al punto da poterne diminuirne l'intelligenza a piacere (altra simpatica trovata di sceneggiatura, molto ficcante e plausibile). 


Tra una stoccata all'imminente strapotere dell'A.I., alle cybercar dell'Elmo di Pretoria, ai broflake piagnucoloni e alla superficialità senza sesso né genere che sconfina in stupidità grottesca, Companion procede spedito per 97 minuti di continui colpi di scena, capaci di coinvolgere anche chi si era spoilerato buona parte della vicenda con trailer e locandine. La regia di Drew Hancock, al suo primo lungometraggio, alterna atmosfere da thriller a momenti di commedia nera, sfruttati soprattutto per rendere ancora più sciocchi e melensi i finti ricordi di Iris, e per sottolineare la pochezza del "legame" tra lei e Josh. Le citazioni a La fabbrica delle mogli, come ho già scritto, sono infinite, a partire soprattutto dalle mise vezzose e prive di personalità di Iris, e questo aspetto vivace e pop (anche superficiale) della messa in scena viene ripreso dall'abbondanza di successi ballabili e beffardamente romantici come la splendida Boy dei Book of Love, Iris dei GooGoo Dolls, This Guy's in Love with You ed Emotion sui titoli di coda, che vi consiglierei di non saltare, per non perdere un paio di scene aggiuntive. Per quanto riguarda gli attori, forse sono di parte. Trovo infatti Sophie Thatcher una delle giovani dive più promettenti all'interno della scena horror odierna, e anche qui la ragazza buca lo schermo, a partire dal modo di camminare nelle prime scene, con quel qualcosa di stonato che lo rende buffo, non del tutto naturale. Jack Quaid le fa da ottima spalla, con quella faccetta patatona da bravo ragazzo resa inquietante dal luccichio negli occhi (ereditato dal padre) tipico di chi, sotto sotto, è anche un po' stronzo e non esiterebbe a pugnalarti alle spalle. Il resto del cast brilla grazie a caratteristi e volti ricorrenti di tutto rispetto, a partire da Harvey Guillén (devo recuperare la serie di What We Do in the Shadows, lo so!) e, per quanto mi riguarda, ho percepito tanto di quell'affiatamento e voglia di divertirsi sul set da portarmi a sorvolare su eventuali difetti e forzature di quella che, in fin dei conti, è un'opera prima, per quanto notevole. Aspetto di vedere se quello di Drew Hancock diventerà un nome da tenere d'occhio, nel frattempo vi consiglio la visione di questo adorabile Companion!


Di Sophie Thatcher (Iris), Jack Quaid (Josh), Rupert Friend (Sergey) e Marc Menchaca (Vicesceriffo Hendrix) ho già parlato ai rispettivi link.

Drew Hancock è il regista e sceneggiatore della pellicola, al suo primo lungometraggio. Americano, anche attore e produttore, ha 46 anni.


Lukas Gage
interpreta Patrick. Americano, ha partecipato a film come Manuale scout per l'apocalisse zombie, Assassination Nation e Smile 2. Anche sceneggiatore, ha 30 anni e due film in uscita. 


Megan Suri
interpreta Kat. Americana, ha partecipato a film come Missing e It Lives Inside. Ha 26 anni. 


Se Companion vi fosse piaciuto recuperate il pluricitato La fabbrica delle mogli, M3gan ed Ex Machina. ENJOY!




mercoledì 5 febbraio 2025

Bolla Loves Bruno: Ancora vivo (1996)

Con l'anno nuovo torna anche la rubrica dedicata a Bruce Willis! Si ricomincia con Ancora vivo (Last Man Standing), diretto e co-sceneggiato nel 1996 dal regista Walter Hill.


Trama: un pistolero sconosciuto arriva in una città di frontiera ai tempi del proibizionismo e mette zizzania tra due gang rivali...


Avevamo lasciato Bruccino adorato alle prese con le mattane di "Simon" in Die Hard - Duri a morire. Nel frattempo, si è permesso una comparsata amichevole all'interno dell'allora assai prolifica Tarantino Factory con Four Rooms e ha ottenuto uno dei suoi ruoli più belli, quello di James Cole in quel capolavoro de L'esercito delle 12 scimmie. Evidentemente, era il periodo in cui Willis aveva piacere a lavorare con autori affermati, per film particolari, altrimenti non si spiega perché abbia scelto di partecipare a un remake de La sfida del samurai di Akira Kurosawa (già rifatto da Sergio Leone con Per un pugno di dollari), diretto da Walter Hill. Voi direte "dove sta la particolarità"? Beh, in pratica Ancora vivo è un'opera ibrida, un noir che trova la sua collocazione ai tempi del proibizionismo, con tanto di duro e puro alla Bogart, voce narrante e gangster azzimati, ambientato però in una città di frontiera e fotografato come se fosse un western. Se non fosse per le auto utilizzate, fin dall'inizio si avrebbe l'illusione di vedere spuntare Clint Eastwood bardato col poncho, invece l'"uomo senza nome" (lì Joe, qui John) e tutti i criminali che popolano la cittadina di Jericho sembrano usciti da Gli intoccabili; solo il barista, lo sceriffo, il becchino e la messicana-indiana Felina indossano abiti senza tempo, assimilabili tranquillamente allo stile del Far West. L'idea non è neanche una delle peggiori del film, anche se personalmente ho percepito un po' troppo lo "scollamento" tra un genere e l'altro. Il vero problema di Ancora vivo, per quanto mi riguarda, è che l'ho trovato mortalmente noioso, perché non sono mai riuscita ad investire neppure il minimo sindacale di empatia nei confronti dei personaggi. John Smith, il protagonista, arriva nella città di Jericho e, prendendo a simpatia (senza motivo alcuno se non per la bellezza esteriore) la pupa messicana del boss irlandese, decide di fare il triplo gioco per mettere le due gang locali una contro l'altra e far sì che si distruggano da sole, ricavandoci il "pugno di dollari" citato da Leone. John Smith è come l'Harry Angel di Angel Heart (giusto per citare un altro ibrido che usa il linguaggio del noir), un protagonista per nulla piacevole, moralmente ambiguo, che si ritrova ad avere a che fare con gente ancora più riprovevole di lui; a differenza di ciò che accade in Angel Heart, qui non mi sono però sentita affatto coinvolta dai magheggi di John, dalle sue motivazioni, da antagonisti che sembrano la summa di tutti gli stereotipi del genere e agiscono, a loro volta, spinti da ragioni risibili. Il film si può riassumere tranquillamente con "John viene minacciato - John si affilia a una banda - John ammazza male i membri dell'altra banda - John fa il doppio gioco - Si ricomincia tutto da capo", con ben poche variabili affidate a un paio di co-protagonisti tra il cringe e il moscio.


Bruce Willis
, nei panni di John Smith, recita col pilota automatico. Deciso a dare un'interpretazione "impersonale, classica", al personaggio, risulta monoespressivo, di conseguenza meno affascinante rispetto alla gamma dei suoi antieroi un po' sbruffoni (fortunatamente, a un certo punto viene mostrato seminudo in una vasca, almeno una gioia per gli occhi). In tutto questo, Willis incarna alla perfezione la figura del duro e puro, che non chiede mai, fa strage di cuori femminili, pialla quelli maschili a pistolettate e si rivela comunque la gemma del cast perché, salvo un paio di oneste interpretazioni di Bruce Dern e William Sanderson, il resto è da buttare, e mi si spezza il cuore scrivere una cosa simile per Christopher Walken e Michael Imperioli. Walken arriva come il ben più efficace Mr. Shhh di Steve Buscemi in Cosa fare a Denver quando sei morto, preannunciato da un hype tremendo e personaggi terrorizzati, e si rivela invece un tizio sfregiato a cui piace parlare sottovoce e agitare la mitraglietta automatica; Imperioli, dal canto suo, è in overacting perenne, ben lontano dalle performance che avrebbero reso Christopher Moltisanti uno dei personaggi più sfaccettati delle serie TV. L'overacting, purtroppo, è una cifra stilistica che coinvolge quasi tutti i gangster, e tocca il picco con un David Patrick Kelly a dir poco imbarazzante. Sul cast femminile non mi sento di spendere nemmeno una parola, non vorrei infierire. L'unico aspetto veramente pregevole di Ancora vivo, tolto Willis seminudo e una colonna sonora interessante, sono le sparatorie. Chi ama il genere "John Woo" anni '90, con pistole doppie impugnate da uomini colmi di cazzimma, pallottole infinite e corpi che volano nelle maniere più coreografiche immaginabili, qui può trovare pane per i suoi denti. O, perlomeno, svegliarsi dalla natura soporifera del resto del film, com'è del resto successo a me, costretta a guardare Ancora vivo a puntate per non cadere vittima dei colpi di Morfeo (non Morpheus). Il prossimo film della rassegna, all'epoca, l'avevo adorato. Speriamo non abbia risentito del tempo passato! 


Del regista e co-sceneggiatore Walter Hill ho già parlato QUI. Bruce Willis (John Smith), Bruce Dern (Sceriffo Ed Galt), William Sanderson (Joe Monday), Christopher Walken (Hickey), David Patrick Kelly (Doyle), Michael Imperioli (Giorgio Carmonte), Leslie Mann (Wanda) e Lin Shaye (Madame, personaggio elencato nei titoli di coda ma, a mio avviso, assente nel film, probabilmente caduto sotto la scure del montaggio) li trovate invece ai rispettivi link. 


John Paxton
, che interpreta, Blair Richardson è il padre di Bill Paxton. Se Ancora vivo vi fosse piaciuto recuperate ovviamente La sfida del samurai e Per un pugno di dollari. ENJOY!

martedì 4 febbraio 2025

Get Away (2024)

Sto per venire sepolta dall'annuale Oscar rush, quindi mi servono film pazzerelli e divertenti per sopravvivere. Rientra nella categoria Get Away, diretto nel 2024 dal regista Steffen Haars.


Trama: Richard e famiglia decidono di andare in vacanza su una sperduta isola svedese, proprio durante il festival che commemora la Karantan, l'evento più tremendo e sanguinoso del posto...


L'anno scorso ho capito che uno dei miei generi horror preferiti è "Nick Frost ricoperto di sangue". Ho avuto l'illuminazione guardando Krazy House al ToHorror e la conferma è arrivata con questo Get Away, distribuito da Shudder un paio di settimane fa. O forse potrei dire che mi ritrovo nell'umorismo dell'attore e in quello del regista Steffen Haars, olandese che non si fa pregare a mettere in scena le peggio mattanze, ricorrendo ad una comicità talmente "basic" e di cattivo gusto da far vergognare lo spettatore. Get Away, a differenza dell'iconoclasta e demenziale Krazy House, vede Nick Frost non solo nei panni di interprete, ma anche in quelli di sceneggiatore. Forse per questo è un po' più "classico" di Krazy House e dotato di uno humour capace di far presa su una fetta più ampia di pubblico, inoltre ha uno sviluppo meno surreale, che fa leva su moltissimi cliché del folk horror (Midsommar in primis) non solo per trasformarli in elementi comici, ma soprattutto per spingere lo spettatore a trarre determinate conclusioni. In Get Away facciamo la conoscenza di Richard, padre di famiglia bietolone, della vivace mogliettina Susan e dei due figli, i tipici Gen Z da prendere a smartphonate nella testa. Su suggerimento di Susan, i quattro decidono di passare le ferie su un'isola della Svezia, che ai tempi dei coloni inglesi (e per volontà di questi ultimi) era stata messa in quarantena per lunghissimo tempo, a causa di una presunta epidemia. A causa di ciò, gli abitanti avevano dovuto ricorrere al cannibalismo onde non morire di stenti e i discendenti degli sfortunati isolani, col tempo, hanno deciso di commemorare la tragedia con una rappresentazione chiamata Karantan. La famiglia di Richard si trova lì proprio per vedere Karantan, senza sapere che gli abitanti dell'isola non tollerano turisti in quell'occasione, soprattutto se inglesi, e non passerà molto prima che l'odio e il disagio si concretizzino in una volontà omicida sempre più tangibile. Benché la trama, come avete letto, sia molto banale, il mio consiglio è di non sottovalutare Get Away, perché la sceneggiatura di Nick Frost riserva più di una sorpresa, tra perversioni, segreti inconfessabili, killer ubriachi e quant'altro, messi in scena con un piglio giocoso e un delizioso gusto per il gore.


Rispetto a Krazy House, è molto più classica anche la messa in scena. Steffen Haars sfrutta gli elementi naturali, come la foresta e il mare, per veicolare l'indispensabile senso di isolamento, e combina alla perfezione le interessanti facce degli autoctoni con ambienti artificiali che mescolano squallidi ambienti pubblici, per la maggior parte fatti di legno, al comfort di un elegantissimo, particolare airbnb. Il regista non si concentra solo sulla famiglia protagonista, ma riesce anche a dare un'idea di cosa sia la lunghissima rappresentazione di Karantan (un'esilarante, puerile menata di palle assimilabile alla pièce teatrale del Ringraziamento vista in La famiglia Addams 2) e ad inserire immagini perturbanti tipiche del folk horror, come enormi maschere che richiamano l'Urlo di Munch oppure con costumi fatti di pellicce, piume e corna. Altro aspetto fondamentale della pellicola è la colonna sonora, che utilizza in maniera geniale la famosa Run to the Hills degli Iron Maiden, e inserisce qui e là allegri pezzi pop/folk in perfetto contrasto con le immagini raccapriccianti che scorrono sullo schermo. A tal proposito, la quantità di emoglobina presente nel film non è poca e viene fatto un ottimo utilizzo di armi bianche e altri oggetti impropri. Gli attori, infine, sono simpaticissimi. Nick Frost è ormai a suo agio nel ruolo un po' naif di padre di famiglia vessato e Aisling Bea, con la sua bellezza particolare e il piglio deciso, gli fa da ottimo contraltare. I figlioli regalano sorprese a non finire, Eero Milonoff nei panni di Matts è creepy quanto basta, e il mio personaggio preferito, la vecchia Klara di Anitta Suikkari, farebbe la felicità dei vecchiacci liguri che accolgono con una smorfia di disgusto ogni singolo turista. E' proprio il caso di dirlo: "Mandate i soldi e statevene a casa (magari a vedere questo divertentissimo Get Away!)!". 

 


Di Nick Frost, che interpreta Richard ed è anche sceneggiatore del film, ho già parlato QUI.

Steffen Haars è il regista della pellicola. Olandese, ha diretto il film Crazy House. Anche sceneggiatore, produttore e attore, ha 45 anni. 



venerdì 31 gennaio 2025

A Complete Unknown (2024)

Con ben 8 candidature (Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Attore Protagonista, Miglior Attrice Non Protagonista, Miglior Attore Non Protagonista, Miglior Sceneggiatura Non Originale, Migliori Costumi e Miglior Sonoro), A Complete Unknown, diretto e co-sceneggiato nel 2024 dal regista James Mangold partendo dalla biografia Dylan Goes Electric! di Elijah Wald, era THE film to watch questa settimana.


Trama: ispirato dal musicista folk Woody Guthrie, un giovane Bob Dylan si trasferisce a New York e, a poco a poco, si impone come esponente di spicco del genere. Almeno finché non decide di cambiare...


Per contestualizzare o, forse, per comprendere il mio giudizio tiepido su A Complete Unknown, mi tocca esordire, come al solito, palesando la totale ignoranza relativamente a Bob Dylan, di cui conosco (peraltro apprezzandoli molto) solo i successi principali. Non è che pretendessi di diventare esperta di Dylan dopo la visione del film, ma avrei voluto rimanere affascinata dal carisma e dalla personalità del cantautore, avrei voluto percepire i tormenti di un animo senza pace, una "rolling stone" diretta verso il "complete unknown" che libera da ogni etichetta e costrizione, avrei voluto sentire l'influenza delle due donne che hanno contribuito a definirne la personalità (la cantante folk Joan Baetz e la pittrice Suze Rotolo, qui chiamata Sylvie Russo). Invece, ho avuto più di due ore di piccoli, superficiali pezzettini biografici che forzano la trasformazione di Dylan da ragazzino timido di belle speranze a stronzetto con la S maiuscola, scoglionato da tutto e da tutti senza che si capisca bene perché, salvo per un naturale spleen misto a stress da improvviso successo. Sul finale, introdotto poco prima da una "tavola rotonda" di anziani musicisti barbogi, si intuisce che buona parte dello scazzo di Dylan derivasse da un disperato tentativo di liberarsi dall'etichetta di musicista folk, ma questo "scontro" tra vecchio e nuovo (che esplode nell'unica sequenza emozionante del film, quella del famigerato festival di Newport in cui Dylan, come da titolo della biografia di Elijah Wald, è passato all'elettrico) arriva come un fulmine a ciel sereno a corollario di un'interminabile girandola di canzoni, concerti ed esibizioni che vedono Dylan sempre più nero e depresso. La sceneggiatura (lo scorsesiano Jay Cocks è impazzito, o non si spiega) non fa il salto di qualità neppure per quanto riguarda Joan Baetz e Sylvie Russo. La prima, tanto quanto, conquista per il carisma e risulta fondamentale per la formazione di Bob Dylan; per quanto riguarda la seconda, viene completamente privata della sua personalità di attivista politica ed artista (indispensabile "spinta" all'evoluzione del cantante) e ridotta a ragazzina insicura e innamorata, alla quale vengono messe in bocca un paio di frasi da Bacio Perugina, alternandole a un comodo bignami di storia americana dell'epoca, comprendente la crisi di Cuba, la morte di Kennedy e quella di Malcom X. Risultano abbastanza bidimensionali anche gli altri musicisti affiancati a Dylan. Salvo l'onnipresente Woody Guthrie, che apre e chiude il film come in un cerchio perfetto, Pete Seeger ne esce fuori come un mix tra Mister Rogers e Papà Castoro più che un artista impegnato, mentre Bob Neuwirth, presentato come fondamentale comprimario, si perde in mezzo alle facce degli altri membri della prima band di Dylan.


Come dicevano in A proposito di Davis: "Se non è nuova e non invecchia allora è musica folk". A Complete Unknown, in questo caso, è un film folk come la musica di cui parla, anche a livello di regia. James Mangold dirige col piglio sicuro del regista elegante e classico, regala primi piani intensi, carrellate rispettose che introducono negli studi di registrazione, piccoli, frenetici squarci di lusso, festival da manuale e un'altrettanto tipica New York, uscita dritta da qualche copertina di un album. Abbastanza per rendere il film gradevolissimo alla vista, un po' poco per far urlare al miracolo e arrivare addirittura ad ambire a delle nomination, il che vale per tutto il resto di A Complete Unknown. Parliamo di Chalamet, per esempio. Non ho visto il film in lingua originale, quindi ho dovuto basarmi sulle canzoni (che non mi sembravano ricantate dal doppiatore) e sulla performance fisica, per dare un giudizio. Nulla da dire sulle prime, la voce dell'attore mi è parsa perfetta, ma mi pare che Chalamet ormai abbia deciso di basare le sue interpretazioni su sguardi fissi, espressioni dolenti/scazzate/malinconiche e pose da bello e dannato (madonna quando lo vedo così implume e stiggio mi vengono i brividi, ma di repulsione). Diciamo che alla noia per la sceneggiatura si è aggiunta quella di vedere l'attore così privo di brio e verve. Monica Barbaro va un po' meglio, se non altro ci prova, spesso riuscendoci, a creare un'alchimia e quel minimo di tensione amorosa/sessuale tra lei e Chalamet, senza contare che la sua Joan Baetz è più fascinosa dell'originale, mentre su Edward Norton non riesco a pronunciarmi. Sono stra-convinta che al suo posto avrebbe dovuto esserci Tom Hanks, anziché costringere il povero Edward a quegli sguardi da cane bastonato, a quei mezzi sorrisi da papà indulgente con figlio scemo a carico, e lo stesso vale per Elle Fanning, ingabbiata in un personaggio insipido quanto il film. Ho sperato, invano, in qualche colpo di coda di Dan Fogler e giuro che, quando a un certo punto ho visto arrivare P.J. Byrne, ho gioito, convinta che il suo solito personaggio faccia di merda avrebbe creato caos e scompiglio. Invece l'unico accenno di sconvolgimento l'ho avuto dall'adattamento italiano, con un incredibile "Ma come pensi di arrivare al VILLAGGIO in Taxi?". Belin, ma non si riferiva forse al VILLAGE, visto che Sylvie abita proprio lì? Potrei sbagliarmi, in caso mi scuso, ma il dubbio mi è sorto spontaneo. L'unica certezza che mi rimane è che A Complete Unknown sia un film medio, pompato come se avessimo davanti il nuovo Quarto potere, e il fatto che abbia otto nomination la dice lunga sulla "salute" degli Academy Awards. 


Del regista e co-sceneggiatore James Mangold ho già parlato QUI. Timothée Chalamet (Bob Dylan), Edward Norton (Pete Seeger), Scoot McNairy (Woody Guthrie), Dan Fogler (Albert Grossman), Elle Fanning (Sylvie Russo), Boyd Holbrook (Johnny Cash) e P.J. Byrne (Harold Leventhal) li trovate invece ai rispettivi link. 

Monica Barbaro interpreta Joan Baez. Americana, ha partecipato a film come Top Gun: Maverick. Ha 36 anni.



martedì 28 gennaio 2025

2025 Horror Challenge: Bagman (2024)

Oggi avrei dovuto guardare un horror del 2025. Ho deciso di "barare" un po' e fare fede alla data di uscita italiana più che all'anno di produzione, approfittando del fatto che Bagman, diretto nel 2024 dal regista Colm McCarthy, è arrivato in sala la settimana scorsa.


Trama: quando Patrick e la sua famiglia tornano a vivere nella cittadina dove ha trascorso l'infanzia, l'uomo si ritrova a dover affrontare uno spauracchio sovrannaturale che credeva di essersi lasciato alle spalle...


Se esistesse una definizione di horror "medio", Bagman sarebbe uno dei primi titoli a venirmi in mente, posto che riesca a resistere così a lungo nella mia memoria (spoiler: non credo). E' uno di quei film che non si possono definire "brutti" nel vero senso del termine, perché a livello meramente visivo non hanno nulla di sbagliato, e la sceneggiatura non è un crogiolo di vaccate. Non si possono, però, neanche definire belli, a meno che non ci si accontenti, guardando un horror, di qualcosa di prevedibile dall'inizio alla fine, ingabbiato nei cliché del genere e anche abbastanza ripetitivo. La base di partenza di Bagman è una leggenda radicata nel folklore mondiale, un uomo nero che infila i bambini in un sacco e se li porta via. Attenzione, però: Bagman non arriva per punire i bimbi cattivi, è più un pedofilo cannibale che si incapriccia di quelli che sono buoni, innocenti e sognatori. Da piccolo, Patrick si è trovato nelle mire del Bagman, e gli è fuggito per un motivo abbastanza sciocco; tornato nel paese dov'è nato, con un figlio e una moglie a carico, Patrick ripiomba nuovamente nell'incubo del Bagman quando quest'ultimo torna a manifestarsi, puntando stavolta al bambino. Il protagonista, come in molti film horror troppo simili a questo, segue un percorso di progressiva presa di coscienza, che coincide col ritorno di traumi infantili mai superati, con conseguente diffidenza o incredulità di familiari e amici. Al posto del solito santone/esperto di fenomeni sovrannaturali, però, c'è il ricordo di un padre molto categorico nello stabilire le regole per evitare di finire nelle grinfie di Bagman, ben più dei nonni che raccontavano fiabe a mo' di cautionary tales, e se la sceneggiatura avesse puntato maggiormente su questo aspetto, magari accomunando tutta la cittadina nel terrore dell'essere che dimora nell'ex miniera più importante della zona, a mio avviso ne avrebbe giovato in originalità. 


Invece, Bagman è svogliato, gira sempre intorno ai blackout che preannunciano l'arrivo del mostro (soprattutto nei primi due atti, dove vengono riproposte le stesse situazioni in loop), e sembrerebbe impegnarsi un po' di più giusto nel terzo atto, dove almeno la sequenza ambientata nell'appartamento veicola un minimo di ansia. Purtroppo, la conclusione è frettolosa e spreca delle scenografie evocative, le quali, peraltro, sono l'unico punto di forza del film; la cura che è stata messa nella ricerca delle location e nella decorazione e arredamento degli interni è palese e aveva tutte le potenzialità per rendere la cittadina dove si svolgono gli eventi un importante elemento di Bagman. Per contro, il design del personaggio titolare è quanto di più banale e brutto possa venirvi in mente. Il boogeyman funziona quando non viene mostrato nella sua interezza e quando si limita a fondersi nelle ombre, rivelando giusto qualche dettaglio, ma nello showdown finale si palesa in tutta la sua imbarazzante pochezza e stupisce solo per un dettaglio straniante: i polsini di una camicia che escono dalle maniche di un abito da ufficio. Non so se sia meglio quello o la costante marchetta alla Carhartt, ci devo pensare. Quanto agli attori protagonisti, Sam Claflin e Antonia Thomas sono bellini ma non memorabili, anche se entrambi si impegnano quanto consente loro la sceneggiatura loffia; sempre rimanendo in tema di sprechi, la Frankie Corio di Aftersun si guadagna l'apertura del film per poi, letteralmente, scomparire, e William Hope si perde in un poliziotto ben poco utile. In definitiva, non mi meraviglio del fatto che Bagman sia stato così mal distribuito in Italia, anche se c'è dietro la Notorious Pictures (infatti credo di aver visto il trailer almeno mezza dozzina di volte, in sala); è un horror poco originale, poco interessante, con qualche elemento che funziona, ma non abbastanza per risollevarlo dalla sufficienza risicata. Se siete completisti, aspettate l'uscita in streaming, non merita la spesa del cinema.


Di Sam Claflin (Patrick McKee) e William Hope (Capo Isaacs) ho già parlato ai rispettivi link. 

Colm McCarthy è il regista della pellicola. Inglese, ha diretto film come La ragazza che sapeva troppo ed episodi di serie quali Doctor Who, Sherlock e Black Mirror. Anche produttore e sceneggiatore, ha 52 anni.




venerdì 24 gennaio 2025

2025 Horror Challenge: Blood Feast (1963)

Il tema della challenge della settimana era "Il film che si trova da più tempo all'interno della tua watchlist" e la scelta è caduta su Blood Feast, diretto e co-sceneggiato nel 1963 dal regista Herschell Gordon Lewis.


Trama: Fuad Ramses, proprietario di un servizio di catering egizio, decide di far rinascere la dea Ishtar attraverso un rito che prevede un banchetto a base di organi di giovani ragazze...


Blood Feast
è universalmente riconosciuto come il primo film splatter della storia del cinema. Impegnato, a inizio carriera, a dirigere i cosiddetti nudie cuties, ovvero dei soft core simili a quelli sdoganati da Russ Meyer, a un certo punto Lewis ha intuito che quel genere di film stava per trovare terreno più fertile nel privato delle case degli americani e, cercando qualcosa che le majors non avrebbero mai distribuito, ha deciso di "sfidare" nientemeno che Hitchcock, reo di avere realizzato Psyco, un thriller - horror privo di sangue. L'idea geniale, dunque, è stata quella di arrivare a mostrare il mostrabile, di attirare la gente nelle sale cinematografiche promettendo viscere e sangue in technicolor, e Blood Feast è proprio ciò che il titolo promette, un banchetto di organi e fluidi umani condito da efferatezze riprese senza troppe censure. Sia chiaro, Blood Feast non è un bel film. Non arriverei, come fece Stephen King, a definirlo il più brutto che io abbia mai visto (me ne sono capitati sotto mano di ben peggiori!), ma la sceneggiatura è puerile quanto la recitazione e tantissime ingenuità fanno davvero sorridere. La storia è quella di Fuad Ramses, proprietario di una bottega di alimenti con catering annesso. Il tizio, che viene definito vecchio in virtù di una zoppia pronunciata e del borotalco nei capelli (l'attore aveva 30 anni all'epoca), decide di riportare in questa dimensione la dea Ishtar sacrificandole giovani ragazze, i cui organi e sangue diventeranno gli ingredienti di un banchetto. La struttura del film è molto semplice: ad ogni omicidio di Ramses segue una sequenza in cui i due poliziotti affidati al caso brancolano nel buio, nonostante gli indizi piovano loro sulla testa fin dall'inizio, e ciò si ripete fino allo showdown finale, in cui quattro sbirri, di cui due in macchina, non riescono a raggiungere, correndo, un vecchio che arranca zoppicando. Poliziotti pelidi contro killer-tartarughe, un paradosso che mi ha fatta volare, ma mai quanto la povera mentecatta che, sedicente esperta egittologa e fresca di una lezione imperniata sui riti di sangue egiziani, non riesce a cogliere le intenzioni di Ramses, tanto da sdraiarsi con gli occhi chiusi, alla mercé del machete del bottegaro (il quale, all'inizio del film, ha anche poteri ipnotici, dettaglio che la sceneggiatura dimentica subito dopo averlo esternato, regalandoci così questo favoloso siparietto tra Ramses e la bimbo bionda Suzette).


Visti oggi, anche gli effetti speciali fanno sorridere, ma contestualizzerei un attimo il film all'epoca in cui è uscito. Ci sono sequenze in cui Ramses sevizia chiaramente le sue vittime, strappando loro gli organi mentre sono ancora vive, e in un'altra scena addirittura ci sono parti umane amputate in bella vista, alcune persino infilate in un forno a legna (ho riso moltissimo, d'accordo, ma siamo nel 2025, sono passati più di 60 anni!!); ricordatevi che l'intero film si basa sull'idea che un matto raccolga organi per cucinarli e darli in pasto a una festa di compleanno, e una cosa simile, realizzata con i mezzi e la mentalità di oggi, probabilmente darebbe vita a una pellicola capace di spingerci davvero a vomitare. Nel 1963, di sicuro, lo hanno fatto i critici, che hanno piallato Blood Feast senza pietà, tuttavia è anche vero che il film è stato inserito nei video nasties e in Inghilterra è uscito in versione integrale solo una ventina di anni fa, quindi un'idea di "pericolo eversivo" deve averla veicolata per forza. Diciamo che la forza di Blood Feast risiede principalmente nelle poche innovazioni che hanno portato alla nascita di una nuova sottobranca dell'horror, perché tecnicamente era imbarazzante anche 60 anni fa. La colonna sonora, realizzata dallo stesso Gordon Lewis, fa schifo a livelli inenarrabili, la fotografia praticamente non esiste, le inquadrature oscillano tra lo statico, l'amatoriale e il televisivo, gli attori meriterebbero un capitolo a parte. Mal Arnold, nei panni di Ramses, zoppica e strabuzza occhi definiti "di fuoco" (vabbé), a volte si ricorda di essere vecchio altre no, ma i miei preferiti sono indubbiamente il detective Pete e la già citata Suzette. Connie Mason (cagna maledetta come tutte le attrici che le fanno compagnia nel film) all'epoca aveva 34 anni, William Kervin ne aveva dieci di più; le scene che li vedono impegnati in un corteggiamento fanno accapponare la pelle, in quanto lui ha, effettivamente, il sembiante di un uomo di 44 anni (all'epoca i 40enni ne dimostravano almeno 60), ma lei interpreta una studentessa del college che vive ancora con mammà e vederla limonare con uno che sembra un suo vecchio zio è stato peggio di qualsiasi effetto gore concertato da Gordon Lewis. A parte questo, sono contenta di avere visto Blood Feast, perché è un tassello importante del genere che più amo! Dateci un'occhiata indulgente, se lo trovate.


Del regista e co-sceneggiatore Herschell Gordon Lewis ho già parlato QUI.


Il film ha un seguito ufficiale diretto dallo stesso Herschell Gordon Lewis nel 2002, Blood Feast 2: All U Can Eat, mentre nel 2016 è uscito il remake dal titolo omonimo. Non li ho mai visti, quindi non saprei se consigliarveli o meno, ma considerato quanto mi sia "piaciuto" il sequel/remake non ufficiale, Il ristorante all'angolo - Blood Diner, propendo più per il no! ENJOY! 

mercoledì 22 gennaio 2025

Here (2024)

Un altro film che aspettavo con trepidazione era Here, diretto e co-sceneggiato nel 2024 dal regista Robert Zemeckis a partire dalla graphic novel omonima di Richard McGuire.


Trama: dall'epoca dei dinosauri ai giorni nostri, assistiamo a tante piccole storie che si svolgono nel medesimo spazio fisico...


Un film che si sviluppa interamente nello spazio di un'inquadratura fissa, all'interno della quale il tempo scorre consegnando all'occhio dello spettatore tutti gli inevitabili mutamenti accorsi a luoghi e persone. Questa l'idea geniale dell'ultima pellicola di Robert Zemeckis, mutuata dall'opera di Richard McGuire, dalla quale Here prende in prestito anche il taglio fumettistico e l'idea di aprire delle "vignette" temporali dentro l'inquadratura, così che lo spettatore possa vedere dipanarsi in contemporanea eventi verificatisi in anni, o secoli, diversi. In Here è il tempo ad essere il vero protagonista, una presenza costante che, pur essendo invisibile, fa sentire il proprio peso, soprattutto addosso a chi pensa di averne ancora in abbondanza e si ritrova invece alla fine del percorso, con pochi granelli di sabbia all'interno di una clessidra svuotatasi troppo presto. C'è chi riesce a sfruttarlo cogliendo l'attimo, seguendo correnti fortunate, chi lo affronta in maniera frenetica perdendone pezzi qui e là, chi è perfettamente inserito nella Storia (o almeno pensa di esserlo), chi si adegua al ritmo naturale del suo scorrere, chi, come molti di noi, rimpiange di non averlo utilizzato meglio, dando per scontati gli affetti più cari e inaridendosi l'animo seguendo gli imperativi sociali, denaro e lavoro in primis. E così, in Here, il tempo non è lineare, è come se passato, presente e futuro convivessero per raccontarci una serie di storie legate più al concetto di "vita" che di "famiglia", anche se è proprio un nucleo familiare il protagonista principale del film, quello che ha vissuto più a lungo all'interno del salone che funge da unico setting. Sullo schermo scorrono dunque scorci di esistenze (stra) ordinarie; nascite e morti, malattie, gioie e dolori, problemi economici e piccole vittorie, importanti lezioni di vita e momenti triviali, con qualche incursione nella storia americana o nel costume di una nazione che, attraverso lo sguardo indulgente di Zemeckis, viene celebrata con tutte le sue contraddizioni. Purtroppo, uno dei difetti di Here è che il suo scopo grandioso, la volontà di essere un enorme affresco temporale, si scontra inevitabilmente contro un metraggio che lo porta ad essere spesso superficiale. Delle tante famiglie che passano sullo schermo, solo quella di Richard è oggetto di approfondimento, le altre sono piccoli tocchi di colore talvolta interessanti (come la deliziosa coppia che arriverà a brevettare la poltrona La-Z-boy), talvolta perplimenti (non ho capito l'importanza di Benjamin Franklin, limite mio), mentre indiani e afroamericani sembrano messi lì giusto per amore di inclusività.


Nonostante abbia trovato la sceneggiatura diversa da come mi sarei aspettata e, forse, un po' deludente, sono comunque rimasta estasiata davanti alla voglia di sperimentare dell'ormai ultrasettantenne Zemeckis, sempre pronto a sfruttare gli ultimi ricavati della tecnologia e ad usarli in maniera innovativa. E' vero che squadra che vince non si cambia (tra Tom Hanks,Robin Wright, Eric Roth e Alan Silvestri, mi aspettavo di sentire pronunciare uno "Stupido è chi lo stupido fa!" o che cicciasse fuori il tenente Dan la sera di capodanno) ma l'utilizzo "in diretta" dell'intelligenza artificiale onde consentire a Zemeckis di constatare i risultati del de-aging non in post produzione, bensì nel momento stesso in cui venivano riprese le varie scene, ha del fantascientifico. Ha anche dell'inquietante, e non solo per le mille implicazioni morali e il tremendo impatto che avrà sugli attori, nell'immediato futuro, l'utilizzo di una simile tecnologia, ma anche perché il risultato su Tom Hanks è perfetto, mentre Robin Wright, nelle scene in cui interpreta una diciannovenne, sembra una quarantenne con addosso dei vestiti vintage. Pertanto, c'è sicuramente da lavorarci un po' su, tuttavia ciò non toglie che Zemeckis abbia rischiato e portato a casa un risultato egregio. Per fortuna, l'AI non può ancora prescindere dalla bravura degli attori. Per quanto riguarda Here, a spiccare su tutti sono Paul Bettany e Kelly Reilly, entrambi quasi irriconoscibili ed impegnati nell'interpretazione di due personaggi imperfetti e sfaccettati, il simbolo spesso triste e malinconico di un'epoca di apparenze mantenute a scapito della salute fisica e mentale di padri abbruttiti dalla guerra e dal lavoro, e di madri rimbecillite dalla TV e condannate ad essere un simbolo nazionale al pari della torta di mele da sfornare quotidianamente per orde di figli. Zemeckis, col suo solito tocco delicato, ci indora un po' la pillola e risparmia le brutture come violenze verbali o fisiche, ciò non toglie però che Here assesti comunque un paio di colpi pesantini, soprattutto se, come me, siete in un periodo di pensieri foschi legati a malattie, vecchiaia e affetti. Nel caso, prendete il film con le pinze, perché potrebbe farvi maluccio.


Del regista e co-sceneggiatore Robert Zemeckis ho già parlato QUI. Tom Hanks (Richard), Robin Wright (Margaret), Paul Bettany (Al), Kelly Reilly (Rose) e Nikki Amuka-Bird (Helen Harris) li trovate invece ai rispettivi link. 

Michelle Dockery interpreta Pauline Harter. Inglese, ha partecipato a film come Anna Karenina, The Gentlemen e a serie quali Downton Abbey. Come doppiatrice ha lavorato in I Griffin e American Dad!. Ha 44 anni e due film in uscita. 


Se Here vi fosse piaciuto, recuperate The Tree of Life e Boyhood. ENJOY!


martedì 21 gennaio 2025

Wolfman (2025)

Sabato, visto che a Savona non è uscito, sono andata a Genova a vedere Wolfman (Wolf Man), diretto e co-sceneggiato dal regista Leigh Whannell.


Trama: alla notizia della morte del padre, da tempo disperso, Blake porta moglie e figlia in Oregon, a sgomberare la sua casa natale. Nei boschi, però, si cela qualcosa di orribile...


Dopo L'uomo invisibile, che rese ben più sopportabile il lockdown del 2020, Whannell è tornato a cimentarsi con un altro mostro classico, l'uomo lupo. Anche in questo caso, il regista e co-sceneggiatore effettua una rilettura moderna della storia, inserendo al suo interno un protagonista già segnato nell'anima da un'infanzia tremenda, alla mercé di un freddo padre survivalista. Da anni Blake non ha notizia alcuna di quest'ultimo, scomparso negli stessi boschi dove lo portava a cacciare da bambino, e si è rifatto una vita cercando di offrire alla figlioletta Ginger il calore e l'affetto che lui non ha mai avuto. L'introduzione del film, concitata e chiara, dipinge la condizione del protagonista senza essere troppo didascalica, anzi, ci consente di empatizzare con un uomo che fa del suo meglio per dare un'infanzia serena alla figlia e anche con la moglie che, per forza di cose, non ha lo stesso rapporto con la piccola, perché costretta a "portare il pane in casa" e vestire i panni della donna in carriera. Il viaggio in Oregon, alla notizia della morte del padre di Blake, diventa una scusa per rimettere insieme un rapporto tra moglie e marito che rischia di soccombere a queste disparità economiche ed affettive. Il fatto che entrambi i protagonisti adulti siano delle brave persone che cercano di venirsi incontro rende ancora più doloroso l'orrore che li aspetterà nei boschi."The way you walked was thorny though no fault of your own, but as the rain enters the soil, the river enters the sea, so tears run to a predestined end"; queste erano le parole che la zingara Maleva offriva a Larry Talbot, il primo uomo lupo cinematografico, e benché l'approccio di Whannell sia diverso, ovviamente, da quello di George Waggner, la sensazione di pena e tristezza che si prova di fronte al progressivo soccombere di Blake alla "malattia" che arriva a divorarlo è identica. Il protagonista di Wolfman, infatti, non si abbandona alla bestia, non è un uomo represso che cerca uno sfogo, ma una povera anima innocente che ha tentato di fuggire per anni all'incomunicabilità che lo ha estraniato dal padre e che, come primo step della maledizione licantropica, si ritroverà a non poter capire moglie e figlia, né a farsi comprendere da loro. Wolfman, dunque, è triste e malinconico come i migliori film a tema "lupo mannaro" che lo hanno preceduto, ma non è questo l'unico motivo per cui gli ho voluto bene.


L'ultimo film di Whannell gestisce molto bene la tensione. Non è angosciante come L'uomo invisibile, ma ha delle ottime intuizioni e non si limita a mettere in scena una sequenza infinita di jump scares. Piuttosto, il film fa un uso efficacissimo delle lunghe attese (come nel caso della scena iniziale e finale, entrambe al cardiopalma) e dell'ambiente inevitabilmente buio; il film si svolge tutto nel corso di una terribile notte, all'interno di una casa vecchia, illuminata da un generatore, e all'esterno di essa, in boschi a malapena rischiarati dall'alba imminente, e l'uomo lupo ha mille occasioni di fondersi con le ombre. E' molto interessante ed efficace anche la resa dei sensi ipersviluppati di Blake, tra esiti amaramente ironici e la rappresentazione tangibile dell'incomunicabilità di cui sopra, che rende incomprensibili le parole di Charlotte e Ginger (il sonoro del film fa accapponare la pelle), trasformate a loro volta in inquietanti alieni, mostri che un protagonista sempre meno umano stenta a riconoscere. Molto bello anche il make up dell'uomo lupo, un po' diverso dall'iconografia solita e "contaminato", è il caso di dirlo, dai tratti tipici di chi contrae una malattia all'interno di un film horror, e ottima anche la scelta degli attori protagonisti. Julia Garner, già abbonata alle atmosfere tipiche del genere, unisce l'eleganza di una donna in carriera alla forza d'animo delle migliori final girls, mentre Christopher Abbott ha finalmente trovato il modo di trasformare quello sguardo da cane bastonato (che tanto mi aveva infastidita in Sanctuary) in un'espressione di sincero dolore e smarrimento, qualcosa che mi ha spezzato il cuore più del finale del film, il quale mi è parso invece un po' posticcio. Wolfman manca di quella critica feroce e di quell'angoscia pura che caratterizzava L'uomo invisibile, e rispetto al film del 2020 risulta un passo indietro, ma è un bellissimo horror, concitato e crudele, quindi non posso fare altro che consigliarvelo!


Del regista e sceneggiatore Leigh Whannell, che presta anche la voce a Dan, ho già parlato QUI. Julia Garner (Charlotte) e Christopher Abbott (Blake) li trovate invece ai rispettivi link.


Nel 2021 il film avrebbe dovuto venire diretto da Derek Cianfrance, con Ryan Gosling come protagonista, ma quando entrambi hanno abbandonato il progetto, è ri-subentrato Leigh Whannell, che invece ha scelto Christopher Abbott. Tra i film che hanno ispirato Leigh Whannell ci sono La mosca e Shining quindi, se Wolfman vi fosse piaciuto, recuperateli e aggiungete L'uomo lupo, Wolfman e Un lupo mannaro americano a Londra. ENJOY!

venerdì 17 gennaio 2025

Conclave (2024)

Conclave, diretto dal regista Edward Berger e tratto dal romanzo omonimo di Robert Harris, è stato l'ultimo film visto al cinema nel 2024.


Trama: dopo la morte del papa, il decano Lawrence si ritrova a dover presiedere all'elezione del suo successore, nel corso di un conclave complicato da segreti e alleanze...


Siccome è passata ben più di una settimana dalla visione di Conclave, potrei anche avere delle difficoltà a scrivere un post di lunghezza standard. Benché, infatti, mi fossi recata al cinema con le migliori intenzioni e la speranza di vedere un film eccellente (il cast è di altissimo livello, Conclave ha la bellezza di sei nomination ai Golden Globes), devo riconoscere che l'opera non mi ha lasciato granché. Se dovessi usare un termine per definire Conclave sarebbe "poco incisivo". E pensare che la trama, tratta da un romanzo di Robert Harris che non ho mai letto, solleva domande interessanti e offre un paio di punti di vista interessanti, ma è tutto sussurrato, molto all'acqua di rose. Il film esplora i dubbi etici e religiosi del decano Lawrence, estremamente legato al papa ma allontanatosi progressivamente da quest'ultimo a causa di una crisi di fede. Alla morte del pontefice, Lawrence è costretto a tornare in Vaticano e a guidare l'elezione del suo successore, in un momento assai delicato per la Chiesa: rinnovata dalle idee riformiste del defunto papa, l'istituzione rischierebbe di tornare a un atteggiamento di chiusura qualora vincesse il reazionario cardinale Tedesco, ma tutti gli altri candidati hanno pro e contro che verranno gradualmente esplorati nel corso del film, tra segreti inconfessabili e giochi di alleanze mutevoli. Per quanto mi riguarda, l'aspetto interessante del film è stato proprio scoprire i segreti appena accennati dei porporati, e vedere portata sullo schermo un'istituzione anacronistica e ipocrita. In un mondo che va avanti, la Chiesa si arrocca su rituali che cozzano con la modernità dei peccati di chi vive in seno ad essa, sul senso di superiorità del sesso maschile rispetto a quello femminile, promuovendo idee "rivoluzionarie" ma che, in realtà, cercano di non minare mai la tranquillità, la tradizione conquistata nel corso dei secoli precedenti. Una delle scelte più intelligenti di Conclave è di non dare una dimensione temporale precisa alla vicenda, ambientata probabilmente in un prossimo futuro, e di inserire elementi perturbanti, persino violenti, che rendono un rituale come il conclave ancora più anacronistico, per quanto affascinante, specchio di un rifiuto ad aprirsi completamente al mondo esterno che non riguarda solo l'elezione papale, ma ogni aspetto della Chiesa. Il clero viene infine descritto come una micro comunità che ripropone, al suo interno, tutte le dinamiche che i prelati dovrebbero combattere e aborrire, e che governano le istituzioni laiche, e i dialoghi tra Lawrence e i suoi "colleghi" sembrerebbero più adatti sulle bocche di politici smaliziati. Il risultato è che lo spettatore accoglie e comprende alla perfezione la crisi di fede del protagonista, impossibile da condannare neppure quando sceglie di mandare al diavolo i rituali per tentare di porre rimedio a danni potenzialmente irreparabili.


Inutile dire che Conclave è un film che, più di altri, si regge sugli attori e forse questo è il motivo per cui non l'ho apprezzato tanto quanto hanno fatto gli spettatori americani o inglesi. Impossibilitata, come sempre, a godere al cinema di una versione v.o., ho dovuto accontentarmi di un doppiaggio ben poco ispirato, e a vedere spiccare, all'interno di un cast di signori attori come Ralph Fiennes, Stanley Tucci, John Lithgow (mai così sprecato) e Isabella Rossellini (mai così sprecata), il nostrano Sergio Castellitto col suo modo di fare arrogante e verace, immaginandomi i dialoghi in italiano tra lui e Fiennes, inevitabilmente appiattiti dall'adattamento. Mi ha poco convinta anche la fotografia cupa di Stéphane Fontaine, nonostante fosse perfetta per accrescere il senso di claustrofobia e reclusione provato dal decano Lawrence alla chiusura delle imposte che segnano l'inizio del conclave. Nulla da dire, invece, sulla regia, rigorosa ed attenta, sui ricchissimi costumi e sulle scenografie, per non parlare dell'attenzione dedicata agli oggetti di scena come anelli e sigilli, e alla riproposizione quasi certosina di rituali che potrebbero anche non scaldare il cuore di chi, come me, non apprezza granché la Chiesa, ma risultano comunque interessanti e affascinanti. Paradossalmente, il vero punto debole di Conclave è proprio la sceneggiatura, il che, per un film che viene presentato come un thriller religioso e invece risulta abbastanza prevedibile negli snodi (salvo per il finale che mi ha lasciata, effettivamente, a bocca aperta) e non granché incisivo nel sviscerare le questioni legate alla fede, non è proprio un bel biglietto da visita. Il fatto che sia stata candidata ai Golden Globes mi porta a temere per la qualità di ciò che mi toccherà sorbirmi prima degli Oscar ma, a parte ciò, nel caso di eventuale vittoria di Fiennes o della Rossellini, mi riservo il diritto di rettificare il mio tiepido giudizio complessivo dopo aver riguardato Conclave in lingua originale.  


Del regista Edward Berger ho già parlato QUI. Ralph Fiennes (Lawrence), Stanley Tucci (Bellini), John Lithgow (Tremblay), Isabella Rossellini (Sorella Agnes) e Sergio Castellitto (Tedesco) li trovate invece ai rispettivi link.




mercoledì 15 gennaio 2025

2025 Horror Challenge: Licantropus (2022)

La challenge horror chiedeva, per la terza settimana, di guardare l'horror più famoso tra quelli non ancora visti e non sulla watchlist. La scelta è caduta su Licantropus (Werewolf by Night), diretto nel 2022 dal regista Michael Giacchino.


Trama: un gruppo di cacciatori di mostri si riunisce per superare una prova, alla fine della quale il vincitore entrerà in possesso della gemma Bloodstone. Qualcosa, però, renderà la prova molto più movimentata...


Licantropus
è uno special televisivo che, ai tempi dell'uscita, ha fatto parlare parecchio di sé, in quanto prodotto "sperimentale" della Marvel. Il film è tratto dalla serie a fumetti omonima uscita negli anni '70 e il personaggio, nato da un'idea di Roy Thomas, faceva parte del revival horror seguito all'alleggerimento del Comics Code Authority. Ciò che rende particolare la pellicola, è il fatto che Licantropus è stato realizzato proprio come un horror della Universal, con tanto di immagini in bianco e nero (salvo per la presenza di una bloodstone rosso brillante), e all'inizio dà proprio l'illusione di mantenere le atmosfere dei film dell'epoca. Tra personaggi sopra le righe, umorismo nero e un'aura di mistero a circondare la famiglia Bloodstone e la reliquia da essa custodita, è facile lasciarsi coinvolgere dalla storia e cadere nell'illusione di avere davanti un omaggio ai tempi che furono (anche se il look dei cacciatori di mostri è troppo moderno e fighetto), anche in virtù del ritmo "rilassato" con cui vengono introdotte le basi della trama. Dopodiché, essendo comunque un mediometraggio da 50 minuti prodotto dai Marvel Studios e distribuito direttamente su Disney +, le cose si velocizzano e viene anche meno quell'aria gotica che rendeva Licantropus così particolare. Benché, infatti, a un certo punto venga a crearsi una situazione potenzialmente angosciante e perfetta per un horror più "adulto", l'umorismo nero regredisce a siparietti slapstick e le sequenze si riempiono di adrenalinici corpo a corpo, con qualche lievissima concessione ad eleganti macchie di sangue che impattano contro la macchina da presa, la quale pur non mostra nulla di particolarmente splatter o disgustoso, nemmeno quando artigliate e pesanti ferite all'arma bianca lo richiederebbero. Si può dire che, dopo l'inizio promettente, Licantropus si adagia sullo stile di una serie TV Marvel un po' più violenta e spaventosa del normale, ponendo però dei paletti "morali" che non vengono mai superati e che privano i mostri della carica orrorifica ed eversiva che dovrebbero possedere di diritto. 


Dal mio punto di vista, ovviamente, questa mancanza di coraggio è un peccato, nonostante mi sia comunque divertita a guardare Licantropus, anche perché l'unione di due stili così diversi manca di equilibrio e di un raccordo che la renda meno stridente. Peccato, perché Giacchino (anche autore, naturalmente, della colonna sonora) dietro la macchina da presa mostra di saperci fare e confeziona delle sequenze estremamente rispettose dello stile Universal, sfrutta bene i giochi di luce ed ombra, quando si tratta di passare alle scene d'azione non entra in confusione e, coadiuvato da un buon montaggio, rende tutto chiaro e comprensibile. Ho apprezzato molto anche il trucco e gli effetti speciali artigianali, affiancati da un'ottima CGI necessaria per dare vita a uno dei personaggi horror più iconici della Casa delle Idee. Infine, Licantropus vanta un ottimo cast. Gael García Bernal è caratterizzato da un perfetto mix di fascino e goffaggine, Laura Donnelly mi ha ricordato tantissimo Krysten Ritter in Jessica Jones (quando le serie Marvel erano meglio, mannaggia!) e Harriet Sansom Harris si mangia tutti con un'interpretazione così sopra le righe che è una gioia per il cuore. Purtroppo, come ho scritto sopra, le potenzialità di Licantropus sono state sacrificate alle necessità della Marvel, che lo rendono automaticamente un'opera non così "sperimentale" come l'avevano pubblicizzato all'epoca. Il mio cervello se n'è reso conto, perché da metà special in poi ha cominciato a venire intaccato da quella sensazione di superficialità consumistica evocata ormai da ogni prodotto del MCU, che lo spinge ad inserirli, man mano che il tempo passa, nel limbo dei film dimenticati. Di solito ci vuole una settimana, magari a Licantropus servirà un mese, ma temo che il destino sarà il medesimo. 
 

Gael García Bernal
, che interpreta Jack Russell, ho già parlato QUI.

Michael Giacchino è il regista della pellicola, al suo primo e, finora, unico lungometraggio. Americano, principalmente attivo come compositore, ha 58 anni.


Nel 2023 è stata distribuita una versione a colori del film, per omaggiare gli horror della Hammer. Se Licantropus vi fosse piaciuto recuperate L'uomo lupo. ENJOY!

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