venerdì 30 maggio 2025

2025 Horror Challenge: Rabid Grannies (1988)

Il tema della challenge horror della settimana scorsa, saltata per le ferie, era "Video Store Rules #1. Pick a film solely on its poster". Seguendo questo saggio criterio di ricerca, ho scelto Rabid Grannies (Les mémés cannibales), diretto e sceneggiato nel 1988 dal regista Emmanuel Kervyn.


Trama: il giorno del loro compleanno, due anziane signore invitano i nipoti a cena. La pecora nera della famiglia, un nipote in odore di satanismo, invia alle zie una scatola di legno, il cui contenuto le trasforma in sanguinari demoni...


Da quando gestisco il blog, raramente vado a leggere recensioni complete di film che devo ancora vedere, perché non voglio venire condizionata da ciò che scrivono gli altri, né venire accusata di "plagio" nemmeno per sbaglio. Sbirciando qui e là nel discutibile sistema di "voti" presente su vari siti, mi sono resa comunque conto che Rabid Grannies viene considerato da tutti un film pessimo, una trashata di serie Z della peggior specie. La colpa di un simile giudizio, stavolta, è da ricercarsi anche nella Troma, che ha distribuito Rabid Grannies con svariati tagli e un montaggio arbitrario, operazioni condotte senza consultarsi col regista Emmanuel Kervyn, novellino belga con pochi soldi a disposizione che non è riuscito ad andare in America e far sentire la sua opinione; peggio ancora, gli attori sono stati costretti a recitare in inglese per "facilitare" il ridoppiaggio ma, siccome molti di loro non conoscevano assolutamente la lingua e si limitavano a riprodurne la pronuncia, i doppiatori hanno dovuto lavorare su un ritmo e su un labiale incoerenti, facendo i salti mortali e cercando di rimediare con un terrificante accento british. Qualunque persona dotata di senno, dunque, dovrebbe giustamente odiare Rabid Grannies, ed ero convinta che anch'io avrei finito la visione del film mandando al diavolo tutti i coinvolti. Invece, con molta vergogna, devo ammettere di essermi divertita tantissimo e mi spingerei persino a dire che Rabid Grannies, proprio grazie a tutti i suoi difetti, è una perlina di serie Z da affrontare con spirito lieto, apprezzando tutte le vaccate di cui è infarcito. Il film racconta la svolta horror di una cena di compleanno organizzata da due facoltose vecchiette, alla quale sono stati invitati tutti i membri della famiglia tranne un nipote, estromesso in quanto "pecora nera" in odore di satanismo. Ora, sicuramente il nipote disconosciuto sarà stato un mostro, ma anche gli altri non scherzano: tra preti decisamente poco cristiani, mariti codardi, beghine false, produttori d'armi senza scrupoli e, in generale, persone con ben poco amore nel cuore per le due zie, alle quali tutti leccano il culo solo per avere una fetta della ricca eredità, non c'è praticamente nessuno per cui provare pena quando l'orrore colpisce duro. A un certo punto, infatti, le ziette ricevono in regalo una scatola dal nipote lontano, e il fumo che si sprigiona dal contenitore le trasforma in due demoni beffardi e sanguinari, che cominciano a mutilare, uccidere e talvolta mangiare i terrorizzati membri della famiglia.


Ho apprezzato, di Rabid Grannies, il fatto che non si prenda mai sul serio. Il film è zeppo d'ironia, mette alla berlina la famiglia, la religione, la società, e non fa sconti nemmeno quando si tratta di toccare l'intoccabile, innanzitutto i bambini. Forse perché pronunciati con l'accento british posticcio di cui ho parlato sopra, i dialoghi risultano ancora più spocchiosi e allucinanti, e i personaggi diventano i protagonisti di una terribile commedia nera in salsa splatter. Facendo un paragone ardito, il film gioca nel campo di bizzarrie come i primi film di Peter Jackson, nelle quali era praticamente impossibile empatizzare coi personaggi, anzi, si finiva quasi per trovare simpatici i mostri che li smembravano. Cito Peter Jackson nonostante la Troma abbia (stranamente) tagliato, a quanto pare, i momenti più splatter, ma diciamo che è tutto molto più pecoreccio, più vicino a quei deliri di serie Z, girati con due soldi, prodotti in Italia negli anni '70-'80; è una sensazione difficile da spiegare a chi non ne ha mai visto uno, quel senso di vertigine dato da personaggi che interagiscono superficialmente, per poi venire gettati dentro incubi montati con l'accetta, dove scenografia e fotografia ignorano ogni regola dell'orientamento e della consecutio temporum, perché conta solo l'elemento shock e la sensazione di non potersi salvare dall'orrore. Anche perché, come spesso accade in questo genere di film, il "male" non ha regole. Talvolta le nonnine sono solidi demoni costretti a camminare con le loro gambe, in altri momenti pare abbiano il dono di teletrasportarsi, quando gli gira sono ciarliere come i deadites de La casa, altrimenti sono silenziose ed implacabili, parrebbero avere poteri sovrannaturali ma ne usufruiscono solo se serve alla sceneggiatura. Insomma, un delirio. Eppure, ammetto che, guardandolo a casa da sola, un po' avevo paura che, nel buio, comparissero le nonnine a staccarmi la testa dal collo. Se poi penso che il tecnico degli effetti speciali aveva 18 anni quando ha realizzato il film, onestamente non mi sento di condannare Rabid Grannies all'oblio che molti gli hanno augurato. Anzi, vi sfido a recuperarlo e a farmi sapere cosa ne pensate, ricordandovi che la Notte Horror è imminente e che questo è un film perfetto per celebrare un'estate a base di brividi cheesy!

Emmanuel Kervyn è il regista e sceneggiatore della pellicola. Belga, anche attore, dopo Rabid Grannies non ha più lavorato come regista.



mercoledì 28 maggio 2025

Bolle di recensioni al cinema: Final Destination Bloodlines (2025) e Werewolves (2024)

Avrei voluto scrivere qualcosa di più su questi film, soprattutto sul primo, attesissimo revival di una saga molto amata, ma tra ferie, problemi informatici, nuove uscite succulente e mancanza di tempo, il rischio era di riuscire a redigere un post nel 2026. Mio malgrado, quindi, ecco un parere in pillole su Final Destination Bloodlines Werewolves. ENJOY!

Final Destination Bloodlines (Zach Lipovsky e Adam Stein, 2025)

Credetemi, mi spezza il cuore parlare così brevemente di questo film. La saga di Final Destination non mi ha mai particolarmente entusiasmata, salvo per i primi due capitoli e il quinto, ma ovviamente mi ha comunque segnata, come cinefila e amante dell'horror. Diciamo che sto MOLTO attenta a tantissimi, potenziali modi di morire, da quando visto i film della saga per la prima volta, e quest'ultimo capitolo ha riconfermato la bastardaggine di alcuni, oltre ad avere portato su schermo una mia fobia enorme, rendendomi ancora più cauta nell'approcciarmi a determinati luoghi. Per quanto mi riguarda, infatti, la scena d'apertura di Final Destination Bloodlines è la più terrificante della saga, perché è una situazione che mi sono immaginata (non a questi livelli, certo) persino sulla Torre di Tokyo, portandomi a stare ben distante dal punto panoramico in cui gli ospiti possono camminare su una lastra trasparente. Fortunatamente, dopo quei dieci minuti di angoscia iniziale (che a me sono sembrati almeno due ore) in cui volevo uscire dalla sala, Final Destination Bloodlines si assesta su un tono più scanzonato, ma non stupido. Il film riflette parecchio sulla famiglia, sui "legami di sangue", su quanto il silenzio e la testarda decisione di proteggere le persone amate dalle nostre paranoie e dai nostri traumi, spesso le allontanino e le distruggano, condannando sia noi che loro a una triste solitudine o a un risentimento costante. C'è dunque tanto spazio per il divertimento, nel film, che inanella alcune delle morti più assurde, sanguinose, stupide e meglio congegnate della saga, ma anche per la commozione: Final Destination Bloodlines è dedicato quell'elegantissimo Signore di Tony Todd, il quale si accomiata dal pubblico con un monologo personale e struggente, che mi ha lasciata in lacrime sulla poltrona. Il buon Tony non è l'unico in grado di entrare nel cuore dello spettatore, però. A fianco di una protagonista simpatica ma dimenticabile, ci sono infatti le vere rivelazioni del film, due ragazzi per i quali ho sofferto davvero, sperando di non doverli mai vedere morire male (as if). Parlo del tenerissimo Bobby, accompagnato dall'inseparabile tartaruga e, soprattutto, della rivelazione di Final Destination Bloodlines, Richard Harmon con il suo Erik. Con qualche anno in meno e un po' di tempo in più mi metterei alla ricerca di tutte le apparizioni cinematografiche e televisive di questo attore, perché il fanciullo è entrato di diritto nel novero delle mie crush fulminanti, e riguarderei in loop il film solo per godermi la sua meravigliosa performance. Se non mi credete, correte a vedere il film e innamoratevi a vostra volta. Poi non dite che non vi avevo avvertiti. 

Curiosità: Richard Harmon ha esordito, al cinema, in Trick'r Treat, dietro la maschera di Dracula di uno dei bambini nel pullman!


Werewolves
(Steven C. Miller, 2024)

Muscolosissimo action con lupi mannari i quali, come sapete, non sono molto il mio genere, visto che preferisco i vampiri. In pratica, il film è una Notte del giudizio con licantropi annessi, che racconta la battaglia disperata di un gruppo di studiosi in cerca di una cura contro una pandemia licantropica iniziata con la superluna di un anno prima e, parallelamente, il tentativo di chi è rimasto ancora umano di barricarsi in casa e proteggersi alla vigilia di una nuova superluna. L'aspetto più interessante del film è l'idea di rendere la luce lunare come un virus che trasforma in lupi mannari, aggiungendo al pericolo di venire sventrati anche quello di mutare nel giro di pochi istanti, cosa che costringe gli sceneggiatori a inventarsi un paio di cosine niente male, che aumentano ulteriormente il tasso di tensione. Il "cosa mai potrà andare storto?" davanti a un inizio in cui vengono presentati due piani a prova di scemo, lascia ovviamente presto il passo a zanne, artigli e sangue, e mentirei se non dicessi che, in un paio di momenti, mi stavo rosicchiando le unghie dall'ansia. In generale, le parti action/horror del film sono molto ben fatte e, se i lupi mannari sono stati realizzati in CGI, tanto di cappello, perché non ho avuto la solita percezione di "pupazzone finto" che mi prende ogni volta che si fa uso smodato di questa tecnica. Purtroppo, bisogna sopportare un paio di inni all'amore tutto americano per le armi e la difesa militaresca della propria casa, ma compensa la presenza di un personaggio uguale in tutto per tutto al Napalm 51 di Crozza, perculato dall'inizio alla fine ed eclissato dalla muscolarità uberfiga di Frank Grillo. A proposito del quale, ci provano anche, a farlo passare per un dottore plurilaureato, ma chi ci crede, vista la fisicata gettata in faccia allo spettatore sul finale? Eh su. Comunque, se vi piace l'action pennellato d'orrore (il cui unico, vero difetto è quello di essere mortalmente serio, gli avrebbe giovato qualche momento faceto in più), questo film potrebbe fare per voi.  

Curiosità: nel cast c'è anche Lou Diamond Phillips, attore di origini filippine che, probabilmente, conosciamo solo noi nati negli anni '80, visto che era il protagonista di hit dell'epoca come La bamba e Young Guns.



martedì 27 maggio 2025

The Gorge - Misteri dal profondo (2025)

Finita la febbre da Oscar, torniamo a parlare di horror. Per San Valentino, Apple TV ha distribuito l'ultimo film del regista Scott Derrickson, The Gorge  - Misteri dal profondo (The Gorge).


Trama: Levi e Drasa, due tra i migliori cecchini del mondo, vengono messi a guardia, rispettivamente, del lato ovest ed est di una profonda gola che nasconde un terribile segreto...


Nella recensione di The Menu scrivevo: Anya-Taylor Joy non sbaglia un film e, anche quando lo sbaglia, riesce comunque a rendere tridimensionale e interessante il suo personaggio. The Gorge è l'eccezione che conferma la regola, e la dice lunga su quanto mi abbia tediata questa pellicola né carne né pesce, che mi ha fatta accartocciare sulla poltrona spesso e volentieri, vittima di un cringe difficile da sopportare. The Gorge è un film di serie C con velleità di capolavoro, nonché la prova definitiva che lo streaming sta facendo incredibili danni al cinema, perché anche le storie più semplici e divertenti, nate per essere sciocchine, vengono allungate a dismisura e riempite di dettagli inutili per necessità di metraggio. Peggio ancora, almeno per me, The Gorge è talmente zeppo di CGI brutta, da farmi venire voglia di menare chiunque abbia mosso critiche al dolcissimo Flow, perché col budget a disposizione di Derrickson avrebbe dovuto essere davvero difficile fare male, altro che software gratuito. Invece, quando, FINALMENTE (dopo un'ora di tremendissima love story sulla quale poi tornerò) Levi e Drasa sono costretti a scendere nella gola, ciò che si trovano davanti sono mostrilli ibridi tirati fuori direttamente da un videogame di ultima generazione e, Cristo santo, ambienti divisi per COLORI. C'è una zona violacea, una zona gialla, una rossa, una blu, se non erro, senza sfumature come se nel bel mezzo dell'inferno in fondo alla gola ci fossero dei fari che dividono geometricamente l'ambiente. Il motivo di questa scelta mi è ignoto, e mi indispettisce, perché poi le poche scenografie "reali" (sempre che lo siano, gente. Ormai il green screen viene utilizzato anche per sequenze ambientate all'interno di semplici appartamenti, quindi ho perso ogni certezza) come, per esempio, quelle del bunker o della chiesa abbandonata, sono molto evocative ed inquietanti, richiamano i bei tempi quando l'horror era magari scemo, ma sincero. Invece The Gorge è scemo, artefatto e riesce persino ad essere noioso. Mi ci è voluta una settimana intera per guardarlo nei ritagli di tempo, e mi è sembrato che fosse passato un mese, quindi non oso immaginare quanto avrei dormito dedicandogli una serata, come faccio con pellicole un po' più "di peso".


Il problema di partenza di The Gorge è il suo voler essere dieci cose in una, senza riuscire a renderne interessante neanche mezza. Un po' love story, un po' film di guerra, un po' horror, un po' fantascienza, un pochino distopia, il calderone è zeppo di ingredienti eppure risulta insipido, come i due protagonisti, la summa dei cliché di ogni film dedicato a (super)uomini e (super)donne dotati di infallibile istinto da killer. Entrambi sono i migliori in quello che fanno, ma dentro di loro sono tenerelli e addolorati, e basta un compleanno, a chi da una vita rispetta l'Autorità, per mandare al diavolo ordini venuti dall'alto. L'amore a distanza fatto di scritte, simpatiche pallottole vaganti e sfide a chi ce l'ha più lungo, finché, quando i due si incontrano, il loro rapporto muto diventa la sagra del Bacio Perugina e del bignami del reduce di guerra.  E' talmente banale, questa love story tra überfighi, che mi sono messa a fare le pulci a tutto il resto: Levi che coltiva pomodori a novembre, in mezzo alle montagne, senza nemmeno l'ausilio di una serra (a novembre ha già dei frutti talmente maturi e rossi che noi nell'orto non li abbiano nemmeno a ferragosto); Drasa che lancia estintori come se fossero aeroplanini di carta; il parrucchiere della Taylor-Joy evidentemente incapacitato, perché un taglio così brutto addosso all'attrice non l'ho visto nemmeno agli esordi; Miles Teller con lo sguardo fisso dell'ottuso finché non arriva il momento (giustamente) di darci sotto con la bella Anya; Bartholomew (spero ti abbiano pagata benissimo, Sigourney!) che, dopo gli ultimi anni passati probabilmente a combattere solo nei videogiochi, sceglie di prendere con sé un paio di marine tra più babbei del corpo per andare a risolvere la situazione di persona; l'inspiegabile tara mentale che spinge gli americani a collegare il concetto di "gioia" con quello di "lavorare come cameriere nel buco di culo della Francia".... e potrei andare avanti per ore, come dice la zia Genoveffa di Jean Claude. Tanto, se The Gorge può permettersi di ciurlare nel manico per più di due ore, perché io no? Ridatemi le fragassate o le ottantarate da quattro soldi, salvatemi dalla pochezza in confezione extra-lusso!!


Del regista Scott Derrickson ho già parlato QUI. Miles Teller (Levi), Anya Taylor-Joy (Drasa) e Sigourney Weaver (Bartholomew) li trovate invece ai rispettivi link.



venerdì 23 maggio 2025

The Apprentice - Alle origini di Trump (2024)

L'avevo perso ai tempi dell'uscita ma, in occasione delle due candidature (Miglior attore protagonista e Miglior attore non protagonista), ho recuperato The Apprentice - Alle origini di Trump (The Apprentice), diretto nel 2024 dal regista Ali Abbasi.


Trama: Donald Trump, giovane rampollo di una famiglia di imprenditori edili, riesce a farsi strada nella New York degli anni '70 grazie allo spregiudicato avvocato Roy Cohn...


Anche in questo caso, non avevo visto il film a causa della pessima distribuzione savonese, poi The Apprentice era un po' passato in cavalleria, almeno finché non è comparso (abbastanza sorprendentemente, direi) tra le varie candidature. La mia sorpresa non deriva dal fato che The Apprentice sia un pessimo film, anzi, quanto piuttosto per la scarsa risonanza mediatica avuta ai tempi dell'uscita, nonostante l'argomento trattato. Il film infatti, come specifica il sottotitolo italiano, racconta la "nascita" del Trump che conosciamo; non è che in America la cosa non abbia fatto scandalo, con Trump su tutte le furie, produttori ritiratisi all'ultimo momento e il terrore degli attori coinvolti nel promuovere il film (salvo Sebastian Stan), ma, a parte questo, non mi sembrava che il film fosse stato consigliato come opera particolarmente ben fatta o illuminante. Invece, The Apprentice è una pellicola equilibrata ed interessante, che racconta di come l'allievo Donald Trump abbia superato il maestro Roy Cohn, avvocato senza scrupoli nonché fervente sostenitore di un'America repubblicana da difendere a spada tratta, ricorrendo anche a mezzi controversi. The Apprentice ci mostra un Trump giovane, inizialmente distante dalla figura del tycoon alla quale siamo abituati; insicuro, privo degli agganci giusti, vessato da un padre accentratore e severo, in lotta col governo per problemi legati a presunte discriminazioni razziali nell'affitto degli immobili, il futuro presidente viene descritto come persino troppo "innocente" per sopravvivere nel mondo degli affari. Roy Cohn, d'altra parte, viene rappresentato come il demonio o, se vogliamo prendere a modello gli schemi dei film ambientati nel mondo della malavita, come il boss che viene surclassato e cancellato dal novizio che aveva preso sotto la sua ala, il quale ha assimilato la lezione talmente bene da ritenersi superiore anche a quei pochi limiti morali che tenevano a freno il suo mentore. Purtroppo, a differenza di quasi tutte le "crime stories", legate ad un percorso di ascesa - trionfo - caduta del protagonista, The Apprentice può fare questo discorso solo con Roy Cohn e la sua disgraziata fine, mentre Trump è ben lungi dall'essere caduto, anzi. Dopo una corsa forsennata, alimentata dalle anfetamine e da un appetito vorace legato ad ogni aspetto dello sviluppo edilizio ed economico, il film ce lo consegna con lo sguardo proiettato verso un ben cupo futuro (il nostro), forte degli angoscianti insegnamenti di chi è stato usato e gettato via senza alcun ritegno nel momento esatto in cui radiazione dall'albo degli avvocati e sospetti di omosessualità ne hanno minato irrimediabilmente il potere e la credibilità.  


La trama coinvolgente di The Apprentice viene ulteriormente ravvivata dalla regia di Abbasi, distante da quella classica che ci si aspetterebbe da un biopic. Il taglio delle inquadrature e la fotografia ricordano spesso quelle di un documentario, come se la cinepresa spiasse i personaggi consegnandoceli nella maniera più verosimile possibile. Inoltre, cambia anche la grana dell'immagine, cosa che si può notare persino sul televisore di casa;  quando la vicenda si svolge negli anni '70, l'effetto è quello "casalingo" di un filmino in 16mm, negli anni '80 ci sono le stesse righe orizzontali colorate di una videocassetta, non si ha la resa pulita del digitale. Passando agli attori oggetto delle due candidature, come ho scritto sopra, non me le aspettavo, ma le trovo comunque doverose. Addirittura, per quanto mi riguarda, Jeremy Strong surclassa Sebastian Stan imponendo una presenza fatta di sguardi fissi, aggressività a malapena contenuta, un'abiezione morale che non sfocia mai in overacting e, sul finale, una dignità talmente grande da trasmettere allo spettatore tutta l'umana pietà dovuta a un uomo orrendo, costretto tuttavia a morire in un modo indegno per un essere umano. Sebastian Stan ha il pregio di non aver dato vita a una caricatura di Trump, neppure negli anni iconici in cui Donald lo era già di per sé, offrendo la sua interpretazione del personaggio conservandone atteggiamenti e accento ma senza caricarli né copiare pedissequamente. La cosa che ho apprezzato di più è che sia il film che l'attore rifuggono la critica cieca verso il controverso oggetto della trama. The Apprentice non condona Trump, men che meno Roy Cohn, ed entrambi vengono connotati come persone prive di scrupoli ed estremamente egocentriche, attente solo a ciò che può portare loro vantaggi economici; eppure, qui e là, si percepisce il tentativo di osservare il contesto storico-sociale che ha fatto nascere questi mostri, privandoli di un'umanità di fondo che entrambi dimostrano di aver posseduto, almeno un tempo. Certo, da un cieco seguace di Trump non mi aspetto l'intelligenza di accettare e discutere un'opera così equilibrata, ma The Apprentice è un film che consiglierei sia ai detrattori sia agli amanti dell'attuale presidente USA. A me, onestamente, sono venuti più brividi che davanti a un horror, ma ritengo sia valsa la pena di guardarlo. 


Del regista Ali Abbasi ho già parlato QUI. Sebastian Stan (Donald Trump), Jeremy Strong (Roy Cohn) e Martin Donovan (Fred Trump) li trovate invece ai rispettivi link.

Maria Bakalova interpreta Ivana Trump. Bulgara, la ricordo per film come Borat - Seguito di film cinema, Bodies, Bodies, Bodies, The Guardians of the Galaxy: Holiday Special e Guardiani della Galassia Vol. 3. Anche produttrice, ha 29 anni e tre film in uscita.
 


mercoledì 21 maggio 2025

The Ugly Stepsister (2025)

Era un film che aspettavo fin dal primo trailer, l'ho visto appena disponibile e, finalmente, riesco a scrivere qualcosa su The Ugly Stepsister (Den stygge stesøsteren), diretto e sceneggiato dalla regista Emilie Blichfeldt.


Trama: Rebekka, signora con due figlie a carico, la bruttina Elvira e la giovane Alma, si sposa con un nobiluomo che vive con la bellissima figlia Agnes. Subito dopo il matrimonio l'uomo muore, lasciando moglie, figlia e figliastre povere in canna. Per risollevare la situazione economica della famiglia, Rebekka decide che Elvira dovrà sposare il principe, e non si ferma davanti a nulla pur di farla diventare bellissima...


Ho sempre avuto un debole per le fiabe declinate in nero, anche perché, diciamocela tutta, un simile approccio non è altro che un omaggio alle atmosfere tetre dell'opera originale. Forse non sapete, per esempio, che nella Cenerentola dei fratelli Grimm le sorellastre si tagliano rispettivamente un alluce e un tallone per cercare di calzare la famigerata scarpetta e, durante il matrimonio della protagonista, vengono accecate da due colombe, quindi altro che Disney. Emilie Blichfeldt, al suo primo lungometraggio, mantiene la sanguinosa ma suggestiva idea del "taglio" delle dita, senza però renderla un'immagine fine a sé stessa. The Ugly Stepsister (sarà un problema se il film verrà distribuito in Italia, dove solitamente traduciamo "sorellastra cattiva", perché il significato del titolo si perderebbe) racconta, infatti, gli estremi a cui arriva Elvira, una delle due sorellastre di Cenerentola, per diventare "bella". La regista, anche sceneggiatrice, non la connota come "cattiva", anzi. Elvira è un goffo ronzino, una romantica senza speranza, una ragazza che sogna, letteralmente, di sposare il principe poeta del regno, e che si ritrova a dover seriamente competere per coronare il suo sogno, non tanto per amore ma per motivi tristemente economici. Cenerentola deve sposare il principe per lo stesso motivo, alla faccia dell'amore puro, ma lei è fortunata, poiché è nata bella ed aggraziata. La cattiveria di Elvira, in definitiva, subentra dopo che quella profittatrice della matrigna decide di farla diventare bella per forza, sottoponendola alle torture peggiori per mano di chirurghi estetici ben distanti da quelli moderni (il film, a naso - e perdonatemi se scrivo "naso" visto quanti orrori subisce quello della protagonista - , è ambientato nel diciannovesimo secolo) e dopo che questi metodi estremi non le consentono comunque di battere la sorellastra. Quella di Elvira è un'ordalia, un crescendo di cambiamenti fisici che sconfinano nel body horror e la rendono sempre più spaventata ed infelice, oltre che sempre più "brutta" dentro; osservare i cambiamenti della protagonista equivale a testimoniare un disperato tentativo di tenere a freno un'alluvione con dei sacchettini di sabbia, perché per ogni difetto che viene corretto, lo scotto fisico e mentale è quello di diventare sempre meno umana.


Elvira, dunque, diventa "la sorellastra cattiva" della tradizione, spinta da un mix di amore, desiderio di piacere agli altri e compiacere la madre manipolatrice; la poveraccia è una vittima, un agnello sacrificale masticato dagli ingranaggi delle convenzioni e dello status sociali. Se Elvira però, spinta da un'angosciante frustrazione, arriva ad agire davvero da "cattiva", rispettando il copione impostole fin dai tempi di Basile, quelli che la circondano non sono proprio dei modelli di virtù. Cenerentola (o meglio, Agnes) è un modello di egoismo da manuale, concentrata solo sul dolore per la morte del padre e sulla sua condizione economica, e mai cerca di nascondere il disprezzo verso le sorellastre di ceto sociale inferiore. Il principe non è migliore: misogino, volgare, maleducato, presuntuoso e stupido, vive protetto dal suo status e dalla patetica raccolta di poesie che lo hanno reso un lontano ideale agli occhi delle fanciulle del regno, una raccolta falsa quanto gli orpelli che, sul finale, trasformano Elvira in una bambola. Tolta la matrigna, un puttanone senza scrupoli per la quale le figlie sono soltanto mezzi di sostentamento e che lascia letteralmente marcire il suo secondo marito, l'unico personaggio positivo è la giovane Alma, la seconda sorellastra. Interpretata da un'attrice bellissima, che ricorda molto l'indomita Merida disneyana, Alma vive libera dalle mire della madre perché non ha ancora avuto le mestruazioni, quindi ai suoi occhi è ancora una bambina inutile; in realtà, Alma vede e capisce benissimo tutto ciò che la circonda e sceglie volontariamente di spezzare le catene delle convenzioni sociali, uscendo da un meccanismo malato rimanendo saggiamente sullo sfondo, nonostante il desiderio di aiutare la sorella.


The Ugly Stepsister
offre tantissimi spunti di riflessione e si rivela una feroce, nerissima critica sul mito della bellezza a tutti i costi e di quanto lo sguardo altrui possa convincerci che siamo dei mostri senza possibilità di riscatto. L'attrice che interpreta Elvira, al di là di quell'accenno di make-up utilizzato per renderla "bruttina" (naso leggermente irregolare, apparecchio ai denti, un incarnato spento, una controfigura più tozza nelle inquadrature ravvicinate del corpo), in realtà è molto bella, di quella bellezza naturale che colpisce anche in mancanza di trucco, e la cosa traspare durante il film, rendendo ancora più surreale e doloroso il disgusto provato dagli altri verso la povera ragazza. Se siete arrivati a leggere fino a questo punto, vi sarete chiesti se questo The Ugly Step Sister è dunque un elevated horror per i salotti buoni. Ma tristi anime sole, non temete! E' vero che Emilie Blichfeldt (dichiaratamente influenzata da Cronenberg, Fulci, Argento e persino da tale Walerian Borowczyk, regista polacco definito come "un genio che era anche pornografo") mette in scena immagini elegantissime che mescolano suggestioni gotiche alla Eggers a fantasie girlie disneyane, quasi camp, un mix di stili che rende il film molto originale anche a livello visivo, ma la regista non si sottrae al gore e allo schifo che tanto piacciono a noi amanti dell'horror. Vi bastino un paio di trigger warning concernenti occhi e parassiti, soprattutto se provate disgusto alla vista di persone che vomitano "cose" assortite e anche troppo realistiche, per maneggiare The Ugly Stepsister con la dovuta cautela. Non lasciate però che questo vi freni, perché The Ugly Stepsister è uno degli horror più interessanti e belli dell'anno e sarebbe un peccato impedirgli di sconvolgervi e, sì, persino commuovervi. Ovviamente, in Italia non è ancora uscito, ma basta smanettare un po', perché se l'è accaparrato Shudder, come molte delle cose migliori del genere. 

Emilie Blichfeldt è la regista e sceneggiatrice del film. Norvegese, anche attrice, è al suo primo lungometraggio.




martedì 20 maggio 2025

Il Bollalmanacco On Demand: Little Sister (2015)

Tra challenge e nuove uscite è davvero difficile trovare spazio per le rubriche "storiche" del blog. Oggi, però, torna il Bollalmanacco On Demand con un film scelto da Ross, ovvero Little Sister (うみまちダイアリー - Umimachi Diary), diretto e sceneggiato nel 2015 dal regista Hirokazu Koreeda a partire dal manga Our Little Sister - Diario di Kamakura, di Akimi Yoshida. Il prossimo film On Demand sarà The Gangster, the Cop, the Devil.


Trama: alla morte del padre che le aveva abbandonate da piccole, le sorelle Koda si recano al suo funerale, nel paese dove l'uomo si era risposato per la terza volta. Lì, scoprono di avere una sorellastra, la giovanissima Suzu, rimasta ormai orfana, e decidono di invitarla a vivere con loro...


Our Little sister
è un manga che ho adorato, forse perché l'ho acquistato poco dopo essere tornata dal mio secondo viaggio in Giappone e avere visto Kamakura, dov'è ambientato. Ero curiosa di vederne una trasposizione live action, tra l'altro diretta da un grande regista come Koreeda, ma mentirei se non dicessi che ne sono rimasta delusa. Prima di parlare del film, forse è meglio spiegare cos'è il manga, anche per capire le difficoltà che l'adattamento ha dovuto affrontare. Our Little Sister è uno slice of life e racconta le vicende quotidiane delle tre sorelle Koda che, un giorno, vengono convocate al funerale del padre che le aveva abbandonate da bambine. Lì incontrano Suzu, figlia di secondo letto dell'uomo, rimasta orfana di entrambi i genitori e costretta a affrontare la prospettiva di vivere con una terza donna che il padre aveva sposato dopo essere rimasto vedovo. Conquistate dalla maturità e dal contegno di Suzu, sentendosi in colpa per la natura scellerata del padre ("era uno stupido, ma buono"), le sorelle Koda invitano la ragazzina a vivere con loro nella grande casa materna, un edificio giapponese vecchio stile, a Kamakura, dove Suzu, letteralmente, rinasce. Il manga si concentra sulla carriera calcistica di Suzu e le vicende dei suoi compagni di scuola, sugli amori tormentati delle tre sorelle maggiori, sul loro legame con molti abitanti di Kamakura, cementati da attività "normali" come mangiare, preparare distillati, allenarsi, lavorare; attraverso questa quotidianità, l'opera tocca temi quali la morte (con tutto ciò che consegue, problemi economici e familiari in primis), la malattia, la capacità di tornare ad avere fiducia verso gli altri, l'importanza della famiglia, non necessariamente di sangue. E' un'opera che scorre lenta, una coccola quotidiana da leggere quando ci si sente malinconici, all'interno della quale ogni comprimario è importante. Purtroppo, date le premesse e la necessità di condensare una dozzina di volumi in due ore, il rischio di realizzare un film noioso e superficiale era dietro l'angolo, e purtroppo Little Sister è caduto nel tranello con tutte le scarpe. 


Il film di Koreeda è, infatti, un bignami del manga. Ci sono interi dialoghi riproposti parola per parola e situazioni identiche (ci sono persino i rafidoforidi nel bagno, con tanto di inquadratura sull'insetto!); a volte, questo approccio funziona, per esempio durante il funerale del padre delle sorelle o durante il duro confronto con la madre delle Koda, altre volte vien da pensare che la sceneggiatura avrebbe potuto approfondire un po' di più altri momenti, magari elaborando qualcosa di originale, invece di mostrare interminabili cene e pranzi in famiglia. Per accontentare i fan del manga sono stati inseriti alcuni personaggi che lì sono fondamentali, come il vecchio dello Yamanekotei oppure il giovane mantenuto di Yoshino, ma nel film si limitano, appunto, ad essere degli omaggi privi di carisma o utilità, che solo chi conosce l'opera della Yoshida potrebbe apprezzare; la loro importanza nella crescita delle sorelle, così come quella di alcuni eventi come la morte della signora della trattoria Umineko (indispensabile motore delle scelte lavorative di Sachi e della maturità emotiva e sentimentale di Yoshino), non viene percepita e risultano come tocchi di "colore", tanto per ravvivare la trama. Anche le quattro protagoniste non sono particolarmente memorabili. Little Sister si concentra soprattutto sul legame tra la sorella maggiore, Sachi, e la piccola Suzu, che oscilla tra la diffidenza iniziale e una lenta apertura, mentre Yoshino e Chika incarnano, rispettivamente, l'ubriacona umorale e la stramba di casa; a onor del vero, le due sorelle sono così anche nella prima parte del manga, e la loro crescita avviene nella seconda, però il film le rende due stereotipi monodimensionali, soprattutto Chika. Il problema di Suzu, invece, è l'attrice. Troppo remissiva, quasi inespressiva, brilla durante la sequenza della partita di calcio per poi spegnersi, lontana anni luce dalla Suzu matura ma vivace del manga. Per quanto mi riguarda, l'unico pregio di Little Sister sono le location, in particolare la casa dove vivono le sorelle Koda, una struttura in stile tradizionale con un ingresso splendido e degli interni che profumano di vecchio Giappone, perfetta per catturare le atmosfere del manga. Per il resto, un prodotto evitabile, che la scellerata Amazon Prime offre (peraltro solo a noleggio, quindi costringendo l'utente a pagare pur avendo l'abbonamento) solamente doppiato in italiano, il che rende il tutto ancora più piatto e monocorde. Un'occasione sprecata, peccato! 

 


Del regista e sceneggiatore Hirokazu Koreeda ho già parlato QUI.

venerdì 16 maggio 2025

2025 Horror Challenge: Beyond the Infinite Two Minutes (2020)

Il tema della challenge questa settimana era "Film distribuiti al Frightfest". La scelta è caduta su Beyond the Infinite Two Minutes (ドロステのはてで僕ら - Dorosute no hate de bokura), diretto nel 2020 dal regista Junta Yamaguchi.


Trama: Kato, proprietario di un caffé, scopre che il monitor del suo computer (collegato al monitor presente nel locale) mostra cosa succederà due minuti nel futuro...


Sono rimasta fregata. Beyond the Infinite Two Minutes non è assolutamente un horror, è uno sci-fi a base di paradossi temporali che rientra nel genere nagamawashi, opere cinematografiche realizzate con due spiccioli e girate come se fossero un unico piano sequenza. Per intenderci, il capostipite del genere (o sarebbe meglio dire "stile"?) è il mai troppo adorato One Cut of the Dead, il cui titolo italiano vorrei dimenticare, quindi dire che "sono rimasta fregata" non è proprio la verità. Infatti, pur non possedendo neppure un elemento horror, Beyond the Infinite Two Minutes è un film carinissimo, che sono felicissima di avere guardato. Proverò a spiegarvi di cosa parla, senza fare troppi spoiler, ma col cervello che rifugge ogni concetto scientifico, temporale e matematico sarà dura. In pratica, il protagonista Kato scopre che il monitor che ha in camera gli mostra cosa accadrà tra due minuti nel futuro (da qui il titolo internazionale del film); il monitor, non chiedetemi perché, è collegato a quello del caffé da lui gestito che, quindi, trasmette allo spettatore ciò che è accaduto due minuti prima. In pratica, la versione futura e quella passata del protagonista arrivano a dialogare attraverso i due monitor e la cosa si complica ulteriormente quando, a un amico di Kato, viene in mente di mettere gli schermi uno di fronte all'altro, creando un "effetto Droste" (da qui il titolo giapponese) che permetterebbe di superare il limite dei due minuti e guardare ancora un po' più avanti nel futuro. Per chi non lo sapesse, l'effetto Droste è un'immagine ricorsiva che contiene una sua immagine più piccola, che contiene la stessa immagine più piccola, e così via finché l'occhio riesce a distinguerla, ma se non avete capito nulla della mia spiegazione raffazzonata, vi rimando QUIBeyond the Infinite Two Minutes, con la sua premessa assurda e intelligentemente "limitata" temporalmente, funziona solo se siete come me, dei bibini che si lasciano coinvolgere dalla storia e non si fanno troppe domande cercando di capire paradossi temporali, discrepanze, passaggi illogici e supercazzole. Io, per esempio, sono rimasta conquistata dalla simpatia dei personaggi, dalla semplicità con cui decidono di sfruttare questa "visione del futuro" e dalla vena malinconica di Kato, l'unico che, in effetti, coglie il lato negativo della favolosa scoperta, ovvero quello di essere comandati dal futuro imminente, guidati come burattini senza volontà.


L'aspetto più interessante di Beyond the Infinite Two Minutes, però, è la realizzazione. Anche in questo caso, non ho le conoscenze necessarie per spiegare nel dettaglio "come" sia il film, ma Junta Yamaguchi ha cercato (credo con tutta una serie di impercettibili micro-aggiustamenti in fase di montaggio) di rendere il film come un unico piano sequenza, cosa che lo rende scorrevolissimo e affascinante, soprattutto se si pensa a tutti i piccoli trucchetti utilizzati per dare plausibilità al fatto che non ci siano scarti temporali all'interno dell'azione. Durante i titoli di coda, lo spettatore ha modo di farsi un'idea di come sia stato realizzato Beyond the Infinite Two Minutes, e il lavoro che c'è dietro, in particolare per quanto riguarda il timing necessario a far sì che gli attori possano dialogare perfettamente con le loro controparti sullo schermo, mi ha lasciata sinceramente a bocca aperta. E il bello è che, con tutto il complicatissimo lavoro che c'è dietro, Beyond the Infinite Two Minutes non si inchioda neppure una volta, non risulta mai pesante o noioso (e il rischio ci sarebbe, vista l'inevitabile ripetitività di molte sequenze!), non condanna lo spettatore a pensare "non ci ho capito niente!", anzi; l'unico difetto che gli imputo è di essere troppo breve, perché io sarei rimasta ancora un po' in balia di quei fatidici due minuti. So che Junta Yamaguchi ha sviluppato ulteriormente l'idea di Beyond the Infinite Two Minutes all'interno del suo film più recente, River, e a questo punto credo proprio che lo metterò in cima alla lista delle pellicole da recuperare prossimamente. Intanto, vi consiglio spassionatamente di guardare Beyond the Infinite Two Minutes, sono certa che vi divertirete quanto me!
 
Junta Yamaguchi è il regista della pellicola. Giapponese, ha diretto il film River. Anche produttore, ha 38 anni.



mercoledì 14 maggio 2025

Drop (2025)

In qualche modo, sono riuscita a recuperare anche Drop, diretto dal regista Christopher Landon.


Trama: Violet, psichiatra con un figlio a carico, va a un appuntamento per la prima volta, dopo anni dalla morte del marito. Durante l'appuntamento, però, la donna comincia a ricevere minacciosi messaggi anonimi...


Drop
mi aveva intrigata fin dal primo trailer e, neanche a dirlo, fin dal nome del regista, quel Christopher Landon che, finora, ha sbagliato giusto quella mosceria di Un fantasma in casa. Purtroppo, Landon non è tornato alla commedia horror, genere che più gli si confà, ma Drop si è rivelato comunque una visione piacevole sebbene ansiogena e, come thriller di rapido consumo, è veramente ben realizzato. La situazione di partenza è, già di per sé, una potenziale bomba ad orologeria: Violet, vedova con un figlio a carico, non esce con un uomo da anni e, dopo mesi di conoscenza on line, ha deciso di incontrare di persona Henry. Con tutto il carico di nervosismo ed inadeguatezza delle grandi occasioni, Violet va all'elegantissimo ristorante prenotato da Henry e lì e le tocca aspettarlo per un po', condividendo dubbi e speranze con personaggi di varia natura i quali, col prosieguo del film, diventeranno papabili mandanti dei minacciosi "drop" del titolo originale. Henry, a un certo punto, arriva, e Violet riprende a respirare, perché l'uomo si rivela simpatico, intelligente, comprensivo e pure belloccio; purtroppo, dopo pochi minuti la donna comincia a ricevere misteriosi messaggi anonimi sul cellulare, in un crescendo sempre più angosciante, che culmina con l'ordine di uccidere Henry pena la morte del figlioletto, rimasto a casa con la giovane zia. Il mix di premessa improbabile all'interno di una situazione "normale" ma già potenzialmente fonte di agitazione e disagio, funziona alla grande. Lo spettatore, guidato dal punto di vista di Violet, con la quale condividiamo le limitate informazioni dei "drop", si ritrova col fiato sospeso a sperare non solo che la donna riesca ad uscire da un incubo sempre più pericoloso e claustrofobico, ma anche che il povero Henry sopravviva e, magari, riesca a mettersi insieme alla protagonista. Oltre all'ansia data dai tentativi di Violet di chiedere aiuto, temporeggiare e scoprire l'identità di chi la tormenta, infatti, c'è anche il dispiacere di vedere Henry, ignaro di tutto, sempre più perplesso dal comportamento della donna, pateticamente attaccato alla speranza di poter superare le stranezze di lei ed essere finalmente felice con qualcuno. Insomma, a livello psicologico, Drop non offre nemmeno un istante di tregua ed è una tesissima corsa verso una risoluzione finale un po' più action e, a mio parere, ancora meno verosimile, benché godereccia. 


Con una sceneggiatura già scritta, Christopher Landon si concentra sulla regia e rende la vicenda ancora più dinamica. Curiosa di sapere se esistesse davvero un "Ristorante Palate" a Chicago, ho scoperto che la location è stata costruita in studio, quindi gli scenografi hanno creato un ambiente perfetto dove il regista potesse muoversi a suo agio, così da realizzare sequenze fluide, azzardare riprese sghembe dal basso, enfatizzare la paranoia di Violet con ampie panoramiche dei tavoli e degli avventori e avere almeno tre ambienti diversi a disposizione. Inoltre, Landon vivacizza ancor più la vicenda riportando sullo schermo i drop ricevuti da Violet come enormi scritte in sovrimpressione, un memento mori costante che sembra volerla schiacciare in ogni istante. Molto bravi anche gli attori. Non conoscevo né Meghann FahyBrandon Sklenar (ovviamente, sono facce "da serial" e io praticamente non ne guardo), ma l'alchimia tra i due c'è, ed è tenera ed imbarazzata come può essere quella di un primo appuntamento destinato a finire bene. In particolare, Meghann Fahy riesce, con incredibile naturalezza, ad esternare tutti i traumi psicologici del suo personaggio, la timidezza, il senso di inadeguatezza, anche quando la situazione la vuole più fredda e determinata; soprattutto, calamita fin dall'inizio l'attenzione e l'empatia dello spettatore, che è felice di non abbandonare mai il suo fianco, e si ingegna a cercare alle sue spalle o sul suo cellulare un indizio, qualcosa, che possa perlomeno darci un vantaggio rispetto alla totale "ignoranza" di Violet. Drop non sarà sicuramente il film dell'anno, non voglio convincervi di questo, ma è un onestissimo thriller che fa il suo dovere, in primis quello di non lasciare che lo spettatore si annoi o si distragga al punto da cominciare a farsi domande scomode sulla plausibilità del tutto. Purtroppo, ha avuto una distribuzione in sala praticamente nulla, ma vi consiglio di divertirvici quando uscirà in streaming, perché ne vale la pena!  


Del regista Christopher Landon ho già parlato QUI

Meghann Fahy interpreta Violet. Americana, ha partecipato a film come Miss Sloane - Giochi di potere e Your Monster. Ha 35 anni. 





martedì 13 maggio 2025

Le rose di Versailles - Lady Oscar (2025)

Me l'avevano detto, si capiva già dal trailer, ma ho voluto comunque dare una chance a quel disastro annunciato di Le rose di Versailles - Lady Oscar (ベルサイユのばら - Versailles no Bara), diretto dalla regista Ai Yoshimura e tratto dal manga omonimo di Ryoko Ikeda.


Trama: la vita della Delfina di Francia, Maria Antonietta, e quella di Oscar François de Jarjayes, ragazza cresciuta come un uomo e Capitano delle guardie reali, si intrecciano alla corte di Versailles...


Cercherò di non scrivere la solita recensione boomer basata su infanzie stuprate e via dicendo. Ritengo che le opere famose possano e debbano essere aggiornate al gusto odierno, andare incontro alle nuove generazioni, abbracciare un'originalità che non le stravolga, ma ritengo anche che simili aggiornamenti siano molto difficili, e bisognerebbe eseguirli con intelligenza. Tenendo a mente ciò, ho provato a capire il senso di un'opera come Le rose di Versailles - Lady Oscar, ma sto avendo serie difficoltà ad individuare il target a cui è rivolta. Di sicuro, non è un anime per chi ha adorato la serie storica. Per quanto mi riguarda, e con tutto il rispetto per Ryoko Ikeda, grazie alla quale è nato un simile capolavoro di animazione nipponica, la serie è addirittura superiore al manga, e nessuno potrà mai convincermi del contrario. Il perché è presto detto. Il manga della Ikeda è accuratissimo storicamente, ma anche zeppo di elementi umoristici, con uno stile di disegno che, spesso, si rifà a quello di Osamu Tezuka, e rende i personaggi molto cartooneschi, anche nei momenti meno adatti. L'anime, in particolare dopo l'arrivo di Osamu Dezaki alla regia e grazie al character design di Shingo Araki, ha un taglio tragico, adulto, gode di sequenze indimenticabili e incredibilmente drammatiche proprio grazie al taglio delle inquadrature e all'uso dei chiaroscuri (vorrei ricordare, inoltre, le dettagliatissime "cartoline" coi fermo immagine, tipiche del regista), per non parlare poi delle splendide, dolorose melodie di Koji Makaino, che ancora oggi non riesco ad ascoltare, nemmeno fuori contesto, senza sciogliermi in lacrime. Le rose di Versailles - Lady Oscar, di questa drammaticità al limite del nichilismo e della depressione, non ne ha neppure un'oncia. Piallato dai brillantissimi, computerizzati colori tipici delle produzioni dello Studio NAPPA e, più in generale, di tutta l'animazione giapponese moderna (vedi il remake di Ranma 1/2 o Sailor Moon Crystal), Le rose di Versailles - Lady Oscar è intriso di levità dalla prima all'ultima scena e, salvo per i personaggi principali, è popolato da pupazzetti che si muovono su sfondi in CGI, che nessuna emozione suscitano nello spettatore, a prescindere che passeggino oziosi a Versailles o che muoiano per la Rivoluzione. Il character design è simile per quasi tutti i comprimari, in particolare a livello di struttura fisica, mentre quelli principali alternano un rispetto quasi filologico verso i disegni della Ikeda (i capelli di Oscar hanno le stesse onde tratteggiate del manga) a momenti di locura in cui Maria Antonietta sembra una bambolotta dagli occhioni giganteschi. 


Questi elementi grafici possono sicuramente essere accattivanti per un pubblico più giovane, ovviamente, così come la scelta di puntare molto sui numeri musicali, caratterizzati da una colonna sonora pop, ben lontana dall'epoca in cui è ambientato l'anime. Anzi, un paio di questi momenti "musical" hanno una regia splendida ed invenzioni grafiche che scaldano il cuore, come la sequenza che omaggia l'art nouveau (a mio parere, il momento più alto di un anime deludente; altri dettagli stupendi sono gli abiti di Maria Antonietta, dettagliatissimi, e le scenografie degli interni, che sembrano quasi quelli di un live action), ma anche il piccolo momento onirico sul finale, simbolo di una libertà e un amore che travalicano le convenzioni sociali e le catene di un destino imposto. Però, tutto ciò mi costringe a tornare al discorso che facevo all'inizio, quello del target. Un pubblico di giovani neofiti potrebbe rimanere deliziato dalle animazioni, apprezzare il messaggio di fondo e le due storie d'amore tormentato, ma dubito che qualcuno potrebbe appassionarsi a un'opera superficiale come questa, che trasforma la guerra tra Maria Antonietta e la Du Barry e il tristissimo ballo tra Oscar e Fersen in brevissime parentesi musicali, incomprensibili per chi non conosce la serie originale. Privato di sottotrame fondamentali (anche storicamente) e di ben tre rose (la nera, Jeanne, la gialla, la Contessa de Polignac, e il bocciolo, Rosalie), Le rose di Versailles - Lady Oscar è un bignami storico zeppo di buchi, e talmente rapido negli sviluppi delle storie d'amore che quasi non si capisce perché mai André, a un certo punto, sia così tanto innamorato di Oscar da decidere di commettere un omicidio-suicidio pur di non vederla sposata a Girodel. Né si capiscono il perché Oscar si infatui di Fersen, oppure il livello degli sperperi monetari di Maria Antonietta (la quale risulta molto più stupida ed infantile rispetto all'opera originale), la corruzione e la depravazione dei nobilastri di corte, tutto ciò che ha portato il popolo a ribellarsi in maniera sanguinosa per fuggire alla morte e alla povertà. L'unico approfondimento psicologico-sociale è riservato ad Oscar ma, purtroppo, arriva poco prima del finale ed è eccessivamente pedante, quasi noioso, e priva lo sventurato legame tra Oscar e André di tutto il pathos e la sofferenza che ha reso la loro una delle storie d'amore più belle di sempre. In sostanza, per me è no, anche perché il rischio è che, dopo la visione di Le rose di Versailles - Lady Oscar, i giovani spettatori perdano la voglia di approfondirne le vicende e di recuperare la serie, cosa gravissima. Se siete invece fan di Lady Oscar e deciderete di guardare questo inno alla mediocrità, premuratevi di farlo con un amico pronto a salvarvi la serata con pain au chocolat, macarons e cioccolato ruby allo champagne, che è ciò che ho fatto io. Altrimenti, vi sembrerà di avere buttato via due preziosissime ore!

Ai Yoshimura è la regista della pellicola. Giapponese, ha diretto la serie Ano Hana


Miyuki Sawashiro
, che doppia Oscar, è la voce di Fujiko Mine ormai dai tempi di Lupin III - Il sigillo di sangue, la sirena dell'eternità. Neanche a dirlo, se Le rose di Versailles - Lady Oscar vi fosse piaciuto (ma anche se vi ha fatto schifo), recuperate o riguardate per la trecentesima volta la serie Lady Oscar. ENJOY!

venerdì 9 maggio 2025

Thunderbolts* (2025)

Era qualche tempo che evitavo i film Marvel al cinema, ma per amore di Florence Pugh domenica sono andata a vedere Tunderbolts*, diretto dal regista Jake Schreier.


Trama: durante una missione per conto di Valentina, Yelena si ritrova costretta a fare fronte comune con altri agenti dalla dubbia moralità, per affrontare una potentissima minaccia...


Come ho scritto sopra, era un po' che non andavo al cinema per vedere un film del MCU. L'ultimo dev'essere stato Thor: Love and Thunder, dopodiché ho deciso di smettere di buttar via soldi, e di sfruttare l'abbonamento condiviso a Disney + per guardare in streaming le ultime oscenità (mi manca solo Captain America: Brave New World ma dicono non mi sia persa nulla) della "casa delle idee". A Thunderbolts* ho dato fiducia principalmente per gli attori. Adoro Florence Pugh e la sua rozza, scoglionata Yelena, in più ci sono David Harbour e Sebastian Stan che sono due gran figonzi, e a una "ragazza" quello basta per essere felice. Nonostante ciò, le mie aspettative erano bassissime, forse per questo Thunderbolts* mi è piaciuto più degli altri film Marvel recenti. Intendiamoci, Thunderbolts* non è il capolavoro che vogliono farvi credere le recensioni entusiaste; è un cinecomic Marvel e, come tale, per un'idea azzeccata dovete sopportare umorismo messo a sproposito, personaggi inconsistenti, CGI non troppo entusiasmante e scene action che potevano essere realizzate meglio, ma se non altro questo film in particolare un po' di cuore ce l'ha. Forse perché parte da antieroi davvero disastrati e, da qui, riesce ad intavolare un discorso non banale sulla depressione, sul vuoto che tanti di noi si portano dentro, sul senso di inutilità che spesso ci accompagna. Tutti i personaggi di Thunderbolts* indossano una corazza di incrollabile "coolness" e pretendono che tutto vada per il meglio, alcuni mentendo agli altri, molti persino a loro stessi; lupi solitari per natura, rifiutano l'aiuto altrui e vanno avanti per la loro strada, cercando di ignorare il vuoto e l'oscurità, aumentandoli così sempre di più. Accettare il passato, per quanto oscuro, non basta più. Serve qualcuno che aiuti a portare il peso, uno scopo che non sia necessariamente "alto", larger than life, ma anche solo la piccola consapevolezza di servire a qualcuno offrendogli magari una spalla su cui piangere e un minimo di empatia che spezzi il circolo vizioso di autodistruzione. Inserire un discorso così "universale" all'interno di un film in cui le persone volano, attraversano muri, fanno esplodere cose, non è banale, considerato anche che Thunderbolts* ha l'ingrato compito di aprire la cosiddetta sesta fase del MCU, con tutte le marchette che conseguono; Gunn lo aveva fatto con molta più eleganza, ma visti i tempi che corrono ci si può accontentare. 


L'operazione funziona, innanzitutto, perché il personaggio principale, Yelena Belova, è affidato a un'attrice come Florence Pugh. La biondissima Florence ci crede, picchia durissimo nelle scene d'azione, si dà agli stunt più spericolati, ma riesce anche a far uscire il lato infantile di Yelena, quello che è morto decenni prima nella "fabbrica" di vedove nere, nonché il mostro terrificante della depressione, che la divora da dentro spegnendo la "luce" che l'ha sempre caratterizzata. Non mi vergogno a dire di aver versato qualche lacrima nel confronto tra Yelena e Alexey; quest'ultimo, interpretato da un David Harbour ingiustamente sfruttato quasi solo come comic relief, riesce a ritagliarsi un paio di sequenze che nobilitano il personaggio, e aiutano quello di Yelena a crescere. Il resto del cast, purtroppo, si barcamena tra alti e bassi. Sebastian Stan e Julia Louis-Dreyfus brillano, soprattutto la seconda, adorabilmente perfida, purtroppo però ci pensano i nepo babies a fare la figura delle oloturie. Wyatt Russell ci prova a dare al suo John Walker un briciolino di oscura follia, ma dovrebbe guardarsi una puntata di Daredevil per capire che ha ancora tanto pane da mangiare prima di riuscirci, mentre Lewis Pullman è sicuramente favorito dall'attenzione messa dagli sceneggiatori nel tratteggiare il suo personaggio, ma funziona solo come Bob, senza avere il carisma necessario per sostenere l'altra faccia di Sentry. Per quanto riguarda la realizzazione, Thunderbolts* ha un paio di idee visive interessanti (peraltro già sfruttate in Moonknight, se non erro) quando la realtà si trasforma in una dimensione da incubo e, anche se le scene d'azione non sono granché esaltanti o memorabili, affossate peraltro dalla solita fotografia bigia per nascondere, probabilmente, le scollature più evidenti di una CGI farlocca, se non altro hanno buon ritmo e lo stesso vale per tutto il film, durante il quale è davvero difficile annoiarsi. O forse no, perché il Bolluomo nella prima parte si è fatto due palle tante, soprattutto per lo sforzo di ricordare chi fosse chi e dove l'avesse già visto. Scherzi a parte, Thunderbolts* è un film per cui potreste anche andare al cinema, senza fare i pigri con lo streaming; in caso, ricordatevi di NON alzarvi fino alla fine dei titoli di coda, perché la seconda scena post credit è molto più importante della prima. 


Di Florence Pugh (Yelena Belova), Sebastian Stan (Bucky Barnes), Julia Louis-Dreyfus (Valentina Allegra de Fontaine), Lewis Pullman (Robert Reynolds), David Harbour (Alexei Shostakov), Wyatt Russell (John Walker), Hannah John-Kamen (Ava Starr), Olga Kurylenko (Antonia Dreykov), Wendell Pierce (deputato Gary) e Violet McGraw (Yelena bambina) ho già parlato ai rispettivi link.

Jake Schreier è il regista della pellicola. Americano, ha diretto episodi di serie come Al nuovo gusto ciliegia e Lo scontro. Anche produttore e attore, ha 43 anni. 


Steven Yeun
era stato scelto per il ruolo di Robert Reynolds/Sentry, ma ha dovuto rinunciare, per impegni pregressi, quando il film è stato posticipato a causa degli scioperi del SAG-AFTRA; per lo stesso motivo, Ayo Edebiri ha rinunciato al ruolo di Mel. Quanto al regista, James Gunn si era detto interessato a dirigere un film sui Thunderbolts dopo aver realizzato Guardiani della Galassia, ma, visto il successo del film, la Marvel ha posticipato il progetto per realizzare i sequel dei guardiani. Quando è arrivato il momento dei Thunderbolts, Gunn aveva già deciso di migrare altrove. Ciò detto, non vi starò a fare il solito listone di film del MCU, solo una lista degli "indispensabili" da vedere per fruire al meglio di Thunderbolts*; innanzitutto, Black Widow, senza il quale non capireste assolutamente nulla dei personaggi principali, poi aggiungerei Captain America – Il primo vendicatoreCaptain America: The Winter Soldier, Ant-Man and the Wasp (prima inserite Ant-Man, così da non arrivare a metà storia) e aggiungete le due serie Falcon and the Winter Soldier e Hawkeye (siete fortunati, sono due tra le più carine). ENJOY!


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