venerdì 30 settembre 2016

Blair Witch (2016)

Ma che, si fa così? Uno aspetta con trepidazione Blair Witch e il ritorno alla regia di Adam Wingard e poi... vabbé, continuate a leggere il post.


Trama: dopo la scomparsa della sorella Heather nei boschi di Burkittsville, avvenuta anni prima, e il recente ritrovamento di un filmato che la vedrebbe protagonista, il giovane James prende con sé un gruppo di amici e si dirige negli stessi luoghi dove, si dice, dimori la Strega di Blair...



Forse sto invecchiando. Ma sì, sto invecchiando, lo ammetto. Non è possibile arrivare alla fine del primo tempo di un film come Blair Witch con la voglia di cavarsi gli occhi e vomitare le viscere, dai. D'altra parte, se non stessi invecchiando come credo, potrebbe voler dire che l'ultimo film di Wingard è una sòla pazzesca, per di più non nobilitata neppure da una regia degna di questo nome, e mi spiace perché a tanti amici adorati è piaciuto e Wingard, con quella faccetta da orsottino barbettoso, è talmente puccio da non meritare insulti. Però, se fossi ancora GGiovane nel cuore, perché The Blair Witch Project mi era piaciuto così tanto all'epoca (anzi, ancora oggi) e invece Blair Witch no? Forse perché il found footage ibridato al mockumentary ha ormai rotto il pazzo? Può darsi benissimo, eh. Anzi, diciamo proprio che ha rotto il pazzo e basta. Ok, torniamo seri un attimo. Cosa c'è di bello in Blair Witch? L'effetto nostalgia, quello sì. Il brivido di risentire dopo tredici anni nomi come Burkittsville, Elly Kedward e Heather Donahue, di rivedere quel terrificante finale messo a mo' di prologo predispone l'animo ad inenarrabili terrori reminescenti della tarda adolescenza, quei simboletti fatti con rametti e corde gelano ancora oggi il sangue, per non parlare delle maledette manine di poveri infanti messi al muro per non vedere. Ed effettivamente, signori, io metà film non l'ho vista. O, meglio, l'ho vista a metà, con gli occhi opportunamente riparati dalle MIE di mani, onde proteggere il cuore dalle miriadi di salti sulla sedia fatti ogni volta che la videocamera partiva a riprendere il bosco di notte, tra urla belluine, movimenti sospetti, illusioni ottiche e chi più ne ha più ne metta, con l'ulteriore aggiunta di claustrofobici tunnel dove la gente si incastra per la gioia di chi, come me, ha ereditato il terrore paterno degli spazi chiusi. Insomma, Blair Witch FA paura, va bene. Però me n'imbelino, così sono buoni tutti, perlomeno finché non cominciano a scorrere i titoli di coda. Cerchiamo invece di capire perché il film di Wingard ha smesso di farmi paura nel momento esatto in cui ho messo piede fuori dal cinema.


Non ricordo dove l'ho letta ma la differenza, almeno per me, è interamente racchiusa in questa frase: "The Blair Witch Project era un film su persone che si PERDONO nel bosco, Blair Witch è un film su persone che vengono CACCIATE all'interno del bosco". In soldoni, io so già, in questo caso, dove andrà a parare la strega e cosa farà, così come so più o meno anche come e dove si concluderà il film: di fatto, il mio spaventarmi è automatico, perché ormai conosco il meccanismo della saga, il quale dal 1999 ad oggi non è mai cambiato. Heather, Josh e compagnia si perdevano nel bosco, c'era la tremenda angoscia di non poterne uscire, di non riuscire a comunicare con l'esterno, tutta la costruzione della tensione che probabilmente mi avrebbe uccisa anche se la strega non si fosse palesata; insomma, la strega era un di più, forse frutto di illusione, forse vera, non era questo l'importante. In Blair Witch invece lo sceneggiatore Simon Barrett si è addirittura inventato il barbatrucco "per attirare persone nel bosco", ché la strega di Blair necessita di vittime sacrificali. Insomma, alla strega fornisci delle motivazioni, un intelligenza malvagia, uno schema che non la rende più entità astratta ma semplice, banalissimo boogeyman. Per non sbagliarsi, e per non confondere il pubblico, Wingard a un certo punto piazza nella radura non già dei pupazzetti fatti di rami ma dei giganti fatti di tronchi, come a dire "Yuhuuu!! Ci sono!! Guardate che la strega c'è, non è una ilusion en vuestro piensamento!", mentre la già citata sceneggiatura inserisce qui e là elementi horror completamente inutili ai fini della trama (la ferita al piede della ragazza di colore, del tutto fine a sé stessa, resa ulteriormente ridicola dal fatto che una tipa zoppa e febbricitante per mezzo film si trasformi alla fine in provetta scalatrice di alberi) e buoni soltanto a trasformare la terrificante casa del primo film in un vomitoso luna park dove la logica va a farsi un po' benedire. E va bene, la storia del loop temporale ha il suo fascino ed è anche carina, tuttavia è ancora troppo cervellotica per una storia ancestrale come quella della strega di Blair. Wingard, Barrett, siamo gente semplice, l'orrore deve entrarci sottopelle con la forza di un ago arrugginito, senza tanti fili da ricamo attaccati. Se volevate la cosa fine, potevate ignorare lo stile dell'originale e utilizzare delle riprese classiche, perlomeno non sarei uscita dal cinema con la voglia di vomitare l'anima e quella di prendervi amorevolmente a coppini.


Del regista Adam Wingard ho già parlato QUI.

Callie Hernandez interpreta Lisa. Americana, ha partecipato a film come Machete Kills, Sin City - Una donna per cui uccidere e a serie come Dal tramonto all'alba. Ha tre film in uscita, tra i quali La La Land e Alien: Covenant.


James Allen McCune, che interpreta perlappuntamente James, era il fidanzatino di Beth nella seconda stagione di The Walking Dead, alla fine della quale è stato poco cerimoniosamente sbranato dagli zombie. Blair Witch segue The Blair Witch Project e, vivaddio, ignora Il libro segreto delle streghe: Blair Witch 2, il sequel che c'è ma non esiste; se vi fosse piaciuto recuperate quindi il capostipite e aggiungete la saga di REC, Altered - Paura dallo spazio profondo e The Witch. ENJOY!

giovedì 29 settembre 2016

(Gio) WE, Bolla! del 29/9/2016

Buon giovedì a tutti! Questa settimana la distribuzione italiana si è scatenata, sfornando film per tutti i gusti. Purtroppo, il secondo mercoledì del mese, quello col biglietto a 2 euro, cadrà il 12 ottobre, quando invece sarebbe stato l'ideale avere già questa settimana la possibilità di andare a vedere film che, sì, parrebbero carini, ma col biglietto intero anche no, grazie. ENJOY!

Café Society
Reazione a caldo: Meh...
Bolla, rifletti!: Credo di essere l'unica "cinefila" al mondo alla quale Woody Allen non entusiasma, per di più questa volta, con in campo attori che non mi attraggono particolarmente. Lascio la palla agli aficionados, aspettando magari il fantomatico 12 ottobre...

Al posto tuo
Reazione a caldo: Altro film perfetto per il cinema a 2 euro!
Bolla, rifletti!: Ma 'sta cartuccetta, che andrei a vedere solo per la simpatia di Stefano Fresi, dovevano proprio spararla ora? Ché lo scambio di personalità che prevede Argentero e la Angiolini sarebbe un affronto da pagare a prezzo pieno...

Abel il figlio del vento
Reazione a caldo: No vabbé questo nemmeno regalato...
Bolla, rifletti!: Per carità, bellissime le riprese aeree e la parte documentaristica col falchetto vero, ma vedere una sorta di Belle e Sebastien ornitologico, con la strana coppia Jean Reno/Tobias Moretti, mi uccide il cuore e l'anima...

Ben Hur
Reazione a caldo: Vabbé, dai.
Bolla, rifletti!: Lo sapete chi era il patriarca della città di Ur? Vi do un indizio: non era Ben Hur. Ma probabilmente l'ignoranza di questo remake sarà all'altezza di una risposta simile quindi grazie ma NO, grazie.

Al cinema d'élite torna il cinema italiano.

La vita possibile
Reazione a caldo: Tutto il resto... è noooiaaaa...
Bolla, rifletti!: Storia di donne succubi che scappano dal marito per incontrare donne mentalmente più libere, una storia vecchia come il mondo interpretata da attrici che non mi entusiasmano particolarmente...

mercoledì 28 settembre 2016

31 (2016)

Oggi si torna a parlare dell'amico Rob Zombie, regista e sceneggiatore di 31, uno degli horror che non dovete assolutamente perdere quest'anno.


Trama: la notte di Halloween un gruppo di giostrai viene costretto a partecipare al terrificante survival game 31, che prevede un ambiente dal quale non è possibile uscire e un gruppo di killer travestiti da clown.



Ormai lo avrete letto in ogni blog, sito e rivista che conta: Rob Zombie è tornato. Intendiamoci, per me si era giusto un po' allontanato, anche perché, sinceramente, a me erano piaciuti sia Halloween - The Beginning sia il tanto vituperato Le streghe di Salem, ma devo ammettere che le vette de La casa dei 1000 corpi e, soprattutto, di quel capolavoro che era La casa del diavolo erano ben lontane dalle sue ultime opere. Con 31, Rob è tornato a fare quello che gli riesce meglio, ovvero riunire un branco di personaggi brutti, sporchi e cattivi, e farli interagire nel peggiore dei modi possibili, con una piccola differenza. Se in La casa dei 1000 corpi avevamo il solito gruppetto di teenager insopportabili dati in pasto a degli psicopatici, cosa che portava lo spettatore a non parteggiare né per gli uni né per gli altri (anzi, forse un po' più per gli psicopatici), e in La casa del diavolo il regista era riuscito addirittura a portare lo spettatore a vergognarsi di provare qualcosa per i "cattivi", qui i sentimenti che mi hanno mossa durante la visione del film sono stati ancora diversi. E' impossibile, infatti, non empatizzare con Charly, Roscoe, Venus e compagnia, artisti di strada talmente uniti da poter tranquillamente venire definiti una famiglia e non proprio quelli che chiameremmo degli stinchi di santo: rozzi, trasandati e dediti ad alcool e droghe, i protagonisti di 31 vivono alla giornata in un mondo di libertà assoluta, forse non assolutamente soddisfacente ma comunque l'unico dal quale riescono a trarre sostentamento, cercando tra spostamenti ed espedienti di rimanere fuori dalla strada e da un destino di povertà e degrado. Quando i nostri si vedono uccidere alcuni membri della "famiglia", prima di venire rapiti e inseriti a forza in un gioco patrocinato da ricconi annoiati, qualcosa si spezza in loro e nello spettatore, che di fatto soffre a vederli alla mercé dei terrificanti clown che infestano il luogo. Allo stesso tempo, è difficile non rimanere affascinati da personaggi iconici quali l'inquietante Doom-Head, killer folle e raffinato dall'eloquio ipnotico e dal sorriso agghiacciante, capo ideale del resto della marmaglia partorita dalla mente deviata di Rob Zombie.


Forse solo Alex De La Iglesia avrebbe avuto l'ardire di portare sul grande schermo nani messicani nazisti (comunque, Rob, io aspetto ancora un lungometraggio su Werewolf Women of the SS, sallo) e teutonici giganti in tutù ad accompagnare più prosaici ma non meno sanguinosi redneck col cerone da clown e la pettorina, tutti al servizio di tre vecchi catananni conciati come il Conte Uguccione e la Madre di Jean Claude in Sensualità a Corte e già solo questo meriterebbe a Rob Zombie un plauso. Ma, non contento, il regista ha scelto di nobilitare questo sanguinoso trionfo di follia e grezzume con una splendida introduzione in bianco e nero, dove tanto è pulita e nitida la fotografia quanto è ruzzo il terrificante Richard Brake, e col finale più bello e poetico mai visto quest'anno in un horror: le immagini finali di 31, che ovviamente non vi spoilero, concentrano tutta la follia, il desiderio di sopravvivere e combattere, la comunione di due animi affini che solo una parvenza di civiltà ha fatto evolvere in maniera differente, in due intensissimi minuti accompagnati dall'evocativa Dream On degli Aerosmith, mai così bella e adatta all'atmosfera. Vi assicuro che, di fronte ad una simile conclusione, il resto del film, per quanto pregevole (soprattutto per ciò che riguarda le scenografie claustrofobiche ed oscure, il make up dei vari clown e la coraggiosa bellezza naturale di Meg Foster), scompare. Quel che ancora non è scomparso, dopo quasi una settimana dalla visione di 31, è l'ammirazione spropositata per l'attore Richard Brake il quale, come ho scritto su Facebook appena finito il film, sarebbe in grado di cancellare con uno sputacchio sanguinoso le interpretazioni di Jared Leto e Heath Ledger per diventare il Joker migliore di sempre, possibilmente accompagnato da una Harley Quinn interpretata da Sheri Moon Zombie. Dolce Sheri, poi dovrai spiegarmi come diamine fai, all'età di quasi 50 anni, ad essere ancora così gnocca, secca e sexy al punto che tuo marito non riesce a staccarti la cinepresa di dosso né a smettere di vantarsi inguainandoti dentro quella robetta che poco lascia all'immaginazione ma, se il risultato è quello di spingerlo a girare film come 31, accetto con filosofia la cosa e più non dimando!


Del regista e sceneggiatore Rob Zombie ho già parlato QUI. Sheri Moon Zombie (Charly), Jeff Daniel Phillips (Roscoe Pepper), Meg Foster (Venus Virgo), Malcom McDowell (Father Murder), Judy Geeson (Sister Dragon) e Richard Brake (Doom-Head) li trovate invece ai rispettivi link.

Lew Temple interpreta Psycho-Head. Americano, ha partecipato a film come La casa del diavolo, Non aprite quella porta: l'inizio, Déjà Vu, Halloween: The Beginning, The Lone Ranger e a serie come Walker Texas Ranger, CSI: Miami, Criminal Minds e The Walking Dead. Ha 49 anni e quattordici film in uscita.


Se 31 vi fosse piaciuto recuperate i già citati La casa dei 1000 corpi e La casa del diavolo. ENJOY!

martedì 27 settembre 2016

Goodnight Mommy (2014)

In occasione dell'uscita in home video ad opera della Midnight Factory, in questi giorni ho guardato Goodnight Mommy (Ich Seh, Ich Seh), diretto e co-sceneggiato nel 2014 dai registi Severin Fiala e Veronika Franz.


Trama: la madre dei gemellini Lukas ed Elias torna a casa dopo un'operazione al volto ma i due bimbi si convincono che sotto le bende si nasconda un'altra donna.

 
La verità, si dice, sta nell'occhio di chi guarda. Se ciò fosse vero, allora ognuno di noi sarebbe in grado di plasmare la propria versione di realtà e nessuno potrebbe convincerci del contrario, tanto meno se ciò che vediamo con i nostri occhi ci gratifica oppure ci terrorizza. In Goodnight Mommy, come da titolo originale, la realtà si sdoppia, anzi si triplica: da una parte c'è ciò che vedono i due gemellini Lukas ed Elias, identici dentro e fuori, dall'altra c'è ovviamente ciò che vede la loro madre, reduce da un'importante operazione al viso (un lifting? Probabilmente, ma non lo sapremo mai con certezza). Il punto di vista di questi tre personaggi si sostituisce a quello dello spettatore il quale, non conoscendo ovviamente il contesto in cui essi vivono, è costretto a "prendere in prestito" i loro occhi ed assecondare le loro percezioni, uscendo così frastornato dalla visione di Goodnight Mommy, un thriller dalle forti venature horror e psicologiche assai simile a quella perla di Magic, Magic. La prima parte della pellicola è infatti realizzata interamente attraverso il filtro percettivo di Lukas ed Elias, due bimbi figli di una presentatrice televisiva e privi di una figura paterna di riferimento i quali, chissà perché, vivono in totale solitudine in una casa che è il trionfo del design moderno. Per un italiano, già questo è straniante: perché i bimbi non hanno una tata, una nonna, una zia, un adulto che li segua in assenza della madre? Tutto ciò che li circonda al di fuori della casa è natura incontaminata e coltivazioni a perdita d'occhio ma anche stralci di una periferia austriaca poco esaltante, per non parlare di case diroccate che nascondono inquietanti segreti, ma si tratta di realtà o finzione? Così strana è la realtà che circonda i due ragazzini (e così forte è il loro legame), che è quasi normale pensare che una donna sconosciuta si sia sostituita alla loro madre, celando sotto le bende che sembrano uscite dritte da La pelle che abito un animo bizzoso, umorale, a tratti crudele: dov'è finita la mamma che cantava la ninna nanna e giocava con i due bimbi, verso i quali la "nuova versione" mostra una freddezza sconcertante?


Le domande che arriviamo a porci durante la prima parte di Goodnight Mommy vengono completamente ribaltate mano a mano che la pellicola si avvicina alla conclusione. Alla diffidenza nei confronti di questa donna senza volto si aggiunge, sempre più soverchiante, un senso di inquietudine di fronte alle azioni di due bambini impossibili da distinguere e dagli interessi "peculiari" (i loro incubi fanno impressione ma mai quanto la collezione di blatte che nascondono in camera come un tumore maligno pronto ad esplodere), tanto che il dubbio diventa legittimo: e se l'atteggiamento della madre fosse semplicemente una conseguenza, per quanto deprecabile, dello stress post-operatorio e i gemelli si fossero solo convinti di avere un'estranea in casa perché non riescono ad accettare che mamma sia cambiata? E' da questa domanda che prende il via uno stress psicologico e visivo abbastanza arduo da sostenere, interamente giocato sulla percezione infantile del mondo attraverso l'immaginazione e il gioco ma anche attraverso gli occhi di un adulto che, probabilmente, non è mai stato in grado di gestire i propri figli, tanto meno comprenderli. Vissuto in quest'ottica, Goodnight Mommy è uno splendido e tesissimo thriller capace di inchiodarci con domande scomode, un'opera complessa che affonda le radici nei topoi del bambino malvagio e del doppio riuscendo allo stesso tempo a trovare una propria strada che travalica il colpo di scena ad effetto (non a caso, facilmente intuibile dopo i primi cinque minuti) per spalancarci l'abisso di ciò che sta al di là dell'apparenza, nascosto dietro maschere che siamo noi stessi a costruire per il nostro piacere e la nostra stabilità mentale. Goodnight Mommy invece, come una blatta, si infila strisciando sotto le nostre sicurezze, alterandole per sempre e bloccandoci all'interno di un incubo ad occhi aperti dove ciò che si cela dietro quelle maschere travalica tutte le nostre peggiori paure. E se non è grandissimo Cinema questo, non so davvero cosa sia.

Severin Fiala è il co-regista e co-sceneggiatore della pellicola. Austriaco, al suo primo lungometraggio "di finzione" (ha all'attivo il documentario Kern, girato sempre assieme a Veronika Franz), ha 31 anni ed è anche attore e produttore.
Veronika Franz è la co-regista e co-sceneggiatrice della pellicola. Austriaca, ha co-diretto il documentario Kern. Ha 51 anni.


Due parole sull'edizione speciale in DVD della Midnight Factory: oltre all'ottima qualità audio/video e all'interessante libretto interno curato da Manlio Gomarasca e Davide Pulici di Nocturno Cinema, l'edizione italiana del film vanta anche una serie di speciali molto interessanti come l'intervista ai registi, il making of di un paio di disgustosi effetti speciali, scene eliminate e alcuni divertenti outtakes aventi per protagonisti i due gemellini Elias e Lukas Schwarz. Detto questo, se il film vi fosse piaciuto recuperate The Babadook, The Visit, The Invitation, Stoker, Two Sisters e Magic, Magic. ENJOY!

domenica 25 settembre 2016

Alla ricerca di Nemo (2003)

In un mondo ideale questo post avrebbe dovuto essere già scritto e postato prima che io andassi a vedere Alla ricerca di Dory ma purtroppo il mio è un mondo fatto di minuti risicati. Quindi, oggi vi beccate con orrida mancanza di consecutio temporum la recensione di Alla ricerca di Nemo (Finding Nemo) diretto dai registi Andrew Stanton (anche sceneggiatore) e Lee Unkrich, vincitore nel 2003 dell'Oscar come Miglior Lungometraggio Animato.


Trama: a causa dell'attacco di un barracuda, il pesce pagliaccio Nemo si ritrova vedovo e con un unico figlio superstite, il piccolo Nemo dalla pinna atrofica. Quando il pesciolino viene pescato per essere messo in un acquario, Marlin parte alla sua ricerca, accompagnato dalla smemorata Dory...


Non guardavo Alla ricerca di Nemo da qualche anno e, ovviamente, ho tirato fuori dalla libreria il DVD in occasione dell'uscita di Alla ricerca di Dory, uscendo estasiata dalla visione come già era successo la prima volta al cinema. La storia di Marlin e della sua disperata ricerca del figlio Nemo è un emozionante racconto di formazione che tocca più di un personaggio, tra momenti genuinamente tragici, sequenze commoventi e altre di puro, indimenticabile divertimento. La sceneggiatura del film parte da un'esperienza terribile come la perdita dei familiari e mostra un protagonista evidentemente traumatizzato, incapace di vivere per paura che qualsiasi cosa fuori dall'ordinario possa celare mortali pericoli; Marlin prova per Nemo ciò che probabilmente tutti i genitori provano per i propri figli (il timore di lasciarli andare per la loro strada, di permettere loro di vivere esperienze anche negative sulla loro pelle) ma ovviamente il tutto viene esasperato al punto che il pesciolino viene soffocato dall'amore genitoriale anche all'interno della relativa sicurezza di una scuola. Quando Nemo, portato all'imprudenza proprio dall'atteggiamento del padre, viene rapito, Marlin è costretto ad ignorare l'atavico terrore di ciò che sta "oltre" la barriera e a collaborare con altre creature per il bene del figlio, uscendo letteralmente dal guscio in cui si era rinchiuso al momento della morte dell'amata moglie. Allo stesso tempo, il piccolo Nemo scopre il significato della parola fiducia, imparando a credere in sé stesso (oltre che in quel papà troppo noioso e pavido agli occhi di un bambino) grazie ad un gruppo di pesci da acquario che arrivano a considerarlo loro pari, rendendolo la chiave del loro piano di fuga nonostante il suo difetto fisico. Alla crescita di Nemo e Marlin si aggiunge il percorso per nulla banale della "spalla" Dory, pesciolina afflitta da perdita di memoria a breve termine che in Marlin trova il punto fisso dal quale partire per costruirsi quel senso di appartenenza che la malattia le ha sempre precluso: attraverso Dory, gli sceneggiatori intavolano un meraviglioso discorso relativo alla natura di famiglia al di là del nucleo costituito da genitori e figli, innescando riflessioni che si estendono non solo agli spettatori, ma agli stessi personaggi, facendoli maturare.


Ai momenti squisitamente malinconici dei quali Alla ricerca di Nemo è pieno, si affiancano ovviamente sequenze di altissimo umorismo, perfettamente adatte sia ai grandi sia ai piccoli, affidate non solo a personaggi esilaranti quali gli squali "vegetariani", la stessa Dory oppure i gabbiani col loro favoloso verso "Mio! Mio! Mio!", ma anche a piccoli inside joke nascosti abilmente all'interno delle scene o (soprattutto nella versione originale) ai vari accenti e modi di dire dei singoli personaggi, strettamente legati alla loro origine Australiana. L'abilità tecnica della Pixar è in questo caso strabiliante anche dopo tredici anni. Non parlo solo dell'incredibile bellezza delle sequenze ambientate nei fondali marini, un trionfo di colori e forme talmente variegati da far venire voglia di indossare maschera e muta e tuffarsi nella barriera corallina (magari senza macchina fotografica per flashare i poveri pesci...), ma anche per l'espressività dei singoli personaggi e per la commistione perfetta di animazione e colonna sonora. Due esempi su tutti: sfido chiunque a non farsi venire l'ansia prima, e a morire di magone poi, davanti allo sguardo determinato della sfortunata Coral, che soppesa il pericolo del barracuda per poi lanciare un'occhiata determinata ai piccoli ancora nascosti, oppure a non disperarsi assieme a Marlin quando la barca porta via Nemo, accompagnata da un martellante score da film horror. Questi sono ovviamente solo alcuni degli importanti ingredienti della perfetta ricetta Pixar, casa di produzione dotata dell'intelligenza di creare film adatti ai bambini senza prenderli in giro addolcendo la pillola con scene consolanti o happy ending definitivi (obiettivamente, il destino dei pesci nell'acquario non è proprio quello di totale trionfo), offrendo loro film capaci di emozionare e far riflettere l'intera famiglia, magari su diversi livelli. Purtroppo, lo sapete già, questo non è successo con Alla ricerca di Dory che, scivolando nella concessione ai fan, si è rivelato privo di quella complessità che ha reso Alla ricerca di Nemo un capolavoro senza tempo in grado di non sfigurare accanto ai cosiddetti Grandi Classici Disney, che vivono imperituri nella memoria di chiunque abbia avuto la fortuna di vederli.


Del co-regista Lee Unkrich ho già parlato QUI mentre il co-regista e co-sceneggiatore Andrew Stanton lo trovate QUA. Albert Brooks (voce originale di Marlin), Ellen DeGeneres (Dory), Willem Dafoe (Gill/Branchia), Allison Janney (Peach/Diva), Geoffrey Rush (Nigel/Amilcare), Eric Bana (Anchor/Randa) e Bruce Spence (Chum/Fiocco) li trovate invece ai rispettivi link.

La voce originale del dentista è quella dell'attore australiano Bill Hunter, che ha interpretato Bob in Priscilla la regina del deserto, mentre tra i doppiatori italiani figurano invece Luca Zingaretti (Marlin) e Carla Signoris (Dory). William H. Macy aveva prestato la voce Marlin per una prima versione del film ma, dopo le proiezioni negative della stessa per i vertici della Disney, Andrew Stanton ha deciso di far ridoppiare il personaggio ad Albert Brooks (che, per inciso, era sempre stato la prima scelta del regista). Un'altra attrice ad aver perso la possibilità di partecipare al progetto è stata Megan Mullally dopo aver rifiutato di modulare la voce come quella del personaggio per la quale era famosissima all'epoca, la caustica Karen della serie Will & Grace. Il film è stato seguito, dopo la bellezza di tredici anni, da Alla ricerca di Dory: se Alla ricerca di Nemo vi fosse piaciuto recuperatelo e aggiungete Monsters & Co., Il re leone e la trilogia di Toy Story. ENJOY!

venerdì 23 settembre 2016

Alla ricerca di Dory (2016)

Mercoledì sono dunque andata in un cinema gremito di pargoli per vedere Alla ricerca di Dory (Finding Dory), diretto e co-sceneggiato da Andrew Stanton e Angus MacLane.


Trama: Un anno dopo aver ritrovato Nemo, Dory si ricorda di avere letteralmente perso i genitori da piccola e, assieme a Nemo e Marlin, intraprende un viaggio verso la California per ricongiungersi con loro.


Dopo tredici anni trascorsi nella realtà e solo uno nella finzione, la Pixar torna a rinverdire i fasti di alcuni dei suoi personaggi più famosi, i divertenti pesciolini di Alla ricerca di Nemo. Come dice la mia amica Paola, "Dory è uno dei personaggi più belli mai creati per un cartone animato" e ha ragione: la pescetta smemorata è nata come perfetto amalgama tra esilarante spalla comica ed involontaria, commovente fonte di pratica saggezza. Era quindi solo questione di tempo prima che la Pixar decidesse di dedicarle un intero film ed ecco quindi nascere Alla ricerca di Dory (che, a dirla tutta, avrebbe dovuto chiamarsi Alla ricerca DEI GENITORI DI Dory), storia di un viaggio allucinante intrapreso per ritrovare le proprie radici. Una pellicola assai carina, come già era il suo predecessore, piena di momenti divertenti e altri più malinconici, che tuttavia impallidisce davanti a Alla ricerca di Nemo a causa del tipico problema che tocca inevitabilmente quasi tutti i sequel: gli sceneggiatori, invece di mettere i personaggi al servizio della storia, hanno messo la storia al servizio del personaggio amato dai fan di tutto il mondo, andando a privare così gli spettatori della possibilità di godere di vicende capaci di emozionarli davvero. Alla ricerca di Nemo era un epico racconto di formazione che toccava non uno, ma ben due personaggi (ne parlerò nei prossimi giorni anche se mi spiace non rispettare la consecutio temporum, mannaggia!!), Alla ricerca di Dory si concentra invece "solo" sul personaggio da cui prende il titolo, puntando esclusivamente sulla peculiarità della protagonista e sulle mille gag derivanti da essa, con la domanda retorica "cosa farebbe Dory?" messa in bocca un po' troppo spesso ai personaggi. La necessità di puntare i riflettori essenzialmente su Dory e di affiancarle nuovi potenziali beniamini per i bambini paganti ha inoltre portato all'impoverimento dei "vecchi" personaggi e a farne le spese sono stati Marlin e Nemo, soprattutto il primo il quale, a parte un paio di aneddoti, pare non avere serbato nulla dell'odissea per ritrovare il figlio, tornando così ad essere il pesce timoroso, cupo e noioso di un tempo.


Dei personaggi nuovi, il più sfaccettato e l'unico a mostrare un'evoluzione dall'inizio alla fine è il polpo Hank, capace di essere divertente e di veicolare allo stesso tempo un importante messaggio per i più piccoli. Decisamente, ho preferito il suo "buttati e non rifiutare il mondo che ti circonda" rispetto a "puoi fare qualunque cosa nonostante tutti i tuoi difetti" anche perché, intendiamoci, un bambino potrebbe anche farsi due risate ma sinceramente in un paio di sequenze io non ho potuto fare a meno di collegare la "perdita di memoria a breve termine" di Dory all'Alzheimer e le scene che la vedono persa all'interno del sistema idrico del parco acquatico le ho trovate a dir poco angoscianti e claustrofobiche. Per scacciare di dosso queste terrificanti sensazioni da neofita della terza età, meglio concentrarsi sull'assurdità di quattro idoli conclamati come il mostruoso uccello Becky dall'occhio sifulo o i leoni marini Fluke e Rudder che, assieme al terzo incomodo "hillbilly" Gerald dal monociglio prominente, riescono ad annichilire lo spettatore dalle risate. E se da un lato si sente un po' la mancanza di un villain degno di rispetto, fosse stata anche la piccola e malefica Darla, dall'altro c'è da dire che la realizzazione tecnica del film è ineccepibile come sempre: la bellezza artificiale del Marine Life Institute, dettagliatissimo e molto realistico, non fa rimpiangere le ambientazioni oceaniche di Alla ricerca di Nemo che, per inciso, tornano anche in questo episodio per la gioia di chi non vedeva l'ora di reimmergersi "Somewhere beyond the sea" assieme a Nemo e agli altri amati abitanti della barriera corallina. Quindi, in definitiva Alla ricerca di Dory non mi ha delusa ma non mi ha neppure entusiasmata come avrei sperato. Tredici anni (per quanto annullati con il colpo da maestro di un flashback iniziale a dir poco perfetto) sono troppi per tornare alla ribalta e, come ho detto all'inizio del post, se ci si concentra solo sul personaggio in sé è difficile scatenare emozioni che durino nel tempo. Piuttosto, ho preferito il corto Piper, interamente incentrato su una cucciola di "gambecchio" impegnata a superare le sue paure per poter sopravvivere assieme alla mamma e al resto dello stormo, un trionfo di tenerezza e splendide animazioni capace di emozionare e fare riflettere nel breve lasso di cinque minuti.


Di Albert Brooks (voce originale di Marlin), Eugene Levy (Charlie), Idris Elba (Fluke), Dominic West (Rudder), Kate McKinnon (Pesce moglie), Bill Hader (Pesce marito), Sigourney Weaver (Sigourney Weaver), Willem Dafoe (Gill/Branchia) e Allison Janney (Peach/Diva) ho già parlato ai rispettivi link.

Andrew Stanton è il co-regista e co-sceneggiatore della pellicola, inoltre presta la voce alla tartaruga Crush (in italiano Scorza) e alla cozza parlante. Americano, ha diretto film come A Bug's Life - Megaminimondo, WALL-E e Alla ricerca di Nemo. Anche sceneggiatore, produttore, doppiatore e animatore, ha 51 anni.

Angus MacLane è il co-regista e co-sceneggiatore della pellicola, al suo primo lungometraggio. Americano, anche animatore e doppiatore, ha 41 anni.


Ellen DeGeneres è la voce originale di Dory. Americana, la ricordo per film come Edtv, inoltre ha partecipato a serie come Pappa e ciccia, Innamorati pazzi, Ellen, Will e Grace e Six Feet Under; come doppiatrice, ha lavorato per film quali Il dottor Dolittle, Alla ricerca di Nemo e serie come I Simpson. Anche produttrice e sceneggiatrice, ha 56 anni.


Diane Keaton è la voce originale di Jenny. Americana, la ricordo per film come Il padrino, Provaci ancora Sam, Il padrino - Parte II, Io & Annie (che le è valso l'Oscar come migliore attrice protagonista), Manhattan, Radio Days, Il padrino - Parte III, Il padre della sposa, La stanza di Marvin e Tutto può succedere; come doppiatrice, ha lavorato per film quali Senti chi parla adesso!. Anche produttrice, regista e sceneggiatrice, ha 70 anni, un film in uscita e parteciperà all'imminente serie The Young Pope.


Tra gli altri doppiatori originali, segnalo la presenza del regista Bob Peterson, che riprende il ruolo di Mr. Ray, già presente in Alla ricerca di Nemo; la canzone dei titoli di coda (a proposito dei quali vi consiglio di rimanere proprio fino alla fine per la scena post credit), cover di Unforgettable, è invece cantata di Sia, buona amica di Ellen DeGeneres. Per la versione italiana abbiamo gli insostituibili Carla Signoris nel ruolo di Dory e Luca Zingaretti in quello di Marlin, mentre Licia Colò viene utilizzata come "guest star" al posto di Sigourney Weaver. Siamo messi malissimo, lo sapete, vero? Detto questo, ovviamente Alla ricerca di Dory segue Alla ricerca di Nemo, per cui se il film vi fosse piaciuto recuperatelo e aggiungete  Monsters & Co., Monsters University, Il re leone e la trilogia di Toy Story. ENJOY!

giovedì 22 settembre 2016

(Gio)WE, Bolla! del 22/9/2016

Buon giovedì a tutti! Questa è una settimana ricca di uscite e una in particolare mi riempie il cuore di gioia. Vi do un indizio: NON è Bridget Jones's Baby! ENJOY!

I magnifici sette
Reazione a caldo: Mistero...
Bolla, rifletti!: Non essendo vissuta nel mito de I magnifici sette originali non sono turbata dall'ennesimo remake hollywoodiano ma sarei curiosa di guardarlo, pur temendo la zamarrata western. Magari lo recupero più avanti, eh.

Blair Witch
Reazione a caldo: Evviva!!!
Bolla, rifletti!: Diciamo tutti grazie alla Koch Media che distribuisce persino a Savona! Un sequel dopo decenni di attesa (sapete che Il libro segreto delle streghe - Blair Witch 2 non esiste, vero?) mi preoccupa assai ma è anche vero che a Wingard voglio bene, da cui la fiducia. Martedì vedrò se a torto o a ragione.

Bridget Jones's Baby
Reazione a caldo: Waoooo....
Bolla, rifletti!: For Fans Only. Dico solo questo. Non ho mai visto un Bridget Jones, visto che schifo il genere, quindi sapere di chi sia 'sto bambino non mi importa né tanto né poco.

Al cinema d'élite: il ritorno di Ozon.

Frantz
Reazione a caldo: Ussegur.
Bolla, rifletti!: Da Venezia, il melodramma in bianco e nero tratto da un'opera già portata sullo schermo da Ernst Lubitsch. Troppa cultura, troppa pesantezza, necessito di film disimpegnati in questo momento, pardon.


mercoledì 21 settembre 2016

Bollalmanacco On Demand: Amadeus (1984)

Povero Toto. L’ho fatto aspettare millenni per assecondare il suo On Demand, sono finalmente riuscita a guardare Amadeus, diretto nel 1984 da Milos Forman (tratto dalla pièce teatrale di Peter Shaffer e vincitore di 8 premi Oscar per Miglior Film, F. Murray Abraham Miglior Attore Protagonista, Miglior Regista, Miglior Sceneggiatura non Originale, Miglior Scenografia, Migliori Costumi, Miglior Sonoro e Miglior Trucco), e ora gli toccherà sorbirsi l’ignorantissima recensione di uno dei film più belli che abbia mai avuto l’onore di vedere. Aggiungo che il prossimo On Demand sarà Jeepers Creeper! ENJOY!



Trama: la vita e lo straordinario genio di Wolfgang Amadeus Mozart vengono raccontati dalla voce dell’anziano compositore Salieri, portato alla follia e al suicidio dai sentimenti contrastanti di invidia e profonda ammirazione nei confronti del giovane musicista…



Prima di cominciare a scrivere il post alzerò una prece al “Santo della mediocrità”, Antonio Salieri, al quale oserò anche dare del tu. Antonio, illuminami. Illuminami perché sulla rete ci saranno di sicuro almeno un migliaio di recensioni, analisi e finanche post amatoriali dedicati ad Amadeus che saranno cento volte migliori dei miei. Ma secondo te, perché Cthulhu o chi per lui mi ha dato la passione per il cinema e il desiderio di scriverne assieme alla consapevolezza che non riuscirò MAI a magnificare le lodi di film meravigliosi in maniera originale, interessante ed intelligente? Finirò anche io pazza e in manicomio, convinta di aver portato alla morte fior di critici cinematografici? Mah, speriamo di no ma tu mettici la manina santa e consentimi di arrivare perlomeno alla fine del post senza rendermi ridicola. Bando a tecnicismi, analisi profonde e giri intorno al mondo quindi, siamo mediocri fino in fondo: Amadeus è un film della Madonna. Quando ho cominciato a guardarlo quelle tre ore si stagliavano davanti a me come il monolite nero di 2001 Odissea nello spazio, presagio di probabile camurrìa ed imminente calar di palpebre. Fortunatamente è subito comparso sullo schermo un favoloso F. Murray Abraham, che urlava di avere ucciso Mozart e che cercava di spiegare le sue ragioni ad un prete incredulo, e il suo modo di raccontare una vicenda per me nuova e misteriosa mi ha catturata come mai avrei creduto possibile, forse proprio per la complessità di un personaggio come Salieri. E’ stata la voce narrante incredibilmente umana di Salieri a prendermi per mano e portarmi ad amare Mozart, a riascoltare melodie conosciute apprezzandone l’intrinseca genialità, a disprezzarlo per la boriosa superiorità mostrata nei confronti di tutto e tutti, a vergognarmi per essere riuscita ad empatizzare sia con “Wolfie” (nei momenti di crisi) che con un Salieri al massimo dell’abiezione, comprensibilmente pronto ad arrivare a qualsiasi estento pur di prendersi la sua rivincita su un Dio crudele. Ah, l’Amadeus, l’ “amato da Dio”, incarnato nientemeno che da un reduce di Animal House affetto da una risatina fastidiosa e insinuante! L’odio di Salieri è più che condivisibile ma alla fine ci si affeziona anche a questo geniale folletto del Caos, costretto nelle maglie retrograde di una società ancora legata alle tradizioni dell’Opera e ai voleri di un Imperatore illuminato ma comunque moscio ed ignorante come una capra di Biella, al punto da affermare che la musica di Mozart è bella ma “ha troppe note”. A differenza di Mozart, il bieco ma furbo Salieri sa come trattare con gente simile, come muoversi a Corte e come, senza esporsi troppo, fare terra bruciata attorno ad un nemico il cui genio nulla può senza le giuste conoscenze; schietto ed onesto, Amadeus è fin troppo vulnerabile alle regole di una realtà che non lo accetta e, come i migliori artisti, viene consumato sia da essa che dalla sua smania creativa.


L’interessantissima trama (che, come ama sempre ricordarmi Toto, è MOLTO romanzata rispetto alla realtà della vita di Mozart) consente al film di incastrarsi in due dei generi che più prediligo, quello storico-biografico e, ovviamente, il musical. Un montaggio ispiratissimo e, oserei dire, geniale quanto Mozart, porta lo spettatore a rimanere a bocca aperta davanti al modo in cui le sensazioni ispirate dalla musica in sottofondo animano non soltanto le espressioni ed il linguaggio corporeo degli attori ma diventano una propaggine indispensabile per gli eventi che scorrono sullo schermo; la melodia del Flauto Magico che nasce attraverso prove con gli attori ma anche, e soprattutto, grazie al disastroso incontro con la suocera di Mozart, la composizione del Requiem che si interrompe al momento della morte del musicista (e la cui melodia viene “costruita”, letteralmente, a beneficio delle orecchie dello spettatore), le espressioni di pura meraviglia e sofferenza mentre Salieri legge gli spartiti del rivale figurandosi la musica nella mente, sono tutti momenti di altissimo Cinema che difficilmente spariranno dalla mia memoria. La mia parte "musicalofila" si è poi immensamente goduta non soltanto la bellezza delle esecuzioni musicali (che apprezzo a mo’ di bue Crasso nella mia ignoranza, come il 90% penso delle persone) ma anche e soprattutto dei costumi e delle scenografie, beandomi in particolare del trionfo della Regina della Notte poco prima del finale, senza dimenticare ovviamente Papageno e Papagena, e di quel bel donnino imparruccato di Katerina Cavalieri, vero motore della vicenda, almeno per ciò che riguarda la Director’s Cut. Col senno di poi mi pento di non avere affrontato prima Amadeus, timorosa di trovarmi davanti una vicenda complicata o ad uso esclusivo degli appassionati di musica classica, quando invece avrei dovuto dare fiducia a Milos Forman e al suo modo irriverente e particolare di fare Cinema. Chissà, forse è proprio così che si raggiunge la mediocrità, assecondando la paura di affrontare ciò che è “nuovo”, lontano dal proprio gusto in quanto composto da “troppe note”? In tal caso, continuerò imperterrita a promuovere l’On Demand, così che il genio di qualche lettore illuminato mi porti a scoprire continuamente gemme come questo splendido Amadeus!


Del regista Milos Forman ho già parlato QUI. F. Murray Abraham (Antonio Salieri), Tom Hulce (Wolfgang Amadeus Mozart), Simon Callow (Emanuel Schikaneder), Jeffrey Jones (l'Imperatore Giuseppe II) e Vincent Schiavelli (il cameriere di Salieri) li trovate invece ai rispettivi link.

Cynthia Nixon interpreta Lorl. Americana, famosa per il ruolo di Miranda in Sex and the City, ha partecipato anche a film come La famiglia Addams 2, Il rapporto Pelican, Baby Birba - Un giorno in libertà e ad altre serie quali Nash Bridges, Oltre i limiti, E.R. Medici in prima linea, Dr. House, 30 Rock e Hannibal. Anche regista, ha 50 anni e tre film in uscita.


Tim Curry e Mark Hamill, che avevano entrambi interpretato Mozart a teatro (il primo assieme a Ian McKellen, tra l'altro!), hanno fatto il provino per il ruolo di protagonisti in Amadeus; oltre a questo, nell'autobiografia di Forman si legge che uno studio si era offerto di produrre il film a patto che fosse Walter Matthau ad interpretare Mozart, in quanto grande estimatore del musicista (Ovviamente, Forman ha rifiutato visto che Matthau aveva all'epoca già 60 anni) mentre pare che fosse nelle intenzioni del regista affidare il ruolo ad un giovanissimo Kenneth Branagh, prima di decidere per Tom Hulce. Meg Tilly avrebbe dovuto invece interpretare Constanze ma un infortunio accorsole proprio il giorno prima delle riprese le ha impedito di partecipare al film. Detto questo, se Amadeus vi fosse piaciuto recuperate The Prestige. ENJOY!

martedì 20 settembre 2016

The Hunter (2011)

Ve la ricordate la defunta rubrica Get Babol!? Recuperando col mio solito bradipismo i film più interessanti nominati proprio in quelle occasioni, qualche giorno fa ho guardato The Hunter, diretto nel 2011 dal regista Daniel Nettheim e tratto dall'omonimo romanzo di Julia Leigh.


Trama: ad un cacciatore viene chiesto da un’ambigua ditta farmaceutica di recuperare dei campioni di DNA da un animale creduto estinto, la tigre della Tasmania. L’uomo si reca così nei territori dove si dice sia stata avvistata recentemente la bestia ma troverà qualcosa di inaspettato ad attenderlo…



Ho cominciato la visione di The Hunter convinta che mi sarei trovata davanti una sorta di survival movie, con Willem Dafoe impegnato a sopravvivere nelle zone più recondite della Tasmania mentre la famigerata tigre gli faceva il gesto dell’ombrello fuggendo o, peggio ancora, trasformandolo dal cacciatore del titolo a preda, invece la pellicola di Daniel Nettheim si è rivelata un animale strano quanto quello inseguito dal protagonista. The Hunter è infatti un racconto di formazione travestito da crime story, la storia di una caccia che porta il personaggio principale a scavare dentro il proprio animo solitario e soprattutto ad interagire con una famiglia allo sbando, composta da una madre e due bimbi che aspettano da anni il ritorno del marito e padre, ricercatore universitario smarritosi negli stessi boschi che nascondono la tigre della Tasmania. Oltre a raccontare una vicenda molto umana, The Hunter tocca anche un tema difficile come l’ambientalismo che si scontra con una realtà fatta di cittadine al limite della povertà, all’interno delle quali gli abitanti lavorano “sfruttando” le risorse naturali; nonostante i taglialegna dipinti nel film rasentino la follia e ricadano nel tipico stereotipo del redneck (per quanto il film sia ambientato in Tasmania), la pellicola instilla comunque nello spettatore quel minimo di dubbio etico e sociale che lo spinge a non parteggiare a tutti i costi per i cosiddetti “greenies” che vanno a spaccare i marroni a chi è costretto a lavorare per vivere. Allo stesso modo, il tristissimo finale potrebbe non incontrare il favore di una buona fetta di pubblico ma è perfettamente in linea sia con la personalità del cacciatore, sia con gli eventi accorsi ai personaggi nel corso del film, e non vi nego che è riuscito a strapparmi più di una lacrima.


Altro non dirò sulla trama per non rovinare la sorpresa quindi sarebbe il caso di spendere due parole per la realizzazione del film. Questa è la prima pellicola girata da Daniel Nettheim che vedo e sinceramente non capisco come mai costui abbia all’attivo solo un film, a fronte di moltissimi episodi di serie televisive. La regia di The Hunter mi è parsa molto bella, dal taglio classico ma non banale, arricchita da una fotografia splendida capace di mettere ancor più in risalto la bellezza selvaggia dei boschi della Tasmania e anche la rigidità del suo inverno; molto interessante anche la scelta di utilizzare, a mo’ di introduzione, filmati di repertorio in bianco e nero nei quali viene mostrato il sembiante della tigre della Tasmania, un animalino abbastanza inquietante e particolare ma purtroppo estinto per davvero. The Hunter si conferma un prodotto pregevole anche sul versante attori. Su Willem Dafoe non avevo dubbi e mi è piaciuto molto vederlo, per una volta, in versione “remissiva”, alle prese con un personaggio schivo e pacato, e altrettanto brava è Frances O’ Connor. La palma di migliori attori va comunque ai piccoli Morgana Davies  e Finn Woodlock: la prima è una grezzonetta fenomenale, con un accento meravigliosamente incomprensibile, mentre il secondo, costretto ad interpretare un bimbo muto che si esprime attraverso fondamentali disegni, è talmente tenero che verrebbe voglia di mangiarselo. Pare quindi che, per l’ennesima volta, il mio modo sconsiderato di scegliere i film abbia dato i suoi frutti… il problema è che ora ho una voglia matta di volare in Tasmania, per bearmi di quelle splendide viste che hanno tanto incantato sia Willem Dafoe che Sam Neill, sperando che la tigre autoctona non venga a mordermi le terga come i cervi di Nara!


Di Willem Dafoe (Martin), Frances O' Connor (Lucy) e Sam Neill (Jack) ho già parlato ai rispettivi link.

Daniel Nettheim è il regista della pellicola. Australiano, ha diretto film come Angst ed episodi di serie come Doctor Who. Ha anche lavorato come sceneggiatore.


Julia Leigh, autrice del romanzo da cui è stato tratto The Hunter, ha lavorato a sua volta come regista e ha diretto, tra l'altro proprio nel 2011, il film Sleeping Beauty. Detto questo, se The Hunter vi fosse piaciuto provate a guardare Mud. ENJOY!

domenica 18 settembre 2016

RocknRolla (2008)

Questa è l’ultima del 2016, prometto. Intendo l’ultima volta che scrivo un brevissimo post dopo praticamente un mese dalla visione del film, cosa che mi porta inevitabilmente ad affidarmi ad una memoria sempre più scarsa e ad emozioni ormai raffreddatesi. Ciò accade, soprattutto, quando si parla di film come RoknRolla, diretto nel 2008 dal regista Guy Ritchie, la tipica sagra del malvivente inglese tanto cara all’autore.


Trama: uno speculatore edilizio senza scrupoli cerca di concludere un grosso affare con un magnate russo ma la commercialista di quest’ultimo è in combutta con un paio di piccoli malviventi e lo deruba sistematicamente di ogni investimento. A complicare un affare che già sta in piedi per miracolo si aggiungono i capricci di un giovane cantante rock fattosi passare per morto…



Ammetto pubblicamente di essere un’estimatrice di Guy Ritchie, del suo stile caciarone e videoclipparo, del montaggio rapido quanto i giri di giostra tra personaggi che si susseguono continuamente sullo schermo, del sottobosco criminale che mette in scena con abbondanti dosi di umorismo nero e anche di un certo modo ruffiano di accattivarsi il pubblico. Tutti questi elementi si ritrovano in RockNRolla eppure, nonostante il mio amore per il regista inglese, la visione del film si è rivelata lievemente pesante, come se avessi davanti uno scherzo tirato per le lunghe; la trama della pellicola fila e tutto torna perfettamente sul finale, nel quale ogni tessera apparentemente stonata riesce nonostante tutto a comporre un mosaico perfetto, però credo che la parte centrale del film venga appesantita troppo da ripetizioni inutili e personaggi superflui. In aggiunta, bisogna dire che il RockNRolla del titolo è uno dei protagonisti più fastidiosi e meno carismatici mai creati da Guy Ritchie. Non so se imputare la colpa all’attore Toby Kebbell, che sembrerebbe un giovane Sacha Baron-Coen molto meno divertente (e già di suo non che Baron-Coen mi faccia impazzire...), sta di fatto che dal momento in cui compare il fantomatico Johnny Quid il film subisce una frenata che non molla neppure con la presenza del fantastico “gangster” di Tom Wilkinson e del sempre valido Mark Strong, punte di diamante di un cast che contempla anche due figoni del calibro di Idris Elba e Gerard Butler, tra gli altri. Ecco, forse RockNRolla mi ha un po’ delusa perché pensavo che il fulcro della storia fosse questa coppia di pregevoli attori, invece la trama a un certo punto si discosta dalle loro disavventure, focalizzandosi su furti di quadri, rockstar drogate, segretucci nascosti e russi psicopatici, questi ultimi protagonisti delle sequenze più genuinamente folli e divertenti di tutta la pellicola. Nonostante questo, quando durante i titoli di coda ho letto che i protagonisti di RockNRolla sarebbero tornati per un secondo film non ho potuto fare a meno di chiedermi cosa aspetti Ritchie a riprendere le fila del discorso, magari con qualche aggiustatina qui e là: o sono completamente psicopatica e mi sbaglio di grosso, oppure potrebbe venire fuori un sequel molto migliore della pellicola originale!


Del regista e sceneggiatore Guy Ritchie ho già parlato QUI. Gerard Butler (One Two), Tom Wilkinson (Lenny Cole), Mark Strong (Archy), Idris Elba (Mumbles), Tom Hardy (Bob il bello), Toby Kebbel (Johnny Quid), Karel Roden (Uri Omovich), Jeremy Piven (Roman), Gemma Arterton (June) e Jamie Campbell Bower (Rocker) li trovate invece ai rispettivi link.

Thandie Newton interpreta Stella. Inglese, ha partecipato a film come Intervista col vampiro, Gridlock'd, Mission: Impossible 2, The Chronicles of Riddick e a serie come E.R. Medici in prima linea, inoltre ha doppiato un episodio di American Dad!. Ha 44 anni e due film in uscita.


Il cantante Ludacris (col vero nome di Chris Bridges) interpreta Mickey, uno dei due manager di Johnny Quid. Apparentemente, quella di RocknRolla avrebbe dovuto essere una trilogia, di fatto nei titoli di coda viene scritto "The Wild Bunch will return in The Real RockNRolla", tuttavia nel frattempo Ritchie ha girato altri quattro film e di un eventuale sequel non c'è ancora traccia. Detto questo, se RocknRolla vi fosse piaciuto recuperate Lock & Stock - Pazzi scatenati e Snatch - Lo strappo. ENJOY!

venerdì 16 settembre 2016

La famiglia Fang (2015)

Attirata dal trailer e dalla bontà degli interpreti, la settimana scorsa ho guardato La Famiglia Fang (The Family Fang), diretto nel 2015 dal regista Jason Bateman e tratto dal romanzo omonimo di Kevin Wilson.


Trama: i fratelli Annie e Baxter Fang sono due ex bambini prodigio che i genitori utilizzavano durante le loro famosissime performance di "sketch interattivi". Cresciuti con mille problemi, sono costretti a riallacciare i rapporti con i loro genitori solo per poi vederli scomparire, presumibilmente morti in un incidente stradale. Mentre Baxter accetta il triste destino toccato alla coppia, Annie si convince che l'incidente sia l'ennesimo sketch messo in piedi dai due e costringe il fratello ad indagare...



La famiglia Fang è uno di quei film potenzialmente interessanti, con tutte le carte in regola per piacere che, invece, si ammoscia e delude senza un perché. Non è una brutta pellicola La famiglia Fang, intendiamoci. La trama si concentra sulla strana vita di due ex bambini prodigio, "costretti" dai genitori a partecipare a spettacoli teatrali estemporanei, assai simili a delle candid camera, come Bambino A (Annie) e Bambino B (Baxter); le immagini della famiglia divertita, con i bambini allegri complici delle trovate dei genitori, fanno a pugni con l'alcoolismo in cui si è rifugiata Annie, attrice ormai in declino, e l'indigenza nella quale è costretto a vivere Baxter, scrittore privo di ispirazione. Proprio un incidente accorso a quest'ultimo spinge i membri della famiglia a ritrovarsi ma l'irriverenza artistica che caratterizzava le vecchie performance di Caleb e Camille (questi i nomi degli anziani genitori) si è ormai prosciugata in una costante, trita e deprimente ripetizione delle gag passate, aggravata dal cambiamento dei tempi e dalla palese incapacità di Caleb di affrontare la triste realtà dell'inevitabile declino artistico. La riunione di famiglia, funestata da litigi e risentimenti, dura poco perché Caleb e Camille, dopo essere partiti per un viaggio, scompaiono, lasciando supporre di essere stati vittime di un incidente conclusosi con un rapimento e, presumibilmente, la loro morte; Baxter accetta la cosa con rassegnazione mista a sollievo mentre Annie si convince che questa sia l'ennesima "bufala" ordita dai genitori, cosa che porta i due ad indagare. E' qui che il film si impantana nei suoi difetti perché, se è vero che il contrasto tra passato e presente è interessante quanto l'analisi fatta sul personaggio di Caleb e sulla natura dell'Arte, la parte "gialla" che costituisce l'ossatura della pellicola è priva di mordente, Annie e Baxter sono la quintessenza dello stereotipo del bambino prodigio cresciuto male e quel paio di personaggi di contorno sembrano quasi pretestuosi nella cieca fiducia che provano nei confronti delle opere dei Fang.


La trama del romanzo di Kevin Wilson richiama molto le atmosfere tanto care a Wes Anderson, tanto da rievocare spesso I Tenenbaum (Caleb e Camille sono due genitori terribili tanto quanto Royal Tenenbaum, hanno traumatizzato i figli, anzi continuano a farlo, eppure non capiscono di essersi comportati da egoisti e perseverano nei loro errori), tuttavia La famiglia Fang manca di stile per quel che riguarda scenografie, costumi e regia, salvandosi giusto nelle già citate sequenze ambientate nel passato. Jason Bateman come attore drammatico ha il suo perché, come produttore e regista è comunque coraggioso nel suo desiderare di mettersi alla prova, ma La famiglia Fang è sostenuta giusto da una bellissima colonna sonora, composta da Carter Burwell, e dalla splendida prova d'attore di Christopher Walken. Sarà perché il resto del cast non brilla (perlomeno la Kidman sembra meno rifatta del solito, è già qualcosa...) o sarà perché ultimamente al povero Walken toccavano solo comparsate di dubbio gusto in film sempre più maffi, bisogna dire che il personaggio di Caleb calza alla perfezione al sempre inquietante attore ed è uno dei ruoli migliori che lo hanno visto impegnato recentemente. Papà Fang è infatti una persona orribile che non esita a manipolare i suoi familiari per "amor d'Arte", imponendo drastiche scelte di vita persino alla moglie succube, e i dialoghi che lo vedono protagonista sul finale o durante il finto documentario che viene mostrato nel corso della pellicola sono agghiaccianti, al punto da stringere il cuore; la bravura di Walken è quella di farci scoprire la vera natura di Caleb attraverso improvvisi scatti d'ira che distruggono la facciata gioviale dell'uomo, costringendo non solo i suoi familiari ma soprattutto gli spettatori a provare le stesse sensazioni di spiacevole sorpresa sperimentate dal pubblico delle performance artistiche dei Fang. Onestamente, Walken è l'unico elemento che mi sento di salvare in toto all'interno di una pellicola dalla quale mi aspettavo ben di più, anche se ammetto che ora la curiosità di leggere il romanzo mi è venuta. Insomma, bene ma non benissimo. Provaci ancora, Bateman!


Del regista Jason Bateman, che interpreta anche Baxter Fang, ho già parlato QUI. Kathryn Hahn (Camille da giovane), Nicole Kidman (Annie Fang), Christopher Walken (Caleb Fang) e Harris Yulin (Hobart Waxman) li trovate invece ai rispettivi link.


Se La famiglia Fang vi fosse piaciuto recuperate I Tenenbaum. ENJOY!

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