venerdì 28 febbraio 2025

Il robot selvaggio (2024)

Ai tempi dell'uscita ne avevano parlato tutti benissimo. In occasione delle tre candidature (Miglior cartone animato, Miglior colonna sonora originale, Miglior sonoro), ho dunque recuperato Il robot selvaggio (The Wild Robot), diretto e co-sceneggiato nel 2024 dal regista Chris Sanders.


Trama: Un robot di ultima generazione viene abbandonato su un'isola popolata di animali. La programmazione del robot si troverà a dover interagire con imprevisti ed emozioni...


Come ho potuto perdermi questo trionfo al cinema? E' la domanda che mi sono fatta tra le lacrime di commozione alla fine de Il robot selvaggio, uno dei lungometraggi animati più provanti, a livello emotivo, tra quelli visti negli ultimi anni. Purtroppo, se non ricordo male, a tenermi lontana dalla sala è tata una terribile concomitanza di influenze e orari a misura bambino (come se il genere fosse adatto solo ai più piccoli...), ma poco male; certo, mi dispiace non aver goduto sul grande schermo delle splendide immagini de Il robot selvaggio, ma un bel film rimane bello anche visto in piccolo. E Il robot selvaggio è davvero bellissimo. La trama parte dalla perdita di un carico di robot su un isola deserta; il modello ROZZUM, in particolare, è stato progettato per servire gli umani facendosi carico, ogni volta, di compiti diversi da svolgere al meglio. Una direttiva semplice, quella di ROZZUM, ma ardua da mettere in pratica quando non ci sono umani nei dintorni e gli unici esseri viventi sono degli animali, ignoranti di fronte alla tecnologia e per nulla disposti a farsi "migliorare" la vita. Istinti atavici e naturali inimicizie si scontrano con la fredda logica, almeno finché l'unità robotica non si ritrova a darsi degli obiettivi per far sopravvivere un pulcino di oca, diventato orfano proprio per causa sua. Se non avete ancora avuto modo di guardare Il robot selvaggio non starei a fare altre anticipazioni sulla trama. Vi dico solo che la storia di ROZZUM, rinominata Roz, è una profonda, splendida storia di amore ed amicizia, in tutte le sue forme. Il messaggio del film non si lega "solo" ad un invito alla tolleranza e alla comprensione, ma all'impegnarsi affinché chi amiamo possa trovare un posto dove i suoi talenti possano venire sviluppati al meglio, anche a costo di fare un passo indietro e offrire il più grande dei doni, la libertà. Ne Il robot selvaggio i personaggi si lasciano alle spalle preconcetti legati a loro stessi e agli altri, e riescono a fare quel passo in più per uscire da un microcosmo fatto di paura e limitazioni, affiancando ad idee "favolistiche" (come quella di animali di specie diverse che imparano a convivere per non rendere vano lo sforzo di un "mostro") immagini molto adulte e reali di morte (lunga vita agli opossum e al loro concetto di maternità!), tristezza e dolore, con un happy ending che non è scontatissimo, benché contenga il sapore della speranza. 


Chris Sanders
, partendo dal libro illustrato di Peter Brown, prende il meglio dai capolavori che lo hanno elevato tra i maestri dell'animazione odierna, e confeziona un'altra poetica storia dove i personaggi fanno della diversità la loro forza. Benché non abbia nessuna caratteristica umana o animale, il robot Roz è incredibilmente espressivo, dotato di una gamma emotiva interamente rappresentata da luci, colori, movimenti ed inquadrature ad hoc, e il bestiario che gravita attorno alla protagonista ha un sembiante contemporaneamente realistico e molto accattivante, soprattutto la volpe Fink (adoro le volpi animate fin da quando ero bambina e questa, a mio parere, è una delle migliori viste su schermo). La cosa incredibile de Il robot selvaggio, nonché quella che più mi ha fatta pentire di non averlo visto l cinema, è il modo in cui riescono a fondersi, rispecchiando alla perfezione in senso della trama, la tecnologia 3D di animazione dei personaggi e e una tecnica di colorazione ed illuminazione dotata delle stesse caratteristiche della pittura a mano libera. I fondali e le scene ambientate nella foresta sono dotati di una ricchezza e una profondità unici, ed è interessante vedere come i colori e la texture di Roz cambino mano a mano che la programmazione viene meno e subentra l'istinto che rende il robot, per l'appunto, selvaggio e sempre più integrato ed accettato dalla natura che lo circonda. Il risultato sono scene di pura perfezione, quasi dei quadri in movimento, che toccano l'apice nella splendida sequenza delle farfalle, o quella della migrazione delle oche, ma per quanto mi riguarda ogni fotogramma del film è un piccolo capolavoro. Importantissima anche la colonna sonora di Kris Bowers, epica e commovente, e il parterre di splendide voci che danno vita ai singoli personaggi, riconfermando (come se ancora servisse) Lupita Nyong'o come una delle attrici migliori in circolazione, talmente brava da infondere una profondissima umanità a Roz, pur mantenendo intatte le sue caratteristiche di "freddo" robot. Non ho ancora guardato Flow, e sapete quanto sia parziale verso i gatti, quindi non sono sicura che non lo preferirei a Il robot selvaggio; a prescindere, il film di Sanders è comunque un capolavoro che merita più di una visione, coi bambini ma anche da soli, così c'è meno vergogna a piangere senza ritegno!!


Del regista e co-sceneggiatore Chris Sanders ho già parlato QUI. Lupita Nyong'o (Roz / Rummage), Pedro Pascal (Fink), Kit Connor (Beccolustro), Bill Nighy (Collolungo), Ving Rhames (Fulmine), Mark Hamill (Spina) e Catherine O'Hara (Codarosa) li trovate invece ai rispettivi link.


Se Il robot selvaggio vi fosse piaciuto recuperate Il gigante di ferro, Lilo & Stitch e Wall.E. ENJOY!

mercoledì 26 febbraio 2025

Wallace e Gromit: Le piume della vendetta (2024)

Tra gli Oscar per il miglior lungometraggio animato non poteva mancare Wallace e Gromit: Le piume della vendetta (Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl), diretto nel 2024 dai registi Nick Park (anche co-sceneggiatore) e Merlin Crossingham.


Trama: in un impeto di pigrizia inventiva, Wallace crea uno gnomo tuttofare per aiutare Gromit in giardino. Ma un vecchio nemico trama per impadronirsi di questa nuova tecnologia e vendicarsi...


Correva l'anno 1999 e, durante la programmazione di Natale, Italia 1 mandò in onda il corto I pantaloni sbagliati, il mio primo incontro con la premiata ditta Wallace e Gromit. Nonostante fosse un cortometraggio assai ironico, quello che ricordo ancora oggi de I pantaloni sbagliati è la terrificante atmosfera thriller che si respirava per tutta la sua breve durata, grazie a un personaggio che sembrava uscito dritto da un episodio di Leone cane fifone, ovvero il muto, inquietantissimo pinguino Feathers McGraw. E' passato un quarto di secolo dall'esordio del criminale pennuto (in Italia. In realtà, il film è stato fatto uscire per celebrare i trentacinque anni de I pantaloni sbagliati), ma il personaggio dev'essere rimasto nel cuore dei fan e di Nick Park, perché eccolo tornare ad esigere vendetta nel secondo lungometraggio dedicato a Wallace e Gromit, distribuito direttamente da Netflix. Loro, al cinema, li avevamo lasciati alle prese con i conigli mannari, nell'altrettanto lontano 2005 e, nel frattempo, la storica pigrizia di Wallace è aumentata, al punto da aver creato persino una macchina per dispensare carezze al povero Gromit. Il punto di non ritorno di questa dipendenza totale dalla tecnologia, triste specchio della nostra società odierna, è l'invenzione di un nano da giardino in grado di sbrigare qualsiasi lavoro, Norbot. Nonostante le buone intenzioni di Wallace, Norbot sconvolge la vita "analogica" di Gromit, povero cane che, almeno in giardino, vorrebbe rilassarsi e tornare ad avere contatti naturali, se non umani. Ancor peggio, come accade nei migliori film di fantascienza, la tecnologia può venire facilmente corrotta dalle mani di un genio votato al male, ed è ciò che accade quando Feathers McGraw, condannato all'ergastolo all'interno di uno zoo, decide di sfruttare Norbot per vendicarsi, finalmente, di chi lo ha mandato al fresco. Non vi spoilero gli sviluppi di questo interessante canovaccio ma, se siete un minimo abituati alle avventure del dinamico duo, sapete già cosa vi aspetta: un'ora e mezza di goffaggine umana, astuzia canina, pericoli, azione e tanto, tantissimo umorismo inglese, con l'unico grande difetto di una durata brevissima a fronte di un'attesa ventennale. Purtroppo, queste sono le gioie e i dolori dell'adorata stopmotion.


Come sempre accade davanti a questo tipo di opere, durante la visione di Wallace e Gromit: Le piume della vendetta non si può fare altro che ammirare in silenzio la perfezione certosina di una tecnica che costringe gli animatori a lavorare un giorno intero per ottenere qualche secondo di metraggio, e che, nonostante ciò, dà l'illusione che i personaggi sullo schermo godano di vita propria. Di più, i lungometraggi di Wallace e Gromit trasudano inside joke e dettagli esilaranti che non vengono affidati ai dialoghi, ma sono lì sullo sfondo, nelle scenografie, pronti ad essere colti da occhi attenti e meravigliati. Vero è che, stavolta, si è preferito evitare le scene troppo affollate e i realizzatori hanno preferito concentrarsi sul design di pochi personaggi (facendosi aiutare da stampanti 3D per un aspetto della trama legato a Norbot), ma, considerato che Wallace e Gromit: Le piume della vendetta avrebbe dovuto essere un corto, e che l'azienda produttrice della plastilina utilizzata ha chiuso due anni fa, una grandeur minore rispetto a La maledizione del coniglio mannaro è comunque grasso che cola. Fantastica anche la regia, ovviamente. Le atmosfere horror che tanto mi avevano elettrizzata ai tempi de I pantaloni sbagliati non sono venute meno (Norbot a un certo punto sembra la scimmia di King, e la suora sembra uscita dritta da l'Esorcista III), ma i cinefili, come sempre, hanno di che gioire. Tra Scorsese e il suo Cape Fear, Terminator, James Bond e Batman Returns, le citazioni cinematografiche si sprecano, arrivando a toccare non solo aspetti macroscopici come l'iconografia dei titoli citati, ma riproponendo persino il taglio delle inquadrature, la colonna sonora e l'illuminazione. Come facciano Nick Park e soci, al ritmo di un minuto di girato alla settimana, a tenere uniti tutti gli elementi che fanno di questi film dei capolavori, devo ancora capirlo; ma la cosa importante è che non smettano mai di regalare al mondo gioiellini come Wallace e Gromit: Le piume della vendetta!


Del co-regista e co-sceneggiatore Nick Park ho già parlato QUI

Merlin Crossingham è il co-regista della pellicola. Inglese, è al suo primo lungometraggio. E' anche doppiatore, animatore e sceneggiatore. 


Se Wallace e Gromit: Le piume della vendetta vi fosse piaciuto, recuperate innanzitutto il corto I pantaloni sbagliati, anzi, guardatelo prima del film. Proseguite poi con Wallace & Gromit: La maledizione del coniglio mannaro e coi corti Una fantastica gita, Una tosatura perfetta e Questione di pane o di morte, assieme a Shaun, vita da pecora - Il film e Shaun, vita da pecora: Farmageddon - Il film. ENJOY!

martedì 25 febbraio 2025

Wallace & Gromit: La maledizione del coniglio mannaro (2005)

Con l'uscita su Netflix e la nomination ai Golden Globes del nuovo film dedicato a Wallace e Gromit, ho riguardato assieme al Bolluomo Wallace & Gromit: La maledizione del coniglio mannaro (Wallace & Gromit: Curse of the Were-Rabbit), diretto e sceneggiato dai registi Nick Park e Steve Box nel 2005.


Trama: Wallace e Gromit, proprietari di una ditta di disinfestazione caritatevole, si ritrovano per le mani un'enorme gatta da pelare, quando un coniglio mostruoso minaccia di far razzia della verdura di tutti i cittadini, alla vigilia del Concorso di Verdura Gigante...


Sono già passati 20 anni dalla visione al cinema di Wallace & Gromit: La maledizione del coniglio mannaro. 20 anni durante i quali, benché mi fiondi sempre sui cartoni animati in stop motion, non ricordo di avere mai rivisto i due personaggi in qualche corto o film, anche se di opere a loro dedicate ne sono uscite. Avevo quindi paura di conservare un ricordo positivo alterato dal tempo, come spesso succede, ed ero un po' restia a rivedere col Bolluomo quella che, ai suoi occhi, avrebbe potuto essere una cretinata per bambini. Ovviamente, e per fortuna, mi sbagliavo. Wallace & Gromit: La maledizione del coniglio mannaro riprende le due fortunate creature di Nick Park, l'inventore mangiaformaggio Wallace e il cane Gromit, inserendole all'interno di un lungometraggio che mantiene i toni scanzonati ma anche le atmosfere sottilmente inquietanti dei corti che lo hanno preceduto, soprattutto quelle de I pantaloni sbagliati. Le rispettive personalità dei protagonisti si inseriscono alla perfezione all'interno di una storia che più horror non si può, il trionfo dei cliché del genere, con un mostro vegetariano pronto a sconvolgere una cittadina di agricoltori, dove l'onore più grande è quello di vincere il Concorso di Verdura Gigante. Wallace, pigro e fessacchiotto ma fondamentalmente buono, è la fucina continua di idee che genera le invenzioni più strampalate, fantastiche sulla carta e dannose all'atto pratico, mentre il povero Wallace è la muta voce della ragione, spesso ignorata in quanto proveniente dall'eloquente sguardo di un cane. Combinati all'elemento horror, e all'aggiunta di un parterre di personaggi spassosissimi (Quatermaine e Lady Tottington sono due esilaranti estremizzazioni di tipici comprimari horror e senza di loro il film non funzionerebbe, ma il mio cuore è volato al prete e all'isteria con la quale si ritrova a gestire la crisi mannara), tutti questi elementi danno vita a un film perfetto per bambini e adulti, un'avventura piena di ritmo che non offre il fianco nemmeno a un istante di noia, condita da un pizzico di umorismo british che da il meglio goduto nella versione in lingua originale. 


Per quanto riguarda l'aspetto tecnico, si rasenta la perfezione. Nick Park già all'epoca aveva fatto ricorso alla CGI (in primis per il "volo" dei conigli ma anche nel corso del finale, modificato perché il regista non era soddisfatto del primo risultato), ma il suo è un utilizzo intelligente, atto a far risparmiare agli animatori settimane di modifiche al posizionamento dei pupazzi, e, soprattutto, è un utilizzo mai invasivo né percettibile, perché il cuore del film è la stop-motion. Pensare al miracolo di una tecnica simile, all'incessante, certosino lavoro che c'è dietro, vedere che non esistono sbavature nei movimenti dei personaggi e nelle sequenze più concitate od affollate, mi lascia sempre a bocca aperta per l'ammirazione. La presenza dei segni delle impronte digitali sul muso di Gromit, nei primi piani, per me non è un difetto, ma l'importantissima testimonianza del lavoro manuale degli animatori, della natura artigianale di quella che può essere ben definita un'opera d'arte; sempre parlando di Gromit, è incredibile il modo in cui i realizzatori siano riusciti a renderlo espressivo, a convogliare la mancanza di dialoghi in un linguaggio corporeo assolutamente comprensibile. Ammirevole, ovviamente, anche il character design. Tolto che i coniglietti, con quel loro "weee", sono il trionfo della pucciosità, sfido chiunque a non voler infilare le mani nelle cicce pelosissime del coniglio mannaro; passando, poi, agli esseri umani, tutti gli abitanti del paesino hanno peculiarità distintive e il guardaroba di Lady Tottington, sempre in tema con qualche verdura, è da antologia. Fossi in voi, quindi, approfitterei dell'uscita di Le piume della vendetta per recuperare questo gioiello animato, se non lo avete mai visto, o per riguardarlo e immergervi in un'opera che non ha perso smalto nemmeno dopo 20 anni!

 


Di Ralph Fiennes (voce originale di Victor Quartermaine), Helena Bonham Carter (Lady Campanula Tottington) e Mark Gatiss (Miss Blight) ho già parlato ai rispettivi link.

Nick Park è il co-regista e co-sceneggiatore del film, nonché creatore dei personaggi Wallace e Gromit, dei quali ha diretto ogni corto (gli episodi delle serie TV sono invece stati affidati ad altri registi). Ha diretto anche i film Galline in fuga e I primitivi. Anche produttore, animatore e attore, ha 67 anni. 


Steve Box
è il co-regista e co-sceneggiatore della pellicola. Inglese, era al suo primo e, finora, unico lungometraggio. Anche animatore e produttore, ha 58 anni.


Se Wallace & Gromit: La maledizione del coniglio mannaro vi fosse piaciuto, recuperate ovviamente tutti i corti dedicati al dinamico duo: Una fantastica gita, I pantaloni sbagliati, Una tosatura perfetta e Questione di pane o di morte. Aggiungerei anche Shaun, vita da pecora - Il film e Shaun, vita da pecora: Farmageddon - Il film. ENJOY!

venerdì 21 febbraio 2025

The Girl With the Needle (2024)

Uno dei candidati all'Oscar come miglior film straniero è The Girl With The Needle (Pigen med nålen), diretto e co-sceneggiato nel 2024 dal regista Magnus von Horn.


Trama: Karoline, il cui marito è da tempo disperso al fronte, lavora all'interno di una fabbrica di tessuti. La sua vita, già di per sé non facile, cambia quando il padrone della fabbrica si invaghisce di lei e la mette incinta, per poi abbandonarla...


Tratto da una tremenda storia vera, The Girl With the Needle è il triste, lucidissimo ritratto della condizione della donna in Danimarca all'inizio del '900, a cavallo della prima guerra mondiale. La storia (che prenderà tutta un'altra piega che non vi sto a spoilerare) segue l'esistenza precaria di Karoline, un'indesiderata che si arrabatta come può per sopravvivere. Arrabattarsi, però, non vuol dire che la protagonista sia una prostituta, o una criminale; Karoline lavora in fabbrica per un pugno di spiccioli che non le bastano per vivere in un appartamento dignitoso, e non può ottenere il sussidio di vedova perché, di fatto, il marito non è morto in guerra, ma risulta da anni disperso al fronte. In realtà, più che indesiderata come ho scritto sopra, Karoline è invisibile agli occhi della società. Non è qualcosa di cui sbarazzarsi, ma non è neppure un elemento importante, e, forse, se non ci fosse ci sarebbe più spazio per consentire ad altri nella sua stessa condizione di sopravvivere meglio. Un barlume di speranza le arriva quando il padrone della fabbrica si invaghisce di lei, scegliendola tra tante sue colleghe, ma si tratta solamente dell'ennesima spinta verso il baratro: tenuto per le palle dalla madre, una nobildonna dal pugno di ferro, il padrone disconosce in un secondo tutte le promesse di matrimonio e paternità, lasciando Karoline senza lavoro, con un figlio a carico e, per di più, con un marito (nel frattempo tornato a casa) sfigurato e vittima di pesanti sintomi di stress post traumatico. Ce ne sarebbe abbastanza per sconfortare un santo, e Karoline non lo è. Lucida ed egoista, la protagonista di The Girl With the Needle non è un personaggio positivo, o una damsel in distress, ma è figlia della sua condizione e della società in cui vive. Lo stesso vale per Dagmar, la donna alla quale Karoline si rivolge per dare un futuro migliore alla propria figlia, e con la quale instaura un rapporto complesso, stratificato, che diventa il cuore stesso del film. Non mi va di elaborare oltre, per non togliere la sorpresa a chi dovesse ancora vedere The Girl With the Needle, ma qualcosa vorrei dirla ancora, sulla trama. Il film di Magnus von Horn è freddo e diretto, evita ogni tipo di sensazionalismo o presa di posizione, non si dilunga sugli aspetti macabri della vicenda ma va dritto al punto, senza fare sconti a uno spettatore che si ritrova coinvolto in questa vicenda talmente orribile da non sembrare neppure umana. Eppure, i protagonisti sono umanissimi, e il contesto è così realistico che, a volte, sembra quasi di vedere un documentario sulla strenua lotta di una donna per sopravvivere senza diventare un mostro, con sprazzi di luce che si incontrano nei luoghi più impensati, quelli dove la disperazione dovrebbe farla da padrone.


A proposito di luce, Michał Dymek alla fotografia fa un lavoro stupendo, impreziosendo The Girl with the Needle con un bianco e nero splendido, espressionista, che sembra tirare fuori il film da un'altra epoca. Le strenue lotte psicologiche dell'espressionismo tedesco sono richiamate anche da momenti in cui sequenze oniriche entrano, a gamba tesa, a stravolgere ancor più una realtà insostenibile; nelle scene introduttive, bocche, occhi, mani e volti si sovrappongono gli uni sugli altri a creare immagini di sofferenza e disagio, come persone che volessero fuggire dai corpi e dalla realtà, invano. La fuga dalla realtà, la liberazione nella morte, la speranza che si infrange contro un orrore ancora più grande, sono temi che ricorrono per tutto il film e si esprimono nello sguardo stranito della bravissima Vic Carmen Sonne, che interpreta Karoline. Gli occhi, neri ed enormi, dell'attrice, sembrano rivolgere una muta accusa allo spettatore, esprimono lo sconcerto di una donna ormai arrivata a un punto di rottura, stanca di sperare in una vita migliore o anche solo di provare ad andare avanti. Nonostante Karoline sia un personaggio oggettivamente rozzo e poco affascinante (gli stessi aggettivi coi quali definirei l'ambientazione del film, perché il regista non cerca di ammorbidire nulla, a livello di contenuti o immagini), c'è in lei della poesia, la stessa che si può trovare nella ferocia di Dagmar e, ancor più, nella figura spezzata di Peter, freak al quale la guerra ha tolto tutto tranne la capacità di accettare ed accogliere i "peccati" altrui. The Girl with the Needle non è un film facile né accattivante, e, onestamente, non capisco come abbia fatto ad essere accettato dall'Academy, con tutti i compitini innocui presenti in gara quest'anno. Non è un horror, ma usa il linguaggio tipico del genere, e getta in pasto allo spettatore vicende orrende, verosimili, senza un briciolo di compiacimento, costringendolo a farsi moltissime domande scomode. E' un film difficile da riguardare, ma anche da dimenticare, per questo ve lo consiglio. Lo trovate su Mubi, siete ancora in tempo ad abbonarvi per tre mesi al prezzo di un euro.

Magnus von Horn è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Svedese, ha diretto film come The Here After. Anche attore, ha 42 anni.



mercoledì 19 febbraio 2025

2025 Horror Challenge: Grafted (2024)

Siccome questa settimana la challenge prevedeva di scegliere un film a caso, spinta da molte recensioni positive, ho recuperato Grafted, uscito di recente per la piattaforma Shudder, diretto e co-sceneggiato nel 2024 dalla regista Sasha Rainbow.


Trama: dopo la morte del padre, scienziato specializzato in trapianti di pelle, Wei si trasferisce dalla zia in Nuova Zelanda e prova a portare avanti gli studi del genitore. L'astio della cugina e delle compagne di scuola, però, la costringeranno a ricorrere a drastiche, sanguinose misure....


Grafted
è una buona opera prima, che si inserisce nel genere del body horror e cerca di dire la sua sul disagio dell'adolescenza, il desiderio di possedere la bellezza per poter fare parte di un gruppo ed integrarsi. La protagonista, Wei, è figlia di uno scienziato morto in circostanze tragiche nel tentativo di perfezionare una tecnica rigenerativa della pelle. Come il padre, Wei ha il collo e parte del viso deturpati da una voglia scura, per questo vorrebbe proseguire le ricerche del genitore e avere, finalmente, un aspetto "normale". Per sua sfortuna, Wei è costretta ad andare ad abitare in Nuova Zelanda dalla zia (che, guarda un po', tratta prodotti di bellezza. In realtà, la cosa non influenza minimamente la trama, ed è un peccato) e frequentare una prestigiosa università con l'odiosa cugina e le sue amiche. Vero, la protagonista è un po' sfigatella, appende in camera foto discutibili ed è troppo "cinese" per l'ambiente in cui vive, ma fondamentalmente viene vessata senza motivo dalla cugina e dalla bimbo bionda che si porta appresso; in più, le ricerche vanno a rilento e ci si mette anche il laido professore di scienze a metterle i bastoni tra le ruote. Nonostante l'offerta di amicizia di Jasmine (outsider anche lei ma perfettamente integrata) e l'empatia di un senzatetto deforme, Wei a un certo punto sbrocca e commette un omicidio. Da lì in poi, Grafted diventa il frenetico tentativo di arginare una diga piazzandoci, letteralmente, dei tapulli ben poco resistenti; il desiderio di liberarsi della deformità si mescola in maniera inestricabile alla necessità di nascondere peccati sempre più grandi, e il risultato è che la mente già fragile di una ragazza poco più che adolescente va in frantumi, divorata da quella stessa bruttezza esteriore che mai, prima, l'aveva forzata ad essere brutta anche dentro. Niente di nuovo sotto il sole, come vedete, e Grafted patisce un po' l'inesperienza dei coinvolti e alcune forzature nella sceneggiatura, risultando più superficiale di quanto fosse nelle intenzioni degli autori; empatizzare con Wei e capirla non è difficile, ma i suoi antagonisti sono eccessivamente stereotipati e ogni twist intraprende la strada più banale possibile, sorprendendo giusto sul finale, gettato via troppo in fretta.


La cosa buona di Grafted è che non si trattiene dal punto di vista del gore. Tra scalpelli che affondano, automutilazioni e facce scarnificate, ce n'è un po' per tutti i gusti, e l'uso creativo che Wei fa dell'invenzione di suo padre consente alla regista e ai tecnici degli effetti speciali di divertirsi parecchio. Proprio l'"uso creativo" di cui sopra, richiede più del minimo impegno sindacale anche alle attrici protagoniste, soprattutto alla bellissima Eden Hart e a Jess Hong, entrambe aiutate da un make-up che le rende "sporche", sudaticce e sciatte. Joyena Sun, che interpreta Wei, è forse più acerba delle sue colleghe, e sarà difficile che possa marchiare a fuoco la memoria degli appassionati come la Angela Bettis di May o la Katharine Isabelle di American Mary, ma anche lei passa da un'interpretazione trattenuta e timida a dar sfogo a tutta la bruttezza "assorbita" dagli stronzi che la circondano, e nel complesso l'ho trovata una valida protagonista. Ho molto apprezzato anche la fotografia pop, zeppa di colori "girlie" ma anche pronta a virare nei toni cupi di un incubo, e un paio di trovate a livello di scenografia, in primis la terrificante, squallidissima casa incompleta della zia di Wei, zeppa di nylon e pertugi dove poter nascondere la qualunque; anche in questo caso, probabilmente la casa poteva venire utilizzata meglio e in maniera più fantasiosa, ma è comunque un ottimo tocco weird all'interno di un film che ne è pieno. Nel complesso, se vi piace il genere, Grafted è un film simpatico, che vi consiglio di recuperare, magari continuando la visione anche durante i titoli di coda, ravvivati da una trovata perfetta per gli assidui frequentatori del sito Does the Dog Die?  

Sasha Rainbow è la regista e co-sceneggiatrice della pellicola, al suo primo lungometraggio. Americana, è anche produttrice.


Se Grafted vi fosse piaciuto recuperate The Substance, May e American Mary. ENJOY!

martedì 18 febbraio 2025

September 5 - La diretta che cambiò la storia (2024)

La settimana scorsa è uscito in Italia uno dei candidati alla Miglior sceneggiatura originale, ovvero September 5 - La diretta che cambiò la storia (September 5), diretto e co-sceneggiato nel 2024 dal regista Tim Fehlbaum.


Trama: durante i giochi olimpici di Monaco, del 1972, la troupe di ABC Sports si ritrova a dover raccontare in diretta l'attacco terroristico palestinese ai danni della squadra israeliana...


Probabilmente non avrei mai guardato September 5 se non fosse stato per la candidatura a miglior sceneggiatura originale. Per evitarvi di commettere il mio stesso errore, vi dico subito che September 5 è invece un film dignitoso e molto interessante, un thriller "da camera" tratto da una terribile (e, purtroppo, incredibilmente attuale) storia vera. L'attentato terroristico accorso durante le Olimpiadi di Monaco del 1972 era già il tema portante del film Munich, ma September 5 si concentra su ciò che accadde "dietro le quinte", all'interno del quartier generale di ABC Sports, quando la troupe incaricata di seguire gli eventi sportivi riuscì a raccontare in diretta, tramite una trasmissione entrata nella storia, la tragica vicenda degli undici ostaggi israeliani. L'aspetto interessante di September 5 è proprio l'idea di raccontare gli eventi da un punto di vista "esterno", attraverso una narrazione costruita, minuto dopo minuto, da informazioni raccolte in tempo reale, non perfette né attendibili. I giornalisti dell'emittente, tra cui un capo della sala di regia alla sua prima esperienza o quasi, si ritrovano combattuti tra emozioni umanissime come terrore, preoccupazione e tristezza, e il desiderio di portare a casa lo scoop della vita, destreggiandosi all'interno di un codice deontologico (tenendo in conto anche il rispetto degli spettatori e delle vittime coinvolte) che lascia ben poco margine ad errori o riflessioni. Il risultato sono 94 minuti di pura tensione, fatti di decisioni rapide, silenzi carichi di attesa, telefonate risolutive e angoscianti sguardi su una situazione esterna che si fa sempre più complessa, anche in virtù dell'importanza sempre più grande della TV e delle trasmissioni internazionali (il momento in cui la troupe si accorge che le riprese in diretta vengono viste anche dai terroristi è agghiacciante); la surreale trasformazione di una "banale" giornata di giochi olimpici in un incubo, con Berlino che torna ad essere una zona di guerra dopo trent'anni, è enfatizzata dalle immagini di archivio che, lungi dall'offrire allo spettatore un resoconto completo e chiaro della vicenda, mostrano squarci di (ir)realtà riprese dalle angolazioni più improbabili e filtrate dalla voce, calma e controllata, dell'anchorman di turno. A fronte di tutto ciò che accade fuori, il fatto che September 5 sia quasi interamente girato all'interno del quartier generale di ABC Sports rende la vicenda ancora più claustrofobica, nonché più interessante l'approfondimento psicologico dei personaggi.


September 5
è un film molto dialogato, la sceneggiatura introduce tantissimi argomenti, anche di ordine politico ed ideologico; visto in originale, è persino un po' difficile da seguire, anche perché i tecnici del suono hanno fatto un lavoro egregio, arricchendo le riprese ravvicinate dei vari punti della sala di controllo con conversazioni in sottofondo, trasmissioni di altre emittenti, telefonate e così via. Ciò nonostante, i vari protagonisti hanno modo di spiccare, ognuno in base ai loro ruoli, responsabilità e personalità, così come alcuni legami che intercorrono tra gli stessi, tra tensioni linguistico-razziali o, banalmente, legate alla gerarchia presente nella sala di regia. Fortunatamente, gli attori sono tutti molto bravi ed affiatati. Tra tutti, spicca John Magaro, nei panni del giovane produttore gettato nella mischia e costretto a prendere decisioni drastiche e tempestive, con tutti i dubbi derivati dalla sua inesperienza (nonché l'enorme onere/onore capitatogli tra capo e collo), punta di un triangolo di interpretazioni che è il cuore del film. Agli altri capi ci sono la favolosa Leonie Benesch, il nemico "tedesco" che diventa indispensabile ponte per superare la barriera linguistica, offrendo uno sguardo meno tecnico e più umano non solo sulla vicenda del film ma anche sulla tragedia che si svolge all'esterno, e il Marvin Bader di Ben Chaplin, la cui famiglia è stata distrutta dall'Olocausto e, probabilmente, più di ogni altro capisce quanto la trasmissione e gli eventi del 5 Settembre rischino di influenzare una situazione internazionale precaria. L'unico difetto di September 5, oltre al fatto che, come ho scritto su, rischia di sovraccaricare lo spettatore al punto da costringerlo a distogliere l'attenzione per sopravvivere all'abbondanza di informazioni, è forse la resa "transitoria" della storia che narra. Certo, il pubblico un minimo intelligente capisce da sé quanto un reportage come quello della ABC Sport abbia cambiato il modo di fare giornalismo in TV, e per il resto basterebbe aprire un libro di storia; tuttavia, forse, il film potrebbe risultare un po' superficiale per gli spettatori più esigenti, che potrebbero non apprezzare l'attenzione rivolta quasi esclusivamente all'effetto thriller e al montaggio serrato della pellicola. Io, che mi accontento di poco, l'ho apprezzato più di quanto credessi, quindi non posso fare altro che consigliarvelo, se lo trovate in sala!


Di Peter Sarsgaard (Roone Arledge), John Magaro (Geoffrey Mason) e Ben Chaplin (Marvin Bader) ho già parlato ai rispettivi link.

Tim Fehlbaum è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Svizzero, ha diretto film come The Colony e Apocalypse. Anche direttore della fotografia, produttore e attore, ha 43 anni.


Leonie Benesch
, che interpreta Marianne, era la protagonista del bellissimo La sala professori. Se September 5 - La diretta che cambiò la storia vi fosse piaciuto, recuperate Munich, The Post e Il caso Spotlight. ENJOY!

venerdì 14 febbraio 2025

Anora (2024)

Il primo recupero eccellente fatto in vista degli Oscar è stato Anora, diretto e sceneggiato dal regista Sean Baker nel 2024, candidato a 6 statuette: Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Attrice Protagonista, Miglior Attore Non Protagonista, Miglior Sceneggiatura Originale, Miglior Montaggio. Quale film migliore per augurare, a chi ci crede, buon San Valentino?


Trama: Ivan,  figlio di un oligarca russo, si invaghisce di Ani, ballerina ed escort in un locale di spogliarelliste. Dopo settimane di sesso e divertimenti, i due si sposano, ma la famiglia di Ivan si mette in mezzo...


Quella di Anora è la storia più vecchia del mondo. Lui, ricchissimo, incontra lei, poverissima, e scatta l'amore, ovviamente contrastato. Ma se Anora fosse davvero tutto qui, non sarebbe un film di Sean Baker, attento indagatore del mondo dei sex worker e, soprattutto, delizioso cantore di storie umane fatte di personaggi imperfetti, squallidi e "brutti". Di ragazze che, come già la Halley di Un sogno chiamato Florida, sono state costrette a crescere fisicamente pur rimanendo immature, facendo della loro disnibita bellezza un mezzo per poter portare a casa quanti più soldi possibili e fare un po' di bella vita, dimenticando la loro condizione di squallore almeno per qualche istante. Di Ani sappiamo poco o nulla, solo che ha origini russe e che rifiuta di usare il suo vero nome, Anora. Si è costruita una nuova identità, rifiutando il passato e smettendo di guardare al futuro, vivendo un eterno presente fatto di ricchi ubriaconi che la palpeggiano. Finché, un giorno, arriva Ivan. Giovane, bello (?), scemo e, soprattutto, sfondato di soldi. Dopo un paio di incontri, Ivan propone ad Ani di diventare la sua Pretty Woman, la sua ragazza per due settimane, un'ultima botta di vita americana, prima di tornare in Russia a lavorare per papà. Segue un periodo frenetico di feste, lussi ed eccessi, di sesso da ragazzini e giornate spensierate, finché non scatta la proposta di matrimonio, offerta ed accettata per motivi diametralmente opposti. Forse Ani comincia a pensare al futuro, a quanto sarebbe bello vivere per sempre un'esistenza libera da pensieri con un babbeo sostanzialmente innocuo, da prendere per mano e formare, anche nel sesso. Forse Ani comincia a pensare di amarlo, lei che l'amore non lo conosce affatto. Non lo sapremo mai, perché, alla notizia del matrimonio, la madre di Ivan sbrocca e manda un improbabile trio di galoppini a far rinsavire il figlio. Il film si trasforma: da commedia romantica fatta ad uso e consumo della Gen Z senza valori diventa un grottesco, esilarante emulo dei migliori film dei Coen. Se prima, infatti, Ivan scopava come un coniglio, di fronte alle minacce di mammà pensa bene di scappare come una lepre, costringendo Ani a far comunella con tre detestabili sconosciuti per ritrovare il fuggiasco e salvarsi matrimonio e futuro.


Se Anora fosse solo questo, però, per quanto divertente, sarebbe davvero poca cosa. E' l'ultimo atto del film che regala la chiave di lettura dell'intera opera, che apre gli occhi alla protagonista, le mostra quella "luce" nascosta all'interno del significato del nome da lei rifiutato. E' qualcosa che si fa strada a poco a poco e che rischia di perdersi, nella frenesia di abiti, gioielli, clienti, sesso, canzoni di volgarità inaudita, perché è piccolo e non eclatante, silenzioso e defilato. In maniera graduale, Anora si rivela un coming of age coi fiocchi, la storia di una ragazza che impara, se non cosa sia l'amore, almeno a percepire la mancanza di "qualcosa", che è andato perduto nella convinzione di essere solo un bellissimo pezzo di carne e di poter fare strada proprio grazie a questa fortuna. E, come ogni rivelazione importante, la consapevolezza è dolorosa. Il finale silenzioso di Anora arriva come la fine di una guerra, quando il giovane soldato entusiasta sopravvive a mille battaglie e mille trionfi, per ritrovarsi stremato, spogliato dell'innocenza, a contare i morti e pensare che, forse, ciò per cui aveva combattuto fino a quel momento non contava nulla; il soldato guarda il mondo con occhi nuovi, arriva a capire ciò che aveva sempre ignorato e, conseguentemente, disprezzato, sentendosi mortificato da quanto ci sia voluto per afferrare cose all'apparenza semplici. E' un finale che arriva con la stessa potenza di quello di Un sogno chiamato Florida, a strizzare il cuore di uno spettatore che si è innamorato di Ani per la sua caparbietà, la sua natura triviale e volgare, persino per la sua stupidità, e vorrebbe abbracciarla come chi è stato a lungo ad osservarla in silenzio, vedendo oltre le apparenze, sopportando insulti ed illazioni. In questo, Igor somiglia moltissimo al Bobby di Un sogno chiamato Florida. I suoi occhi (occhi da "stupratore", come gli rinfaccia rabbiosa Ani, lei che non riesce a staccarsi dall'idea che il sesso sia l'unico modo che hanno gli uomini di rapportarsi a lei) scorgono spiriti affini, non li giudicano, li sostengono per come possono con piccoli gesti di immensa dolcezza e umanità. Magari non risolveranno tutti i problemi, ché anche Igor, come Bobby, non è un supereroe, ma almeno restituiscono la dignità a chi ha dimenticato persino di averla.


La regia di Sean Baker muta seguendo le varie anime del film. Ai grandangoli, i momenti videoclippari e il montaggio frenetico del primo atto, zeppo di sequenze che faranno piangere di gioia gli orfani del Badabing! de I Soprano, seguono immagini concitate degne di un action "da camera", quando Igor, Taros e Garnik scoprono a loro spese cosa significhi avere un uragano di nome Ani intrappolato in un ambiente chiuso. Fa capolino anche lo stile guerrilla, durante la ricerca di Ivan, la cui foto viene mostrata ad ignari clienti di vari ristoranti e locali, ripresi di nascosto, ma tutto si attenua (martellante colonna sonora compresa) sul finale, dove il freddo di una neve "russa" avvolge le luci e i suoni di una New York grigia, invernale. A differenza degli altri film di Baker, la palette di colori è molto più ridotta, proprio per rispettare la stagione in cui è ambientato Anora, ma tutto viene vivacizzato sia dai fili brillanti che decorano i bellissimi capelli di Mikey Madison, sia da pennellate di rosso (la sciarpa della protagonista, fondamentale protagonista di momenti topici) e blu, due colori che si alternano negli abiti e negli oggetti associati ad Ani e Ivan. Ai due protagonisti mi collegherei per parlare degli attori, ma non saprei cosa dire, salvo che ogni membro del nutrito cast è perfetto, indispensabile alla riuscita del film, soprattutto perché a quasi tutti gli interpreti principali è chiesto di fare evolvere i loro personaggi sfidando cliché e prime impressioni. L'esempio più clamoroso di quanto affermo è Yura Borisov, figura di sfondo, semplice gregario che diventa, a poco a poco, la chiave di volta di Anora, facendosi strada nel cuore del pubblico (a parte che io mi sarei portata a casa tutti e tre i "marmittoni", in primis l'esilarante Toros). Quanto a Mikey Madison, già bucava lo schermo in Scream, ma qui regge sulle spalle tutta la pellicola, calamitando lo sguardo dello spettatore non solo per la sua innegabile, sensualissima bellezza (maledetta!), ma anche per la sensibilità nell'interpretare un personaggio molto più sfaccettato di quello che appare all'inizio. Lo avevate detto tutti che Anora era un trionfo, ma dopo le mezze delusioni di Emilia Pérez e, ancora prima, di Povere creature!, ci sono andata molto coi piedi di piombo, e mi sono dovuta ricredere! Agli Oscar tiferò, sempre ed inutilmente, The Substance, ma se, per miracolo, Anora facesse incetta di premi importanti, saltellerò di felicità!


Del regista e sceneggiatore Sean Baker ho già parlato QUI.

Mikey Madison interpreta Anora. Americana, ha partecipato a film come C'era una volta a... Hollywood e Scream. Ha 26 anni.


Yura Borisov
interpreta Igor. Russo, ha partecipato a film come Kapitan Volkonogov bezhal, AK-47 - Kalashnikov e Scompartimento n.6. Ha 33 anni e due film in uscita. 


Karren Karagulian
, che interpreta Toros, ha partecipato a tutti i film finora diretti da Sean Baker... e vi direi di recuperarli, se vi è piaciuto Anora! ENJOY!

mercoledì 12 febbraio 2025

2025 Horror Challenge: Quando chiama uno sconosciuto (1979)

Non penso teniate conto dei progressi della challenge horror ma, nel caso ve lo stiate chiedendo, non ho saltato un giorno: la settimana scorsa si richiedeva la visione di un corto trasformato in lungometraggio, mentre oggi la challenge chiedeva di guardare il lungometraggio in questione. La scelta è caduta su Quando chiama uno sconosciuto (When A Stranger Calls), diretto e co-sceneggiato nel 1979 dal regista Fred Walton proprio a partire dal suo primo corto, The Sitter.


Trama: Jill viene assunta come babysitter da un facoltoso medico. La prima sera di lavoro viene però bersagliata dalle insistenti telefonate di un maniaco...


Il corto The Sitter lo trovate alla pagina che vi ho linkato, ma non è fondamentale per la visione di Quando chiama uno sconosciuto. Anzi, siccome i primi venti minuti di lungometraggio, attori a parte, sono una riproposizione quasi identica del corto (a sua volta ispirato dalla leggenda metropolitana La babysitter e l'uomo al piano di sopra, che risale ad una decina di anni prima e che aveva già ispirato la trama di Un Natale rosso sangue), vi conviene non guardarlo proprio, altrimenti vi rovinereste la parte migliore del film. In realtà, anche il terzo atto non è male, perché ritorna alle atmosfere horror e quasi surreali delle sequenze di apertura, con un paio di jump scare ben piazzati che mi hanno fatta letteralmente saltare dalla sedia. La parte centrale della pellicola, invece, sembra messa lì solo per allungare il brodo e risulta abbastanza noiosa, quasi l'episodio di una serie poliziesca che cerca di spaventare un po' di più gli spettatori. Si tratta, infatti, di un blando thriller dove una donna viene seguita da uno stalker scappato dal manicomio, mentre un detective privato cerca di acciuffarlo. La suspence deriva interamente da ciò che si sa dello stalker e possibile killer, perché, in effetti, Curt Duncan, all'interno della parentesi "cittadina" che lo vede incapricciarsi della badassissima Tracy, sembra più un poveraccio con qualche problema di comunicazione e cervello, più che una bestia assassina, e si aspetta solo il momento in cui le cure d'urto alle quali è stato sottoposto in manicomio smettano di fare effetto spingendolo nuovamente ad uccidere a mani nude. Oppure che qualcuno, per mera pietà umana, si prenda cura di questo cristiano e lo faccia rinsavire.   


Anche per quanto riguarda la regia, Quando chiama uno sconosciuto sembra un patchwork di stili. L'inizio e la fine sono tesi, magistralmente diretti, impreziositi dall'incredibile prova attoriale di Carol Kane, un crogiolo di ansia nervosa, le cui urla spezzerebbero il cuore a un sasso. Soprattutto la prima, lunga sequenza gioca brutalmente coi nervi dello spettatore, in un susseguirsi di primi piani alternati della babysitter e del telefono, mentre all'interno della villa le ombre sembrano muoversi, trasformandola in una trappola fatta di nascondigli perfetti per un eventuale killer (chi ha visto Scream potrà riconoscere il modello a cui si sono ispirati Craven e Williamson per una delle scene di apertura più belle di sempre). Fortunatamente, la parte centrale è nobilitata da attori molto bravi, un po' distanti dai cliché del genere. Prendete la damsel in distress, per esempio. Ha il volto caparbio e selvatico di Colleen Dewhurst, che rende il personaggio di Tracy terribilmente interessante, nonostante di lei non venga rivelato praticamente nulla. Il killer è interpretato da Tony Beckley, che sarebbe morto poco dopo la fine delle riprese e che quindi già manifestava gli ultimi sintomi di una malattia terminale. L'impressione che si ha, quando Duncan segue Tracy o quando cerca di fuggire al detective Clifford, è di un uomo agli sgoccioli, solo coi fantasmi della sua mente malata, perseguitato da qualcosa che lo terrorizza e che non capisce, e nonostante l'orribile delitto di cui il personaggio si macchia all'inizio (per non parlare del completo distacco dalla realtà che lo muove sul finale, o delle inquietanti registrazioni dell'ospedale), a volte si riesce persino a provare pietà per lui. Ammetto che questi motivi, probabilmente, saranno un po' pochi per consigliare un film come Quando chiama uno sconosciuto (che, nell'anno del Signore 2025, rischia di annoiare più di uno spettatore scafato) ma a me è comunque piaciuto, quindi vi invito a recuperarlo, se non lo avete mai visto.


Di Carol Kane, che interpreta Jill Johnson, ho già parlato QUI.

Fred Walton è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto film come Pesce d'aprile e episodi di serie quali Alfred Hitchcock presenta e Miami Vice. Anche attore, ha 83 anni.


Charles Durning
interpreta John Clifford. Americano, ha partecipato a film come La stangata, Quel pomeriggio di un giorno da cani, Fury, Ecco il film dei Muppets, Tootsie, Dick Tracy, Mister Hula Hoop, Spia e lascia spiare, Fratello dove sei?. Come doppiatore ha lavorato ne I Griffin. E' morto nel 2012.


Rachel Roberts
interpreta la dottoressa Monk. Americana, ha partecipato a film come Assassinio sull'Orient Express e Picnic ad Hanging Rock. E' morta nel 1980.


Colleen Dewhurst,
che interpreta Tracy, era Henrietta Dodd nel film La zona morta. Il film ha un seguito per la TV, sempre diretto da Fred Walton, intitolato Lo sconosciuto alla porta e dedicato alla memoria di Tony Beckley, e un remake omonimo del 2006. Se Quando chiama uno sconosciuto vi fosse piaciuto recuperateli, e aggiungete Un Natale rosso sangue. ENJOY! 


martedì 11 febbraio 2025

Io sono ancora qui (2024)

Approfittando dell'uscita in v.o. al cinema d'élite, domenica scorsa sono andata a vedere Io sono ancora qui (Ainda estou aqui), diretto nel 2024 dal regista Walter Salles e candidato a tre premi Oscar (Miglior film, Miglior attrice protagonista, Miglior film straniero).



Trama: Negli anni '70, poco dopo l'avvento della dittatura in Brasile, l'ex deputato Rubens Paiva viene prelevato dalla polizia per non fare mai più ritorno a casa. La moglie indaga come può, cercando di tenere insieme i cocci di una famiglia distrutta...


Un idilliaco scorcio di vita familiare baciata dal sole, profumata della salsedine del mare, poi le immagini in Super 8 che catturano momenti di pura gioia, e ci trasportano in una casa dove si respirano cultura, progressismo e allegria in ogni angolo. Sullo sfondo, come foschi presagi, il suono di elicotteri militari e le notizie sui rapimenti dei terroristi ai danni di ambasciatori stranieri. Comincia così Io sono ancora qui, film di Walter Salles tratto dalla biografia omonima di Marcelo Rubens Paiva. Nella pellicola, identifichiamo quest'ultimo in un bimbetto abbronzato che ama giocare a calcio con gli amici, unico maschio all'interno di una famiglia composta da padre, madre e quattro sorelle, apparentemente protetto e coccolato dall'ambiente ideale in cui crescere. Purtroppo, papà Rubens è un ex deputato, tornato a Rio De Janeiro dopo essere stato esiliato a seguito del colpo di stato che ha instaurato la dittatura militare in Brasile; la precarietà della condizione dell'uomo riverbera in un terrore sotteso, nella decisione di mandare la figlia maggiore a Londra, in tante telefonate notturne che indicano come l'ex deputato sia comunque ancora attivamente coinvolto nella lotta contro il regime. Questo finché, un giorno, Rubens Paiva viene portato via da militari in borghese. Poco dopo, lo stesso destino tocca anche alla moglie Eunice e alla secondogenita, Eliana. La ragazza viene scarcerata dopo 24 ore, ma alla madre, e al pubblico in sala, toccano 12 giorni di angoscia e torture psicologiche, uno scorcio di inferno che cancella, nel giro di pochi istanti, tutta la calda bellezza dei giorni spensierati passati in spiaggia. Eunice torna a casa, ma l'inferno non l'abbandonerà per il resto della vita: a chi ancora rimane, tocca sopportare il peso dell'incertezza e, infine, di una tremenda verità che è necessario tenere nascosta. Tocca rimettere assieme i cocci di una vita e, possibilmente, rifarsene un'altra, trovando nel dolore la forza di mettersi al servizio degli altri, di tutelare i diritti umani all'interno di uno Stato che, sistematicamente, li ignora. Io sono ancora qui è il ricordo, lucido e sicuramente indulgente, di un uomo che ripercorre la storia di una madre dura come l'acciaio, ritrovatasi a dover affrontare una vita priva di un pilastro non solo emotivo, ma anche economico, col terrore di essere sotto stretto controllo del regime e di subire, a sua volta, il destino del marito, lasciando soli i figli bambini, o poco più che adolescenti.


La regia e la sceneggiatura di Io sono ancora qui riescono nel miracolo di farci innamorare di Rubens, Eunice e figli, con pochi episodi di ordinaria quotidianità che rendono la tragedia ancora più dura da sopportare. Siamo coinvolti dal dramma di Eunice, speriamo scioccamente in una risoluzione felice anche se sappiamo non essere mai arrivata, rimpiangiamo tutte le foto mai scattate, i video mai girati. Pur non essendo costruito come un film strappalacrime (Eunice non ne versa neppure una), Io sono ancora qui induce a un magone nervoso, proprio per lo sguardo privo di fronzoli che offre su un tempo neppure troppo lontano, su un benessere familiare ed economico cancellato dagli strascichi di un colpo di stato, su tutte quelle cose che crediamo a noi non potranno mai succedere, invece basterebbe guardarsi un po' bene intorno per capire che ci siamo quasi (e saranno in pochi quelli che riusciranno a rialzare la testa provando a lottare, migliorandosi, come Eunice). La sceneggiatura consente di brillare non solo ai protagonisti, ma anche ai comprimari, come se il film fosse una piccola saga familiare, e gli squarci di futuro mostrati sul finale non accontentano chi, come me, avrebbe voluto sapere di più sulle strade percorse dai figli di Rubens ed Eunice. A tal proposito, il cast è affiatato, composto da attori bravissimi. E' inevitabile venire attirati dalla performance di Fernanda Torres, che racchiude negli sguardi una dignità e una forza pari al dolore che ne stravolge i lineamenti, eppure i comprimari non rimangono indietro, traggono intensità dall'interpretazione dell'attrice e l'arricchiscono a loro volta. Sul finale, arriva a dare manforte la madre della Torres, Fernanda Montenegro, nei panni di un'Eunice ormai anziana e annebbiata dall'Alzheimer; quell'ombra di sorriso sulle labbra, a ravvivare un primo piano insistente e spietato, consegna allo spettatore un afflato di speranza, la consapevolezza che tutte le tragedie e le ingiustizie del mondo nulla possono se esisterà anche solo una persona dotata della forza di lottare, ricordare, ricostruire. Uno splendido messaggio, per uno splendido film che vi consiglio di recuperare senza indugio! 

Walter Salles è il regista della pellicola. Brasiliano, ha diretto film come Terra Estrangeira, Central do Brasil, I diari della motocicletta e Paris, je t'aime. Anche produttore, sceneggiatore e montatore, ha 69 anni.


Fernanda Torres
interpreta Eunice Paiva. Brasiliana, ha partecipato a film come Terra Estrangeira, 4 giorni a settembre e Love Me Forever or Never. Anche sceneggiatrice e produttrice, ha 60 anni. 



venerdì 7 febbraio 2025

Companion (2025)

Nonostante la natura caprina dei programmatori del multisala savonese, è miracolosamente uscito anche qui Companion, diretto e sceneggiato dal regista Drew Hankock, quindi mi sono subito fiondata in sala (ormai dovreste sapere di cosa parla il film, anche perché il trailer è abbastanza chiaro, ma seguono SPOILER, nelcaso siate vissuti su Marte finora)!


Trama: Iris e Josh, giovani e innamorati, decidono di trascorrere un weekend sul lago, nella villa di un ricco amico di lui. La vacanza viene però stravolta da eventi terribili...


Companion
è una divertentissima commedia horror che guarda ad esempi "alti" come La fabbrica delle mogli. C'è chi si è lamentato che il film di Drew Hancock non sia granché horror, e in effetti non ha torto. Si tratta più di un mix tra fantascienza e thriller, perché va a toccare importantissimi temi che sono il fondamento di molte opere seminali del genere fantascientifico, soprattutto il dilemma sull'autodeterminazione e sulla natura "umana" delle macchine progettate per replicare alla perfezione i sentimenti dei loro creatori umani. In questo caso, Companion parte da una storia d'amore, quella tra Iris e Josh, incontratisi nel solito modo carino/imbarazzante in cui iniziano tutte le migliori rom-com che ci hanno propinato fin dall'infanzia. Infatti, questo incontro per caso (non in un giorno di pioggia, ma in un supermercato) è talmente perfetto da essere semplicemente un impianto nel cervello di Iris, splendido sex-bot o "compagno" che Josh ha noleggiato invece di uscire a cercarsi una ragazza vera. Per quanto sia più o meno discutibile la scelta di Josh (Companion lascia intendere che, nella società rappresentata all'interno del film, in un futuro molto prossimo, una simile pratica sia molto diffusa, con tutto ciò che ne consegue), non ci sarebbe nulla di male se quest'ultimo non decidesse, a un certo punto, di violare tutti i protocolli di Iris per spingerla a compiere un omicidio, oggettificandola ancora più di quanto facesse in precedenza. Da questo punto in poi, Companion diventa una storia di sopravvivenza e dolorosa presa di coscienza, in quanto Iris non solo deve cercare di non farsi disattivare (o peggio) ma deve anche venire a patti con la consapevolezza di essere stata indotta ad amare un pezzo di merda. Companion è, dunque, la metafora neppure troppo sottile di una società che martella le persone (non necessariamente donne ma, non neghiamolo, succede soprattutto a noi) con un ideale d'amore che consiste nell'annullarsi per il compagno, sacrificarsi per renderlo felice, arrivare a cambiarlo con la forza della gentilezza e del martirio, sorvolando sui difetti macroscopici di chi accanto vorrebbe, appunto, solo un'automa compiacente. Non è un caso che Kat, un'umanissima, imperfetta persona, a un certo punto confessi ad Iris di odiarla per la paura di venire un giorno sostituita da "quelle come lei", con le quali non è facile competere, visto che sono programmabili al punto da poterne diminuirne l'intelligenza a piacere (altra simpatica trovata di sceneggiatura, molto ficcante e plausibile). 


Tra una stoccata all'imminente strapotere dell'A.I., alle cybercar dell'Elmo di Pretoria, ai broflake piagnucoloni e alla superficialità senza sesso né genere che sconfina in stupidità grottesca, Companion procede spedito per 97 minuti di continui colpi di scena, capaci di coinvolgere anche chi si era spoilerato buona parte della vicenda con trailer e locandine. La regia di Drew Hancock, al suo primo lungometraggio, alterna atmosfere da thriller a momenti di commedia nera, sfruttati soprattutto per rendere ancora più sciocchi e melensi i finti ricordi di Iris, e per sottolineare la pochezza del "legame" tra lei e Josh. Le citazioni a La fabbrica delle mogli, come ho già scritto, sono infinite, a partire soprattutto dalle mise vezzose e prive di personalità di Iris, e questo aspetto vivace e pop (anche superficiale) della messa in scena viene ripreso dall'abbondanza di successi ballabili e beffardamente romantici come la splendida Boy dei Book of Love, Iris dei GooGoo Dolls, This Guy's in Love with You ed Emotion sui titoli di coda, che vi consiglierei di non saltare, per non perdere un paio di scene aggiuntive. Per quanto riguarda gli attori, forse sono di parte. Trovo infatti Sophie Thatcher una delle giovani dive più promettenti all'interno della scena horror odierna, e anche qui la ragazza buca lo schermo, a partire dal modo di camminare nelle prime scene, con quel qualcosa di stonato che lo rende buffo, non del tutto naturale. Jack Quaid le fa da ottima spalla, con quella faccetta patatona da bravo ragazzo resa inquietante dal luccichio negli occhi (ereditato dal padre) tipico di chi, sotto sotto, è anche un po' stronzo e non esiterebbe a pugnalarti alle spalle. Il resto del cast brilla grazie a caratteristi e volti ricorrenti di tutto rispetto, a partire da Harvey Guillén (devo recuperare la serie di What We Do in the Shadows, lo so!) e, per quanto mi riguarda, ho percepito tanto di quell'affiatamento e voglia di divertirsi sul set da portarmi a sorvolare su eventuali difetti e forzature di quella che, in fin dei conti, è un'opera prima, per quanto notevole. Aspetto di vedere se quello di Drew Hancock diventerà un nome da tenere d'occhio, nel frattempo vi consiglio la visione di questo adorabile Companion!


Di Sophie Thatcher (Iris), Jack Quaid (Josh), Rupert Friend (Sergey) e Marc Menchaca (Vicesceriffo Hendrix) ho già parlato ai rispettivi link.

Drew Hancock è il regista e sceneggiatore della pellicola, al suo primo lungometraggio. Americano, anche attore e produttore, ha 46 anni.


Lukas Gage
interpreta Patrick. Americano, ha partecipato a film come Manuale scout per l'apocalisse zombie, Assassination Nation e Smile 2. Anche sceneggiatore, ha 30 anni e due film in uscita. 


Megan Suri
interpreta Kat. Americana, ha partecipato a film come Missing e It Lives Inside. Ha 26 anni. 


Se Companion vi fosse piaciuto recuperate il pluricitato La fabbrica delle mogli, M3gan ed Ex Machina. ENJOY!




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