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venerdì 14 giugno 2024

The Watchers - Loro ti guardano (2024)

Pur non andando tanto d'accordo col papino, mercoledì sono andata a vedere The Watchers - Loro ti guardano (The Watchers), diretto e co-sceneggiato da Ishana Night Shyamalan a partire dal romanzo omonimo di A.M. Shine.


Trama: Mina, ragazza dal passato tormentato, rimane bloccata all'interno di una foresta durante un viaggio in macchina. Mentre cerca una via d'uscita, incontra altre tre persone che tentano di sopravvivere senza incorrere nelle ire delle creature che, di notte, vagano tra gli alberi...


Leviamoci subito il dente. The Watchers, opera prima di una dei figli di M. Night Shyamalan, dalle pellicole di quest'ultimo ha preso la quantità di puttanate col botto che nascono dalla scelta di mescolare favola, horror e approfondimento psicologico universale. Quest'ultimo aspetto, fortunatamente, non si avverte troppo in The Watchers. Ishamalan non ha lo stesso presumin arrogante dello Shyabadà "impegnato" e, nonostante anche il suo film sia imperniato su persone incapaci di vivere un'esistenza piena e di affrontare i propri mostri, se non altro non sottovaluta il cervello dello spettatore reiterandogli più volte il concetto, neanche fosse lo studente più stupido del mondo. Purtroppo, in famiglia hanno il vizio di prendere creature del folklore e appiccicarci attorno con con lo sputo una storia che le rende ridicole, totalmente avulse dal contesto, e questo perché non curano i dettagli. Stephen King, per esempio, in uno dei suoi racconti brevi più terrificanti utilizzava un fauno in guisa di tagliaerbe, e giuro che non c'era nulla di ridicolo in questa scelta. Qui, senza fare spoiler, ci sono altre creature lontane dall'iconografia alla quale siamo abituati ad associarle, però ce ne sarebbero potute essere altre, perché il fatto che siano state scelte proprio loro, fra tutte, non è fondamentale ai fini della trama. Peggio ancora, la loro presenza non sconvolge né mette paura perché la sceneggiatura sembra scritta da un bambino che vuole far succedere determinate cose senza rispettare alcuna logica. Un paio di esempi che possono essere ricavati anche dal trailer: Mina arriva in questa fantomatica foresta dalla quale non si può uscire, ma lì dentro dovrebbe esserci mezza popolazione irlandese, visto che Google Maps la ritiene l'inevitabile zona di passaggio per andare da una grande città all'altra, invece ci sono solo tre persone (quattro, se contiamo quello che fa una brutta fine all'inizio). Insomma, non stiamo parlando di Aokigahara, dove la gente va apposta a suicidarsi. Le tre persone obbligano Mina a rifugiarsi in un bunker da cui non si può uscire di notte e dove bisogna seguire determinate regole, pena punizioni orribili, ma le regole vengono disattese dopo nemmeno 15 minuti di film e succede ben poco a chi trasgredisce, considerato che le creature potrebbero entrare lì dentro quando vogliono. Potrei continuare per righe e righe, tra dettagli apparentemente importantissimi, in quanto enfatizzati da dialoghi e inquadrature, che verranno dimenticati dopo pochissimo per non venire mai più ripresi, o la spiegazione su come sia finito un bunker in una foresta da cui non si può uscire né comunicare verso l'esterno, ma non sparo sulla croce rossa.
 

Pertanto, siccome il finale, grossomodo, salva il film in virtù di un simpatico twist shyamalano e un'apertura verso un'eventuale seguito che A.M. Shine pubblicherà a fine anno, è giusto anche parlare degli aspetti positivi di The Watchers, i quali riguardano essenzialmente gli aspetti tecnici della pellicola. Ishana usa bene la macchina da presa, soprattutto nelle sequenze iniziali o comunque il quelle ambientate all'interno del bosco; grazie all'ausilio dell'ottima fotografia di Eli Arenson, ci sono dei momenti in cui le ombre sembrano letteralmente muoversi e inghiottire i protagonisti lasciando loro solo un piccolo cerchio di luce a proteggerli, per non parlare dei colori vividi e caldi di tutto ciò che è "buono" o comunque salvifico. Molto suggestive anche le immagini dello specchio nel bunker, che dal trailer mi avevano fatto pensare a un altro genere di trama (probabilmente migliore di questa, ma non si può essere tutti Jordan Peele), e buono anche il montaggio, mentre ho patito parecchio la resa grafica delle creature, i soliti pupazzoni brutti in CGI a cui ricorre chi vuole buttare giù un mostrillo quanto più generico possibile. A tal proposito, tutti scomodano le grandi opere Shyamalane come Signs o The Village, mentre a me è sembrato che The Watchers avesse molti punti in comune con Wayward Pines, serie prodotta da Shyamalan padre che era partita molto bene per poi sgonfiarsi nel tempo. Il che mi porta a pensare che Ishana abbia tutte le carte in regola per realizzare opere di grande impatto visivo, ma dovrebbe tirare fuori un po' di coraggio ed affrancarsi dall'ombra di papà, onde intraprendere un percorso personale. Viceversa, il rischio è quello di continuare a sfornare opere belline ma superficiali come i protagonisti del film, i quali, nonostante i traumi raccontati nei dialoghi, hanno lo stesso spessore psicologico dei protagonisti di un qualsiasi reality, come quello che costituisce l'unica fonte di intrattenimento all'interno del bunker. Non scherzo se dico che mi interessava di più sapere chi sarebbe stata la coppia vincitrice della trasmissione, rispetto a se i personaggi sarebbero riusciti a salvarsi. Provaci ancora, Ishana. 


Di Dakota Fanning (Mina), Georgina Campbell (Ciara) e Olwen Fouéré (Madeline) ho già parlato ai rispettivi link.

Ishana Night Shyamalan è la regista e co-sceneggiatrice del film. Al suo primo lungometraggio, ha diretto anche episodi della serie Servant. Americana, anche produttrice, ha 24 anni.


John Lynch
interpreta Kilmartin. Inglese, ha partecipato a film come Hardware, Nel nome del padre, Sliding Doors, Boys from County Hell e a serie quali Le avventure del giovane Indiana Jones e The Terror. Anche sceneggiatore e produttore, ha 63 anni. 


Se The Watchers vi fosse piaciuto recuperate The Hole in the Ground, The Village e Signs. ENJOY! 

venerdì 20 settembre 2019

C'era una volta a... Hollywood (2019)

Dear Quentin,

sono sempre io, dopo ben quattro anni. Nel frattempo ti sei sposato, aspetti un figliolo, e io dico: c'era bisogno di arrivare a tanto con questa donna dello schermo quando io, la tua Beatrice, non avrei problemi a dichiarare al mondo il nostro aMMore? Guarda, ti giuro che non è per ripicca che vado dicendo in giro di come C'era una volta a... Hollywood non sia il tuo film migliore e te lo dimostrerò scrivendo solo cose belle, anzi, bellissime, sul tuo ultimo film, senza SPOILER. Posso però dire che sei stato un maledetto a tagliare le scene con Tim Roth? E posso altresì permettermi di dirti che la prossima volta mi piacerebbe un "pochettino" di coesione in più all'interno della trama, ché va bene la struttura sfilacciata, le trame incrociate e le digressioni citazioniste ma a tratti mi è sembrato di ripiombare nella lunghissima introduzione di A prova di morte (per me il film meno bello - MAI brutto! - che hai realizzato)? Bon, basta, quello che dovevo dire di negativo l'ho detto, ora passiamo alla gioia.


In tempi di orrido cinismo e snobismo cinèfilo, dove tutti hanno già visto tutto e chiunque ha un'opinione perlopiù negativa su qualsiasi pellicola, dove non ci sono più curiosità né mistero, perché tanto ogni singolo segreto di un film si può trovare on line, mi chiedo come diamine fai tu, caro Quentin, a sognare ancora. A custodire dentro il cuore ricordi lucidissimi eppure ancora intrisi di magia, a fomentare continuamente l'Amore per quel Cinema che ti ha dato tutto, fin da quando non eri nemmeno famoso, al punto da annullare ogni confine tra la realtà, il gossip da tabloid patinato e il cliché. Come Noodles che usciva da quella stazione, vecchio e zeppo di memorie filtrate dal tempo e dall'oppio, così tu ci consegni la TUA storia, la TUA Hollywood, una città fatta di luci al neon e cinema, di star che possono venirti a vivere accanto a casa, dove ogni giorno può diventare una (dis)avventura e dove fiumi di alcool e fumo mettono a tacere le coscienze di coloro per i quali il sogno o è morto o sta per trasformarsi in un incubo. I tre personaggi che sfrecciano sulle strade di Los Angeles con in capelli al vento e la musica nelle orecchie sono i tre estremi di un'ideale triangolo che racchiude in sé tutta la leggenda Hollywoodiana. Certo, il Rick Dalton di Di Caprio è il veicolo attraverso il quale ci consenti di vivere la Hollywood degli addetti ai lavori, quella non così esaltante; la Hollywood di chi, come probabilmente Luke Perry (bonanima), è rimasto confinato all'interno di un archetipo televisivo e, invecchiando, non è più riuscito ad emergere nel mare di starlette in continuo movimento, trasformandosi in una sorta di leggenda o figura indistinta nella memoria. E' con Rick Dalton che si scoprono gli "altarini" del cinema che più hai amato, quello degli italiani banfoni che con due lire si accaparravano vecchie star in declino per creare pellicole (s)cult da pochi spiccioli insinuandosi nei cuori dei cinefili onnivori, con i loro set esotici, le trame bizzarre e le locandine disegnate in maniera splendida. Ma anche qui, non si costruiva forse la leggenda? Non c'era la voglia di divertire e far sognare il pubblico, a prescindere dalla coerenza delle trame e alla faccia di qualsiasi, gigantesco what the fuck?


Quell'enorme what the fuck che è Brad Pitt, per esempio. Non fraintendermi, io l'ho amato e, come ho detto ai miei compagni di visione, vorrei un Brad Pitt personale in casa per morire dal ridere ogni volta che sono depressa, ma riflettendo su Cliff Booth ho trovato l'elemento di pura finzione all'interno del film, l'estremo "surreale" del triangolo. Cliff Booth è l'eroe tipico degli spaghetti western, il cowboy bruciato dal sole dalla battuta facile e dall'indolenza gigantesca, un po' cavaliere dal cuore d'oro e un po' galeotto, colui che ha il compito di difendere il Sogno contro la realtà che minaccia di privarlo di tutta la sua innocenza, in una Los Angeles di fine anni '60 trasformata in isola felice contro tutti i cambiamenti sociali e le brutture dell'America e del mondo. La realtà gli scivola addosso, come già succedeva ad Aldo Rayne in Bastardi senza gloria, e non è un caso se l'artefice del più clamoroso what if? della pellicola è proprio lui. E poi c'è lei, Margot Robbie. Ora, c'è stato un momento, verso la fine del film, in cui la gente rideva e applaudiva. Io non ce l'ho fatta. Non lo so perché la storia di Sharon Tate e dell'orribile destino toccato in sorte a lei e ai suoi amici mi ha sempre toccata nel profondo, sta di fatto che mentre tutti ridevano io lottavo contro il magone. Sì perché tu sei riuscito a trasformare Sharon Tate nella fata buona, nell'incarnazione stessa di quel sogno chiamato Cinema. Bellissima e leggiadra, Margot Robbie col suo sorriso incantevole trasuda amore e giovinezza da ogni poro, ed è l'immagine stessa dell'innocenza di una Hollywood che non tornerà mai più e forse non è mai esistita; vederla piena di entusiasmo varcare la soglia di un cinema che proietta uno dei suoi film scalda il cuore e trasmette un briciolo della sensazione di trionfo che sicuramente anche tu hai provato nel corso non solo di blasonate anteprime, ma soprattutto quando nessuno ti considerava, confuso nella folla, nascosto nell'ombra a spirare la reazione degli spettatori davanti a ciò che avevi scritto, magari diretto. Ma fosse solo quello. La figura di Sharon Tate trasporta in un mondo altro, in una Favola che si vorrebbe non finisse mai, e quello che è rimasto durante i titoli di coda, almeno a me, è un enorme nodo alla gola al pensiero che quell'innocenza meravigliosa e anche un po' ignorante l'abbiamo persa tutti da troppo tempo.


E allora, abbandoniamoci all'amore e all'innocenza, che cazzo. Alla gioia di rivedere facce amatissime (ciao Michael, ciao Zoe, ciao Lorenza, ciao Kurt), di prendere le tue auto-citazioni, le ricostruzioni di film e telefilm, i tuoi marchi di fabbrica e usarli come una calda coperta di Linus per affrontare il freddo della steppa di cinèfili dell'internet senza cuore, perché alla fine se è vero che il Cinema è un mondo e che siamo fatti al 90% dei film che abbiamo visto, il tuo microcosmo è uno di quelli in cui mi perdo più volentieri. E allora, abbandoniamoci alle grasse risate davanti al solito, favoloso Di Caprio che solo tu riesci a fare brillare come una stella, accoppiato ad un Brad Pitt che, porco cane, ma manda al diavolo il futuro film di Star Trek (dai, amore mio, mi fa schifo, lo sai. Rinunciaci) e realizza una COMMEDIA con loro due come protagonisti, ti prego! Abbandoniamoci e soprattutto chiniamo il capo davanti alla bellezza incredibile della colonna sonora, che mi ha fatto muovere a tempo la testa per tutta la durata del film, quando non ero impegnata a rimanere a bocca aperta davanti alle immagini che scorrevano sullo schermo (apro parentesi. Si vede che qui hai potuto fare un po' come hai voluto, libero da Weinstein ecc. C'era una volta a Hollywood è meno "stiloso" in maniera artefatta e più "tuo"). Abbandoniamoci (anche se lì, lo ammetto, ho fatto resistenza ma hai capito perché. Anche per questo devo rivedere il film) alla fottuta catarsi da cinema di serie Z, a quella valvola di sfogo che incanala tutto il disprezzo nei confronti di chi ha privato Hollywood di buona parte della sua innocenza per colpa di un matto invidioso che ha mandato "il Diavolo a fare i cazzi del Diavolo", giusto per ribadire come davanti a gente inutile si debba rispondere con menefreghistico disprezzo. Abbandoniamoci alla speranza, all'ottimismo, al "e vissero tutti felici e contenti", per una volta, facendoci accogliere dai volti amici di persone che vediamo sullo schermo quasi ogni giorno e che ogni volta ci fanno fuggire dalla realtà, così come loro, chissà, fuggono dalla propria solo grazie a noi umili spettatori.


Che ti devo dire, ancora, Quentin mio? Più ci rifletto sopra, più C'era una volta a... Hollywood diventa bellissimo e interessante. Vorrei rivederlo subito, ovviamente in lingua originale, che l'adattamento italiano lasciamolo perdere, per cogliere tutti i dettagli che ho perso durante la prima visione e scoprire ancora ulteriori strati di questo splendido delirio cinefilo, quindi grazie, come sempre. E anche un po' vaffanculo, dai, ché son buoni tutti a sposarsi la sgnoccolona trentatreenne israeliana. Potevi anche accontentarti della sgnoccolona trentottenne ligure, vecchio porcello.


Del regista e sceneggiatore Quentin Tarantino, la cui voce si può sentire durante lo spot delle Red Apple, ho già parlato QUI. Leonardo di Caprio (Rick Dalton), Brad Pitt (Cliff Booth), Margot Robbie (Sharon Tate), Emile Hirsch (Jay Sebring), Timothy Olyphant (James Stacy), Dakota Fanning (Squeaky Fromme), Bruce Dern (George Spahn), Luke Perry (Wayne Maunder), Al Pacino (Marvin Schwarz), Lorenza Izzo (Francesca Capucci), Harley Quinn Smith (Froggie), Danielle Harris (Angel), Clifton Collins Jr. (Ernesto il vaquero messicano), Rumer Willis (Joanna Pettet), Rebecca Gayheart (Billie Booth), Kurt Russell (Randy e, in originale, anche il narratore), Zoe Bell (Janet) e Michael Madsen (Sceriffo Hackett di Bounty Law) li trovate invece ai rispettivi link.

Margaret Qualley interpreta Pussycat. Americana, ha partecipato a film come The Nice Guys, Death Note e a serie quali Fosse/Verdon. Ha 25 anni e un film in uscita.


Tra le millemila guest star presenti nella pellicola segnalo la ahimé moglie di Quentin, Daniella Pick,  il Friederich di Tutti insieme appassionatamente, Nicholas Hammond (che interpreta Sam Wanamaker) e, tra i figli d'arte, quella di Ethan Hawke e Uma Thurman, Maya Hawke, nei panni di Flowerchild, mentre il povero Tim Roth, inserito nei titoli di coda, è protagonista delle scene eliminate, quindi non compare nel film. Non ce l'ha fatta nemmeno Burt Reynolds (che, di fatto, era il "cattivo" dell'episodio di F.B.I. presente nel film), purtroppo venuto a mancare prima di poter girare le scene in cui avrebbe dovuto interpretare George Spahn. Se il film vi fosse piaciuto, ovviamente vi consiglierei di recuperare la filmografia di Tarantino ma siccome lo stesso Quentin ha stilato un elenco di pellicole da vedere in preparazione di C'era una volta a Hollywood, perché non seguirlo e recuperare Bob & Carol & Ted & Alice, Fiore di cactus, Easy Rider, L'amante perduta, La battaglia del Mar dei Coralli, L'impossibilità di essere normale, Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm, Trafficanti del piacere, Il sentiero della violenza e I pistoleri maledetti? ENJOY!

martedì 31 luglio 2018

Ocean's 8 (2018)

Per una volta il cinemino albisolese mi è venuto in soccorso e domenica sera sono riuscita a vedere Ocean's 8, diretto e co-sceneggiato da Gary Ross, alla faccia delle ferie del multisala savonese.


Trama: dopo essere uscita di prigione, Debbie Ocean organizza un audace colpo al Metropolitan Museum di New York.


Doverosa premessa: sono passati 17 anni da Ocean's Eleven e io credo di non averlo mai più riguardato dopo quella lontanissima sera al cinema del 2001, ergo se sperate che durante la visione di Ocean's 8 abbia colto non solo i riferimenti al suo predecessore (salvo il nome Danny Ocean, grazie al piffero!) ma anche le somiglianze a livello di trama (c'era un cinese acrobata anche lì mi pare, giusto?) cascate malissimo e, sempre in virtù di ciò, non riuscirei nemmeno a confrontare la qualità dei due film. Di fatto, non sono andata a vedere Ocean's 8 per una sorta di nostalgia o per vedere "come mi avessero rovinato l'infanzia anche se all'epoca avevo già 20 anni" ma solo per il cast zeppo di attrici che adoro, salvo la Bullock, e perché in generale mi piacciono gli heist movies, come ama chiamarli oggi la critica, benché quelli americani finiscano per assomigliarsi un po' tutti. Come da programma, quindi, sono andata al cinema giusto per godermi un furto perpetrato da un gruppo di donne cool e quello ho avuto, niente di più e niente di meno; Ocean's 8 fila dritto e liscio dall'inizio alla fine, con qualche complicazione all'acqua di rose, un paio di garbati "colpi di scena", una lunga e necessaria introduzione per presentare tutte le otto protagoniste e qualche forzatura della trama che probabilmente sfuggirà agli spettatori meno spaccapalle e che, effettivamente, in questo genere di pellicola deve necessariamente finire in secondo piano. Si potrebbe definire Ocean's 8 un film "leggero", un divertissement estivo che lascia il tempo che trova, non entusiasmante quanto ci si potrebbe aspettare da un ensemble di prime donne potenzialmente carismatico e quindi facilmente dimenticabile nel giro di un paio di settimane o anche meno, con parecchie potenzialità sprecate e fiaccato da una mancanza di coraggio imperdonabile. Banalmente, giusto per fare un esempio, manca un villain degno di questo nome (oh, quanto avrei sperato che "qualcuna" facesse il doppio gioco, invece ciccia, bisogna accontentarsi di una sciapa vendetta ai danni di un povero sfighé...), manca un po' di sano pericolo, manca, per citare Alex De Large, una sana dose di ultraviolenza e un po' di dolce su e giù i quali, se non rammento male, mancavano anche nei vari Ocean's precedenti ma perlomeno c'era l'umorismo guascone e fighetto di Clooney e compagnia a farla da padrone.


Ocean's 8 è invece un vorrei ma non posso. Non so come spiegarmi al meglio ma pare davvero pensato e realizzato "solo" per un pubblico femminile, a partire da quelle sequenze palesemente imperniate su lusso e glamour, fatte di gioielli da sogno e abiti da capogiro, come se le spettatrici stessero sfogliando una di quelle riviste alla Vanity Fair invece di vedere un film; non è che le protagoniste non siano carismatiche, intelligenti o toste, però mi è sembrato che queste tre caratteristiche fossero subordinate ad una superficialità concretizzata nell'apparenza, in sogni di evasione fatti di cinema, gossip, lavori a contatto col mondo della moda ecc. e questo non accadeva in Ocean's Eleven, fatto per piacere e divertire a partire dal "gender" dello spettatore. Detto questo, le donne che passano sullo schermo sono effettivamente lontane anni luce da noi povere mortali quindi forse ci sta che alle spettatrici venga lasciata giusto la possibilità di sognare. La boss Sandra Bullock non ha il carisma del "fratello" George Clooney ma comunque il personaggio di Debbie Ocean è un perfetto esempio di criminale veterana che riesce a farsi rispettare dal gruppo pur mantenendo i suoi piccoli segretucci, ed è degnamente spalleggiata da una Cate Blanchett alla quale vengono riservate le mise migliori nonostante la sua Lou non spicchi come dovrebbe, vincendo la palma di co-protagonista sprecata e tenuta stupidamente nell'ombra; divertentissima Anne Hathaway nei panni di un'attrice oca, ignorante e superba, un ruolo sciocchino che tuttavia l'attrice interpreta con incredibile grazia, e sorprendente Rihanna che risulta una gnocca colossale anche conciata come l'ultima delle streppone di Piazza del Popolo (con l'unico difetto di un adattamento italiano imbarazzante, come sempre accade quando si è costretti a riportare uno slang "cciofane"), mentre Helena Bonham Carter passa alla cassa senza impegnarsi più di tanto, portando a casa la solita interpretazione da weirdo un po' attempata. La Paulson, il motivo principale che mi ha spinta al cinema, è invece una signora come sempre, attrice tra le più duttili esistenti, brava sia nei ruoli drammatici che in quelli leggeri come questo. Definirla passepartout non le rende giustizia, visto tutto il bene che le voglio, sta di fatto che ogni volta che la vedo a me pare perfetta e calzante, a prescindere dal ruolo. In soldoni, quindi, non è che Ocean's 8 sia un brutto film ma forse è un po' anonimo e piatto, incapace di sfruttare al meglio tutti gli elementi positivi di cui è dotato, un budget della Madonna e un incredibile cast in primis. E poi, mi chiedo: ma perché Richard Armitage è figo solo quando fa il nano?


Del regista e co-sceneggiatore Gary Ross ho già parlato QUI. Sandra Bullock (Debbie Ocean), Griffin Dunne (Responsabile libertà vigilata), Cate Blanchett (Lou), Elliott Gould (Reuben), Richard Armitage (Claude Becker), Anne Hathaway (Daphne Kluger), Helena Bonham Carter (Rose Weil), Dakota Fanning (Penelope Stern), Sarah Paulson (Tammy) e James Corden (John Frazier) li trovate invece ai rispettivi link.

Mindy Kaling interpreta Amita. Americana, ha partecipato a film come 40 anni vergine, Una notte al museo 2 - La fuga e Facciamola finita, come doppiatrice ha lavorato invece in Cattivissimo me, Ralph Spaccatutto ed Inside Out. Anche produttrice, sceneggiatrice e regista, ha 39 anni e un film in uscita.


Rihanna (Robyn Rihanna Fenty) interpreta Palla Nove. Nativa delle Barbados, ovviamente famosissima come cantante, ha partecipato a film come Battleship, Facciamola finita, Valerian e la città dei mille pianeti e a serie come Bates Motel; come doppiatrice ha lavorato in Home - A casa. Anche regista, sceneggiatrice e produttrice, ha 30 anni.


Tra le celebrità che hanno partecipato non accreditate nel ruolo di loro stesse ci sono Katie Holmes, Kim Kardashian, Jaime King, Olivia Munn, Serena Williams, Anna Wintour e Common; tra quelle che invece "non ce l'hanno fatta" ci sono Jennifer Lawrence, rimpiazzata da Anne Hathaway a causa di impegni pregressi, ed Elizabeth Banks. Siccome Ocean's 8 è lo spin-off di Ocean's Eleven - Fate il vostro gioco, se il genere vi piace recuperatelo e aggiungete Ocean's Twelve, Ocean's Thirteen e magari anche Colpo grosso e The Italian Job. ENJOY!

domenica 28 gennaio 2018

Brimstone (2016)

L'"allegria" che ha pervaso le mie ferie natalizie si è impennata brutalmente durante la visione di Brimstone, film diretto e sceneggiato nel 2016 dal regista Martin Koolhoven.


Trama: l'arrivo di un nuovo reverendo sconvolge la vita di una tranquilla famiglia ai tempi del Far West...



Mi avevano avvertita che Brimstone sarebbe stato un bel calcio nello stomaco ma francamente speravo nelle solite iperboli risolvibili in un "nulla di fatto". E, detto in tutta sincerità, l'ambientazione da western e la durata di quasi tre ore mi hanno causato più di un dubbio all'inizio, uno scompenso durato un minuto scarso perché Brimstone agguanta lo spettatore alla gola fin da subito e lo percuote, senza lasciarlo andare, fino alla fine della pellicola. Pur non essendo un horror vero e proprio, Brimstone mette in scena l'Orrore con la O maiuscola, quel genere di situazione che porta qualsiasi persona dotata di un cervello a bestemmiare ogni divinità pregando che l'antagonista principale crepi nel modo peggiore possibile e a coprirsi gli occhi davanti a cose inenarrabili; è quel genere di film che ti conforta con la bellezza di una regia e una fotografia prive di difetti, pulite e bellissime, intanto che ti racconta le peggio bastardate di un mondo rigurgitante ignoranza. Fulcro della storia è Liz, una bravissima Dakota Fanning, "ostetrica" del villaggio nonché muta. L'aura che avvolge Liz è misteriosa e il suo lavoro in una società particolare ed isolata come quella del far west (il film a occhio e croce è ambientato nel diciannovesimo secolo) è in odore di stregoneria e proprio la caccia alle streghe pare la direzione in cui è rivolto Brimstone, almeno all'inizio. L'arrivo del nuovo reverendo, interpretato dal più cattivo Guy Pearce che abbia mai visto sullo schermo, turba visibilmente Liz, al punto che lo spettatore horror più smaliziato potrebbe immaginare un paio di svolte della trama, ovvero quella in cui il reverendo in realtà è l'Anticristo (e tutto lo farebbe supporre, ma anche un fantasma, come hanno fatto notare alcuni critici) oppure quella in cui Liz verrà tacciata di stregoneria e arsa sul rogo dal pio quanto maledettissimo esponente del clero. In verità, e qui smetto di raccontare la storia, Brimstone si sviluppa in modo ancora differente, facendo ricorso ad un'interessante divisione in capitoli e ad una tecnica di narrazione a ritroso che svela il terrificante arcano in maniera elegante, efficace e a dir poco scioccante.


Koolhoven racconta una società estremamente maschilista dal punto di vista di una donna, anzi, di più donne che ne hanno viste di cotte e di crude, il cui unico desiderio è una vita serena in cui le proprie figlie possano crescere senza il timore di venire insidiate da orchi che le vedono come un mero accessorio arrivando a stravolgere ogni legge, terrena o divina, per rafforzare la loro presunta supremazia maschile. E' angosciante il modo in cui, nel film, tutto ciò che dovrebbe di regola essere "puro" o comunque "giusto" venga ignobilmente corrotto per i bisogni di una singola persona capace di fare leva sull'ignoranza di una congregazione di fedeli oppure su quella di un branco di bifolchi assetati di sangue, eppure è probabilmente quello che succedeva all'epoca, anche se noi, quando pensiamo a "western", pensiamo ad eroici sceriffi solitari dal grilletto facile per i quali le donne sono un allegro "di più", un premio alla fine di un'avventura. Nonostante l'introduzione e nonostante l'adozione di un punto di vista prettamente femminile, in Brimstone non ci sono però eroine infallibili alla Beatrix Kiddo ma solo donne che cercano disperatamente di sopravvivere in un mondo pronto a masticarle e sputarle, una società che non perdona e offre come via di fuga solamente la morte. Diverse storie scorrono parallele nel film, con rimandi continui all'una o all'altra linea temporale, ma la morte è l'unica costante di ognuna di essere, assieme al terrore; i deboli ricorrono alla morte per fuggire a un destino ingrato, lasciando le persone amate in balia del pericolo, alcuni la sfruttano proprio per proteggere i propri cari, altri le vanno incontro con serenità, consapevoli di amare ed essere amati e, soprattutto, di avere fatto tutto il necessario per coloro che sono riusciti a rimanere in vita. Non si vede tanto gore in Brimstone ma c'è tanta, tantissima violenza. E non è tanto quella fisica a turbare, ché la maggior parte delle scene scioccanti rimane fortunatamente fuori campo, quanto quella psicologica, l'angoscia di quasi tre ore di umiliazioni, ingiustizie, torture e orribili pensieri che vanno a formarsi inevitabilmente nella mente dello spettatore. Strano trovare tanta bellezza nell'orrore e viceversa, eppure Brimstone ci riesce e, anche solo per questo, è un film che merita di essere visto e amato, anche se forse una seconda visione risulterebbe molto difficile, più della prima.


Di Dakota Fanning (Liz), Guy Pearce (il Reverendo) e Carice Van Houten (Alice) ho già parlato ai rispettivi link.

Martin Koolhoven è il regista e sceneggiatore della pellicola. Originario dei Paesi Bassi, ha diretto film come Schnitzel Paradise e Winter in Wartime, entrambi inediti in Italia. Anche attore, ha 49 anni.


Paul Anderson interpreta Frank. Inglese, ha partecipato a film come A Lonely Place to Die, Sherlock Holmes - Gioco di ombre, Legend, Revenant - Redivivo e a serie come Doctor Who. Ha 39 anni e un film in uscita.


Kit Harington interpreta Samuel. Inglese, famosissimo Jon Snow della serie Il trono di spade, ha partecipato a film come Silent Hill: Revelation 3D e da doppiatore ha lavorato nel film Dragon Trainer 2. Anche sceneggiatore e produttore, ha 32 anni e un film in uscita.


Se avete pensato che l'attore che interpreta Wolf vi ricordasse qualcuno, per esempio Tim Roth, siete sulla giusta strada: trattasi infatti del figlio Jack, comparso anche in Rogue One e L'uomo di neve. Carla Juri, che interpreta Elizabeth Brundy, era invece la dottoressa Ana Stelline dell'ultimo Blade Runner 2049. A Mia Wasikowska era stato offerto il ruolo di protagonista ma l'attrice ha rinunciato per prendersi un periodo di riposo; la sua defezione ha causato un po' di ritardi in fase di produzione e, pensando che il film non si facesse più, anche Robert Pattinson si è tirato indietro, lasciando il posto a Kit Harrington (e pentendosene amaramente una volta visto il film...). Se Brimstone vi fosse piaciuto recuperate La morte corre sul fiume, The Hateful Eight e Bone Tomahawk. ENJOY!


domenica 30 ottobre 2016

American Pastoral (2016)

Pur digiuna del romanzo omonimo di Philip Roth, mercoledì sono andata a vedere American Pastoral, esordio alla regia di Ewan McGregor.


Trama: Seymour Levov, detto lo Svedese, è invidiato da tutti per la ricchezza, la bellezza e la splendida famiglia. La vita perfetta dello Svedese comincia però a sgretolarsi quando la figlia Merry viene sospettata di avere compiuto un attentato e scompare senza lasciare traccia...


Il mio post su American Pastoral sarà sicuramente molto superficiale e ogni impressione che seguirà sarà tratta esclusivamente dalla visione del film, in quanto non ho mai letto il romanzo da cui è stato tratto e non posso fare confronti. Preso di per sé, il primo film di Ewan McGregor nei panni di regista è un gigantesco punto interrogativo. Non brutto al punto da risultare aberrante, questo no, però neppure entusiasmante. Il fatto è che non ho ben compreso cosa volesse raccontare l'attore. American Pastoral mette in scena la rovina della vita perfetta di un uomo fondamentalmente buono, con l'unica colpa di avere avuto fortuna per quel che riguarda aspetto fisico, abilità sportive e origini familiari, e per questo messo in croce dalle due donne della sua vita, moglie e figlia. Le vicende dello Svedese, ambientate negli anni turbolenti della guerra del Vietnam e delle rivolte razziali negli Stati Uniti, si intrecciano agli sconvolgimenti sociali in maniera così stretta che la sfortuna del singolo diventa la rappresentazione in piccolo di tutta la violenza subita da una Nazione bibina, fortemente convinta del fatto che il sogno americano WASP sia slegato dalle brutture del mondo al punto che quando esse colpiscono dritte nelle palle l'unica reazione è una perplessa impotenza. Lo Svedese, a dispetto delle radici ebree e del soprannome, E' la quintessenza dell'America buona ma ottusa, impreparata ad affrontare la triste realtà pur con tutte le migliori intenzioni, mentre la figlia Merry rappresenta invece il mondo intero, pronto ad aprire gli occhi all'ignoranza provinciale e a ricoprirglieli di sangue e sofferenza; Dawn, moglie dello Svedese, diventa invece quell'America superficiale in maniera fastidiosa, che sceglie di non vedere e tagliare via ciò che offende il suo sguardo, fosse anche quella parte di popolazione "naif" di cui si parlava sopra, che alla bisogna diventa capo espiatorio per tutto ciò che non va. Insomma, democratici contro repubblicani, con rivoluzionari, terroristi e invasati senza arte né parte a fare da triste spartiacque. E, purtroppo, mai una volta che il discorso venga approfondito.


Il fatale difetto di American Pastoral è per l'appunto questo avvicendarsi sullo schermo di macchiette da deridere, caratteri appena abbozzati e talmente prevedibili da risultare fastidiosi. Con tutto il bene che si arriva a volere allo Svedese, fondamentalmente una povera mucca condotta al macello, la sua natura ignava e la sua cocciutaggine mettono voglia di prenderlo a ceffoni. Non che questo giustifichi minimamente moglie e figlia, rispettivamente interpretate da una superba Jennifer Connelly e da una Dakota Fanning che ad ogni inquadratura ti porta a pensare "Ma come hai fatto a diventare così MMostro, figlia mia? Eri una bimbetta così carina...". Miracolo del make-up (che mostra tutti i suoi limiti quando deve invecchiare o ringiovanire in maniera naturale i personaggi, ridotti a maschere di cera), la Connelly passa da moglie e madre coraggio ad algida stronza le cui motivazioni sono talmente risibili che meriterebbe un colpo di pistola in fronte, mentre la Fanning è semplicemente odiosa, anche senza bisogno di trucco: la pargola balbuziente spinge lo spettatore a volerle strappare la lingua ogni volta che apre bocca e il passaggio da mocciosa psicotica a terrorista, per poi arrivare a sucida santona indiana, è talmente repentino e mal motivato da causare più di una perplessità. Alla fine della visione di American Pastoral la sensazione che mi è rimasta è stata quella di aver visto soltanto la triste storia di un povero belinone, inoltre l'approfondimento storico/culturale è talmente superficiale che non mi è venuta neppure la solita voglia di andare a cercare informazioni relative al periodo in cui è ambientata la pellicola e sinceramente non penso che Philip Roth abbia lasciato le stesse sensazioni a chi ha letto il romanzo (ma oh, potrei sbagliare). Ewan McGregor, tu mi hai diludendo, come attore e soprattuttamente come regista. Belle immagini sì, ma la prossima volta vorrei un po' più di verve e impegno, ché qui son tutti buoni a girare drammoni insipidi, dai.


Di Ewan McGregor, regista e interprete dello "Svedese", ho già parlato QUI. Jennifer Connelly (Dawn Levov), Dakota Fanning (Merry Levov), Peter Riegert (Lou Levov) e David Strathairn (Nathan Zuckerman) li trovate invece ai rispettivi link.

Rupert Evans interpreta Jerry Levov. Inglese, ha partecipato a film come Hellboy, The Boy e a serie come The Man in the High Castle. Ha 40 anni.


Il film ha avuto una gestazione di dieci anni, tanto che sia Paul Bettany che Evan Rachel Woods, scelti per interpretare rispettivamente lo Svedese e Merry, hanno abbandonato il progetto ed è rimasta la sola Jennifer Connelly. Per finire, se vi fosse piaciuto American Pastoral potrebbe essere una buona idea recuperare Arlington Road. ENJOY!


venerdì 17 luglio 2009

Coraline e la porta magica (2009)

Ieri sera sono andata a vedermi, dopo lunga attesa, la versione 3D di Coraline e la porta magica (Coraline) dell’ormai espertissimo e sempre bravo Henry Selick, tratto da un racconto di Neil Gaiman, lo stesso autore dello storico Sandman.

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La trama: Coraline Jones è una curiosa ragazzina che cerca di sopravvivere nel grigio mondo dei genitori, noiosi e troppo impegnati col loro lavoro per prestarle la necessaria attenzione. Un giorno, nella squallida casa nuova (degno coronamento ai vicini di casa, un branco di freaks), Coraline trova una piccola porticina che la porta in un mondo speculare a quello vero, ma migliore, dove genitori, vita e vicini rispondono ad ogni suo desiderio. Un mondo ideale.. peccato che, per rimanerci per sempre, la piccola dovrebbe farsi cucire dei bottoni al posto degli occhi: una terribile stonatura in un mondo che, come Coraline a poco a poco scoprirà, ne è pieno…


 


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Un moderno Alice nel Paese delle meraviglie, ecco cos’è questo Coraline. Un viaggio fantastico in un mondo da sogno (o da incubo) che cattura lo spettatore dall’inizio alla fine, cullandolo con immagini di una bellezza mozzafiato accompagnate da una colonna sonora inquietante ed evocativa (strano che non fosse coinvolto Danny Elfman stavolta…). Premetto di non aver letto il racconto da cui è stato tratto il film, quindi la mia analisi non sarà molto accurata, e premetto anche che i miei occhi erano troppo rapiti dalla cura certosina che sta dietro alla stop motion per cogliere eventuali falle nella trama.


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Quello di Coraline è il tipico “viaggio iniziatico” di una bimba acidella e non troppo simpatica, che si ritrova in una situazione non voluta, in una casa nuova, lontana dai vecchi amici, circondata da gente e animali che non tollera e che rifiuta con tutta sé stessa. La rappresentazione iniziale dei moscissimi genitori e degli assurdi vicini di casa (su tutti le anziane ex attrici, con i loro cani impagliati e le caramelle dell’anteguerra), nonché del grigio, fatiscente e piovoso ambiente, è geniale ed induce nello spettatore un sufficiente moto di simpatia nei confronti della ragazzina costretta a sopportarli. Ed è così che viene accolto quasi con sollievo l’arrivo di questa porta, e dell’altro mondo: coloratissimo, divertente, una festa per gli occhi… e a proposito di occhi: peccato per quegli inquietanti bottoni cuciti sulle facce di ogni essere vivente, che cominciano ad insinuare qualche dubbio. Pare proprio una casa delle bambole quella in cui viene a trovarsi Coraline, un posto magico dove tutti i suoi desideri diventano realtà, e dove i suoi vicini, che potenzialmente potrebbero essere le persone più interessanti del mondo (in fondo sono tutti artisti circensi e teatrali) realizzano questo potenziale, regalandoci le scene più belle di tutto il film: lo spettacolo dei topi ballerini, l’esilarante duetto tra la Sirenetta vecchia e la Venere del Botticelli grassa, per non parlare del meraviglioso giardino creato dall’altro Padre solo per Coraline.


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Ed è proprio quando Coraline si convince a vivere lì per sempre che la sottile inquietudine data da quei bottoni al posto degli occhi si manifesta: essi sono il terribile prezzo per far diventare reali i propri desideri, come a dire che il troppo stroppia e che le cose ottenute con troppa facilità nascondono sempre la fregatura. Da lì in poi il film cambia registro, e l’elemento dark supera di parecchi livelli quello favolistico: arrivano i fantasmi dei bimbi che sono stati così sciocchi da credere alle parole della Matrigna, e che hanno perso gli occhi e la vita. La matrigna stessa diventa un orrendo ragno antropomorfo, dalle mani come artigli, e tutto ciò che all’apparenza era bello diventa grottesco e contorto. Non ho problemi ad ammettere che verso il finale qualche brivido viene anche ai più scafati, soprattutto è inquietante il fatto che, come nei migliori horror, il male non viene debellato definitivamente ma rimarrà per sempre sospeso come una spada di Damocle sul capo della protagonista, anche se quest’ultima avrà comunque imparato ad apprezzare genitori ed amici, per quanto imperfetti: Un happy ending, dunque, ma nemmeno troppo.


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I personaggi sono tutti assai graziosi e ben caratterizzati. Coraline non è la classica ragazzina scema delle fiabe, è furba e fin troppo sarcastica; inoltre è stilosa da morire, con i capelli blu tinti e le unghie abbinate. L’amichetto freak, Wybourne (che si pronuncia come Why Born?, ovvero Perché sei nato?), un po’ insulso nonostante i mille tentativi di renderlo particolare, risulta paradossalmente meglio nell’altro mondo, un pupazzetto muto e dolcissimo, a mio avviso il personaggio più azzeccato dopo la Matrigna, che è l’essenza della malignità e a tratti fa davvero paura. Altri miti sono le due vicine ex attrici di Vaudeville, l’una cieca come una talpa, l’altra con difficoltà deambulatorie, e l’acrobata russo, alle prese con uno spettacolo di topi ballerini che non vedremo mai. L’unica presenza “normale” del film è il micio dall’aspetto inquietante che funge da guida e coscienza di Coraline: nonostante possa parlare, ha sicuramente più senno ed utilità pratica di tutti gli altri personaggi insieme. Il micio però è l’unico elemento che palesa i limiti della stop-motion e che non è evoluto dai tempi di The Nightmare Before Christmas: il suo sembiante rozzo, i tratti quasi appena abbozzati sono identici a quelli del gatto che a volte accompagna la bambolina di pezza Sally nel primo film di Selick. Per il resto, questa tecnica conferisce alle immagini una poesia e una bellezza che, ormai, nei cartoni tutti fatti con la computer graphic è difficile trovare. In fondo ogni singolo fotogramma presuppone lo sbattimento di orde di artisti ed artigiani che, a mano, muovono i pupazzetti, cambiano testoline con le espressioni, creano miniscenografie curate in ogni dettaglio; e se un tempo si percepivano questi piccoli “scatti” e l’animazione non era propriamente fluida, oggigiorno è praticamente perfetta. L’unica pecca è che la versione 3D, a mio avviso, non sfrutti molto la nuova tecnologia, tranne in alcune scene non troppo memorabili o fondamentali.


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Come già detto all’inizio, questo Coraline ha molti elementi in comune con Alice nel Paese delle Meraviglie: c’è una porta da attraversare collegata all’altro mondo da un cunicolo, simile a quello dove si infila il Bianconiglio. C’è un gatto che scompare e ricompare a suo piacimento, come lo Stregatto. C’è un giardino incantato dove i fiori si muovono, e alcuni animali parlano, oltre alla tentazione del cibo che, si sa, ha messo parecchie volte nei guai Alice. Per i più grandi viene citato a piene mani Nightmare (la mano ad artiglio che si stacca e vive di volontà propria), qualcuno ha detto anche la Casa 4 (le bocche cucite), il Candido di Voltaire e, sicuramente, l’Amleto di Shakespeare, di cui viene riproposto un monologo nel corso dello spettacolo delle due attrici. Per i nostalgici, le citazioni da The Nightmare Before Christmas si sprecano: l’inizio, quando una misteriosa mano meccanica scompone e ricuce una bambolina di pezza, ricorda molto il modo in cui Jack seziona un orsacchiotto di peluche, i macchinari del Dr.Finkelstein e ovviamente la distruzione del Babau. La Tartaruga giocattolo che trova Coraline nell’altro mondo è l’ennesima “figlia” del cane fantasma Zero e del cagnolino tutt’ossa de La sposa cadavere, e molto simili ai personaggi de La Sposa Cadavere sono sia le vecchie attrici che l’acrobata, bluastro come i morti viventi che popolano quel film. La Matrigna, o Altra Madre che dir si voglia, somiglia invece a tratti alla vecchia Crudelia DeMon de La carica dei 101, mentre l’arredamento del suo salotto somiglia a un incubo kafkiano.


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Ultime due curiosità, prima di parlare dei doppiatori famosi che in Italia ci siamo persi. Primo: rimanete ovviamente fino alla fine dei titoli di coda e pregate che gli stolti gestori del cinema non accendano le luci, rendendo quasi inutili i vostri occhiali 3D, c’è un grazioso spettacolo dei topolini ballerini. Altra cosa: vedrete, sempre sul finale, una strana scritta, che recita più o meno così: “Per chi può capirlo: Animale”. Non statevi a scervellare, è l’ennesima testimonianza dell’ignoranza dei nostri adattatori, che hanno tradotto persino l’indizio di un concorso legato al sito USA della Nike (ergo, inutile per il nostro Paese), che consentiva di vincere un paio di scarpe prodotte apposta per il film. La parola originale, per la cronaca, era Jerk Wad, epiteto poco carino che Coraline usa nei confronti di Wybourne. Infatti, mentre “jerk” ha assunto, molto banalmente, il significato di “idiota”, il “jerk wad” è l’equivalente della “douche bag”, in pratica è ciò con cui ci si pulisce dopo essersi sparati una pippa. Un idiota, insomma, ma all’ennesima potenza, un rifiuto della società, una schifezza d’uomo. Non a caso, negli USA è stato richiesto che i bambini venissero accompagnati dai genitori anche per l’utilizzo di alcuni termini “impropri”, oltre che per le scene un po’ paurose.




Henry Selik è il talentuoso regista del film, di cui è anche sceneggiatore. Oltre ad avermi regalato, assieme a Tim Burton, il cartone animato più bello che abbia mai visto, il pluricitato The Nightmare Before Christmas, ha girato anche James e la pesca gigante, sempre in stop motion, tratto da un libro di Roald Dahl. Ha 57 anni e un film in progetto.


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Dakota Fanning da la voce a Coraline. Premetto che io adoro Dakota, secondo me è una delle enfant prodige più dotate di Hollywood, quindi sono felicissima ogni volta che vedo un film che contempla la sua presenza. Tra le sue pellicole ricordo Mi chiamo Sam (il suo esordio sul grande schermo assieme a un meraviglioso Sean Penn), il cult The Cat in the Hat, Man on Fire, Nascosto nel buio, La guerra dei mondi, Charlotte’s Web e ha inoltre doppiato un capolavoro dell’animazione giapponese come Il mio vicino Totoro. Ha partecipato anche alle serie televisive ER, Ally McBeal, CSI, Malcom, I Griffin, alla splendida miniserie Taken (che mi ha fatta innamorare di lei!), Friends. Ha 15 anni e due film in uscita, tra cui il secondo capitolo dell’orrenda franchise di Twilight: New Moon.




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Teri Hatcher da la voce alla mamma di Coraline e all’Altra Madre, o Matrigna. L’attrice californiana, la cui carriera è sempre stata prettamente televisiva, ha trovato una rinnovata fama interpretando la svampita casalinga Susan Meyers nella serie Desperate Housewives, dopo un periodo di stasi lavorativa. Tra i suoi film ricordo Tango & Cash, Il domani non muore mai, Spy Kids. Per la TV ha lavorato nelle serie Love Boat, Star Trek, McGyver, I racconti di mezzanotte, Lois & Clarke: Le nuove avventure di Superman, Seinfeld, Frasier, Two and a Half Men. Ha 45 anni.




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E dopo questo lungo e tedioso post, vi lascio con il carinissimo trailer… ENJOY!






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