mercoledì 18 dicembre 2024

Heretic (2024)

Facendo i debiti calcoli, direi che Heretic, diretto e sceneggiato dai registi Scott Beck e Bryan Woods, sarà l'ultimo horror di cui parlerò quest'anno, e il 2024 non poteva finire meglio!


Trama: sorella Barnes e sorella Paxton, giovani missionarie metodiste, bussano alla porta del gioviale Mr. Creed, senza sapere di essersi appena condannate a vivere un incubo...


Di Heretic avevo giusto visto un teaser o poco più, ma poiché ho sviluppato una passione per l'ultima evoluzione di Hugh Grant, pronto ad addentrarsi nel terreno scivoloso dei ruoli sgradevoli, me l'ero segnato come uno dei film da guardare assolutamente. Ci ho visto giusto, per fortuna, anche se non mi sarei aspettata un film così "ragionato". Più che un horror, infatti, Heretic è un thriller psicologico, che entra nel vivo dopo un'introduzione molto lunga che serve non solo a presentarci i personaggi, ma anche a mettere sul tavolo le dinamiche di potere tra gli stessi. Senza addentrarsi troppo in spoiler, sorella Barnes e sorella Paxton sono due anacronistiche ragazze mormone, che troviamo in procinto di compiere la loro missione di diffusione della parola di Cristo, atta a fare proseliti tra i cosiddetti "investigators", ovvero coloro che sono interessati a capire di più della dottrina della loro Chiesa. Diversamente da quanto accade in opere simili, Barnes e Paxton non sono caratterizzate come delle matte invasate, ma come ragazze normali, motivate da una fede profonda e consapevoli di essere considerate delle reiette dalle loro coetanee; la trama sposa, fin dall'inizio, il loro punto di vista innocente e talvolta ottuso, tanto che è difficile provare antipatia nei loro confronti. Allo stesso modo, almeno nel corso delle prime sequenze di "confronto", è difficile non rimanere affascinati da Mr. Reed, colto gentiluomo per nulla disposto a farsi prendere per il naso da quella che è, fondamentalmente, una setta, e ben disposto ad inculcare un po' di sale in zucca alle due ragazzine con stoccate ironiche e pungenti. Solo che, andando avanti, il registro cambia e si chiarisce il focus di un'operazione come Heretic, che sfrutta la religione per parlare, come ho scritto sopra, di dinamiche di potere e prevaricazione. Di fronte al titolo, mi sarei aspettata che l'incontro col ciarliero, talvolta buffo Mr. Reed, si sarebbe tradotto in qualcosa di satanico, oppure in uno scontro tra invasati religiosi come molto spesso si incontrano all'interno di questo genere di film. In realtà, "Heretic" si fonda sull'etimologia stessa di questa parola ed è interamente basato sulle "scelte" delle protagoniste, condizionate (sin dagli innocenti dialoghi dell'inizio) da fede, credenze, preconcetti e, soprattutto, iterazioni, tutti elementi sapientemente manipolati da un affabulatore nato come Mr. Reed e atti a torturare il prossimo non tanto per diletto, quanto per una patologica mania di controllo.


Il set dove si svolge quasi interamente Heretic, un capolavoro di architettura ed ingegneria "sbagliato" sin dalle prime immagini, è lo specchio della mentalità contorta del suo padrone e uno degli aspetti più interessanti ed originali del film. Scott Beck e Bryan Woods avevano già dimostrato, con Haunt, di saper giocare con le percezioni dello spettatore e dei protagonisti, trasformando un banale horror a tema "case stregate di Halloween" in un gioiellino di tensione; qui, secondo me, alzano ulteriormente il tiro sfruttando alla perfezione il montaggio (una particolare sequenza Kubrickiana si distingue per il gusto finissimo), il sonoro e le musiche, inoltre anche il graduale cambio di registro da commedia grottesca a dramma disperato funziona alla grande e i dialoghi contengono tante di quelle informazioni che servirebbe una vita per confutarle tutte, il che contribuisce ad alimentare l'incertezza dello spettatore relativamente al personaggio di Mr. Reed. Riguardo a quest'ultimo, se Hugh Grant si portasse a casa il Golden Globe festeggerei per giorni. Come ho detto, l'ex eroe delle rom com raffinate è diventato un vecchio bastardo sia nelle interviste che nei ruoli che sceglie, e questa sua nuova natura lo rende, ai miei occhi, molto più interessante che in passato. Pur gigioneggiando come se non ci fosse un domani, Grant non si mangia però tutto il film, perché i realizzatori di Heretic hanno avuto l'intelligenza di affiancargli due giovani attrici dal fascino diametralmente opposto, capaci di completarsi come il giorno e la notte. Da una parte, abbiamo Sophie Thatcher, bellezza crepuscolare e dotata di uno sguardo profondo, fin da subito connotata come l'elemento carismatico della coppia di missionarie; dall'altra abbiamo Chloe East, ingenua e timorosa eppure sempre più importante col proseguire della storia. L'interazione tra i tre, fatta di dialoghi, sguardi e silenzi, svia continuamente lo spettatore, spingendolo in direzioni inaspettate che rendono la visione di Heretic, nonostante la sua natura di slow burn, un viaggio continuo sulle montagne russe, pieno di twist inaspettati (se vi va, nei commenti, vi racconto tutti i castelli mentali che mi sono fatta a un certo punto, perché c'è da ridere). Arrivato alla fine di questo ricchissimo 2024, Heretic è uno dei film più originali che vedremo in Italia l'anno prossimo, e il mio consiglio è di non farselo scappare per niente al mondo!


Dei registi e sceneggiatori Scott Beck e Bryan Woods ho già parlato QUI. Hugh Grant (Mr. Reed), Sophie Thatcher (Sister Barnes) e Topher Grace (Elder Kennedy) li trovate invece ai rispettivi link.



martedì 17 dicembre 2024

Terrifier 3 (2024)

Natale è alle porte, e finalmente sono riuscita a recuperare un film a tema che, purtroppo, dalle mie parti avevano pensato bene di non fare uscire, Terrifier 3, diretto e sceneggiato dal regista Damien Leone.


Trama: cinque anni dopo essere sopravvissuta a stento ad Art il Clown, Sienna fatica a mantenere la sanità mentale. Viene ospitata per Natale dalla famiglia della zia, proprio quando Art decide di tornare, a mo' di novello Santa Claus...


Damien Leone
ce l'ha fatta anche stavolta, anzi, si è superato. Ha stracciato film ben più blasonati del suo, al box office americano, e in Italia la Midnight Factory penso si sia riempita le casse per gli anni a venire, tanto ha pompato il terzo capitolo della saga Terrifier. E' una cosa buona, anche se ai puristi dell'horror potrà fare storcere il naso; che il nostro genere preferito diventi un fenomeno mondiale, significa dargli più fiducia, visibilità e distribuzione, e nella marea di puttanate che sicuramente ci sommergerà, arriveranno anche opere dignitosissime e meritevoli. Terrifier 3, per quanto mi riguarda, è un'opera che si pone esattamente nel mezzo di questi due estremi. Sono passati sette anni dal primo, rozzo e succido Terrifier, e molte cose si sono evolute all'interno della saga. Quella che più mi intriga, ahimé, è anche quella che Leone centellina maggiormente, ovvero quei fugaci rimandi a una dimensione demoniaca che ha probabilmente vomitato sulla terra la Pale Girl e Vicky e che usa Art come efferato strumento per diffondere il male a piene mani, con sommo scorno della povera Sienna, eletta invece a martire dell'umanità tutta. E' palesemente un work in progress, perché a mettere assieme tutti gli indizi sparsi all'interno dei tre film si troverebbero tanti di quei buchi da caderci dentro per anni, ma lascia in bocca il sapore di quei filmacci di serie Z italiani, dove accadevano cose "perché sì", quindi ben venga la confusione, sperando che nel prossimo capitolo non ci siano personaggi spiegoni a rovinare tutto. E' migliorato lo stesso Leone, a livello di messa in scena e di gusto per la composizione, probabilmente anche grazie a qualche soldino in più: se il primo Terrifier sembrava una cosa amatoriale portata avanti da cazzimma e voglia di sbattere in faccia allo spettatore effettacci artigianali da voltastomaco, il terzo è più ragionato, ben diretto, discretamente privo di punti morti (avrei comunque evitato il primo momento "Casa Vianello" che precede la decisione di Vicky ed Art di ibernarsi per cinque anni, la definizione stessa di "ciurlar nel manico"), interessato ad esplorare i personaggi e parte del loro passato/caratteristiche. Tutto un po' più raffinato, sì, ma per fortuna ciò non vale per il motivo che porta noi "filthy animals" al cinema, ovvero Art il Clown.


Stavolta, il "buon" Art decide di sostituirsi a Babbo Natale, con ovvi, benché imprevedibili e sempre più disgustosi, risultati. Sarà perché David Howard Thornton, al terzo film, ha ormai preso le misure del personaggio, delle sue espressioni e dei tempi comici (o sarà perché ho letto che la sua fonte di ispirazione è nientemeno che Stefán Karl Stefánsson, il Robbie Rotten della serie Lazy Town, e non riesco più a non notare le innegabili somiglianze nella mimica) ma non sono più in grado di provare paura o schifo come i primi tempi, anzi: ormai si guarda il film solo per Art, per quel suo menefreghismo totale verso il prossimo che, talvolta, si rischia di scambiare per innocenza, almeno finché non ti arriva un'accettata in faccia. Ci sono sequenze esilaranti, come quella che vede Art procurarsi il costume di Babbo Natale oppure quella in cui si ringalluzzisce per i commenti degli "amici" di Jonathan, in cui è davvero difficile non provare simpatia verso il personaggio (onestamente, ho riso moltissimo anche davanti al coppino tirato nella nuca a Sienna, benché inserito in uno dei contesti più terrificanti del film), e se la serie diventasse un one man show del mefitico clown non mi dispiacerebbe neppure. Nulla da togliere a Lauren LaVera e ai suoi compari, anche perché l'attrice ci mette l'anima quando interpreta la sfortunata Sienna, ma il giorno in cui Art verrà sconfitto sul serio mi dispiacerà parecchio. Anche perché, in Terrifier 3, la palma dell'orrore vero la vince la perfida Vicky; vero è che Art non si trattiene e riempie lo schermo di vernice rossissima e arti mozzati a profusione, ma quella che porta a casa i momenti più tremendi a livello di gore e schifo, tra omaggi a Bret Easton Ellis e ad Haneke, è proprio la disgraziata ex studentessa universitaria del primo film. Ciò detto, forse sarò insensibile io, ma non mi è sembrato che Terrifier 3 fosse più splatter dei precedenti capitoli della saga, e mi risulta davvero difficile anche solo immaginare che qualcuno sia svenuto e si sia messo a vomitare durante i primi minuti, visto che l'efferatezza peggiore avviene fuori dall'inquadratura. Vediamo cosa succederà con Terrifier 4, visto che Art ha intenzione di rimanere con noi ancora a lungo!


Del regista e sceneggiatore Damien Leone ho già parlato QUI. Lauren LaVera (Sienna), David Howard Thornton (Art il Clown), Clint Howard (Smokey), Tom Savini (Passante) e Jason Patric (Michael) li trovate invece ai rispettivi link. 


Se Terrifier 3 vi fosse piaciuto, recuperate ovviamente i primi due capitoli della saga, aggiungendo All Hallow's Eve e magari anche Black Christmas (Un Natale rosso sangue), Natale di sangue e Racconti dalla tomba. ENJOY!

venerdì 13 dicembre 2024

Your Monster (2024)

Il secondo film di cui volevo assolutamente parlarvi prima che finisse l'anno è Your Monster, diretto e sceneggiato dalla regista Caroline Lindy.


Trama: Laura viene mollata dal fidanzato nel momento esatto in cui scopre di essere malata di tumore. Una volta guarita, ancora innamorata, Laura si ritrova a dover ricomporre i cocci della sua vita, quando dall'armadio della casa di sua madre spunta un mostro...


Your Monster
è una deliziosa commedia tinta di nero, una rom com con mostro annesso. Non è un horror con elementi romantici, bensì il contrario: segue tutti i passi "tipici" di uno dei generi che odio, partendo da una rottura che lascia la malcapitata ancora preda di fortissimi sentimenti per l'ex, per poi arrivare allo sviluppo di un sentimento per un'altra persona, che arriva a sostenere la protagonista nel momento più difficile della sua vita. Solo che, al posto di un altro uomo, qui c'è un mostro, anzi, Mostro. L'adorabile Mostro è la Bestia se non fosse mai tornato ad essere principe (e qui credo che la Lindy sia "una di noi", una di quelle che alla fine del capolavoro Disney è rimasta delusa dalla banalità del sembiante umano dell'eroe, o non si spiega la somiglianza), sgarbato e un po' tanto volgare, pronto a cacciare via di casa Laura dopo tanti anni di onorata solitudine mostresca. Mostro agisce come la voce della verità, quella che servirebbe a tutte le donne pronte a diventare zerbini innamorati, a tutte le persone, di qualsiasi sesso, che evitano ogni conflitto addossandosi la colpa per ogni cosa. Laura è malata di tumore, quello schifo di fidanzato che ha la molla perché prendersi un simile accollo è troppo difficile, però ha ragione lui: d'altronde il povero Jacob è impegnato a realizzare il suo primo musical, Laura e la sua malattia sarebbero solo d'impiccio, così come sembra brutto chiedere alla migliore amica di ignorare le lezioni di yoga per farle un po' di compagnia, così come non è bene pretendere di avere un ruolo nel musical di cui sopra, scritto in collaborazione con Laura, che avrebbe dovuto esserne la protagonista. No, Laura incassa, subisce e ringrazia pure, per poi piangere disperata a casa. Almeno fino all'arrivo di Mostro, che le insegna, con metodi non proprio ortodossi, a coltivare un po' di amor proprio e a tirare fuori le palle, soprattutto davanti a persone orrende, che meriterebbero solo sputi in faccia. La bellezza di Your Monster risiede proprio nel modo in cui racconta situazioni verosimili, le inserisce in una cornice zeppa di topoi romantici, e le rimescola ulteriormente diventando, verso il finale, qualcosa che travalica l'elemento horror e lascia lo spettatore tramortito.


Per questo, Your Monster va maneggiato con un po' di cautela. Ci sono molte sequenze in cui la malinconia e il disagio la fanno da padroni, ed empatizzare con la protagonista è talmente facile che il rischio di commuoversi, o piangere come fontane, è molto alto. In tutto questo, Caroline Lindy riesce comunque a risollevarci l'animo con momenti di intrattenimento puro, durante i quali assistere alle interazioni tra Laura e Mostro è una goduria, e ci sono persino diversi intermezzi musical che denotano una cura incredibile per le scenografie e gli abiti (il ballo di Halloween, con Melissa Barrera vestita come la moglie di Frankenstein più bella del mondo, mi ha rapito il cuore), mentre il motivetto portante dello spettacolo si insinua nella mente dello spettatore per non lasciarla più. I protagonisti, poi, sono fantastici. Tommy Dewey cattura il cuore, anche se è conciato come Bob di Ragazze, il mostro è innamorato, e fa venire voglia di aprire l'armadio per vedere se, magari, avesse deciso di venire a far compagnia anche a noi. Melissa Barrera, dal canto suo, è molto più a suo agio in questo genere di commedie horror che nella saga di Scream (dove pure mi è piaciuta parecchio), ed infonde al personaggio di Laura una tenerezza, una goffaggine e una vena weird capace di renderlo tridimensionale e vivo, cosa che conferma l'attrice come uno dei talenti da tenere d'occhio, all'interno del nostro genere preferito. Se durante le vacanze di Natale vi venisse voglia di tenerezza ma, come me, non amate la roba troppo smielata, Your Monster è un ottimo compromesso, ed è un film talmente ricco di sfaccettature che rischia anche di diventare uno dei vostri preferiti di quest'anno! 


Di Melissa Barrera (Laura Franco) ho già parlato QUI.

Caroline Lindy è la regista e sceneggiatrice della pellicola, al suo primo lungometraggio. E' anche attrice e produttrice.


Tommy Dewey
interpretava il mostro anche nel corto omonimo che ha dato vita a Your Monster, sempre diretto e sceneggiato da Caroline Lindy. Se il film vi fosse piaciuto recuperate Lisa Frankenstein. ENJOY!

mercoledì 11 dicembre 2024

MadS (2024)

Prima della fine dell'anno cercherò di consigliarvi ancora un paio di horror, che più diversi non si può. Il primo è MadS, diretto e sceneggiato dal regista David Moreau.


Trama: Romain, figlio di papà strafatto, incrocia per strada una donna ferita e cerca di aiutarla. La cosa scatenerà l'apocalisse...


MadS
è il film perfetto per chi ha poco tempo per vedere i film e rischia di abbioccarsi ogni due per tre, perché è rapidissimo e va dritto al punto senza menarsela troppo. E' inoltre una pellicola che riconcilia col filone ormai stra-sfruttato degli zombi, riuscendo a fornire un punto di vista abbastanza originale, senza per questo dimenticare i classici (il tema portante della colonna sonora, per esempio, mi ha ricordato moltissimo quello di 28 giorni dopo). MadS racconta l'apocalisse attraverso il punto di vista di tre persone, che si "danno il cambio" seguite da un unico, lunghissimo piano sequenza. La cosa consente allo spettatore di avere un quadro abbastanza chiaro dell'evolversi della situazione senza che intervengano personaggi "spiegoni" che la sviscerino nel dettaglio, inoltre aumenta la sensazione di angoscia, in quanto i tre ragazzi protagonisti, al contrario, si ritrovano in una merda nerissima senza neppure capire perché. Idealmente, MadS si potrebbe dividere in tre "corti" collegati tra loro, perché le sensazioni che veicola sono differenti e anche la tensione viene gestita in tre modi diversi. Seguendo Romain, ci troviamo davanti la tipica introduzione da horror, e anche se sappiamo, più o meno, dove andrà a parare la storia, siamo sempre sul chi va là, soprattutto quando il ragazzo si ritrova solo con altri comprimari, impegnato in interazioni parecchio ravvicinate e sempre più allucinate, complice anche la droga misteriosa assunta a inizio film. Nel momento in cui l'attenzione si sposta su Anais (a mio avviso, la parte meglio gestita ed interessante dell'intero film), sembra di avere di fronte un incubo dove tutto viene filtrato dal punto di vista terrorizzato di un personaggio che, a differenza di Romain, arriva più o meno a capire cosa le sta succedendo e vive un ultimo, terribile momento di lucidità e paura cieca. Il registro cambia di nuovo quando la protagonista diventa Julia, e MadS torna nuovamente a battere le strade classiche di un survival horror disperato, di un essere umano contro la fine della civiltà per come la conosciamo, e lì l'omaggio guarda al modello iberico di un capolavoro come REC


A tal proposito, la scelta di realizzare il film cercando di dare l'impressione che sia stato girato in un unico take, porta lo spettatore ad immedesimarsi ancor più con i personaggi, aumentando il senso di angoscia e l'idea che questi poveracci siano seguiti da un occhio onnipresente e malevolo. Come ho scritto all'inizio, inoltre, non dà nemmeno il tempo di pensare. Gli avvenimenti si susseguono rapidi, uno dietro l'altro, un minuto prima c'è da pensare all'alcol per il party e a tutti gli scazzi amorosi post-adolescenziali di ragazzi pieni di soldi, un secondo dopo quegli stessi ragazzi non possono più uscire da una città blindata, e chi non corre per mettersi in salvo, corre per raggiungere i genitori che né telefonini, né social riescono più a raggiungere. Moreau fa un ottimo uso non solo della cinepresa e del montaggio, ma anche delle luci artificiali e dell'assenza delle stesse, per non parlare degli attori. Giovanissimi e alla loro prima esperienza o quasi, danno vita a personaggi molto naturali nella loro insopportabile stupidità durante le prime sequenze, dopodiché diventa inevitabile fare il tifo per loro o sperare che il destino che li aspetta non sia proprio atroce come sembra. In particolare, Laurie Pavy e la sua Anais mettono i brividi di vero terrore, e questo subito dopo che la stessa attrice è riuscita a farmi piangere nel corso della sequenza che la vede prendere coscienza della sua situazione, nel bagno del locale. Altro non mi sento di dire, perché MadS va visto, è un ottimo modo per chiudere un 2024 horror che mi ha dato molta varietà e soddisfazioni. Solo, state attenti, se non bazzicate molto il genere, che non vi esploda il petto per l'ansia! 

David Moreau è il regista e sceneggiatore della pellicola. Francese, ha diretto film come Them e The Eye. Anche produttore, ha un film in uscita. 



martedì 10 dicembre 2024

Bolle di recensioni: Wicked (2024) e Oceania 2 (2024)

Lo so. E' brutto accorpare le recensioni di due film recenti così importanti, ma purtroppo il tempo di scrivere è poco e siamo già a dicembre, con le classifiche di fine anno in vista, ed articoli più corposi rischierebbero di finire a gennaio. Quindi, bando alle ciance e cominciamo! ENJOY!


Wicked
(Jon M. Chu, 2024)

Uno dei motivi per cui non mi sono sentita di scrivere un post intero su Wicked, è la mia ignoranza totale relativamente al musical da cui è tratto. Avevo letto il romanzo di Gregory Maguire ai tempi dell'università, quando la mia padronanza dell'inglese non era poi così eccelsa, e avevo fatto molta fatica a finirlo e ad apprezzarne la complessità, la cupezza e il twist adulto che trasformava Oz in una landa di depravazione, violenza e razzismo. Non mi è mai venuta la curiosità di recuperare un video del musical, quindi non conoscevo nemmeno una canzone prima di guardare il film, e ciò mi ha salvata, ma è un altro dei motivi per cui ho deciso di non scrivere un post di lunghezza standard. La scellerata distribuzione italiana ha scelto, infatti, di portare in sala Wicked DOPPIATO, sia nei dialoghi che nelle canzoni; da una parte, non conoscere le versioni originali di queste ultime, mi ha impedito di vomitare anche l'anima, ma siccome ormai "qualche" film l'ho visto, ho provato ugualmente fastidio davanti a un adattamento banale e a movimenti labiali fuori sincrono rispetto alle parole pronunciate. Questa immane sventura mi impedisce di scrivere alcunché relativamente alle interpretazioni di Cynthia Erivo ed Ariana Grande, se non per un'impressione meramente "espressiva"; le due attrici mi sono sembrate perfettamente in parte, la Elphaba della Erivo è affascinante e dignitosa, e la Glinda/Galinda della Grande un concentrato di sofferente leziosità che dissimula il terrore dell'anonimato e della solitudine, e c'è tantissima alchimia tra le due (non mi vergogno di dire che ho pianto, durante la scena del ballo, il primo passo verso l'amicizia reciproca). E' un bene che le attrici principali siano così brave, perché riescono a dissimulare il problema vero di Wicked, la natura di "cane arrabbiato maledetto" (per citare Lucia) del regista Jon M. Chu. Lo spettatore, ovviamente, non se ne accorge lì per lì, stordito dalle canzoni, dai costumi, dalle scenografie e coinvolto dalla storia, ma già ho cominciato a farmi domande durante l'orrendo numero di "danza" che accompagna l'arrivo di Fiyero, e la testa mi è definitivamente esplosa sul finale, il terrificante trionfo della CGI più pacchiana, reso ancora più tremendo da una fotografia peggio che brutta. Detto questo, lo riguarderò in lingua originale prima che esca Wicked 2, ché la storia di Elphaba e Glinda è rimasta incompleta, ma intanto mi chiedo: perché, se il musical dura 2 ore e 42, a Jon M.Chu è servito lo stesso tempo per coprire solo la prima parte della vicenda?


Oceania 2
(David G. Derrick Jr., Jason Hand, Dana Ledoux Miller, 2024)

Oceania è stato uno degli ultimi film Disney visti al cinema di cui mi sia rimasto un concreto ricordo, soprattutto delle canzoni, e il rewatch su Disney + ha confermato la bontà di un'opera che riesce a commuovermi anche a una seconda visione. Oceania 2, pensato per essere una serie e poi diventato lungometraggio (in effetti, gli elementi sono palesi, dai nuovi "alleati" di Vaiana/Moana, ognuno dotato di un compito e una caratteristica ben precisi, ai villain destinati a fare squadra), non è riuscito a raccogliere un testimone così importante. Francamente noioso nel primo atto, che ripropone quasi identiche situazioni e persino melodie dell'originale, si riprende quando comincia il viaggio verso Motufetu, diventando così un film d'avventura in piena regola, emozionante benché "leggero", privo di quel gioioso, epico desiderio di abbracciare una vita di scoperte ed esplorazioni. Delle canzoni, non ne ricordo nemmeno una, ma ho apprezzato molto la scelta della bella voce di Giorgia per doppiare Matangi, mentre tra i nuovi personaggi vince una sorta di blob nasone velenoso, talmente weird da battere persino il pollo HeiHei. Diciamo che la mancanza di registi di spessore si vede e si sente, purtroppo. A parte le critiche, sono comunque contenta, come sempre, di avere visto l'annuale cartone della Disney in sala, anche se mi chiedo perché non escano più a Natale, come da tradizione, cosa che mi intristisce un po'. 
 

venerdì 6 dicembre 2024

Bollalmanacco on Demand: Mary Reilly (1996)

Un po' mi addolora affrontare l'On Demand di oggi, perché Mary Reilly, diretto nel 1996 da Stephen Frears, è l'ultimo film richiesto da Arwen Lynch, ed è triste pensare che non mi chiederà di guardare più nulla. Oggi, più che mai, la sua natura profondamente cinefila mi manca tantissimo.


Trama: la giovane cameriera Mary Reilly si innamora del suo datore di lavoro, il dottor Henry Jekyll, e rimane turbata dall'arrivo del suo violento, ferale assistente, Edward Hyde...


Non ho mai letto il romanzo originale di Valerie Martin, pubblicato anche in Italia col titolo La governante del Dottor Jekill, ma mi è venuta in soccorso Lucia con un suo vecchio, prezioso articolo che mi ha fatta venire voglia di andare a caccia della versione Bompiani, mai vista su nessuna bancarella. Leggere il post di Lucia mi ha fatta anche un po' vergognare della mia ignoranza; non riguardavo Mary Reilly dai tempi dell'università ma l'ho sempre considerato (e l'opinione, dopo quasi 20 anni, non è cambiata) un bellissimo film, un gotico dalle sfumature sensuali con degli ottimi attori (salvo la protagonista, ahimé), che fa uno splendido uso della cupa fotografia, delle scenografie, persino degli oggetti di scena. In realtà, da ciò che ho letto mi sembra di capire che la sceneggiatura di Christopher Hampton banalizzi un po' il romanzo della Martin, trasformando le riflessioni di una donna del suo tempo nella classica battaglia tra innocenza e oscurità; in effetti, per chi come me ha amato Le relazioni pericolose (sempre frutto del sodalizio tra Frears e Hampton), il legame che si viene a creare tra Mary Reilly e Jekyll/Hyde, soprattutto quando subentra l'alter ego malvagio del dottore, ricorda molto quello tra la pura Madame de Tourvel e Valmont, fatto di assalti e resistenze sempre più deboli, ma anche di crisi di coscienza da parte del "cattivo", frastornato dalla dignitosa purezza dell'avversaria. Questo, nonostante Mary Reilly non sia cresciuta nella bambagia come Madame de Tourvel, anzi, l'esatto contrario. Mary ha subito, fin dall'infanzia, tutto l'orrore di avere a che fare con un uomo incapace di controllare i propri istinti violenti, e ne porta evidenti cicatrici sulla pelle. Il suo naturale distacco nei confronti di Jekyll deriva non solo dal rispetto dei rigidi codici vittoriani ma, probabilmente, anche da un'inevitabile terrore nei confronti degli uomini. Da qui, però, nasce anche l'attrazione verso un padrone di casa gentile, colto, che la sceglie, proprio in virtù del suo acume, come confidente privilegiata, elevandola dal resto del personale di servizio. Il naturale riserbo di Mary fa breccia anche nel violento alter ego di Jekyll, Hyde, e, anche in questo caso, l'impressione è che la cameriera venga "blandita" da una condizione di esclusività che nasce dall'essere l'unica ad avere avuto contatto diretto con l'uomo e la sola ad avere il potere di instillargli scrupoli morali. 


Lo "scontro" tra Mary e Jekyll deriva soprattutto da una diversa concezione di "male". Mary accetta l'oscurità del mondo, il dolore, come qualcosa di naturale, dignitoso ed inevitabile quanto la gioia; non lo subisce, ma neppure si dispera quando ne viene colpita, seguendo una mentalità molto pratica. Viceversa, Jekyll richiama Hyde per non soccombere all'orrore dell'esistenza (si parla di una "malattia", ma non è dato sapere se ci si riferisca alle tendenze licenziose di Jekyll, testimoniate dal suo rapporto di lunga data con Mrs. Farraday, o alla perdita di una persona amata), cercando un modo per diventare puro istinto e non venire più turbato da scrupoli di coscienza o vincoli legati alla morale o alle convenzioni sociali. Mentre John Malkovich incarna perfettamente questo dualismo, convincente com'è sia nei panni di tormentato, elegante gentiluomo, che in quelli di demone depravato, quella che fatica di più è Julia Roberts. Dopo il successo ottenuto con commedie romantiche palesemente a lei più consone, l'attrice ha cercato probabilmente di dimostrare che poteva anche reggere altri ruoli (e in futuro ci sarebbe riuscita); purtroppo, Mary Reilly non era forse il personaggio giusto, e per me è la Roberts l'unico, grande difetto del film. L'attrice non riesce a veicolare la naturalezza con cui Mary vive ed accetta le regole della sua società, la rende o un burattino rigido e perennemente immusonito, oppure uno spirito libero che scalpita per diventare altro, e anche i momenti di intimità con Malkovich funzionano poco, tanto è il carisma che l'attore trasuda anche nei panni del dimesso Jekyll. Ho sempre amato molto, invece, la regia di Frears, coadiuvata dalla fotografia plumbea di Philippe Rousselot, che imprigiona i personaggi all'interno della falsa sicurezza di quattro mura claustrofobiche e rappresenta alla perfezione l'ipocrisia dell'epoca vittoriana; la fredda, rigorosa gestione delle ville borghesi rispecchia l'esteriorità della gente perbene, ma appena girato l'angolo c'è lo schifo di sangue e sporcizia che infesta i vicoli della città, pronto ad esplodere ad ogni momento, come i sentimenti negativi che si nascondono nei suoi abitanti. Per tutti questi motivi, Mary Reilly è uno di quei film che rivedo sempre volentieri, e che mi rapiscono nonostante le imperfezioni. Recuperatelo, se non vi è mai capitato di guardarlo, soprattutto se vi piacciono le opere gotiche. Io intanto cercherò il romanzo!


Del regista Stephen Frears ho già parlato QUI. Julia Roberts (Mary Reilly), John Malkovich (Dr. Henry Jekyll / Mr. Edward Hyde), Michael Gambon (padre di Mary), Glenn Close (Mrs. Farraday), Michael Sheen (Bradshaw) e Ciarán Hinds (Sir Danvers Carew) li trovate invece ai rispettivi link.


Tim Burton
avrebbe dovuto dirigere il film ma ha rifiutato per scazzi produttivi, portando con sé anche la possibilità di una Winona Ryder protagonista. Niente di fatto anche per Daniel Day-Lewis, che ha declinato l'offerta di interpretare Jekyll/Hyde, e per Uma Thurman, che ha perso non solo il ruolo titolare ma anche la possibilità di venire candidata a un Razzie Award, onore invece toccato sia a Julia Roberts (quell'anno vinse però Demi Moore per Striptease) che al regista Stephen Frears. Il prossimo film On Demand sarà Little Sister. ENJOY!


mercoledì 4 dicembre 2024

Visioni dal Torino Film Festival 2024

Giovedì scorso sono partita alla volta di Torino per godermi gli ultimi giorni del Torino Film Festival. Con l'arrivo del nuovo direttore Giulio Base, il festival mi è parso un po' cambiato rispetto agli anni precedenti. Si è puntato parecchio sulle star, è aumentato il numero di film "vecchi", proiettati negli eventi speciali o nelle retrospettive, le filmografie alternative, soprattutto quelle asiatiche, sono finite in secondo piano e, cosa per me tremenda, è scomparsa la sezione "Crazies", che tanta gioia mi aveva dato negli anni precedenti. Forse per questo ho avuto un po' di difficoltà a scegliere i film da vedere (avevo anche un carnet da 5 spettacoli, che ha reso la mia scelta ancora più ardua), salvo un paio di punti fermi, ma alla fine posso dirmi abbastanza soddisfatta di quello che ho visto. Spulciate questo agile riassunto per sapere cosa attendere con trepidazione per la prossima stagione cinematografica e... ENJOY!


Les barbares di Julie Delpy
(2024)

Una piccola cittadina della Bretagna si offre di accogliere degli rifugiati ucraini ma, al loro posto, arriva una famiglia di siriani. Esistono immigrati di serie A e di serie B? Con la sua garbata, intelligente commedia, Julie Delpy (anche attrice) ci dice di sì, attraverso una satira abbastanza spietata, che coinvolge non solo i piccoli paesi e i fascistoni razzisti di ogni latitudine, ma anche chi pensa di essere sempre nel giusto e di compiere del bene, senza accorgersi del proprio egoismo. Pur essendo un film leggero, Les barbares non manca di momenti commoventi e veicola profonde riflessioni; inoltre, utilizza alla perfezione un cast corale di attori molto bravi, ai quali viene concesso tutto lo spazio che meritano. Il film non ha ancora una data di uscita italiana, ma mi aspetto che arrivi prima o poi, perché ha tutti gli ingredienti necessari per incontrare i gusti di un pubblico assai vasto!


The Assessment
 di Fleur Fortuné (2024)

Il primo film, tra quelli che ho visto, a trattare un tema che è stato il fil rouge del festival, ovvero la maternità. The Assessment è ambientato in un futuro distopico in cui alle persone non è più permesso avere figli; qualora li vogliano, le coppie devono sottoporsi, appunto, alla "valutazione" di un funzionario statale, che deciderà irrevocabilmente se i candidati sono idonei per adottare (attenzione, non mettere al mondo!) un bambino. Fleur Fortuné spinge a fondo sul pedale del grottesco, al punto che alcune scene le ho trovate forse troppo cringe, e ammetto che, a caldo, The Assessment mi ha fatto storcere il naso. Ripensandoci, credo sia il film più interessante visto al festival, sia per i temi trattati, sia visivamente (gli ambienti casalinghi, elegantissimi ma claustrofobici, ricordano quelli di Ex Machina, ma il setting esterno è altrettanto importante, e lo scontro tra natura e ingerenze umane è uno dei punti chiave della pellicola), sia a livello di attori: la Vikander è irriconoscibile e si carica sulle spalle un ruolo antipatico, sul filo sottile tra serietà e farsa, ed Elizabeth Olsen si conferma versatile, commovente e magnetica, grazie anche allo splendido sguardo che si ritrova. Himesh Patel, tra due dame, fa la figura del salame, e incarna un'umanità egoista, ormai allo sbando, schiava di una fredda scienza... insomma, un futuro non troppo distante dal nostro triste presente. Dubito che il film verrà distribuito prima del 2025, ma vi consiglio di non perderlo, qualora uscisse in Italia!  


The Rule of Jenny Pen di James Ashcroft
(2024)

L'ho puntato solo per un motivo, ovvero la presenza dell'adorato John Lithgow, e non sono rimasta delusa dalla performance di uno dei miei attori preferiti, molto più inquietante e cattivo della Jenny Pen titolare (altra ottima aggiunta alla già nutrita schiera di bambole cinematografiche da incubo). Purtroppo, il difetto del film è lo stesso di tante altre pellicole tratte da storie brevi, ovvero trascina all'infinito un ottimo spunto iniziale, facendosi sempre più ripetitivo mano a mano che la trama procede. Magari è così anche il racconto di Owen Marshall, che non ho letto e non riesco a trovare, ma a mio parere la riflessione sugli abusi di potere e sulla tremenda condanna di venire traditi da un corpo che invecchia, rendendoci prigionieri di noi stessi, avrebbe potuto essere più puntuale e persino più angosciante. Comunque, il duetto tra due grandi vecchi come Lithgow e Geoffrey Rush vale assolutamente la visione, e la grottesca cattiveria di alcune sequenze è da antologia. The Rule of Jenny Pen non ha ancora una data di uscita nei paesi anglofoni, quindi figuriamoci in Italia, dove temo non verrà mai distribuito.


Vena di Chiara Fleischhacker
(2024)

L'unico film in concorso che ho visto, nonché quello che ha portato a casa più premi (il Premio speciale della Giuria IWONDERFULL e il premio FIPRESCI), ma anche quello che mi è piaciuto di meno. Parto proprio dalla motivazione del secondo premio, per dirvi cosa penso di Vena: "Per la sua capacità di trasformare la storia intensa di una maternità in un percorso plausibile di salvezza dalle dipendenze grazie a un’interpretazione molto umana, una storia emotivamente forte e un montaggio che scandisce bene i tempi della narrazione, a tratteggiare complessivamente una maturità registica non comune per un’opera prima”. Sono completamente d'accordo con gli apprezzamenti alla regista e al montaggio, considerato che Vena è la tesi di laurea di Chiara Fleischhacker, cineasta al suo primissimo film. Nonostante ciò, sembra diretto da una regista dall'abilità consumata, da tanto ogni sequenza è necessaria alla narrazione, priva di fronzoli eppure elegante, con piccoli tocchi che raccontano, più di mille parole, la personalità della protagonista (adorabili i dettagli rosa, tutto quel glitter, la femminilità delle orchidee in un contesto di squallore totale). Il problema, purtroppo, è che io sono totalmente incapace di guardare pellicole imperniate su giovani drogati pronti a rovinare non solo il proprio futuro, ma anche quello di eventuali bambini innocenti, senza che mi vada il sangue alla testa. Sono consapevole che queste storie di emarginazione e degrado vadano raccontate, ma non riesco ad empatizzare con questo genere di protagonisti, il che influisce inevitabilmente sul mio apprezzamento complessivo dell'opera. Oggettivamente, però, riconosco che Vena è un gran film, e auguro a Chiara Fleischhacker una carriera folgorante, che possa incantare cinefili ben più competenti e sensibili della sottoscritta. A tal proposito, aspettate, e sperate che i premi del Torino Film Festival si traducano in una distribuzione italiana, perché al momento non ce n'è traccia.


Nightbitch di Marielle Heller
(2024)

Era un altro dei film che volevo assolutamente vedere. Purtroppo, anche in questo caso, è stato una mezza delusione, ancora più bruciante una volta conclusa la lettura del romanzo omonimo di Rachel Yoder. A difesa di Marielle Heller, anche sceneggiatrice, c'è da dire che non è facile tradurre in immagini lo stream of consciousness di una madre costretta ad affrontare i terribili cambiamenti che il suo ruolo le impone, e le riflessioni sulla natura della donna, tra richiami alla magia del femminino e fascinazioni antropologiche, nei quali indulge una protagonista sconvolta da trasformazioni fisiche e psicologiche. Inevitabilmente, la Heller semplifica, abbraccia in toto l'ironia pungente ed amara della prima parte del libro, e si concentra sugli aspetti più superficiali dello scontro tra madre casalinga e padre lavoratore, con tutto un codazzo di personaggi sui generis che, alternativamente, metteranno i bastoni tra le ruote alla protagonista, oppure la aiuteranno a trovare un equilibrio. Anche qui, come in The Rule of Jenny Pen, si ha purtroppo la sensazione di avere davanti una storia ripetitiva, che spesso gira a vuoto, nonostante l'abbondanza di momenti esilaranti e un paio di situazioni tristemente verosimili. In America, il film avrebbe dovuto uscire direttamente sul servizio streaming Hulu (Disney + da noi), ma alla fine la Searchlight ha deciso di distribuirlo al cinema proprio in questi giorni. In Italia arriverà di sicuro, prima o poi, ma chissà quando e come.


Waltzing with Brando di Bill Fishman
(2024)

Chi mi conosce bene sa che AMO Billy Zane, fin dai tempi di Twin Peaks. Non stupitevi, dunque, del fatto che sia corsa ad accaparrarmi i biglietti per la proiezione con l'attore presente in sala, e che mi sia emozionata come una bambina nel vederlo (non troppo vicino, ahimé. La sala era praticamente riservata tranne per le ultime tre file, quindi non sono riuscita a raggiungerlo per una foto prima del film e sono stata calcioruotata fuori dal Massimo a fine proiezione, CACCA sugli organizzatori insensibili). Di conseguenza, non stupitevi nemmeno che sia andata a vedere un film che parla di Marlon Brando pur non sapendo quasi nulla del grande attore. Fortunatamente, Waltzing with Brando è una commedia che parla del rapporto tra Brando e Bernard Judge, l'architetto che lo ha aiutato a realizzare l'utopico progetto di creare un villaggio sostenibile sull'isola di Tetiʻaroa, ed è perfettamente fruibile anche da chi è poco interessato a una pellicola biografica. Anzi, diciamo che il film di Fishman dipinge Brando come un eccentrico attivista, un affascinante spirito libero, al limite un esasperante testa di cazzo, al quale però si può perdonare tutto, e si guarda bene dall'accennare alle controversie che, col tempo, hanno gettato ombre sull'attore (però persino io, che di Brando so pochissimo, mi sono sentita in imbarazzo davanti all'atmosfera giocosa e allegra della sequenza ambientata sul set di Ultimo tango a Parigi). Se la cosa non vi infastidisce, riuscirete a godervi un film simpatico e interessante, dove Billy Zane gigioneggia a più non posso, dando vita a un Marlon Brando impossibile da distinguere, fisicamente almeno, da quello reale. Però adesso cerchiamo di non consacrarlo a grande attore solo per questa interpretazione, ché Billyno era bello e bravo anche prima!!!



martedì 3 dicembre 2024

Piove (2022)

Qualche sera fa hanno dato in TV il film Piove, diretto e co-sceneggiato dal regista Paolo Strippoli, e ho deciso di guardarlo.


Trama: gli abitanti di Roma si ritrovano in balia dei loro istinti più violenti a causa di misteriosi vapori sprigionati dalle fogne. Anche Thomas e la sua famiglia, già vittime di una terribile tragedia, vengono toccati da questo fenomeno...


Piove
è uno dei mille film mai arrivati nei cinema di Savona, nonostante avessi molte speranze per l'opera seconda del co-regista di A Classic Horror Story. Questo è il motivo per cui, appena saputo che lo avrebbero trasmesso in TV, non me lo sono fatto scappare. Purtroppo, tanta aspettativa ha raddoppiato la mia delusione davanti a un film che, per quanto mi riguarda, non rende giustizia a uno spunto interessante. Piove racconta una Roma vittima di una "maledizione", di una melma sotterranea che, a un certo punto, si mette a rilasciare vapori in grado di far piombare le persone in un vortice allucinato di violenza. La trama non specifica chiaramente l'origine di questa melma (Vigo il Carpatico, è lei?), non è importante. Interessa, però, sapere che i miasmi da essa derivati scavano nella psiche delle persone tirando fuori tutto il marcio in suppurazione a causa di traumi, disagio, antipatie, rabbia, tristezza, qualsiasi emozione negativa vi venga in mente. In particolare, Piove si concentra sulla disagiata famiglia di Thomas, padre single con a carico un figlio merda e una figlia in sedia a rotelle, e sulla tragedia che ha reso i membri incapaci di comunicare tra loro; la piccola Barbara, in particolare, funge da "cuscinetto" tra un padre che già era un belino mollo prima che la sua vita cambiasse in peggio, e un figlio che lo accusa di aver causato la tragedia di cui sopra, il quale passa il tempo a riprendersi mentre danneggia la proprietà pubblica, paga anziane prostitute per ritrovare la figura materna e si rende angoscioso come una cacca nel letto. Qui sono cominciati i miei problemi con Piove, dall'incapacità di provare qualsivoglia empatia per personaggi detestabili (tanto che la speranza era che si uccidessero tra loro lasciando in vita giusto la sfortunata bambinella) e dalla noia derivante da un'introduzione infinita, che si concentra proprio sul disagio esistenziale di questi esseri odiosi mentre, sullo sfondo, accadono cose inquietanti e violente. Se Piove fosse stato meno dramma "mucciniano" e più horror tout court, sviluppando le ottime suggestioni di genere che Strippoli dimostra di saper padroneggiare, lo avrei preferito, purtroppo la "ciccia" la si gusta solo da metà in poi, e personalmente mi sono sentita ben poco ripagata dell'ordalia che la precede.


Anche perché, parliamoci chiaro, Piove soffre dello stesso, fatale difetto di A Classic Horror Story, ovvero un sonoro a dir poco pessimo, che rende ancor più arduo capire i dialoghi pronunciati da attori biascicanti. A differenza di A Classic Horror Story, purtroppo, gli attori non si limitano a biascicare ma, forse a causa dei personaggi che devono interpretare o di una scelta stilistica che vuole tutto triste, plumbeo e squallido, risultano inespressivi e legnosi (Thomas) oppure un mix fastidioso tra un emo e un guappo con una palla da tennis in bocca (il figlio Enrico), e i comprimari non sono migliori. Salvo solamente Orso Maria Guerrini, poveraccio, costretto a interpretare il vecchio infermo, quando probabilmente era meglio dargli il ruolo del vecchio che si mette a bastonare i giovinastri irrispettosi sfogando frustrazioni sopite da anni. Ahimè, così non è, e uno si deve accontentare di quelle gustose sequenze horror che, chissà perché, sono valse al film il divieto ai minori di 18 anni, probabilmente imposto da chi non ha mai visto in vita sua qualcosa di più violento di un film di Bud Spencer e Terence Hill. E' un peccato, come ho scritto più sopra, che Piove si appoggi più alla sua natura drammatica, perché gli effetti speciali sono ben fatti (quelli artigianali, ché il mostrillo fangoso sul finale ha fatto piovere gli occhi persino a me), Strippoli è bravo a confezionare scene inquietanti e non si tira indietro davanti a dettagli un po' più disgustosetti, e anche l'idea di dotare gli "infetti" di distintive lacrime nere, per quanto derivativa, ha il suo fascino. Però, lasciatemi dire, è un po' poco per incensare Piove, che ritengo un grosso passo indietro rispetto a un'opera interessante e ironica come il precedente A Classic Horror Story. Leggo ora che Strippoli si sta dedicando a un altro horror, La valle dei sorrisi, e già tremo per la descrizione riportata da Ciak: "Un film dove gli abbracci sono molto più pericolosi delle motoseghe, un film di genere, che gioca con i codici dell’horror, con un cuore caldo, un film che credo possa parlare a un pubblico più vasto dei soli amante del genere". Mi toccherà mica maledire la A24 e il proliferare dell'elevated horror?


Del regista e co-sceneggiatore Paolo Strippoli ho già parlato QUI mentre Fabrizio Rongione, che interpreta Thomas, lo trovate QUA.


A interpretare il signor Ferrini c'è Orso Maria Guerrini, che, oltre ad essere blasonato attore teatrale e cinematografico, ha avuto per qualche anno il ruolo di "Baffo Moretti" titolare. ENJOY!

venerdì 29 novembre 2024

Mind Body Spirit (2023)

Dopo averlo cercato un po', sono riuscita a trovare Mind Body Spirit, horror diretto e sceneggiato nel 2023 dai registi Alex Henes e Matthew Merenda, che mi incuriosiva da un po'.


Trama: Anya vorrebbe diventare una celebrità del fitness su Youtube ma stenta a trovare la sua strada. Un diario nascosto in soffitta, scritto dalla nonna defunta, potrebbe aiutarla, ma la vecchia è piena di tremendi segreti...


Sia Lucia che Marika avevano parlato molto bene di Mind Body Spirit, quindi avevo aspettative alte che, per fortuna, non sono state disattese. Il film è un found footage, o, meglio, è realizzato come se fosse una raccolta di video reperibili sul dark web, e racconta le vicende di Anya, aspirante vlogger appassionata di yoga e benessere naturale. A differenza di altri found footage realizzati da esordienti, questo presenta uno studio dei personaggi particolarmente approfondito. Attraverso i monologhi con potenziali follower e le poche interazioni con la madre, lo spettatore viene messo a conoscenza non solo del passato di Anya e del suo pesante disagio psicologico, ma anche del disperato tentativo di porre rimedio a questo disagio, che spinge la ragazza a prendersi cura del proprio corpo e della propria mente attraverso pratiche di pilates e yoga. Purtroppo, sono tempi orribili in cui anche le passioni devono venire monetizzate e asservite alla speranza di raggiungere i 5 minuti di fama on line, il che spinge Anya a realizzare un video diario, forse anche nel tentativo di superare la tremenda solitudine che la affligge e il distacco dalla famiglia. Scoraggiata dall'"amica" Kenzi, youtuber di successo e guru del fitness, Anya cerca un modo per distinguersi e lo trova nientemeno che in un diario della nonna defunta, all'interno del quale viene descritta una pratica quotidiana per purificare se stessi e riavvicinarsi al proprio io interiore. Inutile dire che, per quanto Anya sia felice di riappropriarsi delle sue radici slave e di venire coinvolta in un retaggio familiare rifiutato dalla madre, la pratica si rivelerà una sòla di prim'ordine, con conseguenze sempre più terribili (sia per la protagonista che lo spettatore, il quale arriva a dispiacersi sinceramente per il destino di una ragazza ingenua ed entusiasta, la cui unica colpa è quella di essere nata in un mondo di merda, che non perdona i fallimenti e tantomeno l'anonimato). Seguendo le registrazioni quotidiane di Anya, unica abitante all'interno dell'appartamento lasciatole dalla nonna, il ritmo del film si fa più concitato e l'ambiente che circonda la protagonista diventa sempre meno confortevole, più opprimente, tra strani rumori che si insinuano nell'audio e telecamere che cominciano a vivere di volontà propria, mostrandoci ciò che la ragazza non può o non vuole vedere.


Mind Body Spirit
non raggiungerà mai Oddity nella classifica di horror più terrificanti del 2024, ma guardarlo nella solitudine della propria casa non è proprio una passeggiata. L'appartamento di Anya è infatti zeppo di anfratti e figure che saltano all'occhio benché cerchino di confondersi con le ombre o l'apparenza quotidiana dei vari ambienti, e non avete idea di quanto alcune posizioni di yoga rendano il corpo umano ancora più fragile e vulnerabile. Consapevoli di avere un budget ristretto, i registi giocano tantissimo non solo con ambienti in cui si muove Anya o con le mattane della tecnologia, ma anche col sonoro e con l'ottima interpretazione di Sarah J. Bartholomew, che regge l'intero film sulle proprie spalle sobbarcandosi la rappresentazione di un crollo psicologico lento ma inesorabile, enfatizzando ancora di più il pessimismo di cui è infarcita la pellicola e l'amara ironia che la permea. Anche quest'ultimo elemento è molto importante, ché Alex Henes e Matthew Merenda non ci vanno leggerissimi nella critica contro il consumismo esasperato di chi dovrebbe introdurci a uno stile di vita sano e naturale. Le pubblicità farlocche inserite a mo' di interruzione tra un video e l'altro sono spettacolari, sia perché riproducono in maniera spietata quelle che, quotidianamente, azzoppano la fruizione di contenuti interessanti, sia per il nome assolutamente idiota di alcuni dei prodotti pubblicizzati, la summa di tutta l'ipocrisia di chi, come giustamente ribadito nel film, si limita a divorare le culture altrui e a vomitarle in un tripudio di spandex, colori fluo e frasette catchy che nascondono il vuoto cosmico. Invitandovi, come avrei voluto fare con la povera Anya, a non giudicare un libro dalla copertina, il mio consiglio è quello di recuperare Mind Body Spirit, un'opera prima di sicuro un po' derivativa se, come me, avete visto già parecchi horror nella vita, ma molto interessante e inquietante.  

Alex Henes e Matthew Merenda sono i registi e co-sceneggiatori della pellicola. Americani, sono entrambi al loro primo lungometraggio. Henes lavora principalmente come assistente di produzione, Merenda invece è anche compositore.



Se Mind Body Spirit vi fosse piaciuto recuperate La Abuela. ENJOY!

mercoledì 27 novembre 2024

Martyrs (2008)

Oggi la challenge di Letterboxd prevedeva una produzione canadese, quindi è toccato a un film che stavo consapevolmente evitando dal 2008, ovvero Martyrs, diretto e sceneggiato dal regista Pascal Laugier.


Trama: Lucie, che da bambina era fuggita per un pelo alle torture dei suoi aguzzini, riesce a vendicarsi da adulta, aiutata dalla riluttante amica Anna. Ma il compimento della vendetta non è altro che l'inizio di un incubo ancora peggiore...


Se mi seguite da qualche anno, sapete che i pochi horror che patisco, in ambito mainstream (la roba estrema e indipendente del circuito underground non mi avrà mai nella vita), sono quelli appartenenti al New French Horror, specialmente quando sfociano nella New French Extremity. Li patisco perché, essenzialmente, mi angosciano per la loro cattiveria, la tristezza che permea ogni fotogramma e li discosta del becero torture porn americano (che invece mi annoia e disgusta in maniera superficiale) per diventare qualcosa di più serio e pronto a pasteggiare col cuore sanguinante dello spettatore. Ora, Pascal Laugier ha sempre sottolineato che Martyrs non fa parte della New French Extremity, ma è comunque un film che, dopo la tanto rimandata visione, ho mal sopportato, tanto quanto i suoi "cugini". Ciò non significa che sia brutto, chiaramente. Martyrs è stato scritto, con una lucidità e una coerenza invidiabili, da un Autore in piena crisi depressiva, al punto da arrivare ad indulgere in pensieri suicidi; è la rappresentazione di un mondo che sta andando in rovina, dove ogni cosa è violenza e le persone vengono smosse solo da riscontri egoistici o economici. E' lo schiaffo definitivo (per quanto non voluto, ovviamente, e mi perdonino gli amanti del regista danese per un simile accostamento) a Lars Von Trier, il quale, preda di una crisi simile, ha girato una roba ermetica e fredda come Antichrist, un'opera che tiene ben distante lo spettatore e gli impedisce di immedesimarsi nei personaggi, con tutte le conseguenze del caso. Invece, Martyrs dialoga costantemente con chi lo guarda, sottopone il pubblico a un'ordalia non dissimile da quella delle protagoniste, torturandolo psicologicamente con la visione di orrori prevalentemente fisici, ma anche mentali, e ponendogli domande scomode attraverso due modi di affrontare il dolore. 


Da una parte abbiamo Lucie, marchiata da un'infanzia fatta di prigionia e torture, che sfoga attraverso orribili allucinazioni il senso di colpa per essere stata l'unica a fuggire e il conseguente autolesionismo da esso derivato; Lucie cerca i suoi aguzzini, esige vendetta, è (giustamente o meno sta allo spettatore giudicarlo, perché Laugier non si pronuncia) mossa esclusivamente da motivazioni egoistiche, da un folle desiderio di autoconservazione. Dall'altra, abbiamo Anna. Colei che offre amicizia a Lucie fin da bambina, che la ama non ricambiata, che passa ogni singolo minuto di film non solo a sostenerla, ma ad aiutare persino gli sconosciuti, mettendosi nella merda per non abbandonare nessuno e ricevendo in cambio solo dolore. In mezzo, la concezione di "martire". La cosa più amaramente ironica del film è l'esistenza di un'associazione di vecchiacci terrorizzati dalla morte che cercano dei martiri in grado di rivelare loro cosa ci sia "dopo", nell'aldilà. E' ironico, perché questi vecchi sono in grado di offrire la definizione di martire, ovvero "persone eccezionali che [...] si donano" eppure vanno per tentativi, o torturando bambini (innocenti ma, per la loro stessa natura, egoisti ed incapaci di donarsi) o giovani donne a caso, senza capire che il fulcro del martirio è l'amore incondizionato, libero da ogni preconcetto o legame religioso. Si fanno strada a schiaffi, privazioni e umiliazioni, 'sti stronzi, e io purtroppo sarei come Lucie, impossibilitata a vincere la paura perché troppo impegnata a odiarli, a volerli morti, a scappare solo per ripagarli con la stessa moneta. Di sicuro non riuscirei a vedere nulla, né a trascendere, perché i miei occhi sarebbero rivolti solo alla mia sofferenza. Anna, invece, ama nel dolore, ama al punto da arrivare a percepire non ciò che la terrorizza, come quasi tutte le vittime, bensì la voce della persona amata, che la invita proprio a mettere da parte la paura. E' una risoluzione bellissima, perché apre la via ad un finale tra i più originali e sconvolgenti della storia dell'horror.


In un film fatto di violenza e sangue, in cui la macchina da presa indugia sui dettagli più raccapriccianti e non lascia modo allo spettatore di respirare, neppure per un secondo (anche perché le sequenze durante le quali Anna aspetta la prossima tortura sono le peggiori, pregne come sono di angoscia tangibile), è comunque difficile arrivare preparati al martirio finale di Anna. Eppure, non è nemmeno quella la parte più sconvolgente di Martyrs, quanto ciò che si nasconde nell'occhio del martire, del "testimone", lasciato alla libera interpretazione dello spettatore. Persino quelli più vicini, come me, alla mentalità di Lucie, potranno trovare soddisfazione nelle ultime sequenze. Non tanto per l'ultimo atto di improvvisa violenza (anche se non posso negare di avere goduto come un riccio), tanto per la beffa finale di non sapere, di non averne il diritto, e di ritrovarsi costretti a riflettere su cosa rappresenti la luce che ci ha mostrato Laugier, per capire cos'è riuscito a comunicarci Martyrs. Per quanto mi riguarda, ho cominciato a pensare a Il seme della follia e a un racconto kinghiano letto di recente, dal titolo Il viaggio, insomma a un gigantesco, terrificante dito medio da mostrare a quei vecchiacci pavidi e disgustosi, così da annichilire tutte le loro speranze di salvezza. Questo, per inciso, è però un altro dei motivi per cui non guarderò mai più Martyrs finché campo, nonostante lo ritenga un grandissimo horror. La vita è già abbastanza deprimente, subire un'ora e mezza di violenza senza speranza alcuna, per nessun personaggio, mi abbatte e mi abbruttisce, rendendomi ancor più consapevole degli orrori che toccano, quotidianamente, persone ben più sfortunate di me, e di cui Martyrs è sanguinosa metafora. Almeno davanti alla finzione, mi permetto quindi, egoisticamente, di tornare a chiudere gli occhi, consigliandovi però di fare un tentativo e di aprirli, almeno una volta, su una delle opere horror più importanti del nuovo millennio.


Del regista e sceneggiatore Pascal Laugier ho già parlato QUI mentre Xavier Dolan, che interpreta Antoine, lo trovate QUA.


Nel 2015 è uscito il remake USA del film, stroncato all'unanimità da critica e pubblico. Lungi da me recuperarlo allora! ENJOY!

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