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domenica 24 ottobre 2021

Midnight in a Perfect World (2020)

Dunque, vista la qualità di Midnight in a Perfect World (o vista la mia incapacità di capirlo, può essere), diretto e co-sceneggiato nel 2020 dal regista Dodo Dayao e passato al ToHorror Film Festival di quest'anno, non so se questo post raggiungerà la lunghezza standard. Edit del 25/10/2021. Midnight in a Perfect World ha vinto il Tohorror Film Festival. Mi cospargo il capo di cenere, perché non capisco un belino di horror e cinema, ma rimango dell'idea che questo film sia abbastanza inguardabile, scusate. 


Trama: in una Manila dove tutto è perfetto, gli abitanti non possono uscire dopo mezzanotte, pena quella di incappare in terrificanti blackout...


Siccome mi lamento sempre e passo il tempo a sminuirmi, magari non si direbbe ma mi ritengo una persona mediamente intelligente e capace di comprendere i messaggi che una qualsiasi opera vorrebbe veicolare dietro una serie di metafore, salvo ovviamente quando l'opera in questione sconfina nell'ermetismo, nel lynchiano oppure quando presupporrebbe un minimo di conoscenza di chi l'ha realizzata. Ora, direi che non serve un genio per capire che Midnight in a Perfect World, del filippino Dodo Dayao, è una metafora per la situazione sociale tutt'altro che rosea delle Filippine, dove la lotta alla povertà si è tradotta spesso e volentieri in una lotta contro la droga fatta di arresti e molteplici omicidi avvallati dal governo, dove la piaga dei desaparecidos è ancora ben lontana dall'essere stata debellata e dove la corruzione di polizia e politici la fa ancora da padrone. E' comprensibile, anzi lapalissiano, dal momento in cui la "trama" (poi ci torniamo) parte da due dei protagonisti che vanno da uno spacciatore a comprare della droga e, scampati per il rotto della cuffia all'arrivo di un paio di assassini pronti a uccidere detto spacciatore, si uniscono ad altri due amici coi quali, nonostante la consapevolezza che a Manila NON SI POSSA USCIRE dopo la mezzanotte, cosa fanno?... Ovvio, tornano a casa dopo la mezzanotte, parlando di altri amici scomparsi, misteriosi blackout e polizia corrotta, solo per rimanere bloccati, per l'appunto, in un blackout. Questi blackout, trattati alla stregua di leggende metropolitane o storie di fantasmi, sono il prezzo da pagare per avere una Manila perfetta, dal commercio florido e priva di inquinamento, e un'altra leggenda metropolitana dice che, per sperare di scamparla, è necessario trovare delle safe house segnate su una app, che purtroppo però tanto safe non sono. Avete capito il metaforone? Ecco, io non disprezzo per partito preso i film che si fondano su metafore che prendono continuamente a ceffoni lo spettatore, anzi, spesso così sono usciti fuori dei bellissimi lavori, ma magari servirebbe un regista meno pronto a sbrodolarsi addosso e un po' più di coesione a livello di trama e narrazione. 


Il succo della trama, di base, è riassumibile su un post-it: durante i tanto temuti blackout, tre dei quattro amici entrano in una safe house, l'altro si perde fuori perché, a quanto si intuisce, questi fenomeni alterano sì lo spazio, ma anche il tempo. Mentre i tre cercano di contattarlo e salvarlo, scoprono che la safe house è un'incoolata della peggior specie e che "cose brutte" accadono a chi sceglie di non passare la notte tranquillo a farsi i cavoli suoi e, magari, decide di esplorare la safe house. Mi piacerebbe dirvi che buona parte del metraggio del film consiste, per l'appunto, nell'esplorazione di questo luogo misterioso o nei tentativi di chi è rimasto fuori di salvarsi, invece Dayao sceglie di allungare il brodo non tanto con stucchevoli introduzioni a base di genitori vecchi, tristi e malati (il dolore di chi rimane e non sa che fine abbiano fatto i suoi cari scomparsi, ovvio), quanto piuttosto con lunghissime sequenze di buio, cineprese tremolanti ma comunque al buio e camminate lungo corridoi sempre uguali; anche in quest'ultimo caso, porca miseria, capisco la metafora, ma davvero non potevi usare altro mezzo che inquadrare (giuro!) per dieci minuti una dei protagonisti mentre cammina e si guarda intorno sempre più spaurita lungo un corridoio che parrebbe infinito? In tutto ciò, ogni tanto Dayao si ricorda di dover realizzare un horror e di avere introdotto, già all'inizio, l'elemento alieno, e butta lì un paio di sequenze a base di gore e jump scare, ma giusto un paio, ché è molto meglio lasciar perdere il fatto che la droga acquistata dai protagonisti (dall'aspetto vagamente "estraneo") dovrebbe rendere invisibili a "coloro che strisciano nel buio" piuttosto che movimentare un po' la faccenda. In due parole, "che palle di film", e lo so che non si dice, scusate. Caro Dayao, io horror arty e indipendenti ne ho visti, mi vengono in mente di recente cose come She Dies Tomorrow o In Fabric, e ti posso assicurare che sarebbe meglio per te tornare a fare il critico cinematografico, magari imparando da quello che guardi. 

Dodo Dayao è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Filippino, anche produttore, ha diretto un solo altro lungometraggio, Violator



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