martedì 29 ottobre 2024

Visioni dal ToHorror Fantastic Film Fest 2024

Anche quest'anno ho avuto la fortuna di recarmi a Torino per il ToHorror Fantastic Film Fest 2024, un'edizione dedicata al tema dell'Antropocene. Il programma era molto ricco e prevedeva tre lungometraggi tra i migliori usciti quest'anno, In a Violent Nature, Stopmotion (con tanto di masterclass e presenza in sala di Robert Morgan!) e Oddity (risultato vincitore della Menzione Speciale della Giuria nella sezione lungometraggi). Avendoli però già visti, ho optato per altri titoli, quindi ecco un piccolo riassunto di ciò che sono riuscita a godermi sugli schermi del festival e di ciò che vi conviene tenere d'occhio per i mesi a venire! Colgo l'occasione per ringraziare gli organizzatori che, ogni anno, si prodigano per creare un festival ricco, interessante e senza intoppi (riuscendo a tapullare con eleganza quando questi ultimi, inevitabilmente, si presentano!). Nell'attesa della prossima edizione... ENJOY!


Di origine sconosciuta
(George Cosmatos, 1983)

L'unico film che sono riuscita a guardare della rassegna Antropocene Now! è questo divertente e grottesco "home invasion" dove uno yuppie (interpretato nientemeno che da Peter Weller) si ritrova a dover combattere un ratto all'interno di un lussuosissimo appartamento in centro a New York. La battaglia che segue è una parabola amara su quanto l'uomo non abbia alcun controllo sulla sua vita e, soprattutto, su quanto il Dio capitalismo si basi su sistemi fragilissimi, al punto che basta un piccolo imprevisto per rivelarne per intero le falle e la pochezza. Per quanto gli effetti speciali del film siano un po' datati, è una pellicola che sconsiglio a chiunque abbia la fobia dei topi; vero è che la bestia protagonista cambia forma, specie e dimensione a seconda delle inquadrature e delle esigenze di sceneggiatura, ma il risultato complessivo è abbastanza schifosetto e l'idea di avere in casa una roba simile mi farebbe venire voglia di consegnarli le chiavi senza nemmeno impegnarmi nella disinfestazione. 


Fréwaka
(Aislinn Clarke, 2024)

Era il film su cui puntavo di più quest'anno, purtroppo è quello che mi ha lasciato di meno. Ambientato in Irlanda (Fréwaka, in gaelico, vuol dire "radici") racconta la storia di Shoo, infermiera esperta di cure palliative che viene inviata in un remoto villaggio irlandese per seguire l'anziana abitante di una sinistra magione sperduta nel bosco. Le radici del titolo affondano nel traumatico passato di Shoo, che si rivela a poco a poco allo spettatore, in quello dell'anziana e nelle oscure tradizioni del villaggio dove risiede, il che incasella Fréwaka nel genere folk horror, solitamente a me molto gradito. Purtroppo, nonostante interessanti suggestioni, splendide intuizioni visive e protagoniste molto brave, l'opera sa un po' di già visto e la sua natura di slow burn non aiuta a tenere destissima l'attenzione. Mi riservo comunque di riguardarlo (magari assieme al film precedente della regista, The Devil's Doorway) in un altro momento, forse ero un po' stanca in partenza. 


Infinite Summer
(Miguel Llansó, 2024)

Su questo non avrei puntato un euro, quando invece è stata una delle visioni più interessanti del festival. Già solo vedere scritto "Tallifornia" all'inizio mi ha messa istantaneamente di buonumore (per mera ignoranza, credevo fosse una presa in giro, ma trattasi di casa di produzione realmente esistente!), dopodiché mi sono lasciata catturare da questo mix di coming of age estivo e sci-fi che, con leggerezza e senza pretesa di offrire allo spettatore chissà quale interpretazione del mondo, introduce il tema del transumanesimo. Il regista, presente per un breve Q&A, è stato così sincero da ammettere di non aver voluto dare un significato particolare al film, voleva solo girarne uno che fosse interessante per lui, con un finale aperto all'interpretazione dello spettatore. Personalmente, l'ho trovato dolceamaro e molto gradevole, e ho apprezzato non solo lo sviluppo psicologico di una protagonista nella quale ho riconosciuto molto della me stessa ragazzina ma anche gli effetti speciali particolarissimi. Purtroppo, Infinite Summer è uno di quei film che, molto probabilmente, non avrà mai distribuzione in Italia. Nel caso fortuito in cui arrivasse anche qui, dateci un'occhiata!


Sayara
(Can Evrenol, 2024)

Dopo quella bomba di Baskin e quella mezza sòla di Housewife, avevo perso completamente di vista Can Evrenol. Il suo ritorno al ToHorror coincide con un rape and revenge brutalissimo e terribilmente realistico (o, meglio terribilmente plausibile) per quanto riguarda la violenza sessuale scatenante, la gioia di umiliare una donna, per di più immigrata, e tutto il codazzo di compiaciuta corruzione che mira a proteggere i suoi ricchi carnefici. La parte revenge, meno verosimile ma molto soddisfacente a livello di violenza e sangue, vede impegnata una ragazza davanti alla quale persino John Wick abbasserebbe lo sguardo fuggendo a gambe levate, dotata di una cazzimma tale che è difficile non mettersi ad applaudire. In sostanza, un film non originalissimo ma che si lascia guardare, anche se so che il regista potrebbe fare di più.


House of Sayuri
(Kouji Shiraishi, 2024) - Vincitore del premio del pubblico al miglior lungometraggio

In rete troverete tantissime recensioni che lo stroncano per il modo "leggero" con cui affronta una cosa tremenda come la violenza sessuale verso i minori. Ammetto io stessa che sarebbe servita un po' di delicatezza in più, ma avendo visto altri film di Shiraishi non mi ha neppure sorpresa la commistione tra horror serio, quasi tragico, e momenti di pura locura nipponica, che magari a noi occidentali sembra strana, mentre in Giappone potrebbe essere la norma. A prescindere, mi sono parecchio spaventata e, spesso, sinceramente divertita guardando House of Sayuri, anche se avrei sforbiciato un po' qui e là. Non fosse per i due film che ho visto in seguito, la nonnina protagonista sarebbe assurta ad idolo incontrastato del festival ma, anche così, è un gran bel personaggio.


Steppenwolf
(Adilkhan Yerzhanov, 2024) - Giusto vincitore del premio ufficiale come miglior lungometraggio

La bombetta del festival. Appena cominciato ho pensato "c'è dell'inquadratura in questa figaggine", poi in seguito è andato in crescendo. Graziato da una regia e una fotografia splendide, che consegnano allo spettatore un Kazakistan desolato e affascinante allo stesso tempo, Steppenwolf vive proprio di questi contrasti e contraddizioni. Sequenze grottesche lasciano posto a profonda commozione, per un sorriso strappato dal protagonista sale la voglia di prenderlo a ceffoni forti e di vederlo morto, mentre l'unica costante è la determinazione di una madre tanto spezzata nella mente e nell'eloquio quanto brillante e profonda nel cuore. A prescindere dai sentimenti che Steppenwolf saprà suscitarvi, il consiglio è di recuperarlo e godere dell'interpretazione di due attori favolosi, sperando che la vittoria al festival contribuisca a spingere qualche distributore illuminato a portarlo anche in Italia. 


Krazy House
(Steffen Haars, Flip van der Kuil, 2024)

Se Steppenwolf ha parlato, giustamente, alla mia parte più "cinefila", di testa, Krazy House ha scatenato la mia parte cazzona, de panza, e, com'è ovvio, è diventato il mio film preferito del festival. Un Nick Frost in stato di grazia (insieme a un'Alicia Silverstone ormai abbonata a horror e film strambi) ci accompagna sul set della sit com Krazy House, nella quale i Christian conducono una vita apparentemente idilliaca, pregni della Grazia del Signore. Ci vorrà poco perché l'idillio si sgretoli e due folli registi olandesi mettano alla berlina tutto ciò che vi è di più sacro, puro ed intoccabile, neonati e cani compresi. Produce Amazon, quindi la speranza è quella che Krazy House venga distribuito ovunque, perché non posso accettare che qualcuno rimanga privo di tanta, arrogante stupidera. Pregate Cristo, magari vi ascolterà, se non sarà impegnato altrove. Nel caso, cercatelo bene, forse potrebbe essere dentro di voi. Molto dentro. Pure troppo.



venerdì 25 ottobre 2024

Smile 2 (2024)

Dopo che il multisala di Savona ha fatto incularella, siamo dovuti emigrare a Genova per recuperare Smile 2, diretto e sceneggiato dal regista Parker Finn. Ne è valsa la pena? (Sì, assolutamente)


Trama: tornata sulla cresta dell'onda dopo un durissimo periodo di riabilitazione, la cantante Skye Riley comincia ad avere terribili allucinazioni e a convincersi di essere perseguitata da un'entità maligna...


Smile
era un esordio che mi era piaciuto molto. L'ho rivisto prima di andare a vedere il seguito ed è una pellicola che, non so perché, tocca alcune corde sensibili del mio essere, tanto che è uno dei pochi horror che mi scatena un magone incredibile in almeno un paio di sequenze (soprattutto quella in cui la protagonista si ritrova vittima di un trauma orrendo, circondata da persone che la credono pazza, e alle ferite psicologiche si aggiungono anche quelle fisiche causate da un tavolo di vetro. Giuro, è la seconda volta che mi ritrovo con le lacrime agli occhi davanti alle sue urla disperate). Il "problema" di Smile è il terribile modus operandi dell'entità maligna, la quale non si limita a perseguitare i vari personaggi, ma li conduce al tracollo psichico isolandoli da amicizie e affetti, riducendoli a larve spaventate che non riescono più ad avere il controllo della propria vita, e lo fa con una spietatezza agghiacciante. In Smile, toccava a una psichiatra ritrovarsi a perdere credibilità e salute mentale, in Smile 2 la cosa si complica ulteriormente, perché la protagonista, Skye Riley, è già di suo terreno fertile per la follia. Skye è una cantante alle prese con un difficile ritorno sulle scene, dopo un anno passato a riprendersi da un incidente d'auto che le ha lasciato dolorose cicatrici, sia nel corpo che nella mente. La disintossicazione da alcool e droghe è resa più difficile non solo dalle conseguenze fisiche dell'incidente, ma anche dalla pressione costante che la madre e tutto l'entourage le riversano addosso alla vigilia dell'importante tour che ne rilancerebbe l'immagine. Inoltre, Skye non era una bella persona neppure prima della tragedia e ciò l'ha resa una persona sola, priva di appoggi e prona ad inveire contro il mondo alla prima occasione. La sceneggiatura di Parker Finn, con tutti questi elementi, crea una bomba ad orologeria, un crudele viaggio senza freni verso un annientamento che, forse, sarebbe arrivato anche senza l'aiuto dell'entità malevola, perché Skye è una pentola a pressione pronta ad esplodere. Nonostante la natura della protagonista non sia totalmente positiva, lo spettatore viene spinto comunque a provare pietà per lei e per tutto l'orrore che si porta dentro, a sentirsi soffocare dal labirinto all'interno di cui la rinchiude il demone, spingendola verso l'orrore senza che Skye neppure se ne accorga ed illudendola di avere il totale controllo della sua vita, come se il personaggio "di facciata" venduto alle folle adoranti potesse magicamente tramutarsi in realtà.


Smile 2
è quindi uno Smile "più lungo, più grosso e tutto intero", nel senso che prende tutti gli elementi positivi del primo film e li potenzia creando un film spaventosissimo, dove lo jump scare arriva a tradimento sfruttando, tra l'altro, ciò che lo spettatore sa o pensava di sapere dopo avere visto la prima pellicola (ammetto di averne guardato almeno metà bestemmiando, l'altra metà protetta dalla solita rete di dita. E ora mi spiegate perché il cervello ritiene sia meno spaventoso guardare un film attraverso uno spazietto piccolino delimitato da cornici di ossa e carne? E' insensato, ma un minimo, con me, funziona). Parker Finn inizia col botto, confezionando una sequenza d'apertura degna di un thriller, e continua alternando momenti di terrore cieco ad altri di terribile bellezza, sfruttando con incredibile maestria tutto ciò che ruota attorno alla vita di una cantante e performer; in particolare, alcune coreografie sono ipnotiche e offrono spunti per infliggere tormenti ancora più terribili a Skye, tanto che quella del "corpo di ballo" all'interno dell'appartamento della protagonista è, mia modesta opinione, una delle sequenze horror più belle del 2024. In tutto questo, Naomi Scott si è rivelata una scream queen di prim'ordine. Lontana dalla bellezza surreale che la caratterizzava nell'Aladdin di Guy Ritchie, il suo aspetto più prosaico (ma non meno affascinante) accompagna una performance fisica di altissimo livello, anche perché Smile 2 non è particolarmente dialogato, e sono moltissimi i momenti in cui, a parlare, sono le scene dove c'è sinergia assoluta tra attrice, regia, montaggio e colonna sonora; dolorosi flashback, lampi di pura sofferenza, sono i mezzi attraverso cui arriviamo a capire a fondo l'oscurità dell'animo di Skye, i suoi demoni interiori, e la perversione di un'entità che di questo si nutre, sfruttandoli per fare ancora più male alla sfortunata vittima. A proposito di perversione, aggiungo che Parker Finn è deviato quanto me, perché fin dalle prime scene ho sperato che il film si concludesse in un certo modo, e il regista ha assecondato le mie aspettative in maniera egregia. Ora, c'è solo da capire che direzione prenderà la sua carriera, perché un eventuale Smile 3, con le premesse del secondo capitolo, sarebbe molto stuzzicante, ma sarei anche curiosa di vedere la sua eleganza, la sua ricerca di angoli e stacchi di montaggio particolari, il suo gusto estetico, al servizio di qualcos'altro. Nel frattempo, vi invito a godervi Smile 2 anche se il primo vi aveva detto poco, perché potreste rimanere molto sorpresi!


Del regista e sceneggiatore Parker Finn, che compare anche nei panni di un fotografo, ho già parlato QUI. Rosemarie DeWitt (Elizabeth Riley), Kyle Gallner (Joel) e Drew Barrymore li trovate invece ai rispettivi link.

Naomi Scott interpreta Skye Riley. Inglese, ha partecipato a film come Aladdin e Charlie's Angels. Anche produttrice, regista e sceneggiatrice, ha 31 anni e due film in uscita. 


Ray Nicholson
, figlio di Jack, interpreta Paul Hudson e aveva già partecipato ai film Una donna promettente e Licorice Pizza. Smile 2 segue direttamente gli eventi di Smile quindi, se vi fosse piaciuto, consiglio di recuperarlo e aggiungere It Follows. ENJOY!


mercoledì 23 ottobre 2024

Mr. Crocket (2024)

Attirata dalla locandina e dal fatto che fosse già disponibile su Disney+, ho recuperato Mr. Crocket, diretto e co-sceneggiato dal regista Brandon Espy.


Trama: Mr. Crocket, presentatore di un programma per bambini, corre in soccorso dei piccoli bisognosi di aiuto, eliminando i genitori inadatti...


C'è qualcosa negli anni '90 che mette paura più degli '80 e i filmmaker se ne stanno rendendo conto. Lungi da me definire Mr. Crocket, divertissement senza troppe pretese prodotto e distribuito da Hulu, inquietante quanto I Saw the TV Glow, ma le atmosfere mi hanno ricordato quelledella prima stagione di Channel Zero. Saranno le videocassette? Sarà quello squallore anche un po' drogato nascosto sotto i tappeti fluo dell'epoca? Vai a sapere. A prescindere, Mr. Crocket mi ha messo i brividi. La storia è piuttosto semplice. C'è uno show per l'infanzia distribuito in VHS, Mr. Crocket’s World, e i bambini ne vanno matti, anche perché Mr. Crocket è la versione "colorata" di Mr. Rogers, affabile e sempre pronto ad elargire divertenti insegnamenti. A differenza di Mr. Rogers, però, Mr. Crocket non ama i genitori, soprattutto quelli incapaci di esserlo e che, per un motivo o per l'altro, fanno soffrire i figli. Sfruttando terrificanti poteri, il presentatore si trasferisce così dalla realtà del nastro magnetico ai salotti di quelle che diventeranno le sue vittime. Partendo da questo incipit, Mr. Crocket si sviluppa come un horror piuttosto banale nei suo snodi narrativi, e si focalizza su una madre decisa a risolvere il problema seguendo tutta la trafila tipica del genere, personaggio "spiegone" compreso. Uno dei difetti del film è proprio la motivazione cretina che porta costei a diventare bersaglio del villain titolare. Tutte le vittime di Mr. Crocket sono genitori orribili, senza possibilità di errore: drogati, violenti, cattivi. Summer ha solo la sfiga di essere rimasta vedova e, per sovrappiù, sola con un figlioletto stronzo, ma talmente stronzo che il solo pensiero di partorire una creatura simile mi priva di quel briciolo di istinto materno rimasto. Major è talmente merda da fare i capricci persino durante il funerale del padre, vittima di una rappresentazione di "trauma infantile" probabilmente scritta da gente che odia/non capisce i bambini, o da qualcuno che non ha avuto voglia di elaborare su eventuali problemi cognitivi del pargolo. Il perché Summer voglia riprendersi Major o perché Mr. Crocket voglia portarsi questa pittima nel suo mondo ha preso a schiaffi la mia suspension of disbelief al punto che persino l'idea di un presentatore demoniaco, al confronto, mi è sembrata più plausibile.


Più che la trama, in effetti, va apprezzato in Mr. Crocket il ricorso a effetti speciali artigianali. Nonostante sia un film arrivato dritto in streaming, Mr. Crocket è piuttosto violento e mostra un gusto spiccato per il gore fin dalla prima scena, complice la giusta necessità di affiancare al folle protagonista il tipico bestiario di animaletti "pucciosi" tramutati in materiale da incubo. Abbiamo così sedie affamate di carne umana, struzzi dai denti affilati, orrori pelosi senza nome, orologi perfetti per un eventuale nuovo capitolo di Evil Dead, tutti affidati alla perizia di marionettisti e artigiani, con giusto un po' di CGI impiegata nel realizzare passaggi dimensionali e terrificanti antitesi agli allegri sfondi dei Teletubbies. Il mondo di Mr. Crocket rispecchia alla perfezione la definizione di "disturbante" e lo stesso vale per il sorriso dell'attore Elvis Nolasco (mai sentito nominare prima d'ora, va detto, anche se Imdb dice che l'ho già visto nel volutamente dimenticato Il sangue di Cristo di Spike Lee), che carica a molla la sua interpretazione regalando agli spettatori un matto forse non memorabile, ma comunque più che dignitoso. C'è anche da dire che gli altri attori non sono minimamente all'altezza, e che Brandon Espy è evidentemente privo del coraggio sconsiderato di buttare tutto in caciara come nelle vere "perle" horror anni '90, come I gusti del terrore, che era lurido, fastidioso e sbagliato in un modo che avrebbe giovato moltissimo anche a questo Mr. Crocket. Rileggendolo, mi sono accorta che questo post potrebbe sembrare una stroncatura. In realtà, mi sono divertita molto guardando il film, quindi ve lo consiglio anche nel caso abbiate voglia di guardare horror non troppo impegnativi ad Halloween, magari con persone che normalmente hanno paura o non bazzicano il genere. Mr. Crocket potrebbe andare bene anche per loro, anzi, sembrerebbe realizzato apposta!

Brandon Espy è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Americano, è al suo primo lungometraggio. Anche produttore e attore, ha 37 anni.


Jerrika Hinton
, che interpreta Summer, era la Millie Morris della serie Hunters. Mr. Crocket è tratto dall'episodio omonimo (sempre diretto e scritto da Brandon Espy) della serie Bite Size Halloween, che vi consiglio di recuperare assieme a I Saw the TV Glow se il film vi fosse piaciuto. ENJOY!


martedì 22 ottobre 2024

Alien³ (1992)

Seguendo la challenge di Letterboxd, oggi avrei dovuto parlare di Alien - La clonazione, ma che senso avrebbe avuto guardarlo se prima non avessi rivisto Alien³, diretto nel 1992 dal regista David Fincher?


Trama: Ripley sopravvive a un atterraggio di fortuna sul pianeta-prigione Fiorina "Fury" 161 ma scopre che con lei è atterrato anche un alieno...


A dimostrazione di quanto la saga Alien non abbia mai fatto presa sulla mia coscienza di cinefila, neppure ora che, a 43 anni suonati, ne sto riguardando/recuperando i film, comincerò il post dicendo che Alien³ non mi è sembrato così aberrante rispetto ai suoi predecessori. Certo, la coerenza, la solidità che c'erano in Alien e Aliens - Scontro finale qui non si percepisce, ma come potrebbe? David Fincher era al suo primo lavoro importante e, tra ingerenze degli studios, cambi quotidiani di sceneggiatura, pressioni per finire di girare in tempo entro una data d'uscita già definita, è un miracolo che il regista non sia fuggito a gambe levate lasciando la produzione dopo mezza giornata. Tutto ciò ha riempito innanzitutto il film di incongruenze a livello di sceneggiatura e contribuito a rendere alcuni passaggi oscuri, per non parlare di un paio di personaggi che perdono o acquistano importanza apparentemente senza alcun senso, eppure l'atmosfera di tragico, ineluttabile nichilismo, che sarebbe poi esplosa nell'opera più famosa di Fincher, Seven, qui è palpabile fin dall'inizio. In Alien³ non c'è speranza per nessuno. Un potenziale nucleo familiare viene spazzato via con una spietatezza agghiacciante, un sentimento in boccio stroncato alla radice da fiotti di sangue, una flebile speranza di sopravvivenza viene consegnata a chi ne è privo da anni ma l'unica, reale fonte di salvezza e autodeterminazione è la morte. Una morte temuta, certo, ma chiesta più volte come dignitosa conclusione di una battaglia perduta a causa delle macchinazioni di chi non rispetta la vita umana e guarda solo ad uno squallido profitto. E' difficile, se non addirittura impossibile, affezionarsi ai detenuti di Fiorina 161, questo è certo, ma è altrettanto impossibile non amare la Ripley umanissima e stanca di Alien³, la fragilità che trasuda da una tempra d'acciaio ormai fiaccata da innumerevoli traumi, sia fisici che psicologici. Il film di Fincher non diverte mai, piuttosto angoscia per il suo "mai una gioia" reiterato, eppure lo trovo apprezzabile proprio per questo motivo, chiamatemi pazza.


In Alien³, poi, ho trovato quello che per me, al momento, è il miglior personaggio della saga, il medico "decaduto" Clemens di Charles Dance. Pacato, gentile, dotato di britannico aplomb e mai fuori posto (tranne in una scena, porca di quella miseria...), sarei stata ore a guardarlo e sentirlo raccontare la sua triste storia, aggrappandomi alla sciocca speranza di un happy ending che negli Alien in generale, e Alien³ in particolare, è più raro dell'ossigeno. Anzi, a dire il vero mi ha intrattenuto più l'elemento umano di quello alieno. Per quanto mi riguarda, infatti, il vero difetto di Alien³ è, innanzitutto, uno xenomorfo abbastanza orripilante, realizzato con effetti speciali che sembrano molto più vecchi di quelli utilizzati nel '79, poi uno scontro finale che a me è sembrato soporifero. Mai avrei pensato di addormentarmi guardando un Alien (soprattutto perché Alien³ è molto gore), eppure è successo, e l'ultima mezz'ora si è trasformata in un'ora di click sul tasto rewind del telecomando. Non so se è stata colpa dei setting tutti uguali, resi ancora più uggiosi da una cupa monocromia, se è un problema della regia inesperta, del montaggio o del sembiante assai simile dei vari detenuti (avendo ormai difficoltà a ricordare i nomi dei personaggi, l'unica speranza è avere personaggi interpretati da attori dal volto molto familiare, come quello di Pete Postlethwaite), ma prima del gran finale ammetto di essermi persa più volte, ben poco convinta dalla trappola architettata ai danni dello xeno-cane. So che del film esiste una "Assembly Cut", chiamata così perché Fincher, ancora rivoltato dall'esperienza a distanza di anni, si è rifiutato di rimettere mano al girato e ha dato via libera a chiunque volesse riproporlo senza tagli, e forse il modo migliore per fruire di Alien³ sarebbe guardarla prima di emettere giudizi, ma al momento sono a posto così e mi accontento di quanto di buono è rimasto nella versione che potete trovare su Disney +.


Del regista David Fincher ho già parlato QUI. Sigourney Weaver (Ripley), Charles S. Dutton (Dillon), Charles Dance (Clemens), Paul McGann (Golic), Ralph Brown (Aaron), Holt McCallany (Junior), Lance Henriksen (Bishop II) e Pete Postlethwaite (David) li trovate invece ai rispettivi link.


Richard E. Grant
aveva fatto il provino per il ruolo di Clemens, in quanto David Fincher è un grande fan di Shakespeare a colazione e avrebbe voluto riunire Grant a Paul McGann e Ralph Brown. La produzione, purtroppo, ha ritenuto l'attore troppo mite per l'ambiente carcerario e ha preferito dare il ruolo a Charles Dance. Ciò detto, se Alien³ vi fosse piaciuto, recuperate Alien, Aliens - Scontro finale, Alien - La clonazione, Prometheus e Alien: CovenantENJOY!  

venerdì 18 ottobre 2024

Hold Your Breath (2024)

Siccome mi piace molto Sarah Paulson, ho recuperato Hold Your Breath, uscito in queste settimane su Disney +, diretto e sceneggiato dai registi Karrie Crouse e William Joines.


Trama: nell'Oklahoma degli anni '30, Margaret e le sue figlie vivono in una fattoria isolata, in una zona colpita da ripetute tempeste di sabbia. La loro vita scorre più o meno tranquilla, finché un predicatore non arriva a sconvolgerla insinuando dubbi e paranoie nella mente di Margaret...


Ammetto senza troppi problemi di aver faticato tantissimo con Hold Your Breath, quindi vi do un consiglio spassionato: se siete stanchi, proni ad addormentarvi per un nonnulla, in cerca di un film dinamico, rimandate la visione di Hold Your Breath a un periodo più consono. Lo dico perché la pellicola di Karrie Crouse e William Joines impiega tantissimo prima di entrare nel vivo della vicenda, e nel corso della prima parte insiste molto (anche troppo) sulla lotta di Margaret contro la sabbia, in un avvicendarsi continuo di gente che ramazza e infila pezzi di stoffa nelle fessure tra le porte. E' una scelta sensata, ci mancherebbe, perché la cosiddetta Dust Bowl è una dei protagonisti principali del film, così come il paesaggio brullo che circonda le sfortunate donne Bellum. La Dust Bowl è uno dei primi disastri ecologici causati dall'uomo e dall'agricoltura intensiva, che riduceva le Grandi Pianure ad aride distese prive di erba; questo, combinato con una lunga siccità, ha portato alla comparsa di devastanti tempeste di sabbia che sono durate decenni e che hanno costretto moltissimi americani a migrare verso zone più favorevoli climaticamente ed economicamente. Così ha fatto il marito di Margaret, ma lei è rimasta nella fattoria di famiglia per non abbandonare la tomba della figlia Ada, morta di malattia in tenera età, e la speranza è quella di riunirsi all'uomo non appena ci saranno i soldi necessari a poter vivere tutti insieme. Nel frattempo, Margaret si carica addosso l'arduo compito di proteggere le due figlie superstiti (una adolescente in boccio, l'altra bambina segnata da una malattia che l'ha resa sordomuta) in una realtà che non perdona né gli incauti che si avventurano all'esterno senza precauzioni, né le donne sole, viste con sospetto da una comunità che non aspetta altro se non definirle pazze e incapaci a gestire i figli. Alla perenne ansia da "prestazione" di Margaret si aggiungono, inoltre, un passato già pregiudicato da comportamenti non proprio normali e l'arrivo di un misterioso predicatore proprio nel momento in cui, in famiglia, si comincia a leggere la terrificante storia del Gray Man, colui che riesce a trasformarsi in polvere e possedere le persone che lo respirano senza saperlo, spingendole a compiere le peggio nefandezze.


Hold Your Breath
dissemina, per tutta la sua durata, tante piccole micce che deflagrano (senza troppo clamore né danni, a dire il vero) sul finale, ma la vera forza del film è quella di avere un doppio setting claustrofobico, reso ulteriormente tale dall'utilizzo di colori desaturati che enfatizzano la cupezza dell'ambientazione e creano un contrasto disperato con le visioni solari e verdissime della protagonista. Da una parte, c'è la casa di Margaret, un luogo fragile che offre temporanea sicurezza dalla sabbia all'esterno, permeabile tuttavia non solo a quest'ultima, ma anche a una cabin fever alimentata da terrore, solitudine e diffidenza; dall'altra, c'è l'esterno fatto di praterie sconfinate ma impossibili da affrontare senza maschere protettive, privo di punti di riferimento e a rischio di venire sferzato da mortali tempeste di sabbia che cancellano in un attimo l'odiato sole, facendo piombare i personaggi in una cupa oscurità. Ambientazioni simili sono perfette per una storia di paranoia crescente, dove la sanità mentale dei personaggi viene invasa dal pulviscolo del dubbio, in un parallelo reso evidente dalle persistenti inquadrature della polvere che turbina nell'aria e contribuisce ad aumentare la disperazione della protagonista. Quanto a quest'ultima, Sarah Paulson è una garanzia, come sempre. Abbonata ai ruoli di donna sull'orlo di una crisi di nervi, alla quale basta una spintarella per diventare matta come un cavallo, fomentata dall'odio verso chi rifiuta di assecondare la sua follia (la scena in cui il predicatore brucia la lettera del marito per toglierle ancora più credibilità è allucinante), l'attrice ci si abbandona con consumata abilità e i suoi fan non potranno che apprezzare. A me piacerebbe che la bravissima Paulson riuscisse finalmente a staccarsi da quel genere di storie che vivono solo dello stereotipo dentro cui è stata incatenata, ma probabilmente sono in minoranza. In definitiva, come succede a molte delle produzioni streaming che escono durante la Spooky Season, non ho trovato Hold Your Breath  particolarmente entusiasmante ma neppure così brutto da sconsigliarne la visione, anzi, si vede che Karrie Crouse e William Joines sono autori eleganti, però mi è parso mancasse loro il coraggio. Comunque a molt* amic* della mia amata cerchia horror è piaciuto, quindi recuperatelo e fatemi sapere cosa ne pensate!


Di Sarah Paulson (Margaret Bellum) e Frances Lee McCain (Bertha Bell) ho già parlato ai rispettivi link.

Karrie Crouse e William Joines sono i registi della pellicola (la Crouse è anche sceneggiatrice). Americani, sono al loro primo lungometraggio.


Amiah Miller
, che interpreta Rose, era la Gretchen di My Best Friend's Exorcism. Se Hold Your Breath vi fosse piaciuto recuperate Run. ENJOY!

 

mercoledì 16 ottobre 2024

Bolle di Recensioni su Netflix: Grave Torture (2024) - Il buco: Capitolo 2 (2024)

Oggi raggrupperò un paio di film sui quali non ero sicura di riuscire a scrivere post di lunghezza standard, ma mi scuso per il titolo impreciso e fuorviante. E' vero, infatti, che Grave Torture si trova su Netflix, ma non nel catalogo italiano. Se vorrete guardarlo, dunque, dovrete cercare un po' oppure aspettare che sia disponibile anche in qui da noi. ENJOY!

Grave Torture - Joko Anwar (2024)

Joko Anwar è un autore indonesiano che mi piace molto in primis per la sua spietatezza e poi per il modo di rendere fruibile anche a un pubblico occidentale miti, leggende e topoi distanti dai nostri. Grave Torture, in particolare, ha un'idea di fondo spettacolare. Nella Sunna islamica si menziona la "punizione della tomba", ovvero un periodo, tra la morte e la resurrezione, in cui il defunto viene interrogato sulla propria fede da due angeli, i quali lo puniscono in maniera raccapricciante nel caso di peccati, negligenze, mancanze e quant'altro (vi ho fatto il riassunto del riassunto di Wikipedia, mi perdonino i credenti e, nel caso, mi correggano); la protagonista del film, Sita, decide di dimostrare che questa "punizione" è una vaccata, e lo fa per esorcizzare orribili eventi che ne hanno segnato l'infanzia. Il concetto base della trama e l'introduzione a orologeria, durante la quale mi si è quasi slogata la mascella, sono due elementi che rendono Grave Torture meritevole di una visione, uniti al fatto che Anwar è un regista consumato, dotato di una padronanza della cinepresa invidiabile. Quello che però mi ha spinta a dedicare al film poco più di un paragrafo è che, per quanto mi riguarda, Grave Torture manca di ritmo e diventa una noia mortale (mi sono addormentata più volte. E' inconcepibile, davanti a un film di Anwar) nell'istante successivo l'inizio dell'esperimento di Sita, forse perché il regista mette troppa carne al fuoco e si adagia su cliché da ghost story non particolarmente entusiasmanti. L'opera si risolleva sul finale, a tratti terrificante, ma ho avuto la sgradevole impressione che Netflix ci abbia messo lo zampino per appiattire il tutto, inoltre non ho apprezzato granché gli effetti speciali troppo computerizzati. Forse forse mi sbaglio, forse ho preso un abbaglio. Nel caso, Lucia ne ha parlato in termini molto più entusiasti e competenti, quindi, prima di decidere di scartare Grave Torture, andate a leggere anche il suo post.

 


Il buco: Capitolo 2 - Galder Gaztelu-Urrutia (2024)

Altro post in breve, perché ammetto di non aver capito una benemerita mazza del finale, quindi avrei delle difficoltà ad elucubrare in merito. Ne stanno dicendo tutti peste e corna de Il buco 2, invece a me e Mirco è piaciuto molto, e non solo per quella stronzissima vocetta familiare che ovviamente ci ha fatto fare la ola sul divano, ma anche per la scelta di mantenere lo stesso setting cambiando un po' le regole. Se nel primo film gli abitanti del "buco" sceglievano o meno di autoregolarsi, in base a un egoismo/menefreghismo più o meno congenito, qui alcuni prigionieri vivono cercando di imporre una legge che prevede la possibilità di mangiare, ogni giorno, solo il piatto prescelto, salvo eventuali scambi concordati. Così facendo, teoricamente, ci sarebbe cibo per tutti, ma la trama de Il buco 2 si sviluppa proprio per permettere allo spettatore di riflettere sull'imposizione talebana (letteralmente) delle regole, sulla libertà, sulla sottilissima linea di confine che impedisce, o consente, al bene di diventare male e viceversa. Come nel primo film, ci sono dei difetti, e mi è parso, soprattutto, che stavolta Galder Gaztelu-Urrutia abbia scelto di mettere un po' troppa ciccia sul piatto (ha-ha) complicando inutilmente la trama e perdendo spesso il filo del discorso, ma un paio di personaggi bucano lo schermo e l'elemento splatter si è alzato di un paio di tacche. L'impressione che ho avuto è che gli autori vogliano tirarla per le lunghe, senza dare spiegazioni (anzi, creando ancora più confusione), nella speranza che venga richiesto a gran voce un terzo capitolo, ma il rischio è quello di giocare col fuoco e con la pazienza dell'utente finale, anche perché di "caracol" ce n'è solo uno. Se non vi è piaciuto Il buco, o lo avete apprezzato poco, il mio consiglio è di stare alla larga da questo Capitolo 2, viceversa guardatelo senza pregiudizi, magari vi divertirete com'è successo a me!



martedì 15 ottobre 2024

Il fantasma dell'opera (1925)

Il tema odierno della challenge horror di Letterboxd era "gothic". La scelta è caduta su Il fantasma dell'opera (The Phantom of the Opera), diretto nel 1925 dal regista Rupert Julian (e molti altri).


Trama: innamorato della cantante Christine, il Fantasma dell'Opera di Parigi, orribilmente deforme, usa ogni mezzo per ottenere il cuore della sua protetta, scatenando il terrore...


Pur amando il cinema in generale e l'horror in particolare, mi mancano parecchi capisaldi. La challenge di Letterboxd (che, per inciso, do già per fallita, visto che, al momento in cui scrivo, è fine settembre e sono arrivata appena a metà sfida) mi ha spinta a recuperare molte opere che rientrano nel novero di questi capisaldi, e uno è proprio Il fantasma dell'Opera. Del romanzo di Gaston Leroux conosco solo la versione musical e un paio di horror a esso ispirati, oltre a Il fantasma del palcoscenico di Brian De Palma, quindi diciamo che ho una percezione molto falsata della storia, più legata alle sue rappresentazioni teatrali; non a caso, mentre guardavo il film del 1925, stavo molto attenta allo score musicale, e potrei giurare che qualcosina sia finita nel capolavoro di Andrew Lloyd Webber, anche solo a livello di ispirazione. Ma torniamo al film di Rupert Julian, un pastiche a cui ha messo mano sicuramente il regista Edward Sedgwick, responsabile delle sequenze finali, e forse persino Lon Chaney. Julian non era granché rispettato nell'ambiente e cast e troupe facevano, giustamente, quello che volevano, cosa che si riflette sulla resa finale del film. Infatti, Il fantasma dell'Opera è statico anche per gli standard dell'epoca, nonché privo di uno stile riconoscibile, ma spicca per la grandeur delle scenografie, una più spettacolare dell'altra, e per il terrore puro che Lon Chaney è in grado di infondere ancora oggi. L'Erik di Chaney non è il villain romantico, l'"Angel of Music" che affascina Christine con la sua "Music of the Night", sdoganato da quasi tutte le versioni seguenti (lasciamo pure perdere quella di Argento, in cui la Christine più scema di sempre si barcamena, letteralmente, tra lui e Raoul), bensì un folle nato con un sembiante mostruoso, esperto di magia nera e malvagio dentro e fuori. Il Fantasma del 1925 non suscita alcuna pietà e non si limita ad uccidere le persone, arriva persino a torturarle ingannando più volte la terrorizzata Christine; un epilogo privo di compassione come quello girato da Sedgwick risulta dunque più che naturale, sia in termini di spettacolarizzazione, sia per venire incontro a quegli happy ending violenti e risolutivi che tanto piacciono al pubblico americano, ben poco convinto da un finale originale in cui il Fantasma moriva di crepacuore dopo avere rinunciato a Christine per amore. 


Tornando a Lon Chaney, il film è passato giustamente alla storia per il terrificante make-up da lui creato ed applicato personalmente, e non fatico a credere che qualcuno sia svenuto alla rivelazione del volto di Erik, in una delle scene più genuinamente sorprendenti del genere horror. Parlare di jump scare sarebbe improprio, perché la rivelazione viene anticipata dai dialoghi in cui Erik ammonisce Christine a non tentare di togliergli la maschera e dal modo quasi giocoso, pregno di sciocca curiosità femminile, con cui la cantante disobbedisce (per inciso, Mary Philbin è splendida, adorabile); ma la scena della rivelazione, con l'inquadratura che passa da laterale a frontale con uno stacco così subitaneo che il volto di Chaney sembra saltargli fuori dal corpo nemmeno stessimo parlando di uno di quei tremendi pupazzi a molla, mi ha fatto cadere la mascella anche nell'anno del Signore 2024, guardando il film su Youtube. Un'altra cosa che mi ha molto stupita è l'uso del colore, indice dell'enorme sforzo economico infuso dal produttore Carl Laemmle, che evidentemente credeva moltissimo nel progetto. Nella versione che ho visto io (la trovate gratuitamente sul canale Youtube Cult Cinema Classics), la scena della Maschera della Morte Rossa è colorata e sfarzosa, un tripudio di comparse, set dettagliati e abiti sgargianti che surclassa quelle monocrome, già molto sontuose, durante le quali viene rappresentato il Faust, inoltre la chicca del mantello rosso viene mantenuta quando Erik ascolta di nascosto i piani di Christine e Raoul sul tetto dell'Opera. Noterete che mi sono riferita alle sequenze del film usando il termine "monocromo", ora vi spiego. L'utilizzo del Technicolor è una scelta originale della produzione dell'epoca, di questo sono certa, ma la versione de Il fantasma dell'opera che ho trovato su Youtube è praticamente priva di scene in bianco e nero. La pellicola risulta colorata di ambra, giallo, blu, porpora, a seconda degli ambienti rappresentati e dei toni delle scene, e non riesco a trovare informazioni chiare che mi tolgano il dubbio se questa colorazione fosse già presente nel 1925 oppure se sia stata introdotta nei restauri/riedizioni seguenti. Se qualcuno mi illuminasse nei commenti gliene sarei grata, intanto ribadisco la gioia di essermi goduta questa perla horror che conoscevo solo di fama e, neanche a dirlo, vi consiglio di recuperarla!

Rupert Julian è il regista della pellicola. Neozelandese, ha diretto film come The Right to Be Happy, The Kaiser, the Beast of Berlin e Creaking Stairs. Anche attore, sceneggiatore e produttore, è morto nel 1943 all'età di 64 anni.


Lon Chaney
(vero nome Leonidas Frank Chaney) interpreta il Fantasma. Americano, lo ricordo per film come Il gobbo di Notre Dame e Il trio infernale. Anche regista e sceneggiatore, è morto nel 1930 all'età di 47 anni.


Mary Philbin
, che interpreta Christine Daae, ha partecipato anche al film L'uomo che ride. Se Il fantasma dell'opera vi fosse piaciuto recuperate, ovviamente, Il fantasma dell'opera di Joel Schumacher , Il fantasma del palcoscenico e Il fantasma dell'Opera con Robert Englund. ENJOY!

venerdì 11 ottobre 2024

Salem's Lot (2024)

Appena possibile ho recuperato Salem's Lot, diretto e sceneggiato dal regista Gary Dauberman e tratto dal romanzo Le notti di Salem di Stephen King.


Trama: Ben Mears, scrittore in crisi d'ispirazione, torna a Salem's Lot, suo luogo di nascita. Lì scopre che la città e i suoi abitanti sono presi di mira da un antico vampiro...


Uno dei grandi misteri dell'horror recente sarà il motivo per cui questo Salem's Lot è rimasto nel limbo distributivo per ben due anni. Girato nel 2021, completato nel 2022, ha aspettato fino a fine 2024 per vedere l'uscita, per di più direttamente in streaming, sul servizio americano Max. Va bene il Covid, va bene lo sciopero SAG-AFTRA, ma secondo me è un ritardo comunque eccessivo. Sia come sia, Salem's Lot è finalmente arrivato, quindi com'è? Meno peggio di quanto pensassi ma comunque non un lavoro memorabile né capace di rendere finalmente giustizia a uno dei miei romanzi preferiti del Re. Il problema è sempre quello, probabilmente impossibile da evitare per chiunque non sia Mike Flanagan e non abbia a disposizione miniserie di almeno sei puntate: Salem's Lot manca di anima. E non parlo del film, ma della cittadina. Questa però è anche una delle note di merito che darei a Dauberman, perché, memore delle mattonate sui coglioni de Le notti di Salem televisive, lo sceneggiatore non ci ha nemmeno provato ad approfondire la natura della città, degli abitanti e le tante piccole magagne che fanno sì, come dichiarato dallo sceriffo Gillespie, che Salem's Lot fosse già morta "dentro" prima ancora dell'arrivo di Barlow. Questi approfondimenti, appunto, o si fanno bene o è meglio evitarli. Purtroppo, così facendo si hanno anche dei protagonisti e comprimari con lo spessore emotivo di un foglio di carta, al punto che la loro sopravvivenza o meno diventa poco importante (perlomeno, poco sentita dallo spettatore), per non parlare poi dei legami che arrivano a crearsi tra gli stessi. Nel nuovo Salem's Lot, l'unico personaggio leggermente tridimensionale è Matt Burke, gli altri sono dotati di maggior vivacità rispetto ad altre loro controparti televisive/cinematografiche ma è il loro unico pregio (anche stavolta, il mio personaggio preferito, il doloroso, cinico padre Callahan, è una macchia di colore che passa e va) quanto al Dr. Cody dà talvolta l'impressione di essere poco più di un comic relief. Barlow e Straker risultano invece cartonati, e il primo funziona nello stesso modo in cui funzionava quello del 1979, ovvero come mero veicolo di jump scare. L'intenzione di Dauberman era quella di privare la figura del vampiro di attrattiva, e la trovo lodevole, così purtroppo l'ha però prosciugata anche di carisma, ma c'è da dire che, per quanto riguarda Straker e il suo destino, lo sceneggiatore ha avuto un'unica, buona idea originale (che non vi spoilero), perfettamente in tema con la poetica kinghiana e il suo parterre di personaggi ai quali basta una spintarella minima per diventare matti in culo. 


Dunque il Dauberman sceneggiatore ci è andato cauto, tenendosi abbastanza fedele al testo da cui ha preso un paio di note di colore, ma senza allontanarsi troppo dai cliché dell'horror medio recente. A livello di regia ha un paio di belle intuizioni, come l'introduzione di Barlow attraverso la visione limitata di un bambino terrorizzato e il precedente rapimento dello stesso, oppure l'elegantissimo momento in cui basta il riflesso di una finestra per svelare un'umanità già perduta, e in generale è bravo quando si tratta di creare atmosfera e giocare a carte coperte. Più aumenta la consapevolezza dei personaggi, più a me è sembrato però che certe finezze si perdessero, e che Dauberman puntasse esclusivamente a "fare paura", con risultati discontinui, anzi più fallimentari che altro. I jump scare sono infatti prevedibili, lo showdown finale abbastanza sciocco (SPOILER: Nascondersi nei cofani delle macchine al drive-in? Ma mi tiri il belino, esistono le cantine, che senso ha? Alla faccia del caldo!) e il distacco emotivo derivante da personaggi poco approfonditi rende difficile il coinvolgimento anche nei momenti più concitati. Lì la colpa è anche di un casting poco efficace, forse. Lewis Pullman è un Ben Mears ancora più moscio di Hutch, con la differenza che David Soul a 36 anni sembrava già mio nonno, Mears all'epoca delle riprese non ne aveva nemmeno 30 e sembra un ragazzino al college, quindi risulta anche poco credibile. A parte il giovanissimo attore che interpreta Mike e il bravo Bill Camp, poi, appaiono tutti un po' spaesati o pronti a recitare col pilota automatico, anche se il vero spreco, per quanto mi riguarda, è aver ingessato quel gran bel fanciullo di Pilou Asbæk nei panni di old fart britannica, sprecandone il potenziale. Detto ciò, non posso dire che Salem's Lot non sia un prodotto ben confezionato, zeppo di difetti evidenti oppure noioso al punto da indurre al sonno, ma la mancanza di anima lo rende l'ennesimo horror dimenticabile e, passatemi il termine, inutile di questo 2024.


Del regista e sceneggiatore Gary Dauberman ho già parlato QUIAlfre Woodard (Dr. Cody), Bill Camp (Matt Burke), Spencer Treat Clark (Mike Ryerson), Pilou Asbæk (R.T. Straker) e William Sadler (Parkins Gillespie) li trovate invece ai rispettivi link.

Lewis Pullman interpreta Ben Mears. Americano, figlio di Bill Pullman, ha partecipato a film come The Strangers: Prey at Night7 sconosciuti a El Royale Top Gun: Maverick, Ha 31 anni e un film in uscita, Thunderbolts


Nicholas Crovetti
, che interpreta Danny Glick, è il gemello di Cameron, che interpreta il figlio di Homelander in The Boys, e assieme a lui aveva partecipato al dimenticabile remake di Goodnight MommyDerek Mears ha partecipato col ruolo di Hubert Martens, ma le sue scene sono state tutte tagliate in fase di montaggio. Se Salem's Lot vi fosse piaciuto recuperate Le notti di SalemIt e It - Capitolo 2. ENJOY!

mercoledì 9 ottobre 2024

Le notti di Salem (1979)

Siccome mentre sto scrivendo queste righe manca pochissimo all'uscita streaming della nuova versione diretta da Gary Dauberman, ho deciso di riguardare Le notti di Salem (Salem's Lot), miniserie diretta dal regista Tobe Hooper nel 1979 e tratta dal romanzo omonimo di Stephen King.


Trama: lo scrittore Ben Mears torna nella cittadina di Salem's Lot per scrivere il suo nuovo romanzo, proprio nel momento in cui un vampiro pluricentenario la sceglie come covo e terreno di caccia...


Mamma mia, la monnezza che ho visto. Monnezza "ridotta", ma pur sempre tale. E ringrazio, per una volta, tutti gli dèi per l'esistenza di una divisione in zone per DVD e BluRay, il che impedisce al DVD acquistato in Australia, contenente la versione da 183 minuti de Le notti di Salem, di funzionare in Italia, cosa che mi ha costretta ad accontentarmi del film da 112 minuti recuperato al Libraccio. Ricordo benissimo di essermi addormentata, in Australia, durante la visione della miniserie, e ho dovuto usare spesso il tasto rewind anche stavolta, benché abbia cominciato alle 20.30, dopo una giornata neppure tanto stancante. Il problema de Le notti di Salem è che è soporifero da matti, a prescindere che sia una mattonata di miniserie o una sua riduzione pensata per i cinema europei, un'opera che ridefinisce il concetto stesso del "non succede nulla". L'enorme problema è la scelta (salvo alcuni cambiamenti di personalità, scambi di personaggi e altre "libertà" che, di per sé, nulla toglierebbero alla qualità dell'adattamento) di seguire pedissequamente lo spirito di un romanzo che vive delle esistenze private degli abitanti di Salem's Lot, molti dei quali già diretti verso l'oscurità prima ancora dell'arrivo dei malvagi Barlow e Straker. Ciò che su carta è entusiasmante, reso vivo dall'abilità Kinghiana di realizzare opere corali ambientate nelle piccole cittadine, su pellicola rallenta tantissimo il ritmo del racconto (questo non solo nella versione "ridotta", dove alcune storie sembrano non portare da nessuna parte, in primis quella del cornuto Sawyer e della moglie fedifraga, ma anche nella lunghissima miniserie), al punto che quando i vampiri arrivano è già passato l'interesse, e la loro presenza centellinata non aiuta. Personaggi importanti come Padre Callahan e il piccolo Mark, per esempio, sono due macchiette le cui peculiarità servono solo per dare una nota di colore, tanto che la questione della fede del prete si riduce a due parole dette en passant prima che quest'ultimo scompaia dalla storia senza lasciare traccia, e anche il trauma subito da Ben proprio per colpa di Casa Marsden è talmente posto male che perde di qualsiasi importanza, al punto che ci si chiede perché mai lo scrittore sia così ossessionato dall'edificio (un'altra delle case maligne di King, la cui sola presenza basta ad avvelenare tutto ciò che entra in contatto con loro, ma se non avessi letto il romanzo o non conoscessi il Re non sarei riuscita ad evincerlo guardando Le notti di Salem). 


Mi sono chiesta spesso perché mai un adattamento così malfatto sia assurto a livello di cult e mi sono risposta che moltissima gente l'avrà guardato solo nel 1979 e probabilmente conserverà lo stesso ricordo che ho io della miniserie di It (un'altra di quelle opere che, riviste con occhi scevri di nostalgia, esce con le ossa rottissime). Capisco però anche perché molti registi lo apprezzino e lo citino ancora oggi, visto che un paio di sequenze hanno retto alla perfezione l'usura del tempo. La più famosa è, ovviamente, quella in cui un Ralphie Glick ormai vampirizzato va a far visita al fratello e bussa alla sua finestra; la tecnica con cui è stata realizzata, unita al trucco terrificante del pargolo e al taglio delle inquadrature, crea materiale da incubo, e anche il paio di jump scares che vedono Barlow protagonista, con quella pelle blu e gli occhi gialli, rimangono notevoli. Lo stesso aggettivo si può applicare alla scenografia di Casa Marsden, la cui splendida facciata posticcia, messa davanti a un edificio fatiscente, è costata, in dollari, l'equivalente di una casa vera acquistata all'epoca. Tutto il resto, purtroppo, è da dimenticare. Regia ed interpretazioni sono televisive nell'accezione più brutta del termine perché, salvo per quel paio di sequenze già citate, non c'è un'idea originale né un'immagine che sorprenda, solo un piattume infinito messo assieme da un montaggio impersonale, quanto agli attori stenderei un velo pietoso. David Soul sarà stato anche un ottimo manzo biondo in Starsky e Hutch ma qui sembra spaesato e, pur essendo il protagonista, non ha un briciolo di carisma. Per sua fortuna, chi lo affianca non ha alcun modo di eclissarlo, in quanto ogni attore sembra voler andare da punto A a punto B e recitare le battute giusto per portare a casa lo stipendio e infilare in curriculum una miniserie tratta dal romanzo di uno scrittore all'epoca giovane ma già sulla cresta dell'onda. Ho già capito, da un paio di anteprime, che il nuovo Salem's Lot sarà poco meno deludente, ma spero che almeno la presenza di quell'ottimo patatone di Pilou Asbæk mi impedirà di addormentarmi, così come spero di non dover rivedere mai più questa versione de Le notti di Salem.


Del regista Tobe Hooper ho già parlato QUI. Bonnie Bedelia (Susan Norton), George Dzundza (Cully Sawyer), Fred Willard (Larry Crockett) e Geoffrey Lewis ( Mike Ryerson) li trovate invece ai rispettivi link.

James Mason interpreta Richard K. Straker. Inglese, lo ricordo per film come E' nata una stella, Intrigo internazionale, Lolita e Il verdetto. Anche produttore, sceneggiatore e regista, è morto nel 1984, all'età di 75 anni. 


David Soul
, che interpreta Ben Mears, era l'Hutch della serie Starsky e Hutch. George A. Romero era stato contattato per dirigere un film tratto da Le notti di Salem, ma dopo che erano stati annunciati sia il Dracula con Langella, sia Nosferatu - Il principe della notte, la Warner Bros. ha deciso di realizzare una miniserie, cosa che ha spinto Romero a rinunciare. Le notti di Salem ha una sorta di sequel, I vampiri di Salem's Lot, e un remake, Salem's Lot, miniserie del 2004. Nell'attesa della più volte posticipata versione di Dauberman, se il genere vi piace recuperateli e aggiungete la serie Chapelwaite. ENJOY!

martedì 8 ottobre 2024

Joker: Folie à Deux (2024)

Venerdì sono andata al cinema a vedere Joker: Folie à Deux, diretto e co-sceneggiato dal regista Todd Phillips.


Trama: Arthur Fleck è rinchiuso in carcere, ma l'influenza di Joker è ben lungi dall'essersi estinta nelle strade di Gotham City.  Le cose si complicano ulteriormente quando Arthur si innamora, ricambiato, di Lee, una paziente del Manicomio Arkham...


E' ormai qualche giorno che parlo di Joker: Folie à Deux (da qui in poi Joker 2) con Mirco e altri amici che lo hanno visto. Più che una recensione, quindi, scriverò una raccolta di riflessioni nate a seguito di queste conversazioni. Tralasciando per un istante la bravura dei due attori principali, iniziamo col dire che Joker 2 non è un film brutto nel senso stretto del termine. Non può esserlo in virtù dello sforzo produttivo infuso e dell'enorme budget a disposizione di Todd Phillips, il quale è riuscito a confezionare un film gradevole alla vista e all'orecchio, senza sbavature a livello di regia, con alcune sequenze musical assai notevoli; l'idea di ampliare il concetto di un Arthur Fleck "malato" di cinema e televisione, già introdotto in Joker, dà vita a fantasie a tempo di musica dove immaginazione e realtà si fondono in omaggi ai film musicali della vecchia Hollywood, tra momenti più glamour e altri in cui il mondo reale muta impercettibilmente (deliziosa la scena in cui gli ombrelli cambiano colore senza uno stacco di montaggio percettibile), filtrato dalla malattia mentale del protagonista. In generale, tutto il film segue cliché che inquadrano i vari eventi in generi cinematografici ben definiti, dal dramma carcerario alla commedia d'amore, fino ad arrivare al courtroom drama, al punto che ogni snodo di sceneggiatura, salvo un paio di colpi di scena nel prefinale e sul finale, sono ampiamente prevedibili. Credo e spero fosse una cosa voluta, così come voluto era l'omaggio a Scorsese nel primo Joker, purtroppo il risultato stavolta è stato ben diverso, e Todd Phillips è caduto vittima di quella sofisticata semplicità che ha parlato alla pancia della maggior parte degli spettatori e dei critici nel 2019. Buona parte dell'empatia provata verso un personaggio oggettivamente sgradevole, derivava dalla scelta (condivisibile ma paracula) di affiancargli un parterre di comprimari ancora più sgradevoli, pronti a rendergli la vita un inferno anche e soprattutto per motivi futili, come se Arthur fosse la perfetta valvola di sfogo di stronzi da primato, riccastri con la puzza sotto il naso e madri inadatte al ruolo. Questo "trucco" era talmente tanto efficace che lo spettatore arrivava non solo a plaudere la violenta rivalsa di Arthur verso i suoi aguzzini e la società corrotta, con conseguente rivoluzione proletaria nelle strade di Gotham, ma persino a disprezzare chi, come la vicina di casa Sophie, risultava immune al suo fascino.


In Joker 2, come ho scritto, Phillips inciampa nelle sue stesse premesse facendo il passo più lungo della gamba. Attorno ad Arthur, infatti, si muovono personaggi che lo trattano comunque con rispetto ed attenzione, come l'avvocatessa e il giudice, davanti ai quali ogni rimostranza del protagonista risulta palesemente il frutto della mente di un pazzo; peggio ancora, durante il processo ad Arthur Fleck viene messo in evidenza proprio il suo narcisismo allucinato da parte di due personaggi già presenti nel primo film, due testimonianze che mettono i brividi per il tragico realismo che veicolano. Non è che la guardia carceraria Jackie e i suoi colleghi siano "simpatici", così come non lo sono il giornalista Paddy Meyers o il procuratore Harvey Dent, ma torno a dire che sono costruiti come dei cliché, probabilmente esasperati dalla percezione alterata di un punto di vista inaffidabile. Senza mostri a giustificarne le azioni, Arthur Fleck perde di credibilità, l'empatia viene meno, il disgusto che veniva messo a tacere durante il primo film qui riemerge veemente, e lo stesso Joker risulta una caricatura priva di fascino o carisma. La Folie à Deux che tanto ha fatto palpitare i cuori di chi pensava all'amore folle tra Joker e Harley Queen, con un ragazzo e una ragazza che si incontrano e incendiano il mondo, si riassume facilmente con un "tira più un pelo di Lee che un carro di buoi", e risulta molto più cringe quando tornano alla mente le immagini porno che inframmezzavano il diario di Arthur nel primo film. Non si può nemmeno dire che Lee sia la Bedelia (chi legge Ortolani sa) della situazione, poiché gli intenti della bionda sono chiari e palesi fin dall'inizio, ed è proprio la sua presenza a sgretolare il mito di Arthur Fleck e di Joker, rendendo il film ancora più inutile perché, nonostante l'aggiunta di questo agente del Caos al femminile, Joker 2 non racconta nulla di nuovo. 2 ore e 18 di film servono a ripercorrere più volte le vicende della prima pellicola secondo diversi punti di vista, il personaggio principale non solo non evolve ma ricompie errori già commessi, Todd Phillips ripropone persino le stesse sequenze e gli stessi snodi di Joker con un paio di piccolissime varianti.


A farne le spese per primo, purtroppo, è Joaquin Phoenix. Premesso che quest'ultimo potrebbe interpretare un sasso e sarebbe comunque affascinante e convincente, il problema subentra quando il regista non è all'altezza e questo, purtroppo, salta all'occhio ancor più dopo aver riguardato il primo Joker. Lì il modello era il primo De Niro, un po' Travis Bickle in Taxi Driver un po', soprattutto durante la transizione da Fleck a Joker, Max Cady de Il promontorio della paura (per intenderci: Cady era una creatura repellente e razionalmente nessuna donna lo avrebbe toccato con un dito. Infatti subentrava il senso di colpa nel pensarlo affascinante e in Joker accadeva la stessa cosa). Qui Phoenix è perfetto negli atteggiamenti dimessi di Arthur, che mi hanno ricordato a tratti l'intensità di Daniel Day Lewis, ma quando veste i panni di Joker la mente corre inevitabilmente all'ultimo De Niro, quello con la faccia da "mecojoni" che ormai non crede più nemmeno in quello che recita, che va avanti solo per il nome e il suo passato glorioso. A maggior ragione, in un paio di duetti con Lady Gaga ho pensato a Sandra e Raimondo, forse perché Sbirulino era un clown a sua volta, e per quanto mi riguarda la scena di sesso in carcere può tranquillamente vincere l'Oscar per la sequenza più imbarazzante del 2024, a pari merito con quelle di Napoleon (c'è sempre Phoenix di mezzo. Coincidenze? Noi del Bollalmanacco, e Giuseppina, pensiamo di no). Lady Gaga, bella stella, è una cantante divina. Ogni sua performance musicale in Joker 2 mette i brividi, con quella voce splendida che riesce a modulare come vuole e il carisma naturale che le fa divorare ogni scena. Ma toglile il canto, santa creatura, e mettila accanto a uno come Phoenix, e mi fa la figura di un comodino impagliato, occhio spento e viso di cemento compresi, col risultato che tra Arthur e Lee non c'è la minima alchimia, quindi neppure coinvolgimento emotivo da parte dello spettatore. Per tutti questi motivi, posso serenamente dire che Joker: Folie à Deux è un film inutile. Non bello, non brutto, ma sicuramente uno spreco di tempo, denaro e talenti. Ma d'altronde non mi aveva convinta neppure Joker, un'opera migliore sotto tutti i punti di vista, quindi non sono rimasta né sorpresa né delusa. 


Del regista e co-sceneggiatore Todd Phillips ho già parlato QUIJoaquin Phoenix (Arthur Fleck), Lady Gaga (Lee Quinzel), Brendan Gleeson (Jackie Sullivan), Catherine Keener (Maryanne Stewart), Zazie Beetz (Sophie Dumond), Steve Coogan (Paddy Meyers) e Ken Leung (Dr. Victor Liu) li trovate invece ai rispettivi link.


Se Joker: Folie à Deux  vi fosse piaciuto recuperate, ovviamente, Joker. ENJOY!

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