lunedì 31 ottobre 2011

Psyco (1960)

Buon Halloween a tutti, horrormaniaci! In occasione della festività affronterò il mio senso di inadeguatezza, che mi assale come un assassino sotto la doccia. E non è una metafora casuale. Per l'occasione ho deciso infatti di recensire Psyco (Psycho), il famosissimo capolavoro del genio del brivido Sir Alfred Hitchcock, datato 1960, e dire che ho paura di uno scarsissimo risultato è dire poco. Let’s try.



Trama: a causa di una relazione resa ardua dalla mancanza di denaro contante, la segretaria Marion Crane viene spinta a rubare una cospicua somma al suo datore di lavoro. Durante la fuga finisce per fare tappa al Bates Motel… con inevitabili e terribili conseguenze.



Chi segue il Bollalmanacco sa che ho già recensito il recente remake diretto da Gus Van Sant e sa che il film in questione, più che un remake, è praticamente un rifacimento immagine per immagine. E allora perché è così difficile parlare di Psyco che, pur essendo passato alla storia, non è il più bel film di Hitchcock (almeno a parer mio)? Beh perché, al di là della trama alla fin fine un po’ dilungata e noiosetta, ci sarebbe da parlare per ore di ogni singola inquadratura, di ogni scelta registica, di ogni perfetta combinazione tra musica, attori ed immagini. E io, col mio piccolo blog fancazzista (in senso buono, ovviamente!) non ho i mezzi né le conoscenze per una simile analisi. E allora, più che sviscerare ogni dettaglio di un film già recensito da teste coronate molto superiori alla sottoscritta, mi limiterò a parlare di quello che mi ha colpita di Psyco, sperando che vi invogli a vederlo.



La cosa che amo di più del film è l’inizio, quella meravigliosa ed indimenticabile combinazione tra gli stilizzati titoli di Saul Bass e l’inquietante score del maestro Bernard Herrman, una mescolanza di righe grafiche e suoni stridenti che non potrebbero introdurre meglio una storia piena di contraddizioni. Adoro l’utilizzo di quel bianco e nero che sembra rendere tutto più oscuro ed opprimente, anche quando è chiaro che le scene sono ambientate di giorno. Mi fanno impazzire i movimenti di macchina del divino Hitchcock, soprattutto in due momenti: nella famosissima scena della “doccia”, dove ogni inquadratura è talmente ben fatta e significativa che la commozione davanti a questa bravura insuperabile quasi travalica l’ansia dovuta all’evento che passa sullo schermo, e poi nell’altra splendida scena della morte di Arbogast, forse ancora più efficace perché assolutamente inaspettata e ripresa da un’angolazione così lontana dai comuni canoni del thriller che l’improvvisa comparsa dell’assassino fa saltare lo spettatore dalla sedia. Ovviamente non posso dimenticare la lenta e scioccante rivelazione finale, accompagnata dall’agghiacciante urlo di Vera Miles, né l’immagine che suggella la conclusione di Psyco, con la voce di “madre” ad accompagnare il sorriso inquietante sul volto di Norman, su cui si sovrappone il miraggio di un teschio.



E la trama in sé? Pretestuosa, lo ammetto, e lo ammette anche Hitchcock per bocca dello psichiatra nelle ultime sequenze, quando dichiara che “i soldi sono nella palude”. Chissenefrega dei soldi, dell’effettiva debolezza dei dialoghi, dell’assurdità della rivelazione finale (che, ammettiamolo, col senno di poi fa anche un po’ ridere); quello che interessava al regista era mostrare come si potesse intrattenere il pubblico e creare un film indimenticabile senza dover ricorrere a budget eccessivi e nomi pomposi, una sorta di divertissement autoriale che ha creato uno dei mostri più famosi della storia del cinema, un manuale vivente di psicopatologia. Norman Bates diventa così il fulcro dell’intera pellicola, grazie alla splendida interpretazione del povero Anthony Perkins, che rimarrà per sempre legato ad un personaggio ambiguo, emblema del senso di colpa che porta alla follia e della debolezza della mente umana. E con questo concludo, amici lettori, non mi va di dilungarmi troppo e cominciare a suonare arrogante. Se le poche parole che ho speso vi avranno convinti a guardare Psyco, allora la mia indegna recensione avrà raggiunto lo scopo!  

Alfred Hitchcock è il regista della pellicola (alla quale partecipa anche come attore, spuntando alle spalle di Marion prima che entri in banca). Maestro indiscusso della suspance e del cinema con la C maiuscola, pur essendo stato scandalosamente nominato cinque volte all’Oscar senza averne mai vinto uno, ha firmato capolavori indimenticabili come Il pensionante, Rebecca la prima moglie, Notorius l’amante perduta, Il delitto perfetto, La finestra sul cortile, Caccia al ladro, La donna che visse due volte, Intrigo internazionale, Gli uccelli e Marnie, solo per citare quelli che ho visto. Ha lavorato anche per la tv, creando la storica serie Alfred Hitchcock presenta. Inglese, anche produttore, attore e sceneggiatore, è morto nel 1980 all’età di 80 anni.



Anthony Perkins interpreta Norman Bates. Fulgido esempio di attore arrivato al successo con un personaggio e condannato ad essergli legato fino alla fine dei suoi giorni, ha partecipato a film come Assassinio sull’Orient Express, Psycho II, Psycho III e Psycho IV. Americano, anche regista e sceneggiatore, è morto nel 1992 all’età di 60, per complicazioni dovute alla contrazione del virus dell'HIV.



Vera Miles (vero nome Vera June Ralston) interpreta Lila Crane. Americana, ha partecipato a film come Sentieri selvaggi e Psycho II, oltre a serie come Alfred Hitchcock presenta, Rawhide, Ai confini della realtà, The Outer Limits, Bonanza, Colombo, Magnum P.I., La casa nella prateria, Love Boat e La signora in giallo. Ha 72 anni.



Janet Leigh (vero nome Jeanette Helen Morrison) interpreta Marion Crane. Ex moglie di Tony Curtis, da cui ha avuto Jamie Lee Curtis e la sorella Kelly, ha partecipato a film come Piccole Donne, L’infernale Quinlan, Fog e Halloween 20 anni dopo, oltre a serie come Colombo, Love Boat, La signora in giallo e Ai confini della realtà. Americana, è morta di vasculite nel 2004, all’età di 77 anni.



Martin Balsam interpreta il Detective Arbogast. Il motivo per cui ho deciso di dedicare un trafiletto anche ad un attore che, effettivamente, nel film compare poco, è che Ezio Greggio lo ha fatto partecipare con lo stesso ruolo anche al suo Il silenzio dei prosciutti, quindi quest’uomo mi è entrato nel cuore. Scherzi a parte, la sua è stata una carriera di tutto rispetto, visto che conta titoli come Fronte del porto, Colazione da Tiffany, Il promontorio della paura, Assassinio sull’Orient Express, Tutti gli uomini del presidente, Il giustiziere della notte 3, Due occhi diabolici e Cape Fear – Il promontorio della paura. Per la tv, ha partecipato alle serie Rawhide, Alfred Hitchock presenta, Ai confini della realtà, Il tenente Kojak, La signora in giallo e persino ai nostrani La Piovra 2 e La Piovra 5. Americano, vincitore di un premio Oscar come miglior attore non protagonista per il film L’incredibile Murray, è morto a Roma nel 1996, per attacco cardiaco, all’età di 76 anni.



E ora un paio di curiosità. Tra le attrici in lizza per il ruolo di Lila c’erano Piper Laurie (che avrebbe poi interpretato la madre di Carrie nell’omonimo film e la perfida Catherine Martell nella serie I segreti di Twin Peaks) e la diva degli anni ’60 Lana Turner. Del film esistono ben tre seguiti, l’ultimo dei quali è stato girato solo per la tv, un remake, lo Psycho di Gus Van Sant., e uno spin – off televisivo dal titolo Il motel della paura, che parla di un compagno di manicomio di Bates che ha ereditato le sue stesse pulsioni omicide. Se vi fosse piaciuto Psyco vi consiglierei di guardare Shining, Rosemary’s Baby oppure A Venezia… un dicembre rosso shocking; il primo, per il tema della follia, gli altri due per l’elegante e rara capacità di mettere un’ansia incredibile senza gran dispiego di scene gore. ENJOY e buon Halloween!!

giovedì 27 ottobre 2011

Paranormal Activity 3 (2011)

Non c’è due senza tre. La rapidissima franchise di Paranormal Activity è arrivata infatti quest’anno al terzo episodio, diretto stavolta dai registi Henry Joost ed Ariel Schulman. Potevo mancare all’appuntamento? No! Sei euro e passare alla cassa a ritirare il premio fedeltà, grrazie!



Trama: stavolta facciamo un bel salto indietro nel tempo e torniamo agli anni ’80, quando Kristie e Katie erano ancora piccole ma già assillate dall’entità del primo e secondo capitolo (entità che a ‘sto giro, per comodità, chiameremo Toby. Non Tony. Ehi, vi ricorda qualcuno? A me un po’ sì).



Cosa c’è da dire su Paranormal Activity 3? Per pigrizia vi direi di andarvi a vedere le prime due recensioni che ho scritto perché la formula è sempre la stessa: telecamere opportunamente piazzate da qualche peerla che cerca di capire come mai una casa nuova (sempre a due piani, e nulla mi toglie dalla mente che sia sempre quella utilizzata nei primi due episodi, giuro…) debba essere già colma di rumoracci e scricchiolii con aggiunta di  fenomeni inspiegabili che diventano sempre più invadenti, pericolosi ed evidenti all’occhio di chi guarda i filmati che però, ovviamente, non se ne va di casa fin quando qualcosa di invisibile non lo morde/ferisce/sevizia. Per dire, che a me basterebbe vedere la porta di casa che si chiude da sola per prendere baracca e burattini e trasferirmi nell’emisfero opposto. Vabbé.



A questa ormai consolidata tradizione di effetti più o meno speciali e riprese di gente che dorme mentre alle loro spalle si manifesta qualsiasi cosa, nel terzo episodio si aggiunge la sempre inquietante idea dei bambini che vedono quello che gli adulti ignorano, parlano con gli spiriti e, poveracci, a loro modo mettono in guardia o cercano di difendere la famiglia, invano. A voler ben vedere aumenta anche il tasso di stupidità dei coinvolti: ora, passi la mocciosa che vive nel suo mondo, ma il nerd che accetta di giocare con lei a Bloody Mary chiudendosi in uno stanzino buio davanti ad uno specchio, quando sa benissimo che in quella casa c’è uno spirito incazzato, è qualcosa che travalica la mia comprensione. La cosa divertente è che poi se la prende con il migliore amico (già condannato dall’essere patrigno delle due pargole, ché sappiamo la fine che fanno i maschi di casa…) che immagino sia l’unica persona, negli anni ’80, ad essersi fatto direttamente impiantare la telecamera sulla spalla, visto che non la molla un secondo. Anche la verosimiglianza quindi, a sto giro, va a farsi friggere. Insomma, non è plausibile che questo si alzi la notte per cercare la moglie e si carichi sulla schiena la pesantissima telecamera, vagando come un picio in una casa sconosciuta.



Anche come prequel, Paranormal Activity 3 aggiunge poco a quanto già detto. O meglio, sviscera quello che lo spettatore attento aveva già capito guardando i primi due film, che qualcuno in quella famiglia del menga aveva fatto un patto col diavolo per motivi sconosciuti, e regala un non disprezzabile finale alla Rosemary’s Baby che, tuttavia, lascia un po’ con l’amaro in bocca: invece di menarsela per tutto il film con le solite riprese, avrebbero dovuto lasciar perdere i giochini con le telecamere (che comunque qualche salto sulla poltrona lo fanno fare, eh… aggiungo anche che stanotte ho dormito maluccio, pensando di trovarmi Toby in camera al minimo rumore) e concentrarsi un po’ sulla storia, creando l’inquietudine attraverso il sospetto e l’atmosfera, non attraverso lo spavento facile. Per esempio, a mio avviso la scena più bella di Paranormal Activity 3 è quella, poco prima della fine, dove compare il gruppo di vecchiacce sbucando all’improvviso da una stanza completamente buia… e il pezzo che più mi ha messo ansia è proprio quello finale, piano di inquietanti rivelazioni. Insomma, se dovranno fare un quarto episodio spero proprio che useranno i miliardi che hanno fatto in tre anni per avvalersi di sceneggiatori con le palle e che troveranno il coraggio di staccarsi dal modello dei primi capitoli. Altrimenti, meglio evitare… anche perché non so negli anni ‘60/’70 quanta gente poteva permettersi di avere quattro telecamere in casa!  



All’inizio del film rispuntano le vecchie conoscenze Katie Featherston, nei panni di Katie, e Sprague Grayden in quelli di Kristi. Delle due attrici trovate il solito trafiletto cliccando sui loro nomi.

Henry Joost ed Ariel Schulman, di cui non si trovano praticamente notizie in rete, avevano già collaborato assieme l’anno scorso, girando un documentario dal titolo Catfish. Sono entrambi alla loro seconda esperienza cinematografica.



Eccoli qui: Ariel sulla sinistra e Henry sulla destra.



E ora, siccome è spuntata l’ennesima pagliacciata legislativa italiana, per la quale non si possono più mettere trailer sui siti a meno che non si paghino alla SIAE 400 e fischia euro trimestrali per un massimo di 30 trailer al mese, non posso lasciarvi al solito filmatino finale ma posso mettere il link dove potete guardare, se lo volete, il trailer di Paranormal Activity 3. ENJOY!

lunedì 24 ottobre 2011

Trick'r Treat (2007)

Tutte le volte che penso che l’horror USA sia ormai morto e sepolto, spuntano fuori chicche che mi portano a dargli ancora qualche speranza, come questo bellissimo Trick’r Treat, diretto nel 2007 dal regista Michael Dougherty. E siccome il film è bello e tra poco è Halloween... perché non approfittarne?



Trama: mentre una piccola cittadina americana festeggia la notte di Halloween, per le strade e nelle case si intrecciano diverse storie, sotto lo sguardo attento di un misterioso bimbo incappucciato. Una ragazza vorrebbe togliere le spettrali decorazioni anzitempo; un preside cerca di insegnare ad un suo alunno il rispetto delle tradizioni; dei bambini vanno ad esplorare un luogo che, anni prima, era stato teatro di una terribile tragedia; una ragazza deve trovare un accompagnatore per la festa, senza sapere che in città circola un vampiro assetato di sangue; un vecchio misantropo solitario riceve visite inaspettate.



Era da parecchio che un horror non mi entusiasmava tanto come è riuscito a fare Trick’r Treat. Il fatto è che adoro i film composti da più storie in qualche modo collegate le une alle altre, soprattutto di questo genere, ovviamente, e a parte i vecchi Creepshow o I delitti del gatto nero (che tuttavia sono ancora diversi in quanto a struttura…) spesso e volentieri i risultati sono deludenti. Trick’r Treat invece è praticamente perfetto, e riesce a mantenere alto l’interesse, la tensione e la sorpresa dall’inizio alla fine, seguendo un unico, sanguinoso e saggio fil rouge: in una notte “magica” come quella di Halloween non è consigliabile farsi beffe delle tradizioni o non conoscerle, perché nulla è quello che sembra. Scavando un po’ più a fondo, troviamo anche una sana critica alla commercializzazione di feste che hanno radici antichissime e che col tempo si sono banalizzate a tal punto che nessuno o quasi ricorda da cosa deriva la tradizione di intagliare zucche e farne lanterne, oppure di richiedere un dolcetto per evitare lo scherzetto… male!, perché i protagonisti del film ne pagheranno le conseguenze.



Parlando della struttura e delle storie di Trick’r Treat, diciamo che le più inquietanti sono l’introduzione e quella finale, mentre le altre puntano un po’ di più sul grottesco e l’ironico, tranne quella dedicata ai bambini che invece è più crudele e malinconica. A me sono piaciute molto tutte, a dir la verità, non riesco a dire onestamente quale sia la mia preferita (forse servirebbe una seconda visione), ma la cosa bella è che in ognuna c’è un rimando alle altre e che seguirle, nonostante svariati salti temporali e didascalie che ci portano indietro nel tempo, non è affatto difficile. La realizzazione dell’intero film, poi, è decisamente di qualità superiore. L’introduzione ci mostra dapprima un piccolissimo schermo anni ’50 dove scorrono immagini che ci raccontano la storia del vero Halloween, subito sommerse dai titoli animati di Trick’r Treat, che ci presentano elementi di tutti gli episodi contenuti nel film come se fossero parte di quelle vecchie raccolte di fumetti horror. Da lì in poi è un trionfo di nero ed arancione, i colori della festa di Ognissanti, che avvolgono una fotografia pulitissima e nitida, regalandoci immagini da fiaba dark popolate da zucche, lumini e nebbia, con l’unica eccezione di un flashback diurno, dai toni ammorbiditi e quasi sgranati tipici di una vecchia pellicola casalinga.



Gli effetti speciali ci sono, sono molto belli ma vengono anche usati con parsimonia. Spettacolare il finale della storia di “Cappuccetto Rosso” (anche grazie all’utilizzo della Sweet Dreams di Marilyn Manson, una colonna sonora azzeccatissima!), dove gli artisti del makeup hanno davvero dato il bianco, come si suol dire, e delizioso anche il Jack O’Lantern dell’ultimo episodio, assolutamente inquietante. Quanto agli attori, per una volta non sono affatto irritanti, né stupidi, né banali, neppure quelli “adolescenti”, per così dire. Voto dieci al vecchio leone Brian Cox e anche all’attore Dylan Baker, che interpreta il personaggio più ambiguo ed esilarante di tutta la pellicola. Aggiungo il personale apprezzamento per la scelta di abbondare con l’ironia nera, tanto da rendere Trick’r Treat una sorta di ibrido in perfetto equilibrio tra la black comedy e l’horror tout court. Consigliato spassionatamente, e non solo ad Halloween!



Di Brian Cox, qui nei panni di Mr. Kreeg, ho già parlato qua.

Michael Dougherty è il regista e sceneggiatore della pellicola che è anche il suo primo (e per ora unico) film. Americano, anche sceneggiatore, attore e produttore, ha 37 anni.



Anna Paquin interpreta Laurie. Canadese, ha conquistato l’Oscar come miglior attrice non protagonista giovanissima, con lo splendido Lezioni di piano, e poi è finita nel cast dei primi tre X – Men a vestire i panni di uno dei personaggi più amati dai fan, la sfortunata Rogue. Tra gli altri suoi film ricordo Jane Eyre, Bugie, baci, bambole & bastardi, La 25esima ora e Scream 4 (che devo ancora vedere!!). Anche produttrice, ha 29 anni e tre film in uscita.  



Dylan Baker interpreta Steven. Americano, ha partecipato a film come The Cell – La cellula, Era mio padre, Spider Man 2 e Spider Man 3, oltre a serie come Miami Vice, Oz, CSI, Ugly Betty e Dr House. Ha 52 anni e tre film in uscita.



Leslie Bibb interpreta Emma. Americana, ha partecipato a film come Talladega Nights: The Ballad of Ricky Bobby, Iron Man e Iron Man 2, oltre a serie come Quell’uragano di papà, E.R. Medici in prima linea, Nip/Tuck e CSI: Miami. Anche produttrice, ha 37 anni e due film in uscita.



Tra gli attori, segnalo la presenza di Tahmoh Penikett, che interpreta uno dei due fidanzati nell’introduzione (era lo sbirro che si alleava con Echo nella serie Dollhouse). Se Trick’r Treat vi fosse piaciuto, consiglierei la visione di un'altra divertente pellicola “a tema”, Giovani diavoli. Intanto, io vi lascio con un inquietante corto animato diretto dallo stesso regista, Season’s Greetings, del 1996, da cui è stato tratto il film recensito (che mi pare passassero tempo addietro o su MTV o su quel contenitore di corti che, di tanto in tanto, trasmettevano su Italia Uno...). ENJOY!!!

domenica 23 ottobre 2011

Arrietty - Il mondo segreto sotto il pavimento (2010)

Dopo alcuni film trash - horror è giunta l'ora di calmarsi un po' e tornare al lato "kawaii" del Bollalmanacco con il bellissimo Arrietty - Il mondo segreto sotto il pavimento (Kari - gurashi no Arietti), diretto nel 2010 da Hiromasa Yonebayashi, uno dei registi in forza allo Studio Ghibli.



Trama: Sho è un ragazzino malato che, poco prima di dover affrontare un importante intervento al cuore, viene ospitato dalla zia nella casa natale della madre. Lì Sho incontrerà Arrietty, una ragazza alta pochi centimetri che vive assieme alla sua famiglia in un mondo in miniatura, sotto il pavimento della casa...



Sarà difficile recensire Arrietty, mi si appanna la vista perché sono ancora commossa e mi magono a ripensare al film. Chiusa la parentesi personale, è innegabile e palese agli occhi di tutti che lo Studio Ghibli ha confezionato un altro piccolo capolavoro. A fronte di una storia davvero semplice (tratta dal romanzo The Borrowers della scrittrice inglese Mary Norton, già portato al cinema nel 1997 con I rubacchiotti) dove effettivamente poco accade, Hayao Miyazaki, qui in veste di sceneggiatore, intesse una trama delicata, fatta di silenzi, di piccole meraviglie e timidi gesti, con il solito tocco di grottesco umorismo e un pizzico di avventura, aggiungendo così un altro tassello alla sua personale poetica. Arrietty non è un anime per bambini, è infinitamente triste e malinconico. Come già in Nausicaa della valle del vento e in altre opere dello Studio Ghibli, si toccano temi difficili come l'estinzione di un'intera razza, la malattia, la solitudine, la difficoltà di conciliare il passato ed il presente, l'incertezza per il futuro che rende dolceamaro anche un apparente happy ending.



Il mondo di Arrietty è meraviglioso e colorato, un piccolo capolavoro di armonia arricchito da una madre divertente ed apprensiva e un padre severo ma giusto; tuttavia è anche un microcosmo isolato, chiuso e fragile, che rischia di venire inghiottito dall'avanzare della mentalità moderna e dall'incapacità che hanno ormai gli umani di sognare ed accettare ciò che è diverso da loro. Sono Sho e la zia che vorrebbero accogliere e proteggere Arrietty e la sua famiglia, il primo perché solo quanto la protagonista e altrettanto fragile, la seconda affascinata dalle storie che le raccontava il nonno, talmente felice dell'esistenza del piccolo popolo da avere costruito una casa in miniatura perfettamente abitabile; dall'altra parte, però, c'è la vecchia Haru, gretta e meschina, colma di rancore per il fatto che Arrietty e la famiglia "prendono in prestito" quello che serve loro per vivere, sottraendolo agli umani. Sono due mentalità che si scontrano, creando quei pericoli tanto temuti dal padre di Arrietty, pericoli che purtroppo rischiano di distruggere il piccolo popolo anche quando le intenzioni degli umani sono buone e dolci quanto una minuscola zolletta di zucchero. La riconciliazione finale, così, risulta ancora più triste perché lo spettatore non ha la certezza che il piccolo popolo sia riuscito a prosperare... più probabile, purtroppo, che sia scomparso come predetto da Sho, fino a diventare leggenda ed eterno ricordo.



Passando ad aspetti più tecnici, l'animazione di Arrietty è magistrale come sempre. Il design della casa delle bambole è incantevole, così come quello del piccolo mondo sotterraneo, colmo di colori, elementi naturali quali foglie, fiori, erbe aromatiche e piccoli tocchi di genio come lo spillo trasformato in spada affilata o l'insettino usato a mo' di palla. Bellissime alcune sequenze, come quella dell'esplorazione notturna della casa, quella iniziale della fuga dal gatto Niya e la malinconica e lunga scena finale che accompagna tutti i titoli di coda, preceduta dalla struggente immagine di Arrietty che, dopo avere "preso" per tutto il film, dona a Sho un portafortuna, quasi a ricostituire l'equilibrio. Ma ciò che contribuisce a rendere Arrietty un piccolo capolavoro è la splendida colonna sonora, affidata alla musicista francese Cécile Corbel, un azzeccatissimo ed evocativo mix di arie celtiche e giapponesi. Insomma, dopo la mezza delusione di Ponyo sulla scogliera lo Studio Ghibli non poteva farmi regalo più bello. Se riuscite ancora a trovarlo in qualche piccolo cinema della vostra zona andate a vederlo: non so se il doppiaggio italiano gli rende giustizia, perché per fortuna io l'ho visto in lingua originale con sottotitoli, ma vale comunque la pena tentare. 

Hiromasa  Yonebayashi è il regista della pellicola. Giapponese, come regista è alla sua prima esperienza ma ha già collaborato come animatore alla realizzazione di film come Princess Mononoke, La città incantata e Ponyo sulla scogliera. Ha 38 anni.



Se vi fosse piaciuto il film, vi consiglio spassionatamente di guardare Il mio vicino Totoro e La città incantata, i miei due film "ghibliani" preferiti in assoluto. E ora vi lascio con il trailer originale di Arrietty - Il mondo segreto sotto il pavimento. ENJOY!! (io intanto cerco i fazzoletti....)

giovedì 20 ottobre 2011

Cowboys & Aliens (2011)

Ieri sera sono andata a vedere il secondo dei tre film in programma per la settimana, Cowboys & Aliens di Jon Favreau, tratto dall’omonima graphic novel del 2006. Sarà per un po’ di scazzo cosmico dovuto alla soppressione del corso di cucina giapponese o forse per l’hangover della sera prima, l’esperienza non è stata delle migliori.



Trama: ai tempi del Far West, un uomo si risveglia in mezzo al deserto, ferito e con uno strano bracciale al polso. Dopo essersi ripreso, raggiunge la città più vicina solo per vederla messa a ferro e fuoco da un gruppo di astronavi, che rapiscono anche alcuni abitanti. Riunito un piccolo drappello di volontari, parte la caccia agli alieni e ai rapiti…



Con un titolo come Cowboys & Aliens, mi immaginavo un’ironica e divertente trashata. Purtroppo, di divertente c’è davvero poco, quanto al trash diciamo che la trama e i personaggi sono così statici e prevedibili che persino quell’elemento è scomparso. Passata la prima mezz’ora dove la curiosità e un po’ di perplessità la fanno da padroni, grazie anche al fatto che il personaggio di Daniel Craig non ricorda né quando sta a andando né quando sta facendo su questa tèra (come diceva il buon Quèlo…) ma ha un fashionissimo braccialetto al polso, arrivano il punto clou dell’intero film e l’unica sequenza d’azione che fa sinceramente rimanere a bocca aperta: quella dell’arrivo delle astronavi che, in un trionfo di botti, laser ed urla, si porta via la gran parte degli abitanti. Dopo di che il film, semplicemente, muore. Complice un buon tre quarti d’ora di durata in eccesso, durante il quale i personaggi, chi più chi meno, si divertono a fare gli eroi, sparare frasi fatte, regalare due o tre momenti commoventi/rosa studiati a tavolino, riconciliarsi o morire, l’incauto spettatore si ritrova letteralmente assopito, e si risveglia di tanto in tanto grazie a qualche botto o sibilo degli alieni.



Il problema è che in Cowboys & Aliens mancano sia l’epica dei vecchi western sia l’inquietudine di un horror fantascientifico. Questo se si voleva  fare un film serio. Se si voleva sfociare nella commedia avventurosa lo sbaglio è stato quello di inserire personaggi davvero poco carismatici, a partire dalle “spalle”, dai comprimari, che di solito sono quelli che salvano un po’ capra e cavoli. Fra tutti gli attori, infatti, si salva solo il vecchio leone Harrison Ford, graziato dal personaggio meglio costruito e dal suo innegabile fascino. Daniel Craig, con quel perenne broncetto sulle labbra non lo posso vedere, mi fa venire da ridere, è più forte di me. Olivia Williams sarà anche bella (lo sa anche Daniel che, nel vederla nuda, poco cavallerescamente impiega almeno venti minuti a coprirla con un drappo) ma in quanto a carisma non rivaleggia nemmeno con una patata lessa; il colpo di scena legato al suo personaggio è il primo passo che porta alla lenta morte del film e la sua effettiva utilità è quantomeno discutibile, molto meglio, come sempre, la Leeloo de Il quinto elemento, ancora insuperata. Deludente anche Sam Rockwell, con il suo moscissimo Doc, e anche il ragazzino usato per inserire l’elemento infantile è inclassificabile, mai visto un pargolo così mollo e privo di verve. L’unico personaggio vagamente cazzuto è il prete, fatto fuori ahimé verso metà del film, con grande dispiacere mio e delle altre sette persone presenti in sala.



E gli alieni, direte voi, visto che i cowboys sono gli ultimi scartini sul mercato? Bah, gli alieni hanno un design che definirei tipico, assomigliano un po’ a quello visto in Super 8 (non a caso produce Spielberg...) e l’unico tratto distintivo è l’avere delle ulteriori manine inserite all’interno del corpo, utili per prendere le prede che si nascondono nei buchetti e negli anfratti. Diversamente da altri della loro specie sono anche avidi di oro, vai a sapere il perché: pare che nella Galassia non ce ne sia più, quindi questi devono venire a spaccare i cabasisi sul nostro pianeta.  Fortuna che questo simpatico escamotage porta ovviamente ad un finale che più a tarallucci e vino di così non si può. E questo è quanto, non ho altro da dire, se non che l’unica sequenza registica apprezzabile è quando Craig entra nel solito trip mistico indotto da qualche sciamano. Non vi consiglio nemmeno di andarlo a vedere come disperato intrattenimento dell’ultimo minuto, perché vi addormentereste.



Del regista Jon Favreau ho già parlato qui mentre Sam Rockwell, che interpreta Doc, lo trovate qua. Irriconoscibile l’attore Clancy Brown nei panni del prete Meacham; trovate il solito trafiletto su di lui qui.

Daniel Craig interpreta Jake Lonergan. Attore inglese, assurto a gloria cinematografica come ultimo (per ora) James Bond, ha partecipato anche ad altri film come Elizabeth ed Era mio padre e lo ritroveremo nel cast dell’imminente horror Dream House e come doppiatore in Le avventure di Tintin: il segreto dell’unicorno. Ha partecipato anche a un episodio della serie The Hunger. Anche produttore, ha 43 anni e due film in uscita, Millenium: Uomini che odiano le donne, dove interpreterà il protagonista Mikael Blomkvist e, ovviamente, Bond 23.



Harrison Ford interpreta Woodrow Dolarhyde. Un mito degli anni ’80, basta “solo” ricordare la sua divina incarnazione di Indiana Jones nei film I predatori dell’arca perduta, Il tempio maledetto e L’ultima crociata (Il regno del teschio di cristallo non lo conto…) o il suo Han Solo nella trilogia originale di Guerre Stellari; ma lo ricordo anche per aver partecipato ad Apocalypse Now, Blade Runner, Witness – Il testimone, Una donna in carriera, A proposito di Henry, Il fuggitivo, L’ombra del diavolo, Air Force One, Sei giorni sette notti e Le verità nascoste. Americano, anche produttore, ha 69 anni.



Tra gli altri interpreti, segnalo Ana de la Reguera, già Sorella Encarnación in Nacho Libre, qui nei panni della moglie di Doc; come anziano sceriffo, invece, è stato scelto Keith Carradine, fratello del più famoso David. Il ruolo di Jake Lonergan doveva invece andare a Robert Downey Jr., che ha però dovuto rinunciare a causa dei suoi mille altri impegni. Peccato, avrei guardato il film molto più volentieri! Se vi piacessero queste strane commistioni di generi, comunque, cercherei piuttosto di recuperare La leggenda degli uomini straordinari, molto più avventuroso ed ironico. E ora, invece che col trailer, vi lascio con la geniale ed esilarante "pubblicità" del film, con un protagonista assai speciale... ENJOY!!

lunedì 17 ottobre 2011

In the Market (2009)

Ogni tanto mi domando e dico: ma perché a trent’anni sto qui a fare un lavoro del menga nonostante una non disprezzabile laurea e c’è gente che viene chiamata  regista, sceneggiatore, attore (e pagata in quanto tale!!) quando palesemente il suo destino era quello di andare a zappar terra? Questa domanda da un milione di dollari mi si è affacciata alla mente dopo la visione del tremendo In the Market, “fatica” nostrana datata 2009 e diretta dal regista Lorenzo Lombardi. (Per carità, tutti i coinvolti sono giovanissimi, io non riuscirei a fare nulla di meglio, eh, quindi magari la mia acredine è ingiustificata. Ma mi sento tradita come amante dell'horror e di un certo tipo di cinema. Sigh.)



"storia vera" my ass....



Trama: tre ragazzetti vorrebbero andare ad un concerto, ma durante il cammino capita loro di tutto. Dopo essere stati rapinati, si ritrovano senza soldi e hanno la malaugurata idea di fermarsi a dormire in un market dopo l’orario di chiusura. Scopriranno a loro spese le bizzarre abitudini del macellaio e il modo in cui si procura la carne da vendere…



Vi dovesse mai venire voglia di guardare In the Market, leggete semplicemente la trama di cui sopra e fingete di aver visto il film. Vi risparmierete la visione di qualcosa che, a definirlo brutto, gli si fa un complimento. Con un canovaccio così risibile, gente come Eli Roth ci avrebbe tirato fuori un ironico e malato pseudocapolavoro, ma in mani sbagliate si rischia di creare una pellicola tremebonda, su una scala da uno a Giallo di Dario Argento. Che al confronto è una pietra miliare dell’horror, badate bene. Ero talmente incredula mentre guardavo In the Market che ho preso appunti, perché non avrei mai potuto tenere a mente tutta la fuffa che abbonda nel film. Quindi, andrò molto nello specifico facendovi una cronaca praticamente “minuto per minuto”; occhio all’effetto SPOILER, allacciate le cinture e… follow me.



Bravo, Ottaviano. Tu sì che sai fare un lavoro pulito!



La cosa che abbatte, letteralmente, senza possibilità di recupero, In the Market è l’assoluta inadeguatezza attoriale. Per carità, i tre protagonisti sono carucci e stilosetti, come immagine andrebbero anche bene. Ma basta che aprano bocca e, santo Dio, ci si convince di vedere un film amatoriale girato nella parrocchia dietro casa!! A maggior ragione, a fronte di questo piattume, questo tono monocorde, questo ripetere paro paro il copione senza alcun sentimento (in perfetto stile Antonella Clerici quando presenta il Gransoleeeeeeiill), l’idea di scimmiottare Tarantino ed inserire lunghissimi dialoghi fatti di nulla è decisamente imbarazzante. Ascoltare i tre fanciulli disquisire di come i diversi modi di mangiare le uova evidenzino una diversa personalità, vederli paragonare Eli Roth a Spielberg o, peggio, raccontarsi barzellette atroci e infine scadere nel racconto della solita leggenda metropolitana del cane che lecca la mano alla bambina o profondersi in frasi come “Non saremo soli, come cani SOLI IN MEZZO ALLA SOLITUDINE!!!!" ucciderebbe anche lo spettatore più paziente e tollerante, figuriamoci me. Peraltro, sta solfa va avanti per QUARANTA minuti.



Quaranta minuti di bla bla e citazioni tarantiniane, si diceva. Ora, proprio perché io venero Quentin non amo che Egli venga inopportunamente “nominato” solo perché fa fico. Passi che i tre fighetti ascoltino Little Green Bag (tratta da Le Iene, per chi non lo sapesse), passi anche che il vecchio benzinaio si guardi A prova di morte sul portatile; ma quando il regista “tenta” anche le inquadrature tarantiniane mettendo in bella vista i piedonzi di una delle protagoniste e quando su un cartello si vede scritto che il market è aperto “from Dawn till Dusk”… beh, allora la cosa diventa imbarazzante. Mai imbarazzante, però, quanto il fatto che, pur essendo In the Market palesemente girato in Italia (le riprese all’inizio mostrano spesso il marchio Conad sui carrelli, mentre sulle porte del market si può leggere “uscita”, senza contare tutti i prodotti italiani venduti in loco…), regista e sceneggiatori hanno voluto comunque dargli un taglio “ammeregano”:  i protagonisti che chiamano il 911 dentro a cabine telefoniche Telecom (e poi si chiedono perché non funzioni: grazie, dovevi chiamare il 113!),  targa straniera sulla macchina, ecc. ecc. E questa è solo la punta dell’iceberg delle belinate di cui è infarcito il film.



... belinate che perplimono persino lui...



Sì, perché anche se la pellicola conta due grandi nomi come Ottaviano Blitch nei panni del macellaio e Sergio Stivaletti agli effetti speciali (pochi ma buoni; la mano tritata è da voto dieci!), la loro presenza viene sepolta sotto tonnellate di idiozie assortite, che a tratti sfociano nel trash e nella risata involontariamente crassa. Si parte con la fanciulla che, all’inizio, avvicina il macellaio dicendogli una cosa improbabile come: "Scusi, mi può aiutare? Sa, NON SONO DI QUI... dov'è il sale??". Ora, io non sono un genio, ma in nove mesi passati in Australia mi sono sempre trovata la roba da sola nei supermarket. D’altronde, non sei mica in Giappone che hanno un alfabeto diverso! Scema. Ma andiamo avanti; sempre nella stessa sequenza, infatti, si vede “il macellaio con la voce dell'orco nero in stivaletti e piedini da donna che ciaccia con le mani insanguinate la frutta... roba che se gli fanno un controllo i nas lo esorcizzano e poi lo arrestano a vita” (citazione de IlRanocchio, fan del Bollalmanacco costretto via MSN a testimoniare ad almeno un pezzo del film, giusto per capire se sono io la stronza criticona o se i miei sentimenti vengono universalmente condivisi). A tal proposito, il povero Ottaviano è costretto ad immedesimarsi in un personaggio minchia. Ma talmente minchiazza da partire, d’amblé, in un monologo che diventa in tempo zero un inascoltabile spiegone filosofico/naturalistico/antropologico/psicanalitico. Il tutto mentre il povero ragazzetto legato NON muore soffocato dal suo stesso vomito (cosa strana, visto che ha uno spaccamascelle in bocca) e riesce persino a farsi prendere in giro: "Cosa vuoi da me?", chiede il piccolo David al seviziatore crudele."Sono un macellaio. Cosa mai pensi che vorrò da te?". Cioè. Ottaviano prende pure per il culo l'attore per il suo tono lamentoso!! Questo è metacinema!! E anche il pezzo più geniale dell’intero film, oltre al sogno infilato verso la fine. Quello mi è piaciuto.



AHM! pappa buoonaa!!!



Ma sono solo due cose positive, che svaniscono innanzi a roba come ladri con le maschere di Minnie e Bush che prima pisciano nei boschi e poi inveiscono contro gli impiegati delle poste, a cartomanti con la voce di Vanna Marchi e vestite da hippie che sbucano nel bel mezzo di un distributore di benzina, alle donne delle pulizie più fancazziste del mondo che, oltre a vagare per le corsie con uno sguardo vacuo e inespressivo, nemmeno puliscono i cessi, ovviamente! Gesù basta. Come diceva Kurtz “Aaah… l’orrore. L’orrore”. Io lo so che a qualche folle verrà in mente di guardare In The Market, dopo aver letto la recensione. Non mi assumo nessuna responsabilità, SALLATELO.



CIRO!! CIIROOOOO!!!! 



 Di Ottaviano Blitch, che interpreta Adam “Il macellaio”, ho già parlato qui.

Lorenzo Lombardi è il regista e sceneggiatore della pellicola, alla sua prima e per ora unica esperienza. Bambin, ti auguro di fare meglio in futuro e ti perdono solo perché sei giovane, 24 anni.



E ora vi lascio al trailer del film. Se non avessi già visto la pellicola finita, mi verrebbe voglia di guardarla, perché è fatto davvero bene. Accontentatevi, quindi e … ENJOY! (?)

domenica 16 ottobre 2011

This Must Be the Place (2011)

Ieri sera sono andata a vedere This Must Be the Place di Paolo Sorrentino, indecisa ovviamente tra tre titoli che comprendevano anche I Tre Moschettieri (in 3D, argh...) e Cowboys vs Aliens. L'indecisione veniva dal dubbio amletico: quale dei tre film terranno per due settimane e quale lasceranno solo il tempo strettamente necessario? Per sfiducia nei confronti di un multisala principalmente tamarro sono corsa a vedere il buon film nostrano, e non me ne sono pentita affatto.



Trama: Cheyenne è un ex rocker afflitto da una strana forma di apatia e depressione. Quando il padre, che non vedeva né sentiva da 30 anni, muore, Cheyenne viene a sapere che l'uomo stava cercando il nazista che lo aveva umiliato durante la prigionia in un campo di concentramento. L'ex musicista comincia così una ricerca che lo porterà dall'Irlanda nel cuore dell'America...



This Must Be the Place è la dimostrazione lampante che grazie ad investimenti cospicui, alla fiducia dei produttori, alla bravura degli interpreti e a quella del regista, anche il cinema italiano può rinascere. Che non esistono solo cinepanettoni orribili, commedie che sfruttano sempre i soliti cliché, drammoni inenarrabili o fiction televisive e, soprattutto, che non bisogna sostenere il nazionalismo a tutti i costi perché, ammettiamolo, tranne rari casi i nostri attori fanno pena, non sanno nemmeno parlare figuriamoci recitare. Per fortuna qualcuno tiene a mente tutte queste cose e, ogni tanto, ci prova. Nasce così un film bello, curatissimo, interessante come This Must Be the Place, dove lo stile italiano si fonde con atmosfere che richiamano qualche film dei Coen e di Wes Anderson, con personaggi "borderline" e situazioni al limite del grottesco. E' impossibile non "innamorarsi" di Cheyenne, del suo modo infantile e distaccato di vedere la vita, della sua inconsapevole scelta di nascondere un enorme dolore sotto una patina di eccentricità e indifferenza. Impossibile non affezionarsi anche alla sua ristretta e strana cerchia di amici, ognuno sballato ed eccentrico quanto lui. Impossibile, infine, non meravigliarsi davanti alla varia e strana umanità che incontra nel suo viaggio, dall'uomo tatuato al vecchietto che ha inventato la valigia con le ruote, passando per l'ex insegnante che tiene in casa un'oca e il piccolo, ciccionissimo bimbo cantante. 



This Must Be the Place fa ridere parecchio, è un film molto ironico. Ma la sua è un'ironia dolceamara e malinconica e la storia di Cheyenne è priva di un vero e proprio happy ending, proprio come accade nella vita. La pellicola è un road movie atipico, perché il protagonista non parte con l'idea di ritrovare sé stesso. Come dirà verso la fine del film, "Io sono un turista, non un viaggiatore. I viaggiatori mi stanno sul cazzo"; eppure, il suo viaggio gli sarà servito comunque per maturare, per superare l'impasse che lo bloccava nel passato impedendogli di godere del presente e guardare al futuro, aprendogli un passaggio che non sapremo mai se riuscirà o meno ad imboccare. Però c'è la speranza che possa riuscirci, quando alla fine vediamo il meraviglioso Sean Penn finalmente "al naturale". Un Sean Penn che meriterebbe l'Oscar, perché il film non esisterebbe senza la sua esilarante (e toccante) interpretazione. Certo, il doppiaggio italiano lo penalizza un po', perché  a tratti sembra di risentire la voce dello Zed di Scuola di polizia, ma non basta una voce parecchio sopra le righe per cancellare la potenza dello sguardo vacuo, delle espressioni tristi ed imbronciate, della camminata, della risata monocorde e del trucco di Cheyenne. Un personaggio che, sono sicura, mi rimarrà parecchio nel cuore.



Così come mi rimarranno nel cuore la splendida colonna sonora che accompagna il film (interamente composta dall'Artista, come viene giustamente definito anche all'interno di un toccantissimo dialogo, David Byrne) e alcune splendide immagini che sottolineano la bravura del regista Sorrentino, che personalmente non conoscevo ancora. L'intera sequenza del concerto di David Byrne, la ripresa subacquea della piscina, quelle spietate che mostrano la leziosità e il trash presente nella casa della moglie del nazista, quelle ambientate nel "deserto di neve" dove spicca un'unica baracca, o quelle coloratissime dove il sole illumina i colori delle foglie autunnali in riva al lago sono semplicemente splendide, cariche di poesia e significati. E perfetti sono anche tutti gli attori coinvolti, dai protagonisti alle semplici comparse, che riescono a rendere This Must Be the Place ricco, vario e mai noioso, nemmeno per un istante. Se riuscirete a guardare un solo film questa settimana, beh.... This Must Be the Movie. Fidatevi, non ve ne pentirete.



Di Sean Penn, che interpreta Cheyenne, ho già parlato qui, mentre di Frances McDormand, nei panni della moglie Jane, ho parlato qua.

Paolo Sorrentino è il regista e sceneggiatore della pellicola. Italiano, ha diretto film come Il Divo. Anche attore, ha 41 anni e in progetto una serie tratta da Gomorra.



Harry Dean Stanton interpreta Robert Plath. Caratterista americano, lo ricordo per film come Per un pugno di dollari, Il Padrino - parte II, Alien, 1997: fuga da New York, Christine la macchina infernale, L'ultima tentazione di Cristo, Twister, Fuoco cammina con me, She's so lovely - così carina, Paura e delirio a Las Vegas, Il miglio verde, Terapia d'urto e Tu io e Dupree; inoltre, ha partecipato alla serie Alfred Hitchcock presenta. Ha 85 anni e due film in uscita.



Tra gli altri attori presenti, segnalo inoltre la bellissima e bravissima figlia di Bono, Eve Hewson, che interpreta Mary e l'attrice Joyce Van Patten, già vista in Un weekend da bamboccioni, nei panni di Dorothy Shore. E ora vi lascio con il trailer del film... ENJOY!!!

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