mercoledì 31 gennaio 2024
Megan Is Missing (2011)
martedì 30 gennaio 2024
Il cacciatore (1978)
Grazie alla riedizione in 4K distribuita da Lucky Red per tre giorni, lunedì scorso sono andata al cinema a vedere Il cacciatore (The Deer Hunter), diretto e co-sceneggiato dal regista Michael Cimino nel 1978.
Trama: tre amici di lunga data partono per il Vietnam, un'esperienza che lascerà tremendi segni sul loro corpo e, soprattutto, nella loro psiche...
Il cacciatore è una di quelle opere imprescindibili che avevo scoperto all'università, quando il mio amore per il cinema era in pieno boccio e una marea di tempo libero mi consentiva non solo di guardare film ma anche, e soprattutto, di leggere libri a tema (cosa a cui ho dovuto rinunciare da tempo, col risultato di diventare sempre più ignorante in materia). Siccome, da quando ho cominciato a lavorare, tendo a guardare principalmente cose per me inedite, erano quasi 20 anni che non "rinfrescavo" più Il cacciatore, quindi la visione al cinema è stata ancora più soddisfacente, perché ne ricordavo giusto le scene clou, senza troppi dettagli. Nonostante i suoi 45 anni, il film di Cimino continua a colpire duro e si conferma come una delle pellicole più angoscianti a tema Vietnam, non solo per la lunga, famigerata sequenza delle violenze al fronte, ma soprattutto per quello che viene mostrato prima e dopo. Il film si apre con uno spaccato della quotidianità di una cittadina industriale, e si concentra su alcuni esponenti della comunità russo-americana locale; Steven sta per sposare Angela e sia lui che i suoi due amici fraterni, Mike e Nick, partiranno per il Vietnam subito dopo il matrimonio. La prima parte de Il cacciatore insiste sul legame tra i protagonisti, i loro amici, i loro amori e le loro famiglie, ci travolge con l'allegra frenesia del matrimonio, ci rende spettatori privilegiati del cameratismo che governa le loro uscite di caccia, con piccoli dettagli ci rende partecipi di tutte le inevitabili stonature che esistono anche nelle amicizie storiche e, soprattutto, nelle comunità in cui tutti si conoscono ma ognuno ha i suoi segreti. Tutto ciò viene cancellato con un colpo di spugna dalle terribili, stranianti esperienze vissute in Vietnam, un inferno sulla terra da dove nessuno può uscire indenne. La parentesi vietnamita è un'ordalia di angoscia continua, dove la tensione si taglia col coltello e il magone è sempre lì, pronto a trasformarsi in pianto; quest'ultima sensazione è quella preponderante nella parte finale de Il cacciatore, dove il desiderio di tornare alla vita quotidiana si trasforma in senso di colpa e di inadeguatezza, alimentati dall'inevitabile consapevolezza di essere diversi da chi è rimasto a casa, lontano dalla guerra.
Mike, Nick e Steven sono rimasti bloccati all'interno di una bolla dove il tempo si è fermato, concretizzandosi in una dimensione allucinata di continuo dolore, completamente staccata da qualsiasi idea di vita normale. Dimenticare tutto e tornare ad esistere come se nulla fosse successo è tremendamente difficile, per alcuni addirittura impossibile, ed è arduo rimanere accanto a chi, benché mosso dalle migliori intenzioni, cerca di mantenere l'illusione che nulla sia cambiato. Persino Mike, il più "forte" dei tre soldati nonché protagonista della pellicola, vive il ritorno a casa come un purgatorio dove scontare la colpa di essere sopravvissuto e anela la solitudine dei boschi, l'unico luogo dove il silenzio e la purezza la fanno da padroni; il sonoro e la regia de Il cacciatore aiutano ad empatizzare con queste sensazioni, in quanto i personaggi, soprattutto Mike, sono sempre inghiottiti da folle e piani americani o primi piani claustrofobici, circondati da un rumore continuo e assordante, una cacofonia di suoni e persone che si parlano addosso, sia in Vietnam che a casa, ed è solo nel silenzio e nelle ariose riprese della foresta montana che ci si può riposare dall'estenuante esperienza che è la visione del film. Non so se è il senno di poi che parla, o se la pellicola sia stata volutamente costruita così, ma anche le scene iniziali mi hanno messo angoscia. Al di là di un'introduzione in cui l'acciaieria dove lavora Mike sembra la fucina dell'inferno e in cui le panoramiche di strade semideserte e baracche assortite mettono una tristezza infinita, lo stesso matrimonio è talmente "larger than life", così carico di balli forsennati, gente ubriaca e urla di giubilo, che sembra il tentativo disperato di vivere il più possibile prima di una morte inevitabile, andando anche contro ogni buon senso (Steven sposa una donna già incinta di un altro, probabilmente per non lasciarla nella "vergogna" visto che ne è innamorato, ma che senso ha visto che non ha alcuna certezza di tornare vivo dal Vietnam?).
Come sempre, inoltre, a me fa angoscia la perdita della giovinezza, ma questo è un valore aggiunto che vent'anni fa non percepivo. Tolto che gli interpreti sono tutti bravissimi (Christopher Walken ha vinto l'Oscar come Miglior attore non protagonista, il quinto assieme a quello per Miglior film, Miglior regia, Miglior montaggio e Migliore sonoro, ma erano candidati anche De Niro e la Streep), mi fa proprio effetto vederli giovani e bellissimi, impegnati una performance tra le migliori e più difficili della loro carriera. De Niro è un mostro di bravura, ed è nel pieno della sua maturità artistica, perfetto nell'interpretazione di una salda roccia sul punto di sgretolarsi, ma il cuore dello spettatore non può non volare a Christopher Walken. La bellezza androgina di Nick, con quegli assurdi occhi che sembrano volere inghiottire interlocutori e spettatori all'interno di un dolore sconfinato, nella seconda parte del film diventa la fredda riproposizione di un'umanità assente, di una mente spezzata dopo un pianto sconsolato di puro orrore, e questo aspetto, più di ogni altro, mi annienta ogni volta che vedo Il cacciatore. Per carità, mi distrugge anche il sorriso buono di George Dzundza, e la sua aria malinconica durante quella sonata al pianoforte che spezzerebbe il cuore a un sasso, ma mai quanto la crisi di pianto in cucina, durante la quale mi sono messa a piangere anche io, in sala, senza vergogna. Il cacciatore si riconferma, dunque, splendido oggi come allora e pazienza se ancora non ho capito come prendere quel God bless America, se un ultimo, disperato tentativo di consolarsi e fingere normalità, o una sentita dichiarazione d'amore verso una patria che manda a morire i propri giovani in un conflitto inutile. Se qualcuno potesse illuminarmi, gliene sarei infinitamente grato!
Di Robert De Niro (Michael), Christopher Walken (Nick) e Meryl Streep (Linda) ho già parlato ai rispettivi link.
Michael Cimino è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto film come I cancelli del cielo e L'anno del dragone. Anche produttore, è morto nel 2016, all'età di 77 anni.
Quello di Stan è stato l'ultimo ruolo di John Cazale, famoso per avere interpretato Fredo Corleone nei primi due film della saga Il padrino e morto di cancro ai polmoni l'anno dell'uscita de Il cacciatore. Se il film vi fosse piaciuto recuperate Full Metal Jacket e Apocalypse Now. ENJOY!
venerdì 26 gennaio 2024
Destroy All Neighbors (2024)
martedì 23 gennaio 2024
The Holdovers - Lezioni di vita (2023)
Al momento della stesura del post non ho idea se The Holdovers - Lezioni di vita (The Holdovers), diretto nel 2023 dal regista Alexander Payne, sarà candidato a qualche Oscar, ma siccome è fresco di due Golden Globe non potevo comunque perderlo!
Trama: all'inizio delle vacanze di Natale, in un collegio del New England, il professor Hunham è costretto a fare da tutore ai pochi ragazzi che non sono tornati a casa per festeggiare con le famiglie. L'esperienza sarà traumatica ma utile per tutti i coinvolti...
The Holdovers era un film che avevo già puntato durante il paio di giorni passati al Torino Film Festival, ma purtroppo non ero riuscita a vederlo a causa degli orari. Sono contentissima di sapere che il mio istinto non ha ancora cominciato a fare cilecca, e anche di avere assistito, per una volta, al miracolo di una programmazione illuminata del multisala savonese. The Holdovers è, infatti, uno di quei film "come facevano una volta", e non parlo solo dello stile, di cui scriverò più avanti; all'interno della pellicola di Payne sono importanti i personaggi, i loro sentimenti ed evoluzione, e la trama non viene sacrificata ad una fredda soggettività che vede l'Autore preponderante rispetto a ciò che viene narrato, come troppo spesso accade in certo cinema moderno. L'azione si svolge nel 1970, a cavallo delle festività natalizie, in un prestigioso collegio maschile del New England. Il periodo storico è importante, perché lo spettro della guerra del Vietnam e dell'arruolamento nell'esercito è una costante minaccia sul capo degli studenti idonei al servizio militare, e la possibilità di frequentare il college (soprattutto grazie ai soldi di genitori abbienti) è l'unico modo di proteggersi da un destino potenzialmente mortifero. Queste considerazioni non sfuggono al professor Paul Hunham, ciò nonostante il suo modus operandi è improntato su una severità portata agli eccessi, alimentata da un naturale disprezzo (ricambiato, ça va sans dire) verso gli ignoranti ragazzetti figli di papà a cui deve badare quotidianamente, e nemmeno lo spirito natalizio riesce a scalfire il suo carattere intransigente; quando, per una serie di circostanze, Hunham è costretto a rimanere in collegio assieme ai pochi sfortunati impossibilitati a passare le vacanze con le loro famiglie, l'esperienza si prefigura come un incubo, soprattutto per chi proprio non si aspettava di venire lasciato solo a Natale, come il pluriripetente Angus. Partendo da questo presupposto, The Holdovers tratteggia con delicatezza la difficile convivenza tra tre persone di estrazione sociale assai diversa, accomunate da esperienze dolorose che ne hanno segnato il passato e definito il presente. Lo fa senza pietismo, anche se le tragedie che hanno toccato Angus e la cuoca Mary farebbero piangere un sasso, perché "Crying never did nobody no good", come insegna la canzone portante del film (Crying, Laughing, Loving, Lying di Labi Siffre, punta di diamante di una colonna sonora bellissima). I protagonisti di The Holdovers ci provano a non piangere, trincerandosi dietro un egoismo "autoconservativo" che sicuramente consente loro di andare avanti e sopravvivere, ma li priva dell'empatia necessaria per osservare gli altri senza pregiudizi, e il film racconta proprio il loro lento, progressivo e complicato percorso di avvicinamento, conoscenza e conseguente crescita.
In questo romanzo di formazione senza limiti generazionali, la parte del leone la fanno inevitabilmente gli interpreti. Voi non avete idea di quanto mi abbia resa felice rivedere nel ruolo di protagonista Paul Giamatti, feticcio del cinema indipendente di inizio millennio e ridotto ultimamente a particine in film insulsi. Il suo Paul Hunham ha tutti i difetti del mondo, fisici e caratteriali, è l'essere più respingente del pianeta, eppure è un personaggio adorabile, il cui eloquio forbito unito ad una spietatezza incomparabile mi ha strappato più volte risate di sincero e gioioso entusiasmo. Una performance come quella di Giamatti aveva tutte le carte in regola per mettere in ombra quelle degli altri interpreti, invece sia l'esordiente Dominic Sessa che Da'Vine Joy Randolph riescono a tenergli testa senza problemi, arricchendo di rimando il personaggio di Hunham di nuove sfumature e creando figure tridimensionali indimenticabili. In particolare, stupisce Dominic Sessa per il modo in cui riesce a gestire Angus, conferendo ad un potenziale "galletto" figlio di papà un'enorme fragilità percepibile nello sguardo e negli atteggiamenti, non solo nelle sequenze più tristi, ma anche in quelle dove il confine tra commedia e tragedia è talmente labile da risultare impercettibile. The Holdovers è dunque, principalmente, un successo di sceneggiatura e attori, ma la regia di Alexander Payne conferisce un necessario tocco di malinconia nostalgica che non si limita ad essere un mero omaggio alle pellicole anni '70; la fotografia "invecchiata", la sensazione di freddi mesi invernali e calore natalizio filtrata dalla percezione di chi, essendo giovane, ne avrà per sempre un ricordo indelebile (magari catturandola in fotografie o video d'epoca), quel geniale effetto speciale per cui una caratteristica del volto di Giamatti cambia da una scena all'altra perché Angus non è interessato a guardare con attenzione Hunham, la colonna sonora, la perfetta gestione del ritmo e dei registri della vicenda sono tutte conferme della bravura di un regista che non ha perso smalto. Insomma, io spero di avervi convinti ad andare al cinema a vedere The Holdovers, l'antipasto perfetto per l'imminentissima Award Season e un potenziale "classico natalizio" da guardare e riguardare!
Di Paul Giamatti, che interpreta Paul Hunham, ho già parlato QUI.
Alexander Payne è il regista della pellicola. Americano, ha diretto film come Election, A proposito di Schmidt, Sideways - In viaggio con Jack e Paradiso amaro. Anche produttore, sceneggiatore e attore, ha 63 anni.
Da'Vine Joy Randolph interpreta Mary Lamb. Americana, ha partecipato a film come Dolemite Is My Name e Gli Stati Uniti contro Billie Holiday. Ha 38 anni e due film in uscita.
Il film prende vagamente spunto da Vacanze in collegio, che ha dato a Payne l'idea. Se The Holdovers vi fosse piaciuto potreste recuperarlo e aggiungere L'attimo fuggente, Rushmore e St. Vincent. ENJOY!
venerdì 19 gennaio 2024
Alien (1979)
mercoledì 17 gennaio 2024
Wish (2023)
martedì 16 gennaio 2024
Hell House LLC - La saga
Nelle ultime settimane del 2023, grazie a Lucia, Marika e Silvia, ho scoperto una saga di cui non conoscevo assolutamente l'esistenza, quella di Hell House LLC, creata nel 2015 dal regista Stephen Cognetti, "adottata" da Shudder e arrivata, proprio quest'anno, al quarto capitolo. Per venire incontro alle mie capacità mentali ho deciso di scrivere un post unico, invitandovi a cercare e guardare questa gradevolissima serie di found footage che vi porteranno ad affezionarvi TANTISSIMO al SIMPATICISSIMO Abaddon Hotel e alle inquietanti creature che lo popolano... ENJOY!
Hell House LLC - Stephen Cognetti, 2015
Il primo e, al momento, il migliore. Si parla di un gruppo di amici (la Hell House LLC, appunto) che decidono di mettere su un'attrazione horror per Halloween, all'interno di un hotel abbandonato e dalla strana storia. La vicenda di Hell House viene ricostruita a posteriori dopo che la serata inaugurale si è rivelata un disastro con morti annessi, tra testimonianze di studiosi, esperti e sopravvissuti terrorizzati, che si mescolano a video di fattura più o meno buona attraverso i quali si prova a dare un senso agli eventi della fatidica notte. Il risultato è un found footage un po' rozzo, se volete, ma molto efficace, perché ben poco viene spiegato di ciò che ha spazzato via i fondatori di Hell House, e buona parte di ciò che viene mostrato non aiuta la comprensione; i video catturano eventi inquietanti ma perfettamente "sopportabili" o derubricabili ad autosuggestione ed isteria (tra l'altro dovete stare attentissimi, perché il film è zeppo di momenti "blink and you’ll miss them"), mentre una mano invisibile ma presente sembrerebbe trattenere all'interno dell'albergo lo sventurato gruppetto, anche quando tutto punterebbe a far loro abbandonare baracca e burattini. Il trucco intelligentemente sfruttato da Cognetti e soci è quello di ambientare il found footage all'interno di un hotel trasformato per l'occasione in casa infestata, quindi zeppo di ambienti resi terrificanti e rozzi manichini artigianali i quali, oltre a fare paurissima già di loro, alimentano l'incertezza in protagonisti e spettatori, che non riescono a distinguere i mostri veri dai pupazzi. A guardarlo da soli la sera, il rischio è quello di tenere tutte le luci accese per paura che i clown della cantina (e non solo loro) ciccino fuori da qualche stanza, e io ne sono la testimonianza vivente!
Hell House LLC II: The Abaddon Hotel - Stephen Cognetti, 2018
Formula che vince non si cambia, o quasi. Il film riparte da dove ci si era fermati nel capitolo precedente, e nel frattempo i protagonisti non sono più i membri della Hell House LLC, bensì lo stesso Abbadon Hotel, sulla cui misteriosa natura vertono le indagini di un nuovo gruppo di persone. Hell House LLC viene considerato, all'interno dell'universo di finzione, un documentario "vero", e quella dell'Abbadon Hotel sembra essere diventata una maledizione non dissimile da quella dei Ju-On giapponesi, perché l'edificio rigurgita male all'esterno ed imprigiona qualsiasi sventurato tenti di esplorarne i corridoi. Questa è l'intuizione più brillante di un film che ripropone, quasi con la stessa efficacia, la medesima, terrificante formula del precedente; ormai lo spettatore "conosce" l'hotel e sa già quali sono i luoghi più pericolosi e da evitare, quindi la tensione viene portata ai massimi livelli nel momento esatto in cui compaiono vecchie conoscenze come i maledettissimi clown semoventi, accompagnati stavolta da spettri demoniaci più propensi a farsi riprendere, rispetto al film precedente. Il difetto di Hell House LLC II, purtroppo (oltre alla presenza di un paio di attrici che definire cagne maledette è far loro un complimento) è la volontà di spiegare quanto più possibile, arrivando persino a infilare un monologo rivelatore in bocca ad uno dei personaggi, il che affloscia e banalizza, circoscrivendolo, un concetto di male ignoto che lo spettatore poteva sviluppare a piacere, tappando i buchi con la fantasia. Ciò nonostante, mi sono divertita ugualmente, e il film continua a funzionare egregiamente come fonte di strizza serale.
Hell House LLC III: Lake of Fire - Stephen Cognetti, 2019
Al terzo film, il franchise perde notevolmente efficacia, almeno per quanto mi riguarda. La storia continua ad essere simile a quella dei primi due capitoli, ma siccome il secondo ha aperto le porte del passato, concentrandosi sul luciferino proprietario dell'hotel, la sua presenza è preponderante anche in Lake of Fire, che inscena una vera e propria battaglia tra bene e male. In tutta franchezza, è una battaglia scritta malissimo e lascia sul finale più di una perplessità, ma ho trovato interessante sia il restyling dell'hotel (luoghi familiari vengono "riverniciati", come quando la gente si dà il deodorante senza lavarsi, quindi fanno ancora più paura perché offrono un falso senso di sicurezza) sia l'idea di usarlo come luogo per una performance teatrale a tema Faust. In più, Hell House LLC III: Lake of Fire contiene, a man bassa, la sequenza più terrificante della saga, che mi ha costretta a usare la tecnica della "mano protettiva" persino in casa, evento più unico che raro. Il resto, in realtà, l'ho trovato fiacco anche a causa di personaggi non particolarmente accattivanti, e un altro difetto del film è che lascia tantissimi indizi senza risoluzione, quasi fossero stati messi a mo' di fanservice per chi ha seguito la saga fin dall'inizio. In soldoni, un film abbastanza deludente.
Hell House LLC Origins: The Carmichael Manor - Stephen Cognetti, 2023
Dopo la delusione del terzo capitolo, mi sono approcciata ad Origins senza troppe aspettative. Oh, quanto mi sbagliavo. Pur continuando a preferire il capostipite, Origins ne recupera la freschezza cambiando, innanzitutto, ambientazione, e passando dall'Abaddon Hotel a Carmichael Manor, magione sperduta nei boschi e presumibilmente infestata. Due vlogger si recano nell'edificio per realizzare una puntata del loro programma true crime, accompagnate dal fratello della regista, e il racconto è, come già accadeva per i film precedenti, "postumo", e parte di un documentario sulla scomparsa dei tre protagonisti: pur conoscendo il loro destino e pur ritrovando alcune familiari facce inquietanti, il film riesce a sorprendere e spaventare, inoltre risulta più interessante del terzo capitolo perché permette a chi conosce la saga di scoprire nuovi retroscena e capire come due edifici così lontani e diversi siano collegati. L'espansione della mitologia di Hell House LLC si accompagna a lunghe sequenze di pura tensione che mettono a dura prova i nervi dei personaggi e dello spettatore e sfruttano alla perfezione non solo l'ambiente soffocante di una magione sterminata, ma anche quello apparentemente salvifico dei boschi, che mettono ansia quanto quelli di The Blair Witch Project. Alla fine di Origins mi sono ritrovata con l'ansia a mille ma anche desiderosa di un quinto film, ché qui Cognetti ha lasciato indizi e spunti per almeno un altro paio di pellicole, e io ormai sono diventata un'adepta del maligno Andrew Tully!