giovedì 28 febbraio 2019

(Gio)WE, Bolla! del 28/2/2019

Buon giovedì! Passata la febbre degli Oscar, ecco che la distribuzione italiana si calma un po'... apparentemente. ENJOY!

Domani è un altro giorno
Reazione a caldo: Aww.
Bolla, rifletti!: Un film che mi ha spezzato il cuore fin dal trailer, che spero mantenga le promesse anche nel corso della sua effettiva durata. Storia di un uomo pronto a morire con tutta la dignità del caso e di un fratello che ancora non vorrebbe lasciarlo andare, con due attori ai quali sono arrivata a voler bene come Marco Giallini e Valerio Mastandrea. Non so se riuscirò ad andarlo a vedere ma al momento è l'unico film italiano al quale darei una chance.

Ancora auguri per la tua morte
Reazione a caldo: Yeeeh!
Bolla, rifletti!: Auguri per la tua morte, complice anche un'anteprima lucchese con maschere, pop corn e proiezione in v.o., mi aveva divertita tantissimo e spero davvero che il sequel sia all'altezza dell'originale, pur senza aspettarmi granché. Era piaciuto anche al Bolluomo, quindi dovrei riuscire a vederlo già questo weekend, stay tuned!

Croce e delizia
Reazione a caldo: Meh.
Bolla, rifletti!: Storia di un'inaspettata storia d'amore in grado di rovinare famiglie, che già dal trailer mi ha fatto un po' storcere il naso. A proposito di film italiani ai quali non darei alcuna chance.

Il cinema d'élite si sdoppia!

La casa di Jack
Reazione a caldo: Bwahah!
Bolla, rifletti!: Preceduto da uno strascico di inutili polemiche italiote conseguenti alla scelta della casa distributrice di farlo uscire V.M.18 con UN minuto di scene tagliate oppure V.M. 18 in versione integrale in v.o. (quindi credo in 4 cinema in tutta Italia), arriva inaspettatamente anche a Savona l'ultimo film di Von Trier, che contiene l'ultima performance di Bruno Ganz. Ne ho già parlato QUI, per me è la solita provocazione del regista, che non merita né svenimenti né critiche né tanto meno censure, ché si è visto di molto peggio.

Un valzer tra gli scaffali
Reazione a caldo: Uhm.
Bolla, rifletti!: Un amore che nasce in un supermercato che, per quanto squallido ed improbabile, diventa il rifugio di uno scaffalista timido. Le premesse sembrano interessanti, chissà che prima o poi non riesca a recuperare questo film tedesco.

mercoledì 27 febbraio 2019

Mirai (2018)

E' stato il penultimo film visto in occasione dei recuperi pre-Oscar, nonché uno dei più graditi. Sto parlando di Mirai (未来のミライ - Mirai no Mirai), diretto e sceneggiato nel 2018 dal regista Mamoru Hosoda, candidato come Miglior Film d'Animazione.


Trama: Kun è un bimbo tra i quattro e i cinque anni che, un giorno, vede la sua vita sconvolta dall'arrivo della sorellina Mirai. I suoi eccessi d'ira e disperazione richiamano il potere di un albero in giardino, che gli consente di viaggiare nello spazio e nel tempo...



Mi mancava la quotidiana poesia di Mamoru Hosoda, mi mancava il suo tocco delicato nello sfiorare vite ordinarie di genitori giovani ed inesperti, di bambini capricciosi che non riescono a trovare il loro posto nel mondo, di ragazzi malinconici e ribelli, il tutto condito da un pizzico di magia. In questo caso, i riflettori sono puntati sul piccolo Kun, bimbo amante dei treni, costretto a cedere lo "scettro" di re della casa alla sorellina Mirai, appena portata a casa dai genitori. Dopo i primi momenti di tenera fascinazione, ecco subentrare l'inevitabile sconforto dato dai ritmi di vita completamente scombussolati, dalla privazione di tutte quelle piccole attenzioni che ora, inevitabilmente, spettano a Mirai, ed ecco che il bimbo vivace ma tutto sommato carino si trasforma in piccolo mostro piangente ed urlante, in perenne conflitto coi genitori "cattivi" e pronto a fare ogni genere di dispetto alla sorellina rifiutandosi di accettarla. Hosoda è molto abile a non farci detestare Kun, motivando ogni suo eccesso di rabbia quasi volesse dirci "mettetevi un po' nei suoi panni"; allo stesso tempo, il regista e sceneggiatore sviluppa anche il punto di vista dei genitori, giovani lavoratori con molti pregi ma anche tanti difetti, che si sentono inadeguati davanti al desiderio frustrato ed impossibile di offrire ai figli solo amore e felicità eppure, poverelli, si arrabattano come possono, facendo buon viso a cattivo gioco e cercando di fare fronte alle intemperanze del primogenito. La quotidianità giapponese dipinta da Hosoda è una realtà in cui le innovazioni del presente (l'architettura moderna della casa, per esempio, oppure gli smartphone) sono unite inestricabilmente alla tenacia con la quale vengono mantenuti i legami col passato e con le tradizioni, piccoli tasselli di un puzzle che, alla fine, vanno a comporre gli individui nella loro totalità perché, senza il passato, senza i legami familiari, non ci sarebbe futuro. Ed è qui che subentra la "magia" che permea buona parte di Mirai.


Mirai è infatti strutturato come un film a episodi dove ogni capriccio di Kun scatena il potere dell'albero in giardino, una quercia dalla quale si dipanano tutti i fili del passato, del presente e del futuro della famiglia del piccolo protagonista che, in questo modo, riuscirà ad incontrare mirai no Mirai (la Mirai del futuro, come da titolo originale), qualcuno che ha avuto modo di risentire dell'arrivo di un "fratellino" come lui, qualcuno che gli ha passato quel bel caratterino testardo che si ritrova, qualcuno grazie al quale è nata la sua famiglia, qualcuno che si rivelerà, inaspettatamente, molto importante. Ad ogni viaggio nel passato o nel futuro, Hosoda da sfogo alla sua vena onirica e poetica, trasformando i pensieri, i sogni e gli incubi di Kun in qualcosa di tangibile che richiama piccoli particolari apparentemente insignificanti, espresso in un'animazione elegante e delicata anche sul prefinale, un incubo futuristico a misura di bambino dove i treni diventano draghi e la cortese ma impersonale efficienza dei servizi nipponici equivale a una condanna a morte. La struttura ad episodi potrebbe infastidire e potrebbe far pensare a un film basato sul "nulla"; la verità è che Mirai tira tutti fili del discorso sul finale, palesandosi come un piccolo, grande affresco familiare dove ogni evento è strettamente concatenato all'altro, e sta alla sensibilità del singolo spettatore farsi colpire dall'aura nostalgica e dolceamara che permea ogni fotogramma del film, lasciandosi catturare dai singoli eventi di vita quotidiana, quanto meschina, quanto eroica, quanto frivola ed importante. Neanche a dirlo, io sul finale ero in lacrime pur avendo le mani che mi prudevano per la voglia di tirare due scappellotti a Kun, e ammetto di aver abbandonato a malincuore lui, i suoi genitori imperfetti ma tanto umani, e la piccola, adorabile Mirai. Insomma, un altro piccolo gioiellino di animazione nipponica, peccato che in Italia sia arrivato, come al solito, giusto per tre miseri giorni.


Del regista e sceneggiatore Mamoru Hosoda ho già parlato QUI.


Mamoru Hosoda ha dichiarato di essersi ispirato a tre film per la realizzazione di Mirai: Il mio vicino Totoro, Lo spirito dell'alveare e Yi Yi - E uno... e due!. Il primo già lo adoro, gli altri due non li conosco ma proverò a recuperarli!  ENJOY!



martedì 26 febbraio 2019

Velvet Buzzsaw (2019)

Me lo hanno consigliato un paio di amici, così ho deciso di guardare Velvet Buzzsaw, produzione originale Netflix diretta e sceneggiata dal regista Dan Gilroy.


Trama: l'assistente di una famosa gallerista scopre un gran numero di opere appartenenti a un artista defunto. Dopo la scoperta, chi ha a che fare col mondo dell'arte in generale e con quei quadri in particolare comincia a finire vittima di inspiegabili e mortali incidenti.



Madonna, la pesantezza. Dopo Roman J. Israel, Esq., avrei dovuto ricordare che avere Dan Gilroy alla sceneggiatura E alla regia sarebbe stato sinonimo di mattonata sicura, di tedium vitae prolungato e concluso con un meraviglioso "e quindi?". Dopo aver sfrangiato le scatole con le insicurezze di un avvocato Forrest Gump, Gilroy torna alla carica con un horror all'acqua di rose verbosissimo, ambientato nell'elegante mondo delle case d'arte e dei critici blasonati, dove chiunque si venderebbe persino la madre per un briciolo di potere e per far vedere che la sua parola, il suo occhio, contano più di quello degli altri. E così arriva il metaforone: chi di critica e brama di fama ferisce, di critica e brama di fama perisce, attraverso gli inquietanti quadri di un artista sconosciuto, scoperti in maniera casuale dopo la sua morte, vere e proprie entità sovrannaturali intrise di sangue maledetto che uccideranno chiunque avrà a che fare con loro. Ma, in soldoni, chi è, appunto, che si ritroverà per le mani questi quadri? Ovviamente, il vuoto cosmico del mondo dell'arte, gente che al confronto i protagonisti di American Psycho erano di una profondità sconfinata. Abbiamo il critico d'arte bisessuale e infido, la stronzetta arrivista, l'artista eclettica e matta come un cavallo, la mecenate fredda e spietata, l'artista sfigato che ti prego John Malkovich, che diamine, ti paga a cottimo Netflix per partecipare senza motivo a 'ste cretinate?, tutta gente che non muore nemmeno troppo male e di cui, onestamente, non frega nulla a nessuno. Ah, e poi c'è la ragazzetta di Stranger Things messa a mo' di comic relief, protagonista della gag più riuscita di un film che vuole essere horror, thriller, caustico, ironico, drammatico, sentimentale e non è, purtroppo per lui e per gli spettatori, nessuna di queste cose.


Di tutto sto cucuzzaro, salvo solamente la regia e le scenografie, oltre ad alcune soluzioni omicide niente male. Dan Gilroy cerca di infondere "arte" e particolarità anche nella scelta di alcune riprese e nella costruzione di un paio di sequenze, per il resto ho apprezzato la scelta di ambientare diversi omicidi all'interno di ambienti "falsi", che risultano tali all'occhio dello spettatore solo quando l'inquadratura si allarga mostrando allo spettatore la situazione nella sua interezza; Gilroy strizza l'occhio agli amanti dell'horror con un paio di topoi sempre terrificanti come le bambole e i burattini assassini (ecco, Hoboman è la cosa più geniale di tutto il film e mette davvero paura), e i quadri dell'artista maledetto sono genuinamente inquietanti, così come il repentino e mortale cambio di prospettiva che decreta la fine di una dei protagonisti, inghiottita letteralmente da un'opera d'arte. Se posso dire la mia e permettermi di criticare Gilroy, uno che ha scritto film come Lo sciacallo, le scelte sbagliate sono state fatte proprio in fase di sceneggiatura. Intanto, Velvet Buzzsaw è un titolo fuorviante che porta ad immaginare una qualche implicazione di Rhodora nella natura maledetta dei quadri, come si evince da almeno un dialogo, invece la cosa finisce lì e non ha sbocchi, tranne sul finale posticcio graziato solo dalla penultima, poetica inquadratura; secondo, vista l'ambientazione alla American Psycho, non avrebbe avuto più senso prendere il personaggio di Jake Gyllenhaal e renderlo talmente ossessionato da quei quadri da spingerlo ad uccidere in maniera pulpissima ed artistica quanta più gente possibile? Ma soprattutto, ribadisco: la funzione di John Malkovich, qual è? Quella di disegnare cerchietti sulla sabbia nei titoli di coda? Dan Gilroy, se vuoi fare dei film "strani" e infilarci in mezzo Malkovich, riguardati per l'appunto Essere John Malkovich, poi ne riparliamo. Mi spiace, ma per me è no.


Del regista Dan Gilroy ho già parlato QUI. Jake Gyllenhaal (Morf Vandewalt), Rene Russo (Rhodora Haze), Toni Collette (Gretchen), John Malkovich (Piers) e Billy Magnussen (Bryson) li trovate invece ai rispettivi link.


Natalia Dyer, che interpreta Coco, è la Nancy di Stranger Things. ENJOY!

lunedì 25 febbraio 2019

Oscar 2019

Buon lunedì a tutti! E' finita da poche ora una notte degli Oscar tra le più molle e deludenti degli ultimi anni, il trionfo della convenzione e della banalità, dei copioni letti senz'anima in assenza di presentatori, della perplessità dentro e fuori dal "glorioso" teatro. Andiamo a vedere che diamine è successo stanotte, senza entusiasmarci troppo. ENJOY!


Alla faccia di chiunque, me compresa, pronosticasse la facile vittoria di Roma come Miglior Film, sul podio è salito invece Green Book. Ora, poteva andare MOLTO peggio ma sinceramente, per quanto mi sia piaciuto il film di Peter Farrelly, avrei preferito un riconoscimento a La favorita o allo snobbatissimo Vice. E' la riprova di come la Academy "apra" alla questione razziale nel modo più convenzionale possibile, premiando film critici ma politicamente corretti, che non pongano allo spettatore domande troppo complesse o scomode come, per esempio, First Reformed di Paul Schrader, ovviamente battuto nella categoria Sceneggiatura Originale proprio da Green Book. Nulla da dire invece su Mahershala Ali premiato come Miglior Attore Non Protagonista, un signore dentro e fuori dal set.


Banale, scontatissima e discutibile la vittoria di Rami Malek come Miglior Attore Protagonista per Bohemian Rhapsody. Se non altro, il buon Rami ha ammesso di "non essere stato forse la scelta migliore per il ruolo di Freddie Mercury" ma tant'è, l'Oscar è arrivato e con esso il dispiacere per il mancato tributo a Viggo Mortensen, Christian Bale e Willem Dafoe, gli ultimi due meritevoli più di chiunque altro. Bohemian Rhapsody porta a casa anche il premio per il Miglior Montaggio (ma La Favorita e Vice, signori?), Miglior Montaggio Sonoro e Miglior Missaggio Sonoro.


Sbaraglia fortunatamente previsioni assolutamente errate la divina Olivia Colman, la quale con la sua interpretazione della Regina Anna in La favorita mette a cuccia sia Glenn Close che, grazie a Dio, Lady Gaga. Purtroppo questo è l'unico Oscar vinto da un film che avrebbe meritato MOLTO di più, al quale peraltro sono stati scippati scandalosamente i premi per Miglior Scenografia e Migliori Costumi, andati a Black Panther. E ne parliamo di sta ca**ata, eh.


Regina King vince il premio per la Miglior Attrice Non Protagonista. Vabbé, non mi è dispiaciuta la sua interpretazione in Se la strada potesse parlare ma è davvero qualcosa di irrisorio rispetto al film in sé. Parliamo della Weisz e della Stone che reggono da sole l'intero film?


Altri premi scontati ma fortunatamente graditi, quelli andati a Cuarón per la Regia e la Fotografia di Roma, risultato anche Miglior Film Straniero. Obiettivamente, anche chi non capisce nulla come me ed è stato costretto a vedere il film su Netflix, riesce a percepire la potenza delle immagini del regista messicano, quindi ben vengano questi premi.


Passando alla sceneggiatura non originale, Spike Lee si è portato a casa il premio con BlacKKKlansman, altro Oscar spinto dall'ormai convenzionale inconvenzionalità "politica" dell'Academy che, se non altro, ha il merito di aver ridimensionato ulteriormente A Star is Born. Ma per un film che viene ridimensionato, ce n'è un altro che ruba Oscar a man bassa, ovvero Black Panther, motivo di scandalo in più di una categoria e vincitore di tre discutibilissimi premi: Miglior Colonna Sonora Originale (contro il Desplat de L'isola dei cani e lo splendido score di Se la strada potesse parlare? Mi prendete in giro??), Migliori Costumi (sacrilegio!!! La favorita, che il Signore vi fulmini! Piuttosto Maria Regina di Scozia, ma dove minchia li avete gli occhi??) e Miglior Scenografia (idem come sopra, ma siete matti? Scenografie cosa, che è al 90% CGI?). Che schifo, aMMisci.


Per il resto, tutto abbastanza prevedibile, almeno per quanto ho potuto capirne dopo il forsennato recupero pre-Oscar. Il povero Vice - L'uomo nell'ombra ha vinto l'Oscar per il Miglior Make Up a mo' di ulteriore presa per i fondelli, A Star Is Born il giusto premio per la Miglior Canzone Originale, unico che effettivamente meritava. A Chazelle e al suo First Man è andato un piccolo contentino nella categoria Migliori Effetti Speciali mentre tra i Lungometraggi Animati Spider-Man - Un nuovo universo ha sbaragliato il meraviglioso l'Isola dei cani e il tenero Mirai, lasciandomi come unica gioia la vittoria del dolcissimo Bao nella categoria Miglior Corto Animato. E con questo chiudo, ad un anno prossimo che, si spera, porterà una ventata di freschezza! ENJOY!

domenica 24 febbraio 2019

First Reformed - La creazione a rischio (2017)

Stanotte verranno assegnati gli Oscar e questa è l'ultima recensione "a tema" che verrà pubblicata prima della fatidica premiazione. Nella fattispecie, First Reformed - La creazione a rischio (First Reformed), diretto e sceneggiato da Paul Schrader nel 2017, ha ottenuto una nomination per la Miglior Sceneggiatura Originale.


Trama: il sacerdote di una piccola congregazione comincia a mettere in dubbio il proprio ruolo nel mondo a seguito di una serie di tragedie che lo hanno toccato da vicino.



Tra tutti i film visionati nel periodo pre-Oscar, First Reformed è indubbiamente uno dei più "scomodi". La sceneggiatura di Paul Schrader, pur non essendo sensazionalistica come quella di Vice, che punta il dito facendo nomi e cognomi, o palesemente impegnata come quella di BlacKkKlansman, sbatte in faccia allo spettatore un problema globale del quale tutti, nessuno escluso, parliamo troppo poco benché ci tocchi da vicino, forse perché attualmente è meno intellettuale parlare di ambiente e riscaldamento globale piuttosto che di politica e razzismo. Scrivere che First Reformed parli "semplicemente" di inquinamento e della graduale presa di coscienza del problema però sarebbe incredibilmente riduttivo. Quella, difatti, è solo la punta dell'iceberg di un percorso che porta il protagonista, un prete fiaccato dai sensi di colpa per la morte del figlio in guerra, a guardare al futuro e a chiedersi se davvero un mondo destinato alla distruzione per mano dell'uomo possa essere un rifugio sicuro per le generazioni future e cosa, effettivamente, possa fare la Chiesa per impedire una catastrofe, per preservare ciò che Dio ha concesso all'umanità al di là di tutte le parole, le preghiere e le formule di rito. First Reformed ci fa scontrare con la realtà di un sacerdote che è poco più di una guida turistica all'interno di una chiesa-museo, incapace di trovare le parole giuste per consolare e dare speranza agli altri perché lui stesso non ne ha per sé, e che piano piano apre gli occhi su una realtà dove la Chiesa è un'industria mangia soldi più che veicolo di conforto per i fedeli, all'interno della quale chi è al vertice si preoccupa  di politica e di apparenze salvate invece che di problemi concreti. Eppure, nonostante questa presa di coscienza, il sacerdote fa del dolore spirituale e della sofferenza fisica una corazza che lo spinge non già ad allontanarsi da Dio o perdere la Fede, bensì a farla diventare qualcos'altro di enorme e terribile, un pensiero strisciante di cui pian piano anche lo spettatore comincia ad avvedersi con angoscia crescente.


Ombroso, rigoroso e "bergmaniano" nell'impostazione (e non solo, ché Luci d'inverno ha una premessa molto simile), First Reformed è un film fatto di dialoghi angoscianti che affondano quanto la lama di un pugnale, che ci fanno vergognare di esistere e di essere sempre così dannatamente superficiali. Concentrati su noi stessi e sull'adesso, troppo spesso consideriamo la religione e la preghiera come scappatoie, comode formule magiche per ottenere quello che vogliamo come se Dio, un qualsiasi Dio, fosse il genio della lampada in grado di esaudire i nostri desideri se preghiamo proprio bene bene. E quando, dall'alto, ci viene mostrato solo un bel dito medio, ovviamente ci incazziamo. E' questa battaglia contro i "fedeli" mulini a vento che viene portata in scena da Schrader, incarnata nel volto granitico di Ethan Hawke, invecchiato e tirato ma sempre affascinante, il ritratto stesso del tormento e della disperazione, chiuso all'interno delle pareti spoglie di una chiesa asettica dove le croci paiono pesare come macigni persino con le loro ombre scure (il senso di claustrofobia viene dato anche dal formato inusuale scelto dal regista, il desueto rapporto d'aspetto 4:3), o perso nel fondo di una bottiglia mentre vomita su carta tutto ciò che lo rode. Il grigiume e la desolazione lasciano il posto giusto ad un paio di scene oniriche, concesse da Schrader a mo ' di sollievo sia per il protagonista che per lo spettatore, piccoli afflati di speranza che non è detto vengano accolti e che hanno il volto angelico di una misuratissima Amanda Seyfried, ma che comunque possono cominciare ad indicare una via. Amore, speranza, indulgenza, comunione col prossimo, impegnati in una strenua battaglia contro disperazione ed autodistruzione, questo il cuore di First Reformed, un film per nulla ottimista ma sicuramente potente, capace di dare un bello scrollone allo spettatore. Peccato che non se lo sia filato quasi nessuno in Italia.


Del regista e sceneggiatore Paul Schrader ho già parlato QUI. Ethan Hawke (Toller) e Amanda Seyfried (Mary) li trovate invece ai rispettivi link.


Cedric the Entertainer, che interpreta Jeffers, è la voce originale del Maurice di Madagascar. Per il ruolo di Toller il regista aveva pensato anche a Oscar Isaac e Jake Gyllenhaal ma alla fine ha optato per il più "sciupato" Ethan Hawke. Se First Reformed vi fosse piaciuto recuperate Luci d'inverno e aggiungete Al di là della vita. ENJOY!


venerdì 22 febbraio 2019

Copia originale (2018)

E' uscito ieri in tutta Italia Copia originale (Can You Ever Forgive Me?), diretto nel 2018 dalla regista Marielle Heller e tratto dall'autobiografia scritta da Lee Israel nel 2008, nominato inoltre per tre Oscar: Miglior Attrice Protagonista (Melissa McCarthy), Miglior Attore Non Protagonista (Richard E. Grant) e Miglior Sceneggiatura Non Originale.


Trama: Lee Israel, un'autrice di biografie, fatica a racimolare i soldi per arrivare a fine mese. Casualmente, la donna scopre di avere un talento per falsificare lettere di personaggi famosi e decide così di truffare ignari collezionisti.



Il bello dei film che annualmente vengono nominati all'Oscar è che spesso alcuni di loro raccontano storie di personaggi famosi (o, in questo caso, famigerati) di cui io non conoscevo neppure l'esistenza. E' il caso di questo Copia originale, basato sulla carriera criminale della scrittrice Lee Israel, la quale dopo essere caduta in disgrazia ha deciso di mettere le sue arti letterarie al servizio di una truffa bella e buona. La signora, infatti, aveva un talento naturale per creare lettere fasulle di personaggi famosi realmente esistenti, che i collezionisti compravano senza farsi troppe domande, convinti di aver trovato un tesoro inestimabile; più avanti, quando i suoi falsi hanno cominciato a destare sospetti, Lee Israel si è ritrovata nelle condizioni di dover rubare documenti veri e rivenderli, cosa che ovviamente l'ha portata a scontare una lunga pena detentiva. Copia originale racconta questa storia sordida e triste di persone incapaci di affrontare il duro mondo che li circonda, troppo impegnati a proteggersi con la sgradevolezza per poter sperare di farcela. La protagonista del film viene tratteggiata come un personaggio sì meritevole di pietà (che diamine, NESSUNO, a meno che non sia un mostro, merita di vivere nell'indigenza e costretto a ricorrere ad espedienti) ma anche e soprattutto di un paio di schiaffi, ché Lee Israel ha un atteggiamento orribile nei confronti del prossimo e di se stessa. Alcolista all'ultimo stadio, incapace di ingraziarsi un minimo i suoi interlocutori e nemmeno di garantire il livello base di  pulizia in casa, la Israel è un crogiolo di disagio ed egoismo capace tuttavia di mostrare quel briciolo di empatia e di umanità che alla fine spinge lo spettatore a parteggiare per lei, per il suo "lavoro" e per la sua strana amicizia con un uomo ancora più disadattato di lei, il ciarliero e gayssimo Jack Hock, scrittore in rovina dipendente dalla cocaina e ormai ridotto a vivere di espedienti in strada. Una strana coppia di persone che si vogliono bene per forza e lo stesso, in qualche modo, si disprezzano a vicenda, probabilmente perché ognuno vede nell'altro lo specchio reale della propria bruttezza interiore ed esteriore, che regalano allo spettatore momenti di ilarità ma anche lacrime cocenti, soprattutto quando la situazione precipita fino alle inevitabili conseguenze.


Copia originale è quindi, soprattutto, un film di scrittura (ottima) e attori (bravissimi), che bucano lo schermo sia da soli che quando duettano. Di Melissa McCarthy conoscevo solo il lato sboccato e comico, due caratteristiche che traspaiono chiare dall'interpretazione di Lee Israel; volgare, cinica e dispettosa come una bambina, la scrittrice è il personaggio perfetto per la McCarthy, la quale tuttavia qui riesce anche ad imbruttirsi dentro e fuori, regalando allo spettatore amare risate e ancor più amare lacrime attraverso insospettabili sfoghi di dolorosa umanità. Il monologo finale, breve ed intenso, nel quale fa capolino un'enorme fragilità dietro un muro di spacconeria e parole imposte, fa sciogliere il cuore, così come l'ultimo incontro tra Lee e Jack, tra lazzi, prese in giro e tristezza. Richard E. Grant, dal canto suo, è un mattatore meraviglioso, indossa i panni del nobile scrittore decaduto reinventatosi mariuolo di strada con un'eleganza invidiabile, entrando di diritto nel novero delle checche ciniche ed adorabilmente tristi della cinematografia mondiale. Non tanto da meritarsi una nomination all'Oscar, non quest'anno almeno, ma sicuramente abbastanza da conquistarsi l'affetto del pubblico anche nei suoi momenti di maggior viltà. I protagonisti vengono coccolati da una regia "calda", che ricorda a tratti la raffinatezza con la quale Woody Allen immerge i suoi personaggi nell'amata New York, tra librerie, antiquari e bar soffusi sempre e comunque da una luce accogliente, sicuramente più della casa sgangherata e sporca dove vive Lee Israel col suo micio, il che a mio avviso è un segno dello sguardo indulgente con cui Marielle Haller ha scelto di raccontare la storia di questa strana truffatrice misantropa. E' possibile che  Copia originale non sarà uno dei maggiori hit dell'imminente notte degli Oscar ma ve ne consiglio comunque la visione perché, nel suo piccolo, è uno dei film più gradevoli visti durante il recupero dei vari candidati.


Di Melissa McCarthy (Lee Israel), Richard E. Grant (Jack Hock) e Ben Falcone (Alan Schmidt) ho già parlato ai rispettivi link.

Marielle Heller è la regista della pellicola. Americana, ha diretto film come Diario di una teenager. Anche attrice e sceneggiatrice, ha 40 anni e un film in uscita.


Dolly Wells interpreta Anna. Inglese, ha partecipato a film come Il diario di Bridget Jones, 45 anni, PPZ: Pride and Prejudice and Zombies e Bridget Jones's Baby. Anche sceneggiatrice, produttrice e regista, ha 48 anni.


Jane Curtin interpreta Marjorie. Adorabile Dottoressa Albright de Una famiglia del terzo tipo, ha partecipato a film come Teste di cono e ad altre serie quali Love Boat; come doppiatrice ha lavorato in Z la formica. Ha 72 anni e due film in uscita.


Julianne Moore avrebbe dovuto partecipare al film ma alla fine si è tirata indietro per divergenze creative. ENJOY!

giovedì 21 febbraio 2019

(Gio)WE, Bolla! del 21/2/2019

Buon giovedì a tutti! Un vero peccato che a Savona non abbiano approfittato degli ultimi giorni pre-Oscar per programmare il carinissimo Copia originale, di cui parlerò domani, ma in effetti sono usciti ben pochi film e ben poco interessanti, quindi immagino si sia data la priorità a cose commerciali, purtroppo. ENJOY!

The Lego Movie 2: Una nuova avventura
Reazione a caldo: Meh.
Bolla, rifletti!: Non è che Lego Movie e Lego Batman non mi fossero piaciuti, però il franchise non rientra nemmeno tra i miei preferiti e non vorrei che si andasse calando. Attenderò pareri autorevoli prima di muovermi.

Modalità aereo
Reazione a caldo: Anche no.
Bolla, rifletti!: Il ritorno di Sabrina Salerno sul grande sch... ah, no. Boh, solita cretinata con Ruffini ed altri comici a base di equivoci che non andrei a vedere nemmeno per sbaglio. Con buona pace del popolo Aussie ingiustamente messo in mezzo.

Un uomo tranquillo
Reazione a caldo: Oddio.
Bolla, rifletti!: E niente, Liam Neeson si riconferma il Bruce Willis vendicativo del nuovo millennio. Forse però preferirei recuperare l'originale svedese, In ordine di sparizione, invece di questo.

Al cinema d'élite si torna in Francia!

Parlami di te
Reazione a caldo: Buh...
Bolla, rifletti!: Storia quasi vera di un importantissimo uomo d'affari colpito da ictus, che deve di nuovo imparare a parlare. Di sicuro edificante, ma la voglia di recuperarlo è poca.

mercoledì 20 febbraio 2019

Cold War (2018)



Ci stiamo avvicinando a grandi passi alla notte degli Oscar, quindi ho recuperato Cold War (Zimna wojna), diretto e co-sceneggiato nel 2018 dal regista Pawel Pawlikowski e candidato a te statuette: Miglior Film Straniero, Miglior Regia e Miglior Fotografia.


Trama: negli anni subito seguenti la seconda guerra mondiale, un compositore polacco cerca di convincere una cantante a fuggire con lui a Parigi.



Cold War potrebbe fare idealmente il paio con Roma per la sua natura di film confezionato benissimo ed affascinante ma dalla trama poco coinvolgente, almeno per come l'ho percepito io. L'amore tra Zula e Wiktor, Romeo e Giulietta di una Polonia  post-conflitto mondiale dove la speranza di libertà è stata subito oppressa dall'arrivo del regime di stampo stalinista, si snoda tra pochi alti e moltissimi bassi in un tira e molla continuo fatto di ardente passione, depressione blasé, tradimenti, escamotage per potere rimanere assieme e musica, tantissima musica. Una guerra fredda che non è solo quella tra un est sempre più povero e retrogrado e un ovest ricco di opportunità, ma anche tra diverse generazioni e due modi opposti di intendere la vita. Da un lato abbiamo Wiktor, piacente compositore già probabilmente oltre i quaranta, che dalla natia Polonia non può e non vuole più pretendere nulla e ambisce a farsi un nome altrove, dall'altra abbiamo la giovanissima Zula, restia ad abbandonare la patria soprattutto nel momento di maggior successo raggiunto a scapito di una vita difficilissima. Lui cerca di scappare, sperando di portarsi dietro lei, ma la fanciulla lo lascia andare a Parigi da solo; parrebbe che questo sentimento, già nato tra mille difficoltà, non riuscirà mai a concretizzarsi e invece i due si ritroveranno sempre, nel corso di quindici lunghi ed intensi anni, spinti a sprofondare nel baratro dalla passione incostante di lei e dall'amore incondizionato di lui. Unico punto fermo per entrambi, la musica, in tutte le sue declinazioni. L'amore tra Zula e Wiktor nasce con la musica popolare delle loro terre, piegata poi ai voleri del nuovo regime, e si impantana durante la realizzazione di un disco a Parigi, impersonale e "bastardo", come direbbe Zula; nel mezzo, mille declinazioni di melodie, dalla musica classica a quella jazz, passando per la lirica fino ad arrivare al trash esotico alla Carmen Miranda, specchio di un declino che non è solo musicale ma anche e soprattutto psicofisico.


Tra un numero musicale e l'altro, gradevoli e perfettamente intrecciati alla trama, la storia di Cold War scorre sullo schermo come se fosse scandita da una serie di diapositive, microepisodi che segnano il passare degli anni. Ciò che accade a Wiktor e Zula tra un incontro e l'altro importa poco e comunque viene proposto allo spettatore attraverso alcuni dettagli e spezzoni di dialoghi; quel che conta è la musica, la bellezza dei due interpreti enfatizzata da un bianco e nero abbacinante e perfettamente fotografato, capace di infondere in ogni fotogramma quell'aria di raffinatezza vintage, di cinema d'altri tempi, purtroppo privo dello stesso calore di un tempo. Dei due protagonisti, indubbiamente quella che si fa ricordare di più per carisma e fascino è la bionda Johanna Kulig, elegante come una diva del cinema anni '50, tuttavia il suo è un personaggio che ho trovato insopportabilmente banale, la tipica femme fatale (come rimarcato anche nei dialoghi) piena di problemi esistenziali fondamentalmente inutili; lui, dal canto suo, ha quella bellezza sciupata che lo rende interessante ma obiettivamente viene eclissato dalla compagna, privato della verve che potrebbe renderlo più di un semplice "uomo col borsello", destinato a consumarsi nello spleen di un sentimento che farebbe scappare la pazienza a un santo. Detto questo, nulla da togliere alla bellezza formale dell'insieme, alla bravura del cast e alla particolarità della colonna sonora, tuttavia non sono rimasta toccata da questa tragica storia d'amore come avrei voluto, potuto e dovuto. Come a dire, non è solo la guerra ad essere fredda.

Pawel Pawlikowski è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Polacco, ha diretto film come Last Resort - Amore senza scampo, My Summer of Love e Ida. Anche produttore e attore, ha 62 anni e un film in uscita.




martedì 19 febbraio 2019

Alita - Angelo della battaglia (2019)

Spinta dalle aspettative esaltate di quanti lo stavano aspettando, sabato sono andata a vedere Alita - Angelo della battaglia (Alita: Battle Angel), diretto dal regista Robert Rodriguez e tratto dal manga Alita l'angelo della battaglia di Yukito Kishiro.


Trama: il dottor Ito trova in una discarica il cervello ancora intatto di una cyborg e lo impianta nel corpo della figlia defunta. La giovane Alita, immemore della sua vita passata, deve così scoprire cosa si cela nei suoi flashback e nelle sue prodigiose abilità di lottatrice...


Credo di essere una delle quattro persone al mondo che non hanno mai letto Alita l'angelo della battaglia, manga che negli anni '90 aveva contribuito alla diffusione della cultura "otaku" in Italia e al boom che ne è derivato. Sono comunque andata al cinema spinta da due nomi, quello di James Cameron alla sceneggiatura e alla produzione e quello di Robert Rodriguez alla regia. Inoltre, non conoscendo l'opera originale, ero anche felice del fatto di non dover subire gli effetti nefasti della sicura banalizzazione e semplificazione dei temi trattati nel manga ad uso e consumo del popolo bue occidentale, cosa che mi ha portata a vivere Alita - Angelo della battaglia come un Ready Player One un po' più trash e banalotto. Non cercate significati particolari, fossero anche quelli "buonisti" e tanto vituperati dalla cVitica alla Spielberg o alla Disney, perché Alita mi è parso giusto una scusa per mostrare incredibili effetti speciali al servizio di violentissime scene action ai danni di cyborg, robot e cagnolini (fuori dall'inquadratura, mentre il montaggio furbo consente di assistere al taglio netto di un corpo umano senza che la dicitura PG-13 ne risenta, anche perché in tutto questo c'è gran dispendio di sangue azzurro), al limite c'è un vago monito a non tradire amici e amanti per raggiungere i propri scopi, per quanto spinti dalla disperazione, ché non sempre chi vive in paradiso è migliore di chi sta all'inferno. Ogni personaggio del film, infatti, è letteralmente portato a vivere perennemente con lo sguardo al cielo, alla città sospesa di Zalem, dove vigono promesse di ricchezza e superiorità contro il pianeta/discarica che sta sotto, un melting pot di culture e razze all'interno del quale cyborg ed esseri umani più o meno potenziati convivono sotto l'egida di una legge marziale mantenuta da cacciatori di taglie. In tutto questo, la giovane Alita deve ricordare la sua vita passata mentre comincia a viverne una nuova fatta di amori adolescenziali, scoperte scioccanti su se stessa e su chi la circonda, ed episodi di violenza sempre più incontrollabili alimentati da una malvagia eminenza grigia che risponde al nome di Nova e che arriva a sfruttare persino lo sport nazionale, il Motorball, per eliminare Alita e le ultime vestigia di un passato radicato nientemeno che su Marte. Quanto alla protagonista, di per sé Alita è scema come un tacco ed ingenua come poche, degno contrasto con un corpo e un addestramento marziale che la rendono una macchina da guerra superiore a qualsiasi altra in grado di offrire così allo spettatore un po' di gioia.


I momenti veramente esaltanti di Alita - Angelo della battaglia sono infatti quelli in cui l'"angelo" da il meglio di sé, con una furia devastante unita alla consapevolezza di dover eliminare qualsiasi ostacolo le si pari davanti; che sia in una rissa "da bar", in una gara di Motorball mozzafiato oppure in un corpo a corpo contro cyborg sempre più mostruosi, Alita salta, vola e calcia con grazia, accompagnata da urla di battaglia cariche di sdegno e dall'abilità caciarona di Rodriguez dietro la macchina da presa. Il buon Robert si è fatto le ossa con la trilogia del Mariachi e con i vari Spy Kids e si vede, perché è in grado di "piegarsi" alle regole del PG-13 senza rinunciare a rendere chiaramente ciò che accade nelle varie sequenze anche nei momenti più concitati, riuscendo a destreggiarsi sia nei momenti più "fisici" sia in quelli dove sono gli effetti speciali a farla da padroni, ovvero per più di metà film. Alita - Angelo della battaglia è infatti il trionfo del digitale e della motion capture, a partire dalla protagonista con gli enormi occhioni e il corpo sproporzionato modellata su Rosa Salazar, una bambolotta carinissima e in qualche modo molto umana che interagisce alla perfezione con i suoi nemici cyborg, forse un po' meno riusciti ma comunque impressionanti e per nulla posticci. Anzi, mi verrebbe da dire che gli unici a risultare "finti" sono proprio gli attori blasonati infilati a forza in questa mega-produzione solo per fare la figura dei cioccolatai, Christoph Waltz in primis. Ecco, io non riesco a capire come Waltz possa passare dall'essere un attore con la A maiuscola, indimenticabile e fondamentale (soprattutto quando viene diretto da Tarantino) all'essere un povero cristo scoglionato che non sa bene come sia capitato sul set, come in questo caso; per carità, non va meglio a un non accreditato Edward Norton o alla sempre splendida Jennifer Connelly, costretta in un ruolo di villainess tra i più mosci ed indecisi mai scritti, per non parlare dell'elegante Mahershala Ali che meriterebbe ben altre occasioni, e sicuramente al 90% del pubblico non fregherà una cippa del trattamento di questi grandi nomi, però a me si spezza un po' il cuore. Fatto ad uso e consumo del popolino nerd, Alita - L'angelo della battaglia mi è sembrato, in definitiva, un film divertente e ben realizzato ma più effimero di qualsiasi cinecomic Marvel in quanto maggiormente privo di quell'elemento che consente al personaggio Alita di elevarsi rispetto al resto dei cyborg: il cuore. Mi sa che sto invecchiando, eh?


Del regista Robert Rodriguez ho già parlato QUI. Christoph Waltz (Dr. Dyson Ido), Jennifer Connelly (Chiren), Mahershala Ali (Vector), Ed Skrein (Zapan), Jackie Earl Haley (Grewishka), Jeff Fahey (McTeague), Derek Mears (Romo), Casper Van Dien (Amok), Edward Norton (Nova) e Michelle Rodriguez (Gelda) li trovate invece ai rispettivi link.

Rosa Salazar interpreta Alita. Americana, ha partecipato a film come Bird Box e a serie quali American Horror Story. Anche regista e sceneggiatrice, ha 34 anni.


Il film è finito nelle mani di Robert Rodriguez perché James Cameron (che covava il progetto dall'inizio del nuovo millennio) era troppo impegnato coi sequel di Avatar ed è rimasto come produttore e cosceneggiatore; Rosa Salazar ha invece battuto alle audizioni Zendaya e Bella Thorne. Se Alita - Angelo della battaglia vi fosse piaciuto recuperate il manga edito da Planet Manga e "spezzato" in tre serie: Alita, Alita Last Order  e Alita Mars Chronicles. ENJOY!


domenica 17 febbraio 2019

Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità (2018)

Torniamo a parlare di Oscar, che ormai non manca più tanto. Oggi tocca a Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità (At Eternity’s Gate), diretto nel 2018 dal regista Julian Schnabel e candidato per il Miglior Attore Protagonista (Willem Dafoe).


Trama: Vita del pittore Vincent Van Gogh, tra genio e follia, fino alla morte in circostanze misteriose.


Van Gogh – Sulla soglia dell’Eternità è un interessante biopic che forse rivela poco della vita del pittore olandese ma sicuramente approfondisce il suo modo di intendere l’arte e affrontare la malattia mentale, due aspetti molto più affascinanti e fondamentali. Il film segue le vicende di Van Gogh dal momento del suo arrivo ad Arles, terra che avrebbe dovuto essere più calda e luminosa rispetto all’Olanda e che, in realtà, accoglie Vincent con pioggia, vento e diffidenza da parte degli abitanti del paese, poco convinti di dover ospitare un pittore poco conosciuto, povero e dagli atteggiamenti strani. Attirato talvolta dai suoi simili, al punto da dedicare loro dei quadri, l’artista è tuttavia schivo, timoroso e maggiormente interessato alla Natura, intesa come unico mezzo per avvicinarsi a Dio, da catturare con tutta l’urgenza di una mente in costante, febbricitante fermento che punta a rivelare la Realtà. Una realtà cupa, distorta, inquietante (bellissimo il prete interpretato da Mads Mikkelsen, talmente disgustato dai quadri di Van Gogh da arrivare persino a rivolgerne uno verso il muro, per nascondere il disegno) ma anche piena di bellissimi colori, sui quali spicca l’energia del giallo, del sole tanto bramato dall’artista, un grido di speranza che Van Gogh, almeno nel film, insegue attraverso interminabili camminate, corse a perdifiato e sguardi trepidanti rivolti al cielo. Da l’idea, questo Sulla soglia dell’eternità, che Van Gogh fosse un turbine incontenibile, tuttavia privo della spocchia edonista di molti suoi colleghi, una creatura intrappolata in un corpo limitante e in una realtà ancora più opprimente, spinto proprio da questo desiderio di libertà a vomitare su tela colori pastosi stesi con pennellate rapide e nervose.


Effettivamente, Willem Dafoe sembra proprio Van Gogh redivivo. Al di là di un reparto costumi che richiama proprio quelli degli autoritratti realizzati dal pittore, c’è qualcosa nel volto e nello sguardo dell’attore che farebbe quasi pensare alla possessione di qualche fantasma; colpiscono, più di tutto, quegli occhi persi ed innocenti, le improvvise espressioni di spaesamento, il sorriso estasiato di chi vede oltre quello che vedono i comuni mortali e si impegna a fare in modo che possano scorgerlo anche loro senza tuttavia essere capito. Le lacrime per l’abbandono di Gauguin, la consapevolezza di essere creduto pazzo, di essere, effettivamente, anormale, la speranza di essere accolto, il sollievo di potersi riposare tra le braccia di un fratello buono e protettivo, rendono Dafoe una creatura splendida celata dalle rughe e dai tratti rozzi e luciferini dell’attore, per questo ancora più preziosa quando viene scorta da un occhio attento. A sostenere la performance dell’attore c’è un regista la cui macchina da presa non sta mai ferma, che ripropone attraverso le immagini la foga e il tormento interiore del protagonista e spesso anche il punto di vista “distorto”, poco a fuoco, influenzato dalla malattia mentale; la fotografia, talvolta virata in blu e talvolta talmente nitida che i colori risaltano vivissimi, come appena catturati sulla tela di Van Gogh, impreziosisce ancora più questa regia particolare e si accompagna ad una colonna sonora altrettanto azzeccata, un trionfo di note suonate al pianoforte che sottolineano sia i momenti concitati che quelli più tristi. Mi avevano parlato benissimo di Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità (qualcuno aveva accusato anche un po’ di mal di mare, ora ho capito perché) e mi era dispiaciuto perderlo ma sono contenta di averlo recuperato in vista dell’Oscar perché è davvero interessante e, soprattutto, Dafoe è splendido. Guardatelo, merita.


Di Willem Dafoe (Vincent Van Gogh), Oscar Isaac (Paul Gauguin), Mads Mikkelsen (il prete),  Emmanuelle Seigner (Madame Ginoux) e Vincent Perez (il direttore) ho parlato ai rispettivi link.

Julian Schnabel è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto film come Basquiat, Prima che sia notte, Miral e Lo scafandro e la farfalla. Anche produttore e compositore, ha 68 anni.


Rupert Friend interpreta Theo Van Gogh. Inglese, ha partecipato a film come The Libertine, The Zero Theorem - Tutto è vanità, Morto Stalin se ne fa un altro e Un piccolo favore. Anche sceneggiatore, regista e produttore, ha 38 anni e un film in uscita.


Mathieu Amalric interpreta il Dr. Paul Gachet. Francese, ha partecipato a film come Marie Antoinette, Lo scafandro e la farfalla e Grand Budapest Hotel. Anche sceneggiatore, regista e produttore, ha 54 anni e due film in uscita.


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