mercoledì 31 luglio 2024

Il Bollalmanacco On Demand: Kissed (1996)

Oggi esaudirò la richiesta di Franz Wittenberg (che dopo quattro anni non penso leggerà più il mio sfigatissimo blog) e parlerò di Kissed, diretto e co-sceneggiato nel 1996 dalla regista Lynne Stopkewich a partire dal racconto We So Seldom Look on Love di Barbara Gowdy. Il prossimo film On Demand sarà Mary Reilly. ENJOY!


Trama: fin da bambina, Sandra è affascinata dalla morte. Una volta cresciuta, va a lavorare in un'agenzia di pompe funebri, dove la sua fascinazione si evolve ulteriormente...


Franz mi aveva nominato Kissed nei commenti di The Corpse of Anna Fritz, definendolo "un film che ha saputo rendere fruibile il tema della necrofilia riuscendo a mostrarci il delicato e, sotto certi aspetti, comprensibile ritratto di una bella e sensibile necrofila". Ammetto di avere accolto il commento con parecchio scetticismo, perché la necrofilia è una delle poche cose che mi danno davvero fastidio, specialmente se mostrate sullo schermo, ma siccome Franz mi ha ribadito il concetto anche nel commento seguente, ho deciso di inserire Kissed negli on demand. Ora, il film di Lynne Stopkewich non rientrerà mai nel mio novero di opere preferite e non mi ha spinta a cambiare idea relativamente alla rappresentazione di un argomento che ritengo debba essere tabù, ma non posso che dare ragione a chi mi ha consigliato di vederlo senza timore, perché ha un registro narrativo sorprendente. Kissed, pellicola peraltro molto breve, comincia mostrando squarci dell'infanzia di Sandra, ragazzina affascinata dalla morte al punto da indulgere in complicati rituali prima di seppellire gli animaletti morti trovati per strada. La fascinazione di Sandra non nasce da una perversione, quanto piuttosto dalla convinzione di riuscire a percepire l'anima delle creature defunte, qualcosa che rimane in loro anche dopo la morte e che non li rende meri corpi inanimati. La natura spirituale della "devianza" della ragazzina è palese, e l'accompagna durante gli anni del liceo e, infine, della maturità, quando per un'occasione fortuita Sandra finisce a lavorare in un'agenzia di pompe funebri. Il desiderio di contatto, di comunione con la morte, della protagonista aumenta di pari passo con le pulsioni sessuali proprie di una donna della sua età, generando un tormento che Sandra cerca di sedare cominciando a frequentare Matt, studente fuori corso di medicina. La particolarità della vicenda è il modo in cui il personaggio principale agisce seguendo convinzioni innocenti e pure, frutto di ragionamenti ponderati, nonostante la consapevolezza che agli occhi degli altri risulteranno comunque sbagliate (per non dire orribili, disgustose e passabili di condanne penali); Sandra, inevitabilmente, soffre della sua dipendenza ma non la rinnega, la vive come un modo per rispettare i morti e coglierne l'essenza più pura e luminosa.


A proposito di luminoso, la luce bianca è l'aspetto fondamentale di Kissed. Qui, più che in tantissimi altri film visti nel corso della mia vita, ho percepito il valore fondamentale della regia, della fotografia e delle immagini attraverso le quali un autore decide di raccontare una storia. Lynne Stopkewich (la quale, nonostante il sensazionale successo di Kissed è finita in un limbo di lavori televisivi neppure troppo famosi) confeziona sequenze che non sfigurerebbero in una pellicola romantica, ammantando Sandra di una delicata luce soffusa che ne ammorbidisce i lineamenti rendendoli ancora più dolci, la separa dalla trivialità del mondo e rende quasi "sacra" (passatemi il termine, vi prego) la sua unione sessuale con le salme. Non si percepisce morbosità alcuna, non passa nessuna sensazione di disgusto tranne quella razionale inculcata giustamente dalla morale comune, e la sfida vinta dalla Stopkewich è stata proprio quella di consentire allo spettatore di accettare Sandra come essere umano, non come mostro. Un essere umano complesso, colmo di contraddizioni, condannato alla solitudine da una sensibilità troppo particolare, eppure fermo nelle sue decisioni e nel perseguire i suoi obiettivi, quindi non una persona "fallita" o per la quale provare pietà. Fondamentale è anche l'uso degli sfondi, dei colori e degli abiti, soprattutto nel momento in cui Sandra incontra Matt. Là dove la prima viene mostrata, fin dall'inizio, circondata dalla natura e vestita con abiti dallo stile un po' bohemien i cui colori richiamano la luce fredda della morte, Matt è connotato come uno stalker sudaticcio che frequenta ambienti chiusi, squallidi e bui, un ragazzo vuoto che ritrova una scintilla di vita solo attraverso le stranezze di Sandra, di cui vorrebbe fare parte senza capirle. La cosa che ho più apprezzato di Kissed, comunque, è proprio la volontà di non fare della necrofilia (per quanto mostrata, questo è innegabile) l'argomento principale del film, quanto piuttosto un mezzo per indagare sull'animo umano e sul bisogno di trovare una connessione con qualcosa di "superiore", superando una dimensione terrena ed imperfetta che rischia di spegnere la luce interiore delle persone. Non so se Kissed è un film che mi sento di consigliare a cuor leggero, perché la necrofilia comunque c'è ed è potenzialmente un enorme, comprensibile veicolo di trigger, ma confermo la sensibilità, la delicatezza e la serietà con cui la regista si è approcciata all'argomento. 


Di Molly Parker, che interpreta Sandra, ho già parlato QUI.

Lynne Stopkewich è la regista e co-sceneggiatrice del film. Canadese, ha diretto il film Suspicious River ed episodi di serie come The L World. Anche scenografa e produttrice, ha 60 anni.



martedì 30 luglio 2024

The Well (2024)

Venerdì sera, grazie all'amico Roberto D'Onofrio, ho avuto la possibilità di andare all'anteprima milanese di The Well, diretto e co-sceneggiato dal regista Federico Zampaglione, in uscita il 1 agosto in tutta Italia. Niente spoiler, leggete pure tranquilli.


Trama: Lisa, giovane restauratrice americana, viene chiamata in Italia da una nobildonna, per restaurare un dipinto medievale. Nello stesso paesino, però, un mostro imprigiona e uccide persone in modi cruenti...


Visto quanto mi erano piaciute le precedenti opere di Zampaglione, The Well era uno dei film che aspettavo di più quest'anno e, per una volta, le mie aspettative non sono rimaste deluse. Dopo le atmosfere di Tulpa, più vicine al giallo all'italiana, The Well segna un ritorno dell'autore all'horror tout court. Ad essere più precisi, all'interno del film si mescolano almeno un paio di registri differenti, rispecchiati da diversi setting e generi musicali. Da una parte abbiamo una favola nera con echi folkloristici e medievali, che vede come protagonista la giovane restauratrice Lisa, alle prese con un quadro rovinato dalla fuliggine di un incendio, dall'altra il lurido spaccato di una camera delle torture, dove alcuni prigionieri vengono seviziati da un bruto e gettati all'interno del pozzo del titolo. Per quanto mi riguarda, è questa costante contaminazione di registri l'aspetto più interessante di The Well. Lo spettatore smaliziato (oppure più attento di altri), infatti, riuscirà probabilmente a prevedere i vari twist della trama da pochi dettagli rivelatori, ma quello che non riuscirà a fare sarà "proteggersi" dal crescendo di orrore inaspettato di un film che non si adagia sui percorsi tipici degli horror recenti, ma vuole abbracciare l'anarchia delle opere italiane del periodo d'oro del genere. In The Well non ci sono spiegoni, solo una breve introduzione dedicata a Lisa e al suo lavoro di restauratrice, dopodiché tutto procede spedito come un treno, un viaggio scomodo seduti sul bordo della poltrona, tra la paranoia e lo schifo (in senso positivo) più assoluto. Uno potrebbe pensare che l'aspetto gotico sia più tranquillo, in un certo senso. In realtà,  Lisa si aggira come la più classica delle damsel in distress all'interno di un luogo sconosciuto ed ostile, sempre più incapace di distinguere tra una realtà di anacronistica ricchezza e incubi capaci di uccidere (sensazione di spaesamento enfatizzata dall'essere straniera in terra straniera, un tema che parrebbe assai caro all'horror recente), ed è lì che si annida la vera incertezza. L'orco del pozzo, tanto quanto, ci "delizia" con la sua feroce fantasia, e lì il bello (o il brutto, scegliete voi) è capire quanto in là potrà spingersi la voglia di Zampaglione di farci vomitare il panettone di sette anni prima.


Per quanto riguarda gli aspetti più "tecnici", The Well è indubbiamente una spanna sopra moltissime produzioni recenti. Girato in tempo record (quattro settimane), il film trasuda passione da ogni fotogramma e l'unica cosa che non ho apprezzato è solo il fastidioso scollamento tra il labiale di chi ha recitato in inglese ed è stato poi ridoppiato in italiano, per il resto c'è da levarsi il cappello. In particolare, per una come me che detesta la CGI, un film come The Well è una boccata di aria fresca: gli effetti speciali sono artigianali, un trionfo di trucco prostetico e sangue finto, e ci sono sequenze che gridano "Fulci vive!" da ogni angolazione (ma gli occhi non sono più di marzapane, e fanno accartocciare dallo schifo), perché fortunatamente Zampaglione non si è trattenuto per quanto riguarda i dettagli più efferati. La fotografia nitidissima, tra l'altro, consente di non perdersi neppure una gocciolina di sangue e, pregio ancora maggiore, non penalizza il film con quella patina leccata che trasforma gli horror in dozzinali pellicole da cestone Netflix. Le sequenze ambientate nelle segrete, in particolare, trasmettono una sensazione di disagio e di sporco tangibile e, oltre che a Fulci, ho pensato a Stuart Gordon e a quel suo modo particolare di razzolare nel torbido, specialmente in film come Castle Freak. C'è da dire che, forse, mi è tornato in mente questo titolo in particolare anche grazie alla natura inquietante del demone protagonista di The Well, ma, per quanto mi riguarda, la palma di personaggio più terrificante (e della scena cult dell'anno) va all'Arruda di Lorenzo Renzi, col suo trucco alla "De la Iglesia" e il modo certosino con cui si impegna a scegliere gli strumenti di tortura per le vittime moleste. E se quest'ultimo entra di diritto nel novero nei migliori mostri del cinema horror italiano, mentre Lauren LaVera, Claudia Gerini e Melanie Gaydos si confermano delle certezze, un'ultima menzione d'onore la farei per Linda Zampaglione, la quale continua la tradizione delle inquietanti ragazzine horror sulla scia di Maria Pia Marsala e Nicoletta Elmi, donando però al suo personaggio un'inusuale malinconia. Concludo dunque con un "correte a vedere The Well!", se avrete la fortuna di averlo proiettato in qualche sala vicina, perché un film così gioiosamente orgoglioso di essere horror, senza maschere né orpelli, va soltanto premiato!


Del regista e co-sceneggiatore Federico Zampaglione ho già parlato QUI. Claudia Gerini (Emma) e Giovanni Lombardo Radice (il padre di Lisa) li trovate invece ai rispettivi link.

Lauren LaVera interpreta Lisa. Americana, ha partecipato a Terrifier 2 e serie come Iron Fist. Anche sceneggiatrice, ha 30 anni e la rivedremo negli attesissimi Terrifier 3 e Life of Chuck!


Melanie Gaydos
, che interpreta Dorka, era già apparsa nel bellissimo Tous les dieux du ciel. Se The Well vi fosse piaciuto recuperate Shadow! ENJOY!

venerdì 26 luglio 2024

Pumpkinhead (1988)

La challenge di oggi prevedeva di scegliere l'horror solo in base all'ispirazione della locandina. Ecco perché ho scelto Pumpkinhead, diretto nel 1988 dal regista Stan Winston.


Trama: dopo la morte del figlioletto, Ed decide di vendicarsi evocando un terribile demone che non fa distinzione tra colpevoli e innocenti...


La fine degli anni '80 era, evidentemente, il periodo degli horror in cui morivano dolci frugoli biondi il cui destino infingardo scatenava tragedie ancor più grandi. Il dolore annulla il giudizio, non c'è nulla da fare, e se Louis Creed decideva di andare contro la morte stessa pur di riavere indietro il piccolo Gage, con conseguenze che ben sappiamo, Ed Harley si "accontenta" di esigere furiosa vendetta contro gli scappati di casa che gli hanno investito il figlio, ma il risultato per entrambi è la perdita dell'anima e dell'umanità. Il veicolo della vendetta di Ed è Pumpkinhead, creatura nominata in una poesia di Ed Justin che funge da canovaccio per la storia raccontata nel film: Pumpkinhead è cattivo e, soprattutto, spietato, "la vendetta è un divertimento che persegue con passione", senza mai stancarsi o dimenticare, e non ci sono porte o finestre sprangate, né cani da guardia che lo tengano lontano dal suo obiettivo. A fare le spese di queste caratteristiche sono un branco di giovinastri con le marmitte scureggianti, a onor del vero meno cattivi di altri loro emuli cinematografici. L'unico che meriterebbe di venire appeso per le palle è l'esecutore materiale dell'investimento in moto, gli altri, più o meno, tentano di aiutare il bambino morente e, miracolo dei miracoli, non fuggono dalle loro responsabilità. L'unica loro colpa, in realtà, è di non avere la spina dorsale di prendere e saccagnare di botte il bulletto del gruppo, ma cosa può importare ad un padre reso folle dalla perdita? Nulla, infatti il dramma umano è interamente di Ed, vero fulcro della vicenda e personaggio stundaio, sì, ma col quale si simpatizza fino alla fine anche in virtù della sua capacità di spiccare all'interno di una comunità di campagnolassi stereotipati e fuori dal tempo (a farmi terrore, più di Pumpkinhead, è stata la vista di quei bambinelli sporchi e promiscui che gridano "inbred" in ogni fotogramma!). E poi, lo interpreta Lance Henriksen, quindi di cosa stiamo parlando?


Lance Henriksen
, per l'appunto, ci mette del suo e ha il physique du rol per interpretare un uomo duro, ai margini della società, sempre un po' a braccetto con quella follia che esplode nel momento in cui Ed sceglie di chiedere aiuto alla megera del paese e disseppellire l'orrido Pumpkinhead, che è poi la cosa splendida del film. Stan Winston è uno dei pochi, veri re degli effetti speciali, e in realtà gli era stato chiesto di partecipare alla pellicola in tal veste, ma si è entusiasmato così tanto che ha deciso di dirigerla e affidare la realizzazione della creatura ai tecnici del suo laboratorio. Questi ultimi hanno lavorato benissimo. Figlio illegittimo di uno xenomorfo e un demone, Pumpkinhead è uno splendore tangibile, non teme le sequenze in cui si vede a figura intera, chiaro come il sole, e neppure i primi piani, tanto è ben realizzato; trucchi prostetici, attori versatili, trampoli e arti mossi da tecnici nascosti fanno miracoli e mandano tranquillamente al diavolo la CGI posticcia a cui siamo abituati oggi, incapace di veicolare quel terrore fisico che è appannaggio esclusivo degli effetti speciali artigianali. Ecco perché, nonostante la presenza di attori secondari un po' (tanto) cani e qualche incertezza a livello di regia e ritmo, Pumpkinhead risulta tuttora un film divertente e pauroso, con parecchie scene goduriose non soltanto per il gore ma anche per l'ottima ambientazione rurale e la suggestiva rappresentazione della vecchia strega Haggis e della sua catapecchia sperduta nei boschi. In Italia, chissà perché, questo film non è mai arrivato, ma recuperatelo se ne avete occasione, è ottimo non solo sotto Halloween ma anche per le calde serate estive!  


Di Lance Henriksen (Ed Harley) e George 'Buck' Flower (Mr. Wallace) ho parlato ai rispettivi link. 

Stan Winston è il regista della pellicola. Americano, principalmente conosciuto come truccatore e tecnico degli effetti speciali (Ha vinto quattro Oscar, uno per gli effetti speciali di Aliens - Scontro finale, uno per gli effetti speciali e uno per il trucco di  Terminator 2 - Il giorno del giudizio, uno per gli effetti speciali di Jurassic Park), ha diretto un altro lungometraggio, Lo gnomo e il poliziotto. Anche produttore, assistente regista, scenografo, attore sceneggiatore e costumista, è morto nel 2008, all'età di 62 anni.


La Amy di The Big Bang Theory, l'attrice Mayim Bialik, compare bambina nei panni di una dei figli di Mr. Wallace. Il film ha generato tre seguiti, che non ho mai visto: Pumpkinhead II: Blood Wings, Ceneri alle ceneri - Pumpkinhead 3 e Faida di sangue - Pumpkinhead 4. Se Pumpkinhead vi fosse piaciuto recuperateli! ENJOY!

mercoledì 24 luglio 2024

The Devil's Bath (2024)

In questo periodo non ho tempo per guardare film né, in particolare, per scriverne. Quindi è solo ora che riesco a parlare di The Devil's Bath (Des Teufels Bad), diretto e sceneggiato dai registi Veronika Franz e Severin Fiala.


Trama: in un villaggio dell'Alta Austria, verso la fine del '700, la giovane Agnes viene data in sposa a Wolf, pescatore di scarsa sensibilità. Agnes ce la mette tutta per essere una brava moglie, ma solitudine e depressione si fanno sempre più pressanti...


Col loro terzo lungometraggio, Veronika Franz e Severin Fiala si confermano degli allegroni coi fiocchi. Al loro già nutrito campionario di personaggi traumatizzati, sconnessi dalla realtà e depressi, si aggiunge la giovane Agnes, ragazza semplice in gioiosa comunione con la natura e con Dio. La conosciamo alla vigilia del suo matrimonio, all'ingresso verso una vita sicuramente più complicata e diversa (è palese che non ci sia stato corteggiamento di sorta e che quello che ha visto unire Agnes e Wolf sia una sorta di "scambio" tra famiglie, probabilmente per questioni di decoro e soldi...), ma anche piena di mistero, speranze e aspettative. Titubante ma ottimista, Agnes prova così ad essere una buona moglie, tuttavia ad ogni gesto trova un muro, ogni sua azione viene soppesata e criticata dalla suocera asfissiante, attorno a lei vede il disprezzo verso ogni forma di fantasticheria gentile, e il marito non la toccherebbe nemmeno con un dito, cosa che la fa sentire ancora più miserabile e inadatta. Ispirati da angosciose cronache dell'epoca e studi moderni, Veronika Franz e Severin Fiala raccontano così la progressiva erosione di un animo fragile e la sua immersione all'interno del "bagno del Diavolo"; una profonda depressione, ovviamente non riconosciuta, ricondotta ad una condizione fisica di malessere da far spurgare con salassi oppure da esorcizzare in quanto opera del Demonio. La profondissima morale religiosa che permea l'epoca e la regione dove il film è ambientato, in particolare, diventa il fulcro di ogni azione di Agnes, combattuta tra la necessità di liberarsi di una (non) vita all'insegna della disperazione e quella di salvare la propria anima immortale, con conseguenze angoscianti e purtroppo tristemente testimoniate da tantissimi documenti del tempo. D'altronde, quando ogni cosa che devia dalla "normalità" è una colpa, si può biasimare chi cerca di fuggire ricorrendo a quella che ritiene meno grave?


Il ritmo del film asseconda la (ribadisco, non) vita di un villaggio sonnacchioso e chiuso, circondato da boschi e laghi che invitano a una poesia e una libertà tenute rigorosamente fuori dal focolare da spessi muri di pietra. Nei boschi Agnes si perde, ritrova un briciolo di felicità perduta anche quando quegli stessi luoghi diventano la discarica dove abbandonare chi ha provato la sua stessa disperazione, tuttavia le riprese di Franz e Fiala ci mostrano anche una natura distaccata, eternamente indifferente alle miserie umane. I due registi lavorano, inoltre, attraverso il progressivo mutamento dei toni della fotografia, passando da quelli caldi di un inizio pieno di speranza, dove il sole riesce ancora ad illuminare Agnes, a colori sempre più freddi, fino ad arrivare al buio umido e malsano rischiarato da fuochi che gettano ombre ancora più cupe. Non mancano suggestioni horror e scene assai esplicite di violenza e morte. Le prime sottolineano il delirio causato dalla profonda depressione di Agnes e la pesante ingerenza della religione in ogni suo pensiero, le seconde, se mi passate il termine, sono quasi liberatorie, perché l'aspetto realmente arduo da sopportare di The Devil's Bath è la progressiva distruzione di un animo puro e innocente, condotta in maniera supponente e ancor più spietata perché considerata come "naturale", anzi, benefica nei confronti della povera protagonista. Interpretata magistralmente da Anja Plaschg, praticamente al suo esordio in un lungometraggio in quanto cantautrice, Agnes è un personaggio che verrebbe voglia di abbracciare, di far fuggire da un tempo e una realtà che non dovrebbero appartenerle, per consegnarla a una realtà in cui persone come lei vengono accolte ed accettate. Ma visto che, ahimé, alcuni pensieri del '700 sono profondamente radicati anche da noi e non siamo più così ingenui da provare gioia all'idea della salvezza dell'anima, ci tocca guardare The Devil's Bath con ancora più magone, e sperare che le Agnes del mondo non tocchino mai questi livelli di profonda tristezza. 


Dei registi e sceneggiatori Veronika Franz e Severin Fiala ho già parlato QUI.


martedì 23 luglio 2024

Bolla Loves Bruno: Genitori cercasi (1994)

Stavo quasi per saltarlo, invece nella rassegna dedicata a Bruce Willis è finito anche Genitori Cercasi (North), diretto nel 1994 dal regista Rob Reiner e tratto dal romanzo North: The Tale of a 9-Year-Old Boy Who Becomes a Free Agent and Travels the World in Search of the Perfect Parents di Alan Zweibel.


Trama: la vita del piccolo North è costellata di successi, almeno finché la natura menefreghista dei genitori non comincia ad incidere sui suoi risultati sportivi e scolastici. Disperato, North decide così di mettersi alla ricerca di due genitori migliori...


Non avevo mai visto Genitori cercasi, forse non lo avevo mai nemmeno sentito nominare. Avevo deciso di non guardarlo, in quanto Bruce Willis era segnato nei credits di Imdb come "narratore", poi mi sono capitate sott'occhio un paio di immagini in cui l'attore era vestito da coniglio pasquale e ho capito che non potevo perdermi assolutamente il film. Ho quindi guardato Genitori cercasi come faccio di solito, senza informarmi al riguardo né leggere critiche pregresse, e non avete idea dello stupore quando sono venuta a sapere, il giorno dopo la visione, che il film in questione è universalmente considerato uno dei più brutti mai girati, nonché uno dei pochissimi stroncati da Roger Ebert senza possibilità di appello. Di più, Bruce Willis non doveva neanche esserci. Come molti altri insieme a lui (andate a vedere nelle info in fondo al post) era rimasto schifato dalla sceneggiatura ed era stata l'allora moglie Demi Moore, reduce dal successo di Codice d'onore, a convincerlo a partecipare, ed è stato un miracolo che la sua carriera non sia finita nel cesso come quella di Rob Reiner, fino a quel momento considerato regista infallibile e, in seguito, destinato a un flop dietro l'altro. Ora, non pretendo di saperne più di Roger Ebert, anzi, dinnanzi a lui m'inchino, ma tutto questo odio verso Genitori cercasi mi è parso ingiustificato. E' una commedia senza alcuna pretesa di essere seria, filtrata dalle fantasie di un bambino, e come tale è un'opera d'intrattenimento che mira solo a divertire lo spettatore con le sue trovate esagerate. Mi spingo fino a dire una cosa impopolare, che probabilmente mi varrà la cancellazione del blog e una condanna a morte da parte di ogni cinèfilo dell'Internet che si rispetti: a me Genitori cercasi, a livello di sceneggiatura e personaggi sopra le righe, ha ricordato tantissimo lo stile di Wes Anderson, e se quest'ultimo fosse un regista "da remake" sono convinta che potrebbe considerare l'insana idea di riportarlo sul grande schermo con i suoi inconfondibili tratti distintivi. 


Ma perché, in soldoni, Genitori cercasi ha generato tanto odio? Beh, in primis per il suo razzismo diffuso e per gli stereotipi che perpetra. Quando North parte alla ricerca dei genitori "perfetti", comincia la sagra della presa in giro, tra texani da circo, hawaiiani che dichiarano di sentirsi sottovalutati dai parenti americani, francesi dall'umorismo discutibile e alaskani usciti dritti da una distorta idea di qualche ignorante dell'800. Mentirei se dicessi che non è imbarazzante vedere Kathy Bates con "red face" annessa per interpretare l'Inuit, ma c'è anche da dire che questi stereotipi sono talmente enfatizzati e ridicoli, che nessuno potrebbe sentirsi seriamente offeso; allo stesso modo, è stupido inalberarsi perché la scelta di North, nel prefinale, ricade sulla tipica famigliola wasp e quindi automaticamente perfetta (ragazzi, ma ci hanno messo John Ritter e l'idea era di affiancargli Suzanne Somers di Tre cuori in affitto, di cosa stiamo parlando?), cosa dovrebbe scegliere un bambino bianco degli anni '90, di andare a stare con i Jefferson? In realtà, Genitori cercasi funge da blando racconto di formazione per un bimbo che inizia il film ritenendosi il centro del mondo ed emblema di perfezione, mentre alla fine del viaggio capisce di non essere meglio di altri e di doversi accontentare di un amore imperfetto ma sincero, proprio dopo aver visitato diversi luoghi "da sogno" che sono tali solo sulle cartoline, o per una vacanza di un paio di settimane. Il tutto viene raccontato seguendo i cliché di un thriller politico, perché mentre North cerca di trovare il suo posto nel mondo, una nemesi improbabile trama alle sue spalle per sovvertire l'ordine mondiale proprio sfruttando il gesto ribelle del protagonista, con tanto di killer prezzolati, video contraffatti e informatori segreti che diventano preponderanti verso la fine del film. Come potete leggere, la pellicola è pieno di trovate sciocche, giocose ed esagerate, e tutto sta ad entrare nel mood di un'opera essenzialmente parodica, pensata per un pubblico infantile, anche se mi sono divertita persino io.


Quanto a Bruce Willis, protagonista di questa rassegna, non ritengo si sia sputtanato, né che la sua performance sia la peggiore della sua carriera, anzi. L'attore, qui, fa "Bruce Willis", tirando fuori il meglio dei personaggi che hanno contribuito a definire la sua cifra stilistica cinematografica; dotato di un talento naturale per la commedia, asservito nel tempo a ruoli da eroe, Willis ciccia fuori per dare una mano a North in ognuno dei suoi viaggi, incarnandosi, di volta in volta, in uomo carismatico ma rozzo, saggio scoglionato dalla vita che può dare il meglio sia come attore di successo, sia come working class hero, sia come figura mitologica, sia come poveraccio scappato di casa. L'interazione con Elijah Wood, all'epoca tredicenne sulla cresta dell'onda, è tenera e divertente perché il ragazzino gli tiene testa ma senza risultare supponente, in più viene a crearsi proprio un clima di fiducia che fa del "narratore" uno strumento di salvezza non solo fisica, ma anche morale. Oltre a un Bruce Willis a mio parere in formissima, all'interno del cast trovate tantissimi attori amati che non si sono tirati indietro di fronte all'overacting richiesto (Jon Lovitz più o meno fa sempre lo stesso personaggio, ma il giudice di Alan Arkin è talmente sopra le righe da fare il giro) e, soprattutto, Matthew McCurley. Costui è un piccolo mostro che è sparito dalle scene dopo una manciata di film, probabilmente dopo aver perso quell'aria da simil Maculay Culkin che deve avergli fornito gli ingaggi all'epoca, ed è un peccato, perché la sua interpretazione del viscido bastardello Winchell è la cosa più esilarante del film. Al quale, neanche a dirlo, vi invito a dare un'occhiata, anche solo per darmi della matta: è introvabile sui servizi streaming e sul mercato dell'home video, neanche avessero voluto cancellarne il ricordo, ma su Youtube è disponibile per intero e in buona qualità. Fatemi sapere!


Del regista Rob Reiner ho già parlato QUI. Elijah Wood (North), Julia Louis-Dreyfus (mamma di North), Bruce Willis (Narratore), Jon Lovitz (Arthur Belt), Alan Arkin (Giudice Buckle), Dan Aykroyd (Pa Tex), Graham Greene (Papà alaskano), Kathy Bates (Mamma alaskana), John Ritter (Ward Nelson) e Scarlett Johansson (Laura Nelson) li trovate invece ai rispettivi link.


Pronti per il valzer dei gran rifiuti? John Candy era stato scelto per il ruolo di Pa Tex ma ha rifiutato perché trovava offensivi gli stereotipi all'interno della sceneggiatura, di conseguenza Reiner ha chiesto a Robin Williams, che era però già impegnato sul set di Mrs. Doubtfire - Mammo per sempre. Altri due che hanno espresso disgusto verso lo script e declinato con grazia sono Mel Brooks e Peter Falk, contattati per interpretare il nonno alaskano; anche Kathy Bates trovava orrenda la sceneggiatura, ma ha partecipato al film per ringraziare Reiner di averle fatto vincere l'Oscar con Misery non deve morire. ENJOY!

venerdì 19 luglio 2024

The Descent (2005)

L'horror per la challenge di oggi doveva essere originario del Regno Unito. Ho quindi scelto di vedere per la prima volta The Descent, diretto e sceneggiato nel 2005 dal regista Neil Marshall.


Trama: un gruppo di amiche, il cui legame si è affievolito nel tempo a causa di un terribile incidente, decide di esplorare delle grotte sperdute. Pessima scelta...


Non chiedetemi perché non avessi mai guardato The Descent prima di qualche settimana fa, ormai dovreste saperlo che ho delle lacune grosse come dei tir. Ma non divaghiamo, l'importante prima o poi è riuscirci e pentirsi del tempo passato senza conoscere questo piccolo gioiello di suspense e orrore. Un film che, per quanto mi riguarda, fa molta più paura prima che arrivino i mostri, perché evidentemente un po' della claustrofobia paterna l'ho ereditata. The Descent racconta, come da titolo, la discesa in un complesso di caverne di un gruppo di amiche appassionate di sport estremi. Queste sei amiche si trovano in un momento in cui il loro legame si è indebolito parecchio, a causa di un terribile incidente accorso a Sarah, che pesa come un macigno (per motivi che non vi spoilero) soprattutto su Juno e Beth. Per tornare a rinsaldarlo, Juno propone di passare un weekend ad esplorare grotte, senza rivelare che la meta scelta non è un complesso turistico e noiosino fatto di percorsi sicuri, quanto piuttosto un luogo inesplorato dove le nostre, inevitabilmente, rimangono bloccate. L'atmosfera di The Descent è pesante fin dall'inizio, scuote i nervi dello spettatore con un incidente totalmente inaspettato che farebbe invidia a Final Destination e ci consegna una protagonista spezzata, senza più uno scopo nella vita. La "discesa" diventa, per estensione, non solo fisica, ma un'immersione psicologica in ricordi ed esperienze rimossi, in una situazione talmente terribile da togliere il respiro, in un buio che ci rende ciechi. Dalle amiche di una vita non arriva alcun aiuto, anzi, la maggior parte delle protagoniste sono ininfluenti e da parte di Juno e Beth c'è tanta buona volontà ma anche la palese sensazione che ci sia qualcosa che non va, che i rapporti siano irrimediabilmente rovinati nonostante un tardivo ed "eroico" impegno. Tutto questo disagio, ovviamente, esplode nel momento in cui l'esplorazione delle caverne si rivela più difficile e pericolosa del previsto, in un crescendo di claustrofobia e vertigini, tra persone che rimangono bloccate nei cunicoli senza quasi riuscire a respirare e altre che devono superare profondi e cupi abissi. E tutto ciò prima ancora che subentri l'elemento horror.


Nonostante il simbolismo di morte e rinascita, presente sia nella trama che nelle immagini, The Descent non è un film "elevated". E' una macchina costruita per spaventare, con in mente ben chiare le regole del genere, ed è un giro sulle montagne russe che non perde mai ritmo e, soprattutto, non fa sconti. I cunicoli ricostruiti in studio vedono strisciare al loro interno donne sempre più sporche e disperate, perse all'interno di un mondo oscuro rischiarato solo dalle luci di segnalazione (ottima trovata per mantenere sempre illuminato il set, sostenuta da una fotografia chiara, mentre al buio totale si sopperisce con le sempre terrificanti - almeno per me - riprese all'infrarosso), e quando arrivano i mutanti del sottosuolo lo schifo si spreca. Tra pozze di sangue, distese di cadaveri mangiussati e bava che cola copiosa, le sequenze in cui lo stomaco si chiude sono innumerevoli, e altrettante sono le scene in cui la violenza esplode senza filtri, tra momenti di pura soddisfazione sterminatrice e altri in cui viene voglia di distogliere lo sguardo dallo schermo e andarsi a fare un giro. Dovessi proprio trovare un difetto a The Descent, è la maggior parte delle attrici. Purtroppo Prime Video ha solo l'audio italiano, quindi non mi sono goduta le loro "vere" performance, ma per quanto mi riguarda solo Shauna Macdonald e Natalie Mendoza sono degne di imprimersi nella memoria; la prima segue proprio un percorso di evoluzione (o sarebbe meglio parlare di regressione al primitivo? Bella domanda) che da sciapa biondina prostrata dal dolore la trasforma in antieroina grondante cazzimma, la Mendoza è una macchina da fitness che posso solo invidiare, visto che al suo posto non sarei arrivata nemmeno a incrociare i mostri cannibali, ma sarei morta ben prima. Il resto delle protagoniste non mi ha colpita particolarmente, ma per fortuna i mostri di cui sopra sono invece un bel trionfo di make-up e inquietanti movenze fisiche, che rischiano di popolare gli incubi dello spettatore per lungo tempo dopo la visione di The Descent. Un film apprezzabile anche per il finale bellissimo e spietato, di cui esiste una versione edulcorata per il mercato USA che ha aperto la via al secondo capitolo, che non saprei se guardare o meno. Lo consigliate? Fatemi sapere, intanto recuperate The Descent se, come me, siete tra le poche persone che non lo avevano mai visto!


Del regista e sceneggiatore Neil Marshall ho già parlato QUI. Shauna Macdonald (Sarah) e MyAnna Buring (Sam) le trovate invece ai rispettivi link.


Nel 2009 è stato girato un sequel, The Descent: Part 2, che riprende proprio il finale americano di The Descent. Non l'ho mai visto ma, se il film vi fosse piaciuto, recuperatelo e aggiungete Necropolis - La città dei morti e Il nascondiglio del diavolo - The Cave, uscito praticamente in contemporanea a The Descent. ENJOY!

mercoledì 17 luglio 2024

Vermin (2023)

E' arrivato in questi giorni in Italia, distribuito dalla Midnight Factory, un film che, chissà perché, mi ispirava nonostante l'argomento. Sto parlando di Vermin (Vermines), diretto e co-sceneggiato dal regista Sébastien Vanicek.


Trama: Kaleb, appassionato di insetti, compra al mercato nero un ragno. La bestiola, lasciata incustodita, si moltiplica, e il palazzo dove abitano Kaleb e i suoi amici si riempie di pericolosi aracnidi...


Maledetti francesi. E maledetta anche la versione francese di Aracnofobia. Non so perché, visto che detesto i ragni, mi sono messa a guardare il film, sta di fatto che dopo 10 minuti volevo morire e mi sentivo brulicare addosso la qualsiasi. Però liquidare Vermin solo come un horror sui ragni sarebbe improprio. Il film contiene il germe di un disagio sociale particolarmente sentito in Francia, dove il senso di ingiustizia e la percezione del divario tra classi ed etnie ribolle nel sangue degli abitanti fin dai tempi della Rivoluzione. Kaleb e amici abitano all'interno di uno squallido caseggiato (peraltro esistente e risalente agli anni '80) zeppo di immigrati di prima e seconda generazione, ai margini della città, in un posto dove la criminalità va a braccetto con il rispetto delle tradizioni, l'amore per i vicini di casa, il desiderio di fare ognuno il possibile per aiutarsi a vicenda; non si tratta di un mondo perfetto o innocente, ma nemmeno si può fare di tutta l'erba un fascio e vedere solo il lato buio della vita del condominio. A proposito di fasci, quando la merda colpisce il ventilatore la polizia non trova altra soluzione che ignorare, brutalmente, le razionali proteste degli abitanti e isolarli dal resto del mondo, invece di aiutarli, col risultato di fare ancora più danni. Certo, questo accadeva anche in Rec, film a cui questo Vermin deve moltissimo, ma qui viene mostrata tutta la cattiveria e la freddezza nata dal pregiudizio verso una fascia della popolazione, la speranza, da parte delle forze dell'ordine, che succeda qualcosa di "grosso" onde poter mettere mano a manganelli e pistole, prima ancora che la minaccia aracnide faccia finalmente piazza pulita di ciò che porta vergogna alla città. Al di là dei momenti di puro terrore, ci sono sequenze in cui il senso di ingiustizia e la tristezza verso il destino dei protagonisti è soverchiante, tanto che spesso mi è venuto il magone, anche perché la sceneggiatura riesce a risvegliare l'empatia verso tutti i personaggi, anche quelli secondari.  


Oltre a questi tocchi che, a mio avviso, sono fondamentali per rendere il film un po' più sentito e originale, Vermin è ovviamente un trionfo di ragni orribili. Sébastien Vanicek, che ha studiato i capisaldi del genere (e anche un po' la tecnica di Raimi), indugia in riprese bastarde di scarpe, buchi, prese d'aria, scatole e, neanche a dirlo, sulle mani e gli occhi di eventuali malcapitati, ammazzando lo spettatore di tensione anche quando non succede quello che ci aspetteremmo. Tanto i ragni sono sempre lì, che aspettano. Angosciosi e terribili nella prima metà del film, in virtù del loro essere talmente piccoli da infilarsi in qualsiasi orifizio, "migliorano" andando avanti diventando sempre meno verosimili, benché non meno pericolosi (ma se non altro, una volta cresciuti riescono a non causare infarti alla sottoscritta, al limite un po' di schifo contenuto). Le metamorfosi dei ragni sono realizzate con effetti speciali all'altezza, che non danno loro un'aria fasulla, e secondo me c'è anche qualche ragnetto vero che vaga, quindi complimenti agli attori, tra l'altro molto bravi e credibili, che hanno avuto il coraggio di farseli zampettare addosso. L'unica cosa che mi ha spezzato il cuore e fatto paura più dei ragni è la colonna sonora a base di rap franzoso, ma nel contesto della storia è un genere che ci sta tutto e che trovo, a dire il vero, molto meno odioso di quello italiano... forse perché non capisco una mazza di quello che dicono? Pazienza, questo genere di intolleranza fa parte del "pacchetto vecchiaia": prima che vi entri a far parte anche un eventuale disgusto verso l'horror poco elevated (gli dei non vogliano!!) vi consiglio di recuperare questo Vermin, per passare una lieta serata di disgusto ragnesco, sì, ma anche umano.   

Sébastien Vanicek è il regista e co-sceneggiatore della pellicola, al suo primo lungometraggio. Anche attore, è stato designato come regista del prossimo spin-off de La casa.


Se Vermin vi fosse piaciuto, recuperate senza indugio Aracnofobia, Attack the Block e la saga di Rec. ENJOY!


martedì 16 luglio 2024

Il Bollalmanacco On Demand: Phenomena (1985)

Torna il Bollamanacco on Demand con Phenomena, film richiesto da Arwen chissà quanto tempo fa. Mi spezza il cuore che Laura non possa più leggere né commentare le stupidate che scrivo su questo blog ma non smetterò mai di ringraziarla per tutti i film che mi ha spinto (e ancora mi spingerà, prossimamente) a vedere o riguardare. Nel piccolo della nostra comunità di blogger, non esisterà mai una cinefila appassionata come lei. 


Trama: Jennifer, figlia di un famoso attore americano, viene iscritta in un collegio svizzero. Nei pressi, un feroce serial killer fa scempio di ragazzine e Jennifer, per salvarsi dalle mire di costui, dovrà ricorrere al suo potere ESP, che le consente di comunicare con gli insetti...


Durante la visione di Abigail, il mio amico Ale ha dichiarato di avere apprezzato molto la citazione della "piscina di Phenomena", e io mi sono resa conto di non ricordare più una mazza di un film visto 30 anni fa e poi mai più. Ho quindi appreso con gioia che l'On Demand del mese era proprio Phenomena e, avendolo rivisto con Abigail ancora fresco in mente, posso confermare senza timore che il buon Ale aveva ragione, le piscine dei due film possono essere tranquillamente cugine, se non sorelle, e mi causano conati profondi allo stesso modo. Così non è invece per Phenomena, un'ottima pellicola del periodo in cui il nome Dario Argento era ancora una garanzia, benché forse si tratti di un'opera dallo stile inusuale rispetto al resto della sua filmografia. Phenomena è infatti una fiaba nera avente per protagonista una ragazzina col potere di comunicare con gli insetti e, se è vero che la vicenda la vede impegnata contro un serial killer, l'ambientazione e tutta una serie di altri elementi sono distanti da quelli dei violenti thriller del regista. Ci sono alcune caratteristiche che lo accomunano a Suspiria, come il fatto che la protagonista sia una ragazza costretta a frequentare una scuola in un paese straniero e che l'ambiente scolastico non sia proprio amichevole, ma in Suspiria il fulcro era proprio l'Accademia di danza e tutto ciò che essa nascondeva, qui invece il cuore della storia è Jennifer, una divinità (o un demone?) in miniatura che fin dal principio risulta essere un gradino sopra le sue coetanee. Jennifer è diversa dagli altri: bellissima, figlia di un attore famosissimo, ama gli insetti e loro la amano di rimando, al punto da aiutarla e difenderla quando la sua diversità la porta ad entrare in risonanza con la mente di un assassino. Jennifer è la principessa della fiaba, l'eroina se vogliamo, ma non è soltanto una bella figurina vuota. Diversamente da altre protagoniste argentiane, Jennifer gode di quel minimo approfondimento psicologico che ci fa capire come la solitudine derivante dall'avere un padre famoso e sempre impegnato sia ulteriormente accresciuta da un potere misterioso che la rende diversa dagli altri, e ciò consente allo spettatore di sviluppare maggiore empatia nei suoi confronti, cosa che rende l'orrore di cui è permeato il film ancora più efficace.


Se il sembiante di Jennifer e l'ambientazione svizzera con in suoi boschi da cui non si riesce ad uscire (per non parlare della casa della "strega" nel prefinale) evocano tantissimo l'idea di una fiaba nera, molte immagini e sequenze del film hanno connotazioni fortemente oniriche e le qualità di un incubo, come se la protagonista non le mettesse effettivamente a fuoco o fosse soverchiata dall'orrore degli avvenimenti. Tante cose che accadono nel film, infatti, non hanno una spiegazione logica, oppure vengono mostrate all'improvviso senza nessuna correlazione con ciò che è accaduto in precedenza, ma non lo ritengo un difetto, quanto piuttosto il frutto della volontà di creare un'opera potente ed evocativa, in grado di inquietare a prescindere dalla violenza che viene messa in scena quando il killer colpisce. Altri elementi che danno un tocco surreale al tutto sono il voice over del narratore quando Jennifer arriva a scuola (voce che non si sentirà più per il resto del film), la presenza di una scimmia "infermiera", il suono costante del vento, emblema di follia, e, soprattutto, la spettacolare colonna sonora dei Goblin (il tema portante del film è il fiore all'occhiello di Argento Vivo, CD acquistato in Australia e consumato a furia di ascoltarlo) intervallata da pezzi originali di Iron Maiden e altri gruppi "delicatissimi". Dulcis in fundo, c'è Jennifer Connelly. Io non so come sia possibile l'esistenza di un essere umano così bello, ma la Connelly, all'età di quattordici anni, aveva un volto perfetto e un magnetismo che le giovani attrici di oggi si sognano; più che altro, la cosa che stupisce, è che in Labyrinth sembra molto più "bambina", mentre sia  Sergio Leone che Dario Argento sono riusciti a tirarle fuori un'ombra di nobile alterigia nello sguardo e nell'espressione, un dettaglio che la rende adulta, quasi ultraterrena. E pensare che Argento poi ha fatto solo dei gran pasticci, soprattutto a livello di direzione degli attori. E' un vero peccato che abbia sparato tutte le ultime cartucce con Phenomena, ma da un certo punto di vista meno male, altrimenti non esisterebbe questo piccolo, originalissimo gioiello!


Del regista e co-sceneggiatore Dario Argento, che funge anche da narratore, ho già parlato QUI. Jennifer Connelly (Jennifer Corvino), Daria Nicolodi (Frau Brückner), Donald Pleasence (Professor John McGregor), Michele Soavi (Kurt, l'assistente di Geiger) li trovate invece ai rispettivi link.


Nel cast ci sono che Dalila Di Lazzaro nei panni della direttrice dell'istituto e Fiore Argento, che interpreta Vera Brandt. Nel 2001 era stato annunciato un sequel ma, siccome Dario Argento era sotto contratto con la Medusa, il progetto è sfumato. Ciò detto, se Phenomena vi fosse piaciuto recuperate Suspiria. ENJOY!

venerdì 12 luglio 2024

Horizon: An American Saga - Capitolo 1 (2024)

Lo scorso venerdì ho trascinato il povero Bolluomo al cinema per vedere Horizon: An American Saga - Capitolo 1 (Horizon: An American Saga - Chapter 1), il mastodonte di tre ore diretto e co-sceneggiato da Kevin Costner.


Trama: a partire dal 1859, i destini di diverse persone si legano a Horizon, città di frontiera dell'Arizona, terra contesa tra coloni e Apache...


Da che mondo e mondo, io di western non so veramente nulla. Tuttavia, sono anche una bimba degli anni '80 e sono cresciuta con Kevin Costner e i suoi successi del decennio successivo, quindi un po' gli voglio bene, inoltre mi aveva incuriosita l'idea che tenesse così tanto a portare Horizon su grande schermo da arrivare persino a indebitarsi. Sono dunque andata al cinema colma di curiosità ma senza aspettarmi granché, e adesso mi ritrovo qui con una scimmia colossale, che mi saltella impaziente sulla schiena continuando a chiedermi "quando arriva agosto?" e che sbraita terrorizzata all'idea che il multisala chiuda per ferie proprio in quei giorni, impedendomi di sapere come continuerà la saga imbastita in questo primo capitolo di Horizon. Per scrivere un post imparziale e corretto sulla fatica di Kevin Costner dovrò dunque, innanzitutto, sedare la scimmia ricordandole che non si può giudicare un libro dalla copertina (o meglio, dalla prima parte di una saga potenzialmente divisa in quattro) e secondariamente che sono la persona meno adatta per parlare di western. Ne avrò visti un paio in tutta la mia vita, per di più contaminati con lo "spaghetti", non conosco minimamente i numi tutelari del genere come John Ford, di conseguenza non ho gli strumenti necessari per ritrovare la poetica tipica del genere all'interno del film di Costner o per capire eventuali omaggi tributati dal regista. Ciò nonostante, divoro libri e romanzi da quando ho memoria, ho una passione per le saghe zeppe di personaggi che si evolvono nel tempo e i cui destini si intrecciano (poi mi spiegherete perché faccio così fatica con quelle schifezze scritte da Martin, ma questa è un'altra faccenda...) e, mio malgrado, qualcosa nella storia dell'America, Paese che pur disprezzo, mi ha sempre affascinata. Horizon sarebbe una perfetta saga letteraria, ha il respiro epico e grandioso di quei romanzi fiume spessi come mattoni, eppure non ha la stessa pesantezza fisica di un blocco di cemento: tre ore sono passate come se fossero state una, e appena ho capito che la scena finale coincideva con l'inizio delle "anticipazioni della prossima puntata", ho bestemmiato ogni divinità conosciuta, per il dolore di dover abbandonare quei personaggi appena conosciuti e i cui destini mi avevano già irrimediabilmente coinvolta, senza sapere che ne sarebbe stato di loro e di Horizon, la città di frontiera del titolo. 


Horizon è il punto da cui si dipanano e verso cui convergono le esistenze dei protagonisti, nonché il simbolo di tutte le contraddizioni su cui è stato fondato il sogno americano. Territorio degli indiani Apache, vede scontrarsi due popoli ugualmente disperati, ognuno per motivi diversi. Gli indiani vorrebbero mantenere la propria libertà e la pace all'interno delle tribù, entrambe minacciate e minate irreparabilmente dall'espansionismo dei bianchi, che li costringono a lotte intestine per il cibo sempre più scarso; i coloni vedono territori immensi ed inesplorati, dove stanziarsi e prosperare, così da fuggire dalla povertà e far avverare tutte le promesse di una "gloriosa nazione" fondata sulla libertà del singolo e sull'autorealizzazione. C'è chi fugge da Horizon, segnato dalla tragedia, c'è chi si mette in cammino verso l'insediamento spinto dalla speranza, c'è chi è costretto a pensarlo come punto d'arrivo di una fuga precipitosa, c'è chi sparge sangue a causa di Horizon, c'è chi ci lucra senza farsi troppi problemi. Alla fine, neanche fosse Roma, tutte le strade portano a Horizon e Costner costruisce un affresco composto da tutte queste strade, concentrandosi sulle vicende individuali senza (per ora) perdere di vista la totalità dell'universo in cui sono ambientate. Ce n'è davvero per tutti i gusti, perché la sceneggiatura attinge ad archetipi immediatamente riconoscibili, e qualcuno potrebbe dire che le azioni e il carattere dei personaggi sono ampiamente prevedibili, ma non trovo nulla di male in questo, perché sembra di stare accanto al fuoco, ad ascoltare le storie che ci raccontavano i nonni, oppure in salotto davanti alla TV, a guardare film assieme a loro e ai nostri genitori.


Poi, per quanto me ne posso intendere io, ho trovato Horizon proprio bello da vedere. Costner indulge in gloriose panoramiche di paesaggi mozzafiato, accentuando la vastità delle pianure bruciate dal sole e anche la sensazione di sentirsi sperduti e vulnerabili in un luogo pieno di insidie, ma ha occhio anche per le foreste e l'inospitale freddo dei luoghi più a nord. Se, a tratti, la scelta di spezzettare la pellicola in tante microstorie, i cui fili si riallacciano in maniera non necessariamente consequenziale, può confondere e stordire lo spettatore (vittima di una miriade di nomi che sarà un casino ricordare da qui ad agosto), c'è comunque da dire che il montaggio è assai dinamico e le scene più concitate mettono un'ansia tremenda. Accompagnate da una colonna sonora che definirei epica, le tragedie e le stragi che passano su grande schermo stringono il cuore tanto quanto piccoli, inusuali gesti di umanità, e all'interno del nutrito cast c'è soltanto da scegliere il proprio preferito o quello che vorremmo vedere morto. Per quanto mi riguarda, non ho dubbi che la palma dell'abiezione vada a Jamie Campbell Bower e al suo "simpaticissimo" Caleb, campione indiscusso di una famiglia di facce di merda, mentre preferiti ne ho parecchi, anche se non saprei dire se il mio amore nasca dall'effettivo valore dei personaggi o dall'affetto che nutro per attori tirati fuori spesso dal genere che più mi si confà, l'horror. Senza dubbio, la versione "vecchietta" di Michael Rooker e quella saggia di Danny Huston mi hanno colpito più di altri, ma faccio davvero fatica a stilare una classifica, ora come ora (l'unica cosa che non perdono alla sceneggiatura, e che ha fatto ridere me e Mirco, è la quasi venerazione tributata a Frances e figlia, solo perché sono le uniche sopravvissute bionde all'interno di un insediamento fatto di poveracce dall'aspetto trasandato). Aspetterò dunque che le storie dei vari protagonisti si sviluppino ulteriormente, sperando che continuino in crescendo e che Kevin Costner non mi spezzi il cuore per la delusione, lasciandomi magari sospesa ad aspettare un terzo e un quarto film che non si faranno mai! 


Del regista e co-sceneggiatore Kevin Costner, che interpreta anche Hayes Ellison, ho già parlato QUI. Sienna Miller (Frances Kittredge), Sam Worthington (Trent Gephart), Jena Malone ('Ellen' Harvey), Giovanni Ribisi (Pickering), Danny Huston (Col. Albert Houghton), Abbey Lee (Marigold), Michael Rooker (Sergente maggiore Thomas Riordan), Will Patton (Owen Kittredge), Douglas Smith (Sig), Luke Wilson (Matthew Van Weyden), Isabelle Fuhrman (Diamond Kittredge), Dale Dickey (Mrs. Sykes), Jeff Fahey (Tracker) e Jamie Campbell Bower (Caleb Sykes) li trovate invece ai rispettivi link. 

Tom Payne interpreta Hugh Proctor. Inglese, lo ricordo come Jesus di The Walking Dead ma ha partecipato ad altre serie come Fear the Walking Dead e a film quali Imaginary. Anche produttore, ha 42 anni e due film in uscita, tra cui ovviamente Horizon: An American Saga - Capitolo 2.


Jon Beaver
s, che interpreta Junior Sykes, era il marito della pazza protagonista di Soft and Quiet mentre Ella Hunt, che interpreta Juliette Chesney, era la Anna di Anna and the Apocalypse. Hayes Costner, invece, è il figlio di Kevin ed ha esordito proprio qui col ruolo dello sfortunato Nathaniel Kittredge. Il film è stato pensato come il primo di quattro capitoli, ma chissà se gli ultimi due verranno mai alla luce... nel frattempo, ad agosto dovrebbe uscire Horizon: An American Saga - Capitolo 2 e io non vedo l'ora!

martedì 9 luglio 2024

Notte Horror 2024: Streghe (1989)

Benvenuti al secondo spettacolo della Notte Horror di stasera! Se vi siete persi il film precedente correte QUI sul blog Solaris, dove Sauro vi rinfrescherà un po' con un cult natalizio, poi tornate da me, perché stiamo per parlare di Streghe, diretto e co-sceneggiato nel 1989 dal regista Alessandro Capone. Questo post, come del resto la Notte Horror 2024, è interamente dedicato a Laura, la nostra Arwen Lynch, che ha sempre partecipato con passione all'iniziativa e che respirava Cinema, di qualsiasi genere. Secondo me, con questa ottantarata italoammeregana si sarebbe molto divertita. ENJOY!


Trama: dopo la morte dei genitori, Ed e Carol vanno a visitare la casa dei nonni paterni con degli amici e una cugina, senza sapere che l'edificio è maledetto...


Streghe
è il tipico filmaccio horror italiano girato in America, con attori del luogo e con vibes derivanti dai successi d'oltreoceano. Per essere stato realizzato da un esordiente come Alessandro Capone, al suo primo lavoro dietro la macchina da presa, è venuto anche troppo bene, e gode di un'ottima sequenza introduttiva, durante la quale una strega viene bruciata viva tra maledizioni che avrebbero fatto invidia a quelle de Les rois maudits. A dire il vero, tutto l'incipit del film è molto bello e, per un attimo, mi ha ingannata. Benché la trama cominci a scricchiolare fin da subito, ciò concorre a conferire a Streghe una qualità onirica alimentata da dettagli inquietanti e topoi horror come ragazzine di bianco vestite che giocano con la palla (la memoria, per chi è rimasta traumatizzata da La casa 3 come la sottoscritta, corre dritta a Henrietta. Ciao, Henrietta!), preti che scompaiono così come sono arrivati, folate di vento pazzerello all'interno di edifici chiusi e così via. Questi elementi verranno riproposti più volte nel corso di Streghe, purtroppo affiancati a una trama principale debitrice de La casa di Raimi, che costringe lo spettatore a sopportare per almeno mezz'ora i discorsi e le cretinate dei ventenni più odiosi del creato mondo, prima che vengano giustamente ridotti a poltiglia in modi fantasiosi. Anche qui, il mio sentimento è ambivalente, perché quanto di cheesy è presente in Streghe è legato a filo doppio con questi scappati di casa, e voi sapete quanto ami la cheesiness. Solo per farvi un paio di esempi: c'è un roscio connotato semplicemente come "il ciccione disgustoso", perché mangia da far schifo ai porci, la bionda scangiata che, d'amblé, decide di fare uno strip-tease per tutti i suoi amici su un tavolo zeppo di secchielli del KFC (toccandosi ampiamente il chiulo ripetendo "Adoro il mio chiulo". Io boh), la ragazza di colore la cui unica particolarità, come da frase pronunciata da lei stessa, è "ho 21 anni e sono nera", e infine due lontani cugini che limonano spinti da insana attrazione sessuale (eew al cubo). Gli attori, come potete immaginare, sono dei cani inauditi ai quali non giova un doppiaggio italiano in cui si fa ricorso al doppiatore del Puffo Quattrocchi, se non ho inteso male, e l'unica che salva la baracca è l'affascinante, cattivissima strega di Deanna Lund. Oddio, l'altro attore conosciuto sarebbe Ian Bannen, ma probabilmente era ubriaco durante le riprese, o non si spiegano la capigliatura da nido di chiurlo esibita dal suo prete, né la faccia perennemente stralunata di chi è indeciso tra vomitare su chi è incautamente andato a chiedergli aiuto o mandarlo a quel paese. 


A parte questi tocchi di sciatteria, e una motosega che comunque riesce a funzionare sott'acqua, Streghe non è da buttare. Sarà la nostalgia canaglia che mi prende quando guardo questo genere di film, nei quali le incongruenze della trama alimentano la sensazione di un Male talmente potente e infingardo da stravolgere le regole della logica e della consecutio temporum, oppure quell'angoscia malcelata che mi provoca il pensiero della tenacia di questo stesso Male, che torna anche dopo anni, quando tu ormai sei tranquillo e neppure ci pensi più, ma Streghe mi ha soddisfatta più di altri suoi cuginastri. Sono infatti apprezzabili un certo gusto per il gore, che non risparmia nemmeno i bambini, e una bella fotografia che rende luminose anche le scene più cupe, in particolare durante un paio di sequenze labirintiche, dove i personaggi vagano sperduti all'interno di edifici abbandonati. Si vede che Capone era realmente appassionato di horror, ed è riuscito a costruire un collage di tutto quello che lo affascinava al momento, senza mai superare la somma delle parti né eguagliarle, ma senza nemmeno fare troppi danni: buona parte dei dialoghi cita apertamente titoli di film e serie horror (se ci pensate, una cosa che adesso si fa sempre più spesso, per accattivarsi lo spettatore appassionato, ma che forse all'epoca non era così diffusa), e anche chi è mediamente appassionato non avrà difficoltà a riconoscere i deadites de La casa, la palla di Nightmare 3 - I guerrieri del sogno, la già nominata Henrietta e un finale che strizza l'occhio a L'esorcista, dove il bene e il male si confrontano sfidandosi a chi urla più forte. Una sfida apparentemente sciocca e una sequenza neppure troppo entusiasmante, non fosse per un particolare: gli strilli e, soprattutto, l'espressione di dolore e paura della piccola attrice che interpreta Rachel si fanno palesemente più realistici nell'esatto momento in cui viene investita dall'esplosione di una finestra a pochi metri di distanza. A pensare male si fa peccato, ma temo che quella poveraccia non abbia un gran ricordo di Streghe. Guardatelo, e ditemi se non ho ragione!

Alessandro Capone è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Nato a Roma, ha diretto episodi di serie quali Detective Extralarge, Distretto di polizia e I delitti del cuoco. Anche attore e produttore, ha 69 anni.


Ian Bannen
interpreta Padre Matthew. Scozzese, ha partecipato a film come Quel maledetto treno blindato, Gli occhi del parco, Gandhi, Braveheart - Cuore impavido e Svegliati Ned. E' morto nel 1999, all'età di 71 anni.


In Germania il film è uscito come sequel di Strega per un giorno, mentre in America lo hanno distribuito come sequel de La casa di Mary. Ovviamente, non c'entra niente con nessuno dei due! E ora, prima di chiudere, vi ricordo gli altri contributi già disponibili della Notte Horror, che vi invito a leggere. Controllate il bannerone per vedere cosa vi aspetta nelle prossime settimane!!

La Bara Volante - C.H.U.D

Il Zinefilo - 666 - Il triangolo maledetto

Solaris - Black Christmas



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