La settimana scorsa sono riuscita anche a recuperare Queer, diretto nel 2024 dal regista Luca Guadagnino e tratto dal romanzo omonimo di William S. Burroughs.
Trama: William Lee è uno scrittore che passa le giornate in Messico tra alcool, droga e la ricerca di giovani ragazzi da portare a letto. Un giorno, si invaghisce di Eugene Allerton, un giornalista di passaggio dal comportamento ambiguo...
Piccolissimo disclaimer: non conosco Burroughs. Avevo letto, durante gli anni dell'università, Il pasto nudo, per cercare di comprendere e dare un senso al film omonimo di David Cronenberg, ma era stata un'esperienza ancora più straniante della precedente visione. Queer non l'ho mai letto e, poiché nel frattempo le poche cose che ricordavo de Il pasto nudo e della biografia di Burroughs si sono sfocate all'interno della mia mente, partivo con una buona base di ignoranza. Di conseguenza, non pretendo che questo post sia una critica esatta ed inconfutabile dell'ultimo film di Guadagnino, anzi, sarei molto felice che nei commenti arrivassero quelli che hanno amato la pellicola ad esporre le loro ragioni, possibilmente senza insultarmi. Per quanto mi riguarda, infatti, Queer è, al momento, la pellicola del regista che ho apprezzato di meno tra quelle viste. L'ho trovata, molto più delle altre, un lavoro di ricamo sul nulla, che non è riuscito affatto ad entusiasmarmi né ad incuriosirmi. Queer è diviso in tre capitoli: il primo ambientato in Messico, il secondo in Sudamerica, il terzo nella Foresta Equatoriale. I primi due capitoli li ho trovati una lunghissima, ripetitiva introduzione ai concetti un po' più corposi dell'ultima tranche di film, visionaria e talvolta anche commovente. Lo spettatore, infatti, è costretto a testimoniare l'indolente (ed indulgente) quotidianità di William Lee, scrittore benestante che, non vergando mai un rigo né battendo un singolo tasto della macchina da scrivere, passa le serate a fare cruising da un bar all'altro, talvolta rimediando un incontro notturno, più spesso tornado a casa sempre più triste, solo ed ubriaco. Attorno a lui, come le cosiddette "mosche da bar" dell'omonimo film di Buscemi, ronza un variegato microcosmo di uomini queer, perdigiorno quanto Lee, dall'atteggiamento più o meno predatorio e tutti più o meno inutili all'economia della vicenda, che si avvia davvero solo quando subentra la presenza di Eugene. Di quest'ultimo, un giornalista, Lee si invaghisce perdutamente, nonostante il suo atteggiamento ambiguo e prevalentemente disinteressato; buona parte del film verte sui grotteschi, talvolta imbarazzanti tentativi di Lee di approcciare, conquistare Eugene e, in seguito, di tenere desto il suo interesse impedendogli di abbandonarlo. Un genere di vicenda, insomma, verso la quale ho avuto un'enorme difficoltà a provare qualsivoglia forma di interesse, tanto è ripetitiva e, apparentemente, vacua.
Dico apparentemente, perché nel momento in cui Queer entra nel terzo capitolo, qualcosa cambia. Intanto aumenta l'elemento ironico e grottesco, già molto presente nel film, e la sensazione di avere davanti una vicenda surreale, persa nel tempo e nello spazio. Inoltre, attraverso immagini oniriche e sequenze completamente scollegate dalla realtà, assume concretezza uno dei concetti chiave del film, una battura ripetuta più volte nel corso di Queer: "I’m not queer. I’m just disembodied". Il desiderio di trovare "un corpo" nella persona dello stesso sesso, di perdersi in esso, di diventare, finalmente, integro e reale; ma, anche, il dolore di sentirsi dissociati dal nostro stesso essere, a causa delle circostanze o di una società che prova disgusto nei nostri confronti. Allora, acquista più senso anche una primo atto ripetitivo, dove il cruising diventa la disperata ricerca del protagonista di qualcosa che gli dia un senso, che lo ancori in una parvenza di sé stesso portata via da "pilastri" instabili come droga ed alcool. E acquista più senso anche il comportamento di Eugene, probabilmente in cerca, a sua volta, di un corpo, un'identità in cui identificarsi, che potrebbe essere Lee ma anche qualcun altro; d'altronde, Eugene, a differenza di Lee, è giovane ed è comprensibile che senta di avere ancora tutta una vita di esperienze davanti, là dove Lee, invece, sente di non avere quasi più occasioni per diventare integro. O magari sto sbagliando tutto, anche perché Queer è zeppo di citazioni che rimandano alla vita di Burroughs, alcune colte grazie proprio alla passata visione de Il pasto nudo, altre sicuramente perse senza nemmeno rendermene conto.
Date queste premesse, Queer è un film che non riguarderei, perché, pur con tutte le riflessioni che mi ha suscitato, nate dal desiderio di andare oltre un "non fa per me", è, in effetti, un'opera che mi ha lasciato ben poco. Oggettivamente parlando, invece, posso dire che l'ho trovato un bel film. Innanzitutto, ha una bellissima colonna sonora, che mescola lo score originale degli ormai immancabili Trent Reznor e Atticus Ross a successi più o meno conosciuti che hanno ben poco a che fare con l'epoca in cui è ambientata la vicenda (salvo la tradizionale Malaguena), con due canzoni dei Nirvana e persino New Order, Prince e Verdena; in particolare per quanto riguarda i Nirvana, Guadagnino ha dichiarato di aver voluto creare una sorta di "ponte" tra la personalità di Burroughs e l'audience attuale, in quanto sia i Nirvana che lo scrittore erano molto sensibili a temi quali la depressione, il dolore e il sentirsi outsider all'interno della società contemporanea. Ho inoltre apprezzato il ricorso di Guadagnino a sequenze oniriche, tra momenti più "lirici" e altri che ho interpretato come omaggi da incubo al Pasto Nudo di Cronenberg, e, ovviamente, mi è piaciuta molto l'interpretazione di Daniel Craig. L'attore si è immerso completamente in un personaggio dalla personalità complessa e per nulla accattivante, riuscendo a camminare sul filo sottile che separa il disgusto e l'abbruttimento (onestamente, ho provato per Lee la stessa repulsione provata per il Berlusconi di Sorrentino in Loro, verso un vecchio predatore che sbava davanti alle grazie giovanili) da un'umanissima e profonda tristezza, una solitudine infinita che può suscitare solo compassione e pietà. Tutto questo, senza mai risultare patetico, anzi, spesso l'attore abbraccia una vis grottesca che è perfetta per quel poco che ricordo dello stile di Burroughs. Riassumendo, dunque, Queer non è un film "per me", ma non mi sento di sconsigliarlo. Posso solo assicurarvi che non è la mattonata sulle palle che temevo, già solo per quello il mio consiglio è quello di provare e "vedere"; astenetevi solo se, come il Bolluomo, amate le pellicole con un inizio, una trama fatta di cause ed effetti, e una fine che concretizzi un qualche "risultato", perché Queer non è proprio il film che fa per voi (infatti, conoscendolo, gliel'ho risparmiato!).
Del regista Luca Guadagnino ho già parlato QUI. Daniel Craig (William Lee), Jason Schwartzman (Joe Guidry), Ariel Schulman (Tom Weston) e David Lowery (Jim Cochran) li trovate invece ai rispettivi link.
Drew Starkey interpreta Eugene Allerton. Americano, ha partecipato a film come American Animals, Le strade del male, Hellraiser e serie quali Scream: la serie. Ha 32 anni e un film in uscita, Onslaught, la nuova pellicola di Adam Wingard.
Se Queer vi fosse piaciuto, recuperate Chiamami col tuo nome e Il pasto nudo. ENJOY!