martedì 29 aprile 2025

Queer (2024)

La settimana scorsa sono riuscita anche a recuperare Queer, diretto nel 2024 dal regista Luca Guadagnino e tratto dal romanzo omonimo di William S. Burroughs.


Trama: William Lee è uno scrittore che passa le giornate in Messico tra alcool, droga e la ricerca di giovani ragazzi da portare a letto. Un giorno, si invaghisce di Eugene Allerton, un giornalista di passaggio dal comportamento ambiguo...


Piccolissimo disclaimer: non conosco Burroughs. Avevo letto, durante gli anni dell'università, Il pasto nudo, per cercare di comprendere e dare un senso al film omonimo di David Cronenberg, ma era stata un'esperienza ancora più straniante della precedente visione. Queer non l'ho mai letto e, poiché nel frattempo le poche cose che ricordavo de Il pasto nudo e della biografia di Burroughs si sono sfocate all'interno della mia mente, partivo con una buona base di ignoranza. Di conseguenza, non pretendo che questo post sia una critica esatta ed inconfutabile dell'ultimo film di Guadagnino, anzi, sarei molto felice che nei commenti arrivassero quelli che hanno amato la pellicola ad esporre le loro ragioni, possibilmente senza insultarmi. Per quanto mi riguarda, infatti, Queer è, al momento, la pellicola del regista che ho apprezzato di meno tra quelle viste. L'ho trovata, molto più delle altre, un lavoro di ricamo sul nulla, che non è riuscito affatto ad entusiasmarmi né ad incuriosirmi. Queer è diviso in tre capitoli: il primo ambientato in Messico, il secondo in Sudamerica, il terzo nella Foresta Equatoriale. I primi due capitoli li ho trovati una lunghissima, ripetitiva introduzione ai concetti un po' più corposi dell'ultima tranche di film, visionaria e talvolta anche commovente. Lo spettatore, infatti, è costretto a testimoniare l'indolente (ed indulgente) quotidianità di William Lee, scrittore benestante che, non vergando mai un rigo né battendo un singolo tasto della macchina da scrivere, passa le serate a fare cruising da un bar all'altro, talvolta rimediando un incontro notturno, più spesso tornado a casa sempre più triste, solo ed ubriaco. Attorno a lui, come le cosiddette "mosche da bar" dell'omonimo film di Buscemi, ronza un variegato microcosmo di uomini queer, perdigiorno quanto Lee, dall'atteggiamento più o meno predatorio e tutti più o meno inutili all'economia della vicenda, che si avvia davvero solo quando subentra la presenza di Eugene. Di quest'ultimo, un giornalista, Lee si invaghisce perdutamente, nonostante il suo atteggiamento ambiguo e prevalentemente disinteressato; buona parte del film verte sui grotteschi, talvolta imbarazzanti tentativi di Lee di approcciare, conquistare Eugene e, in seguito, di tenere desto il suo interesse impedendogli di abbandonarlo. Un genere di vicenda, insomma, verso la quale ho avuto un'enorme difficoltà a provare qualsivoglia forma di interesse, tanto è ripetitiva e, apparentemente, vacua. 


Dico apparentemente, perché nel momento in cui Queer entra nel terzo capitolo, qualcosa cambia. Intanto aumenta l'elemento ironico e grottesco, già molto presente nel film, e la sensazione di avere davanti una vicenda surreale, persa nel tempo e nello spazio. Inoltre, attraverso immagini oniriche e sequenze completamente scollegate dalla realtà, assume concretezza uno dei concetti chiave del film, una battura ripetuta più volte nel corso di Queer: "I’m not queer. I’m just disembodied". Il desiderio di trovare "un corpo" nella persona dello stesso sesso, di perdersi in esso, di diventare, finalmente, integro e reale; ma, anche, il dolore di sentirsi dissociati dal nostro stesso essere, a causa delle circostanze o di una società che prova disgusto nei nostri confronti. Allora, acquista più senso anche una primo atto ripetitivo, dove il cruising diventa la disperata ricerca del protagonista di qualcosa che gli dia un senso, che lo ancori in una parvenza di sé stesso portata via da "pilastri" instabili come droga ed alcool. E acquista più senso anche il comportamento di Eugene, probabilmente in cerca, a sua volta, di un corpo, un'identità in cui identificarsi, che potrebbe essere Lee ma anche qualcun altro; d'altronde, Eugene, a differenza di Lee, è giovane ed è comprensibile che senta di avere ancora tutta una vita di esperienze davanti, là dove Lee, invece, sente di non avere quasi più occasioni per diventare integro. O magari sto sbagliando tutto, anche perché Queer è zeppo di citazioni che rimandano alla vita di Burroughs, alcune colte grazie proprio alla passata visione de Il pasto nudo, altre sicuramente perse senza nemmeno rendermene conto.


Date queste premesse, Queer è un film che non riguarderei, perché, pur con tutte le riflessioni che mi ha suscitato, nate dal desiderio di andare oltre un "non fa per me", è, in effetti, un'opera che mi ha lasciato ben poco. Oggettivamente parlando, invece, posso dire che l'ho trovato un bel film. Innanzitutto, ha una bellissima colonna sonora, che mescola lo score originale degli ormai immancabili Trent Reznor e Atticus Ross a successi più o meno conosciuti che hanno ben poco a che fare con l'epoca in cui è ambientata la vicenda (salvo la tradizionale Malaguena), con due canzoni dei Nirvana e persino New Order, Prince e Verdena; in particolare per quanto riguarda i NirvanaGuadagnino ha dichiarato di aver voluto creare una sorta di "ponte" tra la personalità di Burroughs e l'audience attuale, in quanto sia i Nirvana che lo scrittore erano molto sensibili a temi quali la depressione, il dolore e il sentirsi outsider all'interno della società contemporanea. Ho inoltre apprezzato il ricorso di Guadagnino a sequenze oniriche, tra momenti più "lirici" e altri che ho interpretato come omaggi da incubo al Pasto Nudo di Cronenberg, e, ovviamente, mi è piaciuta molto l'interpretazione di Daniel Craig. L'attore si è immerso completamente in un personaggio dalla personalità complessa e per nulla accattivante, riuscendo a camminare sul filo sottile che separa il disgusto e l'abbruttimento (onestamente, ho provato per Lee la stessa repulsione provata per il Berlusconi di Sorrentino in Loro, verso un vecchio predatore che sbava davanti alle grazie giovanili) da un'umanissima e profonda tristezza, una solitudine infinita che può suscitare solo compassione e pietà. Tutto questo, senza mai risultare patetico, anzi, spesso l'attore abbraccia una vis grottesca che è perfetta per quel poco che ricordo dello stile di Burroughs. Riassumendo, dunque, Queer non è un film "per me", ma non mi sento di sconsigliarlo.  Posso solo assicurarvi che non è la mattonata sulle palle che temevo, già solo per quello il mio consiglio è quello di provare e "vedere"; astenetevi solo se, come il Bolluomo, amate le pellicole con un inizio, una trama fatta di cause ed effetti, e una fine che concretizzi un qualche "risultato", perché Queer non è proprio il film che fa per voi (infatti, conoscendolo, gliel'ho risparmiato!). 


Del regista Luca Guadagnino ho già parlato QUI. Daniel Craig (William Lee), Jason Schwartzman (Joe Guidry), Ariel Schulman (Tom Weston) e David Lowery (Jim Cochran) li trovate invece ai rispettivi link.

Drew Starkey interpreta Eugene Allerton. Americano, ha partecipato a film come American Animals, Le strade del male, Hellraiser e serie quali Scream: la serie. Ha 32 anni e un film in uscita, Onslaught, la nuova pellicola di Adam Wingard


Se Queer vi fosse piaciuto, recuperate Chiamami col tuo nome e Il pasto nudo. ENJOY!

lunedì 28 aprile 2025

Sinners - I peccatori (2025)

Martedì scorso, io e i miei amici abbiamo dovuto scegliere tra due film horror/thriller, nella speranza che ne avrebbero tenuto ancora uno questa settimana. Siccome, visto che il nostro multisala è MOLTO illuminato, per non sbagliare li hanno tolti entrambi, ci è andata molto di culo avere scelto Sinners - I peccatori (Sinners), diretto e sceneggiato dal regista Ryan Coogler, invece di Drop.


Trama: nel Mississippi degli anni '30, i gemelli Smoke e Stack tornano a casa dopo un periodo passato a Boston, per aprire un juke joint. Per l'inaugurazione, i due uomini chiamano in aiuto amici, parenti e amanti, ma non hanno fatto i conti con l'orrore pronto a bussare alla porta e a mandare in frantumi tutti i loro sogni...


Non pretendo di essere fine conoscitrice del cinema di Ryan Coogler, di cui ho visto e apprezzato giusto Creed, prima che cadesse nell'immondezzaio del MCU con uno dei franchise più paraculi e sopravvalutati dell'intera baracca. Di sicuro, però, non mi aspettavo che, da questo immondezzaio, si sarebbe risollevato affrontando uno dei generi più difficili, l'horror, e uscendo a testa altissima dall'impresa. Ora come ora, infatti, I peccatori è, per quanto mi riguarda, l'horror più bello dell'anno, più bello ancora di Nosferatu, e dubito verrà superato da qualsiasi altra opera di genere distribuita da una major grossa come la Warner. Ripongo ancora fiducia in qualche lavoro indipendente, ma intanto il mio consiglio è quello di recuperare I peccatori sullo schermo più grosso che potete, possibilmente in lingua originale (io, purtroppo, non ho avuto questo onore); questo perché I peccatori è un musical, ed è molto fastidioso lo stacco tra le splendide canzoni presenti nel film e i dialoghi interpretati con una voce completamente diversa. C'è anche tutta la questione degli accenti e di quel "negro" che, sentito in italiano, mi fa cadere le palle, ma probabilmente sono cose che infastidiscono solo i malati "linguisti" come me. Comunque, prima che fuggiate inorriditi dalla parola "musical", lasciatemi spiegare un attimo. Non è che nel film di Coogler troverete gente che, come in Joker - Folie à Deux, comincia ad esprimere i suoi sentimenti cantando, ma la musica è una componente fondamentale del substrato culturale alla base de I peccatori, tra jazz, blues e ballate folk. Talmente fondamentale, in effetti, che bisognerebbe essere molto ferrati in materia per apprezzare al meglio rimandi e omaggi disseminati all'interno del film; ma, nel caso foste ignoranti come la sottoscritta, I peccatori riesce a parlare di argomenti non banali come il desiderio di appartenenza a una comunità che fa a pugni con quello di libertà, di culture depredate, di falsa sicurezza, di speranze infrante e di profonda solitudine. E' un film, I peccatori, in cui anche i demoni hanno qualcosa da dire, e sono mossi da qualcosa di ben diverso dal semplice desiderio di uccidere o nutrirsi. Si potrebbe affermare che li spinge un'utopia nata da presupposti distorti, ma lo stesso piena di attrattive, soprattutto in una società dove il colore della pelle è un pericolosissimo stigma e dove le tradizioni, la memoria comune, sono l'unico modo di non soccombere, perdendosi.


Ne I peccatori, i personaggi fuggono "da" qualcosa oppure "verso" qualcosa, ben pochi riescono a trovare un equilibrio nella stasi e a scendere a patti col dolore del passato e del presente. A prescindere da quale sia il loro pensiero, comunque, sono tutti molto approfonditi e, se non fosse per le splendide immagini che graziano la parte "notturna" e horror de I peccatori, verrebbe quasi da dire che è molto più interessante il lavoro d'introduzione diurno del film, che fa entrare i protagonisti nel cuore dello spettatore, rendendo assai più straziante la separazione seguente. E' una struttura presa direttamente dall'adorato Dal tramonto all'alba, così come la contaminazione di generi e la natura ambigua dei personaggi, il cui animo è sfumato in varie gradazioni di grigio; i gemelli Smoke e Stack sono due gangster violenti, ma è impossibile non amarli, Slim è un adorabile ubriacone senza speranza, il giovanissimo Preacher Boy sogna la libertà dai dogmi del padre e scopre il sesso e l'amore nel giorno più brutto della sua breve vita, Annie e Mary sono vittime di un dolore inenarrabile, e verrebbe voglia di conoscere le storie di ognuno di loro, da tanto I peccatori è ricco di potenziale epico e narrativo. Agli echi di Dal tramonto all'alba, si aggiungono quelli di un Mississippi Burning e, soprattutto, di un La baia di Eva. Accanto alla triste realtà sociale di una terra ancora governata dal Klan, accanto all'orrore, c'è infatti la magia. Ignorata, temuta ma presente, la magia che annulla i confini tra passato e presente, veicolata da chitarre d'argento, o protegge le persone attraverso feticci voodoo, permea ogni fotogramma de I peccatori e si traduce nei molteplici riti di iniziazione che fanno crescere Preacher Boy; dalla splendida, magistrale sequenza in cui viene meno il concetto stesso di tempo, al faccia a faccia con la morte e il Demonio (che coincide con un "battesimo" profano e molto violento), passando per una delle scene di sesso più vere e coinvolgenti viste al cinema di recente, la magia tocca e trasforma Preacher Boy e, attraverso di lui, le sue dita e la sua voce, sconvolge la realtà riaffermando il regno del Caos alla faccia di qualsiasi pretesa di controllo e autorità umana.


E la magia più grande, neanche a dirlo, è quella del Cinema, con la C maiuscola. Coogler e la direttrice della fotografia Autumn Durald hanno scelto di girare il film su pellicola, usando due diversi formati, e il risultato sono inquadrature diurne di ampissimo respiro, quasi simili a quelle di un western, dai colori e dalle ombre caricatissimi, seguite da scene notturne nitide e calde, dove la macchina da presa sembra quasi danzare tra i corpi sudati dei clienti del juke joint. Il montaggio, invece, non solo scandisce il ritmo delle scene più violente del film, ma agisce in perfetta sinergia con la splendida colonna sonora di Ludwig Göransson e, soprattutto sul finale, alimenta un crescendo di tensione tale che quasi non riuscivo a stare ferma sulla sedia. A proposito della colonna sonora, avrei voluto che Mirco, provetto bassista, fosse accanto a me al cinema, perché avrebbe potuto aiutarmi a dire qualcosa di sensato e ficcante; da ignorante, posso solo dire che il mix di jazz, blues, canzoni originali, ballate folk, ritmi forsennati di basso e chitarre elettriche che sembrano volere squarciare il velo della realtà, è perfetto per l'atmosfera de I peccatori ed è una delle poche colonne sonore che ho avuto voglia di riascoltare appena uscita dal cinema. Un plauso, infine, va al cast. Michael B. Jordan si sdoppia, letteralmente, ed è talmente bravo nel dare vita a due gemelli dal carattere molto diverso, che ho avuto dubbi fino all'inizio dei titoli di coda sul fatto che fosse veramente un solo attore ad interpretarli. Ciò detto, il resto del cast arriva talvolta ad eclissarlo. L'esordiente Miles Caton buca lo schermo, Delroy Lindo è un mattatore coi fiocchi, Jack O' Connel entra con grazia nel novero dei vampiri cinematografici più carismatici di sempre, e la splendida Wunmi Mosaku scalda il cuore con la sua sola presenza e la sua Annie è, senza dubbio, il mio personaggio preferito di tutto il film. Concludo dicendo che, appena uscita dalla sala, sarei corsa dentro per riguardare il film da capo, e non vedo l'ora di riguardarlo in v.o. appena possibile, per godermelo ancora di più. Correte al cinema, non perdetevi questa meraviglia!


Del regista e sceneggiatore Ryan Coogler ho già parlato QUIMichael B. Jordan (Smoke/Stack), Wunmi Mosaku (Annie) e  Hailee Steinfeld (Mary) li trovate invece ai rispettivi link.

Jack O'Connell interpreta Remmick. Inglese, ha partecipato a film come Eden Lake e Harry Brown. Anche produttore e regista, ha 35 anni e un film in uscita, 28 anni dopo. 


Delroy Lindo interpreta Delta Slim. Americano, ha partecipato a film come Malcom X, Get Shorty, L'avvocato del diavolo, Una vita esagerata, Le regole della casa del sidro, Il castello; come doppiatore ha lavorato in I Simpson e Robot Chicken. Anche produttore, ha 74 anni.


Se I peccatori vi fosse piaciuto recuperate i già citati Dal tramonto all'alba e La baia di Eva e aggiungete Il buio si avvicina. ENJOY!

mercoledì 23 aprile 2025

2025 Horror Challenge: Tutti i colori del buio (1972)

Chi ha creato la challenge horror che sto seguendo settimanalmente, per oggi proponeva di spulciare nella sua collezione di video e scegliere un film. E' toccato quindi a Tutti i colori del buio, diretto nel 1972 dal regista Sergio Martino.


Trama: Jane soffre di terribili incubi causati dall'omicidio della madre quando era ancora bambina e da un incidente stradale a causa del quale ha perso il figlio che portava in grembo. Quando l'omicida dei suoi incubi comincia a perseguitarla anche nella realtà, Jane si convince di essere pazza...


Tutti i colori del buio
è uno di quei film che ho sempre sentito nominare, che avrei sempre voluto vedere e che, ahimé, non ero mai riuscita a recuperare. L'ho fatto in occasione della challenge, dopo averne letto sul libro (che vi consiglio spassionatamente) House of Psychotic Women di Kier-La Janisse, sceneggiatrice e critica canadese, nonché fondatrice del Miskatonic Institute of Horror Studies. Capisco perché l'autrice ne abbia parlato sul libro: Tutti i colori del buio ha una protagonista psicotica da manuale, una final girl che, fino all'ultimo, non riesce a rendersi indipendente da tutti coloro che vorrebbero controllarla. Il film si apre, giustamente, con l'incubo di Jane, che propone in chiave onirico/horror i due traumi che ne hanno segnato l'esistenza. Accompagnate da una nenia assai simile a quella di Rosemary's Baby, le immagini che scorrono sullo schermo mostrano l'omicidio di una partoriente, quello di una donna molto simile a Jane e quello di una "simil Baby Jane", una terrificante vecchia/bambina, tutte uccise da un uomo dagli occhi di un azzurro irreale. Quando Jane si sveglia, sola in casa, veniamo introdotti alle tristi dinamiche che intercorrono tra lei e il compagno Richard, rappresentante farmaceutico quasi sempre in viaggio per lavoro, il quale non ha altra soluzione per i traumi della moglie (a lui taciuti, salvo ovviamente la perdita del bambino, perché "se gli raccontassi quello che è successo a mia madre non ci crederebbe") che imbottirla di inquietanti pastiglie bluastre e provare a fare sesso con lei, invano, una volta che le medicine hanno fatto effetto. Jane è la tipica protagonista dei gialli all'italiana. Vive in un lusso claustrofobico, passando dalle sigarette allo scotch per far passare intere giornate che si alternano tra il letto, il salotto e qualche passeggiata, perché lavorare fa brutto. In questo caso, alla noia alto-borghese si aggiunge il peso di una solitudine costante e di essere una compagna imperfetta incapace non solo di dare un figlio a questo fior fiore di maschio, ma anche di adempiere ai doveri di amante; il senso di colpa aumenta ulteriormente quando la donna si convince di essere davvero perseguitata dall'assassino dei suoi sogni, quindi di essere diventata definitivamente pazza. Il problema di Jane, come ho scritto sopra, è però la sua incapacità di essere indipendente, che la porta dapprima ad assecondare la sorella, che la vorrebbe in cura da uno psichiatra, poi una vicina di casa appena conosciuta, che le consiglia direttamente di affidarsi a un gruppo di satanisti (ottima scelta, per curare una presunta pazzia).


Per tutto il film Jane scappa, piange o chiede aiuto, perché la poveretta è talmente plagiata da chiunque (e trattata, alternativamente, come una povera mentecatta, una bambina o una bambolotta con cui fare sesso) da non saper fare altro. Il suo punto di vista distorto e "malato" accompagna lo spettatore per tutto il film, costruito come un'ininterrotta serie di momenti terrificanti in cui la protagonista viene minacciata, attaccata, percossa, pedinata da qualcuno oppure perseguitata da suoni inquietanti che preludono a qualche evento scioccante. Ovviamente, date le premesse, c'è sempre il dubbio che ciò che Jane vede o sente sia reale, il che giustifica alcuni elementi della trama un po' stiracchiati e offre il fianco a molte sequenze allucinate, in primis quella del sabba. Martino, dunque, non si limita a girare un giallo; da bravo italiano, prende in prestito e rimaneggia topoi dell'horror satanico e dell'horror erotico, creando una strana bestia non priva di fascino, grazie soprattutto alle abbondanti spruzzate di weird che trasformano una Londra elegante ma fredda, immersa in una palette di toni marroni e grigi, in un trionfo di allucinante blu e vivido rosso. Il blu è quello degli occhi di Ivan Rassimov, dotato per l'occasione di lenti a contatto che, nei primissimi piani, mostrano nell'iride persino una sorta di decorazione. Il rosso, invece, è quello del sangue (non tantissimo ma abbastanza schifoso) e delle cappe dei satanisti, il capo dei quali indossa degli spettacolari artigli neri, oltre a un pacchianissimo simbolo massonico che ricorre spesso nel film, anche in maniere non proprio logiche. Sia Rassimov che Julián Ugarte, ovvero il capo della setta, hanno un volto perfetto per incarnare un male insinuante, e completano un cast di facce bellissime dove spiccano un' Edwige Fenech sempre elegantissima e sensuale ma meno nuda del solito, quel blocco di tufo di George Hilton, ai quali i panni del compagno sottilmente manipolatore e belloccio calzano alla perfezione, e Marina Malfatti, diafana ed inquietante. Ogni volta che vedo questo genere di film mi rendo conto che, prima o poi, dovrò ri-prendere la Dance Macabre di Stephen King e aggiungere l'elenco di pellicole trattate da Kier-La Janisse, perché gli anni '70 in generale, e quelli dei nostri registi italiani in particolare, hanno un fascino difficilmente raggiungibile, anche nelle opere imperfette, e Tutti i colori del buio non fa eccezione.


Di George Hilton (Richard Steele),  Edwige Fenech (Jane Harrison) e Susan Scott (Barbara Harrison) ho già parlato ai rispettivi link.

Sergio Martino è il regista della pellicola. Nato a Roma, ha diretto film come Lo strano vizio della signora Wardh, Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave, I corpi presentano tracce di violenza carnale, Giovannona Coscialunga disonorata con onore, Milano trema: la polizia vuole giustizia, 40 gradi all'ombra del lenzuolo, La montagna del dio cannibale, La moglie in vacanza... l'amante in città, Zucchero, miele e peperoncino, Spaghetti a mezzanotte, Cornetti alla crema, Ricchi, ricchissimi... praticamente in mutande, Assassinio al cimitero etrusco, Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio, Se tutto va bene siamo rovinati, L'allenatore nel pallone, Mezzo destro mezzo sinistro - 2 calciatori senza pallone e L'allenatore nel pallone 2. Anche sceneggiatore, produttore e attore, ha 87 anni.



martedì 22 aprile 2025

Death of a Unicorn (2025)

Martedì scorso sono andata a vedere Death of a Unicorn, diretto e sceneggiato dal regista Alex Scharfman, un film che mi aveva ispirata fin dal trailer.


Trama: Elliot e la figlia Ridley investono per sbaglio un unicorno durante il viaggio verso lo chalet di montagna di Odell, ricchissimo proprietario di un'azienda farmaceutica. Il magnate vorrebbe sfruttare i poteri dell'animale per soldi, ma non ha fatto i conti con gli altri unicorni...


Death of a Unicorn
è una commedia horror talmente semplice che potrebbe averla scritta un ragazzo dell'età della Ortega, non a caso nume tutelare dell'intera operazione. Ciò non vuol dire che Death of a Unicorn sia brutto, ma uno dalla A24 si aspetta sempre qualcosa di arguto, un po' artsy, un'innovazione del genere, mentre il film scritto e diretto da Alex Scharfman è un'opera prima talmente lineare che parrebbe tagliata con l'accetta. All'interno della sceneggiatura c'è un bel miscuglio di cliché che altrove, persino di recente, sono stati sfruttati per cose ben più originali. Innanzitutto, abbiamo un rapporto padre-figlia tempestoso, tipico di due generazioni che non si incontrano e di due persone alle quali è venuto meno il collante incarnato da una madre morta da poco di tumore; la giovane Ridley è piena di ideali altruisti, frequenta l'accademia di belle arti, è "alternativa", mentre papà Elliot è un'avvocato che, per non far mancare nulla alla figlia, mette da parte ogni scrupolo morale onde spillare più soldi possibili ai terribili Leopold (ma, fondamentalmente, è una persona buona). I Leopold, invece, sono abietti. A capo di un impero farmaceutico, sembrano usciti da un cartone animato e si presentano con diversi gradi di stronzaggine e stupidità; ovviamente, appena l'unicorno finisce nelle loro mani, l'unico loro pensiero è fare dei gran soldoni con le proprietà taumaturgiche e magiche del corno e del sangue dell'animale, aggiungendo in mezzo qualche extra personale, come un'accennata speranza di vivere in eterno. Death of a Unicorn, date le premesse, si snoda come un racconto di riconciliazione tra padre e figlia incrociato ad una critica verso il capitalismo moderno, al quale si aggiunge l'aspetto creature feature degli unicorni assassini. A tal proposito, l'aspetto davvero interessante del film, forse l'unico, è l'idea di sfruttare le conoscenze artistiche di Ridley per rivelare la vera natura degli unicorni, non così pucciosi come uno si aspetterebbe, ma per una buona riuscita dell'operazione, l'ideale sarebbe stato abbracciare un'anima di serie B tendente al trash e lasciare che gli animali si abbandonassero alle mattanze più sfrenate e assurde. Qualche bella morte c'è, non lo nego (anche se le crudeltà vengono riservate più all'unicorno che agli esseri umani!) ma è tutto molto trattenuto, un po' patinato, di conseguenza anche la parte di commedia satirica ne risente, rivelandosi meno graffiante di quanto avrei sperato.


Come ho scritto sopra, Death of a Unicorn è un'opera prima, quindi Alex Scharfman avrà tutto il tempo di stupirci più avanti, e dietro la macchina da presa dimostra di non essere proprio interdetto, per il modo efficace con cui centellina le apparizioni degli unicorni, sfruttando ombre e primi piani di dettagli inquietanti (muso e zoccoli in primis), senza affidarsi a jump scares d'accatto. Purtroppo, poi, gli unicorni si devono vedere, e la CGI, come troppo spesso succede, non collabora, soprattutto nelle sequenze più dinamiche ed illuminate, dove le bestiole sembrano appiccicate a un fondale, finte come i soldi del Monopoli. Va un po' meglio quando si tratta di riprese statiche o ravvicinate, fermo restando che l'unicorno più realistico è il puledrino, degli altri due non ho apprezzato granché nemmeno l'aspetto, visto che sembrano usciti da un videogame. Per quanto riguarda gli attori, il lavoro di casting è la vera eccellenza di Death of a Unicorn, perché ad ogni interprete è stato affidato un ruolo che gli calza come un guanto. A tal proposito, si può dire che tutti sono bravi ma nessuno brilla particolarmente, forse perché ognuno ripropone le caratteristiche che più gli si confanno, ma una menzione speciale la merita l'esilarante interazione tra Will Poulter e Anthony Carrigan. Il primo lo conoscevo, ed è perfetto per vestire i panni di un ricco figlio di papà che vorrebbe portare i pantaloni del capo invece è un povero cretino, mentre il secondo è una faccia per me nuova e, nel film, interpreta il tuttofare da richiamare con uno schiocco di dita; la dinamica servo-padrone regala momenti di vero divertimento e genuine risate, soprattutto quando il povero, vessato Griff si renderà conto che la dedizione a un lavoro odioso non vale la sopravvivenza. Ho poco altro da dire su questo Death of a Unicorn, horror di facile consumo per una serata con qualche sporadico brivido e abbastanza divertimento da risultare adatto anche ai ragazzini che si approcciano al genere per le prime volte. Ma da una produzione A24 mi aspettavo qualcosa di più.


Di Jenna Ortega (Ridley), Paul Rudd (Elliot), Richard E. Grant (Odell), Will Poulter (Shepard), Sunita Mani (Dr. Bhatia) e Steve Park (Dr. Song) ho già parlato ai rispettivi link.

Alex Scharfman è il regista e sceneggiatore della pellicola, al suo primo lungometraggio. Americano, ha lavorato principalmente come produttore.


Téa Leoni
interpreta Belinda. Ex moglie di David Duchovny, la ricordo per film come Nei panni di una bionda, Ragazze vincenti, Deep Impact e The Family Man; inoltre, ha partecipato a serie come Santa Barbara e X-Files. Americana, anche produttrice, ha 59 anni e un film in uscita. 



venerdì 18 aprile 2025

2025 Horror Challenge: Last Straw (2023)

Qualche sera fa hanno passato in TV un film che dovevo ancora recuperare dall'anno scorso, Last Straw, diretto nel 2023 dal regista Alan Scott Neal. Ne ho approfittato per inserire il film nella challenge horror, che questa settimana prevedeva un free pick.


Trama: Nancy è la figlia del proprietario di una tavola calda, che da poco l'ha promossa al ruolo di manager. Per questo motivo, la ragazza si ritrova da sola a fare il turno di notte, perfetto bersaglio di un gruppo di assassini mascherati...


Last Straw
è un film stra-low budget, diretto da un regista al suo primo lungometraggio, dopo una carriera come direttore del casting. L'esperienza, in tal senso, si vede, perché il film pullula di "belle" facce che restituiscono l'idea di un'America squallida, dove le persone si lasciano vivere senza intravvedere un futuro, perdendosi in "non luoghi" quali strade senza fine, costeggiate da sterpaglia, e i famigerati diner. Proprio un diner è l'ambiente dove si svolge buona parte dell'azione del film, in quanto scomoda "eredità" della giovanissima Nancy, che ha appena scoperto di essere incinta. A Nancy gira il belino a nastro, comprensibilmente. Suo padre è il proprietario di un diner con più debiti che clienti, l'ha promossa da poco a responsabile e la prima fregatura derivante dall'incarico è quella di farsi il turno di notte assieme a Jake, il cuoco del locale, che Nancy non ha granché in simpatia. Se a tutto ciò si aggiungono nausee impreviste, una macchina in panne e un gruppo di ragazzotti che decide di fare casino nel diner, arrivando persino a minacciare Nancy, si capisce perché la ragazza a un certo punto esplode, rimettendo a posto l'incauto Jake (pronto ad ergersi a maschio alfa della situazione sminuendo ogni tentativo di Nancy di affrontare i teppisti) e licenziandolo senza possibilità di appello. La protagonista rimane quindi da sola, ma la serata che si preannunciava una noia mortale diventa invece una mortale trappola, quando un gruppo di persone mascherate comincia a prendere di mira Nancy, esasperandola prima e terrorizzandola poi. Questa è la parte di Last Straw che prende a modello classici come The Gas Stop, di cui ho parlato proprio in questa rubrica qualche settimana fa, e il più recente The Strangers di Bertino; il film segue tutti gli efficaci cliché di un invasion movie, e il diner diventa così un inferno pieno di ombre in cui potrebbero nascondersi i potenziali killer di Nancy, muti e mascherati, quindi ancora più terrificanti. Lo spettatore investe tutte le proprie energie mentali sulla protagonista e sulla sua lotta per la sopravvivenza, ed è qui che Last Straw piazza il twist che lo trasforma in qualcos'altro, un cambio di registro sul quale non ricamerò troppo per non fare spoiler.


Se, fino a quel momento, il fulcro del film era Nancy, Last Straw cambia prospettiva e ci costringe a mettere in pausa lo stato di tensione, raccontandoci un'altra brutta giornata di un altro personaggio non particolarmente simpatico. Come ho scritto all'inizio, è molto importante l'ambientazione del film; la "bolla" di Nancy, appena diplomata e già incinta di non si sa chi, è leggermente più controllata, nonostante persino lei non abbia una visione positiva del proprio futuro, ma fuori da questa "bolla" c'è la deboscia più nera di esistenze perse nell'alcool e nella droga, talmente precarie che l'unica certezza è quella di poter perdere tempo a bighellonare con gli "amici", nell'attesa di venire triturati dallo spietato sistema sociale americano. Di fronte a tanto squallore, il pensiero che l'unica isola felice sia un diner bisunto dal poetico nome di "Culo Grasso" fa quasi sperare che, prima o poi, arrivino dei delinquenti mascherati a liberarci dall'orrore di dover vivere e, in effetti, il finale di Last Straw lascia in bocca un sapore amarissimo. Forse ho ricamato troppo su quello che, in fin dei conti, altro non è che un thriller un po' più sanguinoso di altri? Può darsi, ma la china che sta prendendo l'America mi porta a queste riflessioni "filosofiche". Preso per quel che è, Last Straw è un ottimo prodotto, teso e disperato, gestito da un regista alla sua prima esperienza ma già in grado di mantenere la tensione per tutta la durata della pellicola. Jessica Belkin, inoltre, è una protagonista carismatica e dotata della cazzimma sufficiente a sorvolare sul carattere ben poco accomodante di una ragazza che potrebbe anche trattare meglio i dipendenti meno molesti. Se vi piacciono i film i cui personaggi non sono proprio bianchi o neri, ma sono dipinti con abbondanti pennellate di grigio, un'occhiata a Last Straw la darei. Mentre sto scrivendo il post, è disponibile gratis su Rai Play, magari lo terranno ancora qualche settimana!


Di Jeremy Sisto, che interpreta Edward Osborn, ho già parlato QUI.

Alan Scott Neal è il regista della pellicola. Americano, conosciuto principalmente come direttore del casting, è al suo primo e finora unico lungometraggio. Ha lavorato anche come attore, produttore e sceneggiatore. 


Jessica Belkin, che interpreta Nancy, faceva parte della cricca di vampirelli di American Horror Story Hotel. Se Last Straw vi fosse piaciuto recuperate il già citato The Strangers e aggiungete Open 24 Hours. ENJOY! 


mercoledì 16 aprile 2025

I ragazzi della Nickel (2024)

La mia Oscar Death Race si era conclusa con una bella mattonata, ovvero I ragazzi della Nickel (Nickel Boys), diretto e co-sceneggiato nel 2024 dal regista RaMell Ross a partire dal romanzo omonimo di Colson Whitehead


Trama: Per un banale errore, Elwood viene arrestato come ladro di auto proprio mentre si sta recando per la prima volta all'università grazie ad una borsa di studio. Viene spedito alla Nickel School, un riformatorio dove i ragazzi di colore come lui fanno una vita molto più tremenda degli altri...


I ragazzi della Nickel
racconta una vicenda romanzata tratta però da una storia vera, quella della Florida School for Boys della città di Marianna. All'interno del riformatorio, nel corso degli anni, sono avvenute moltissime morti sospette e, in tempi recenti, sono state trovate molte tombe scavate nel terreno, probabilmente appartenenti a ragazzi scomparsi misteriosamente, dichiarati "scappati da scuola". Una storia orrenda, di abusi che risalgono addirittura ai tempi della fondazione e che sono continuati fino al nuovo millennio, che ha ispirato Colson Whitehead a trarne un romanzo ambientato negli anni '60, l'epoca di Martin Luther King e delle lotte per i diritti civili delle persone di colore. Il protagonista, Elwood, è un ragazzo intelligente e dal forte senso di giustizia, ispirato proprio dai fondatori di questi importanti movimenti; mentre fa l'autostop per raggiungere l'università, però, ha la sfortuna di venire caricato da un ladro d'auto, e viene arrestato con l'accusa di esserne il complice. Da quel giorno, per Elwood inizia il calvario all'interno della Nickel School, dove i diritti civili non esistono e i ragazzi di colore vengono trattati molto peggio di quelli bianchi. Un posto dove è meglio mettere a tacere ogni velleità di giustizia ed altruismo, pena incappare in punizioni corporali, torture e persino morte. L'unico conforto, per Elwood, oltre alle rare visite della nonna materna, è l'amicizia con Turner, un compagno di prigionia disilluso e cinico, col quale Elwood sviluppa un legame quasi fraterno, nonostante il carattere del protagonista sia così riservato e schivo da rasentare l'autismo. Quest'ultima considerazione è un'idea che mi sono fatta io, e probabilmente deriva dallo stile scelto da RaMell Ross per raccontare la storia. I ragazzi della Nickel, infatti, è interamente girato attraverso un punto di vista soggettivo, che alterna ciò che vede Elwood (il punto di vista preponderante per quasi tutta la prima ora) a ciò che vede Turner, inserito dopo l'arrivo di Elwood alla Nickel. Il risultato, per quanto mi riguarda, ha avuto l'effetto opposto a quello probabilmente ricercato dal regista, ed è per questo che ho cominciato il post parlando di mattonata. Nonostante l'importanza e la natura dolorosa della vicenda, infatti, non riuscire ad avere un quadro "complessivo" di ciò che accade, vedere con gli occhi di un altra persona sprazzi di ambienti, persone ed avvenimenti, mi ha fatto provare un'enorme sensazione di distacco da tutto ciò che passava sullo schermo.


Questi sprazzi di vita, colti da uno sguardo mai diretto, quanto piuttosto timido e schivo, alternati a spezzoni televisivi, visioni, sogni e scampoli di futuro ripresi da una gopro, li ho trovati molto faticosi da seguire, soprattutto all'inizio, quando servono essenzialmente per dare un'idea generale dell'infanzia di Elwood, della sua personalità e di come sia finito su una macchina rubata. Da lì in poi, se non altro, I ragazzi della Nickel imbastisce un minimo di trama, per quanto sfilacciata ed episodica, e sviluppa maggior coesione poco prima del finale, quando Elwood prende un'importantissima decisione che influenzerà il futuro suo e di Turner. Anzi, è proprio il finale che ha risollevato la scarsa opinione che avevo del film, pur riconfermando come, su di me, uno stile come questo non abbia fatto presa, visto che avrei dovuto piangere come una fontana, conoscendomi. Riconosco dunque la bravura e l'originalità di RaMell Ross, almeno come regista, e la natura suggestiva del suo film, che vanta una fotografia e delle immagini splendide, e che sicuramente sarà stata una sfida non da poco per il responsabile del montaggio (anzi, non capisco perché I ragazzi della Nickel abbia ottenuto un'esageratissima candidatura a Miglior film e una per la Miglior sceneggiatura non originale, quando i meriti dell'opera sono altri...), ma onestamente avrei più voglia di leggere il libro di Colson Whitehead piuttosto che riguardare una pellicola che ho percepito come un'esercizio di stile fine a se stesso. Non mi sento comunque nemmeno di sconsigliarlo, perché magari quella che non è la mia cup of tea è la mug of chocolate di altri! Se siete curiosi, potete trovare comodamente I ragazzi della Nickel su Prime.  

RaMell Ross è il regista e co-sceneggiatore della pellicola, al suo primo lungometraggio. Tedesco, anche produttore, lavora principalmente come direttore della fotografia. Ha 42 anni.


Hamish Linklater
, che interpreta Spencer, fa parte della "Flanagan Family", perché era padre Paul nello splendido Midnight Mass. Ciò detto, se Nickel Boys vi fosse piaciuto, recuperate Moonlight. ENJOY!

martedì 15 aprile 2025

Opus (2025)

In qualche modo, pur con un po' di ritardo, sono riuscita a recuperare Opus, diretto e sceneggiato dal regista Mark Anthony Green.


Trama: Ariel, giovane apprendista giornalista, viene invitata assieme al capo e ad alcune celebrità nella magione isolata di Alfred Moretti, un famosissimo cantante pop ritiratosi da trent'anni e pronto a tornare con un nuovo disco...


Mi erano capitati davanti agli occhi diversi trailer di Opus, prima della sua uscita, e l'impressione che ne avevo tratto era che il film di Mark Anthony Green fosse una specie di horror a base di culti strampalati, con una bella dose di elementi grotteschi, tanto per gradire. La prima impressione è stata, in effetti, quella giusta, e francamente non capisco cosa si aspettasse la gente, che sta massacrando il film in parecchie recensioni. Mi rendo conto che la A24, che produce Opus, ci ha abituati più che bene, ma il film è una dignitosa opera prima che riprende un po' lo stile di alcuni grandi successi horror recenti, in primis Midsommar e The Menu. Opus segue le vicende di Ariel Ecton, giovane aspirante giornalista che non riesce a sfondare in quanto, per dirla nelle parole del suo migliore amico, è "troppo normale". Di estrazione sociale normale, senza grandi traumi o successi nell'infanzia e nell'adolescenza, senza problemi di sorta, Ariel non è abbastanza interessante da rendere tali i suoi articoli, o poter raccontare una storia avvincente. L'occasione, però, bussa alla porta quando, assieme allo spocchioso capo, viene invitata all'anteprima del nuovo disco di Alfred Moretti, una star del pop ritiratasi a vita privata da 30 anni. Il luogo dell'anteprima è un'isolata comune, dove Moretti vive assieme a un numero imprecisato di seguaci di un culto, i "livellisti", di cui anche lui fa parte. Le varie celebrities invitate assieme ad Ariel (un critico, una paparazza, un'influencer e una conduttrice televisiva) si lasciano conquistare con entusiasmo dai lussi della comune e dalla personalità sopra le righe di Moretti, mentre la ragazza comincia subito a notare parecchie cose che stonano, sia nel cantante che nel culto da lui professato. La trama di Opus è, effettivamente, derivativa e un po' pasticciata, perché vuole mettere troppa carne al fuoco, ma il concetto che (proprio per questo motivo) rischia di sfuggire allo spettatore disattento, non è banale. Il film sottolinea l'attrattiva dell'esclusività, la tendenza a mettere su un piedistallo celebrità mediocri scomodando parole come "genio" e "capolavoro", l'istinto tutto umano di sorvolare su parecchie cose, quando la superficialità si presenta infiocchettata e viene servita come un privilegio. Di fatto, Moretti è imbarazzante, le sue canzoni sono oscene e banali, le sue pose da star nascondono un vuoto cosmico che diviene ancora più evidente nel corso dell'agghiacciante finale. Eppure, il concetto di un mondo dominato dall'esclusività di presunti meriti artistici, da proteggere come la più preziosa delle reliquie e da tramandare a prescindere dal vuoto esistenziale che incarna, non è così peregrina e fa molta più paura del film in sé.


Da par suo, anche Opus è molto infiocchettato, anche se non è barocco e trash come lo stesso Moretti. Soprattutto la fotografia, la scenografia e i costumi sono incredibilmente curati (gli ultimi lo sono in maniera dichiarata, come del resto anche il make-up) e la cura del dettaglio è tale che non solo le opere d'arte che si vedono nella comune sono molto interessanti, ma lo spettacolo dei burattini che precede il climax del film è un incubo ad occhi aperti degno della migliore stop-motion horror. Ciò che colpisce di più all'interno di Opus, però, è un John Malkovich che da anni non era così weird ed istrionico, probabilmente dai tempi di Burn After Reading, ultimo baluardo prima di un decennio di ruoli minori in film dimenticabili. John Malkovich riesce a fare ridere a crepapelle per la noncuranza con cui si muove nei modi più ridicoli, cantando testi imbarazzanti persino per l'epoca in cui il personaggio era all'apice della gloria, per poi piombare, subito dopo, in quella freddezza pericolosa, vanagloriosa ed infantile che era la cifra stilistica dell'adorato Cyrus "The Virus" di Con Air. Non ho paura di dire che, senza John Malkovich, Opus sarebbe un fallimento abbastanza cocente, e non basterebbe la bravura innegabile di Ayo Edebiri, degno contraltare del viscido Moretti, ad innalzare il film, anche perché è difficile trovare un attore che mantenga eleganza nella follia (forse giusto Dan Stevens avrebbe potuto vestire i panni di Moretti, ma l'età non sarebbe stata credibile). Il resto del cast, a mio avviso, è un po'sprecato, soprattutto Amber Midthunder avrebbe potuto dare molte più gioie, ma d'altronde un maggiore approfondimento dei personaggi di contorno avrebbe tolto potenza allo scontro tra l'eccentrico Moretti e la "banale" Ariel. Ammetto quindi che mi sarei aspettata qualcosina di più da Opus, ma non è affatto un brutto film e, per quanto mi riguarda, merita di sicuro una visione, anche solo per godere di un John Malkovich in gran spolvero... soprattutto se, come me, da decenni "venerate la sua stella" e aspettavate un suo ritorno da mattatore.


Di John Malkovich (Alfred Moretti), Juliette Lewis (Clara Armstrong), Tony Hale (Soledad Yusef), Amber Midthunder (Belle) e Rosario Dawson (voce originale di Billie Holiday) ho già parlato ai rispettivi link.

Mark Anthony Green è il regista e sceneggiatore della pellicola, al suo primo lungometraggio. Americano, è anche produttore.


Ayo Edebiri
interpreta Ariel Ecton. Americana, ha partecipato a film come How it Ends e a serie quali The Bear. Come doppiatrice ha lavorato in Tartarughe Ninja - Caos mutante e Inside Out 2. Anche produttrice, sceneggiatrice e regista, ha 30 anni e due film in uscita, tra cui After the Hunt di Guadagnino.


Se Opus vi fosse piaciuto recuperate Blink Twice, The Menu, Midsommar e Get Out. ENJOY!

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