giovedì 31 gennaio 2019

Dick Miller (1928 - 2019)


La prima volta che ho visto Gremlins da bambina ho quasi pianto. Non ritenevo concepibile che il tizio che inveiva contro le "maledette macchine straniere", così pittoresco, potesse morire.
Infatti sono stata smentita con Gremlins 2 - La nuova stirpe e la felicità è stata così tanta che io il volto di Dick Miller non l'ho mai più dimenticato, contenta di ritrovarlo più e più volte nel corso della mia vita da cinefila.
Per questo, un piccolo omaggio a un enorme caratterista era doveroso.
So long, Mr. Miller.

(Gio)WE, Bolla! del 31/1/2019

Buon giovedì a tutti! Altra settimana di uscite pre-Oscar, con qualcosa che può far felice anche chi non è tentato dai premi dell'Academy. ENJOY!

Green Book
Reazione a caldo: Ottimo, ottimo!!!
Bolla, rifletti!: Vorrei vederlo in lingua originale e, facendo la cattiva, potrei anche averne la possibilità ma già che è uscito a Savona perché non guardarlo comodamente al cinema? Avrò tempo per godermi l'interpretazione di Viggo Mortensen e Mahershala Ali in futuro, se Green Book mi sarà piaciuto.

Dragon Trainer - Il mondo nascosto
Reazione a caldo: Aaaaw *__*
Bolla, rifletti!: I primi due Dragon Trainer, dopo la reticenza iniziale, li ho adorati. Questo avrei voluto vederlo ma intanto non sono riuscita a rinfrescarmi la memoria e poi ci sono altre trecento uscite da recuperare. Quindi, mio malgrado, dovrò attendere un po' per godermi la terza avventura del dolcissimo Sdentato.

Il primo Re
Reazione a caldo: Hmmmm
Bolla, rifletti!: Quel film che dal trailer diresti una tamarrata fantasy USA invece è una tamarrata fantasy italiana, basata sulle origini di Roma. Un po' mi incuriosisce, un po' ho altre priorità.

L'esorcismo di Hannah Grace
Reazione a caldo: MMeH
Bolla, rifletti!: E' un horror che esce al cinema, quindi va visto a prescindere. Peccato che parrebbe la solita minestra riscaldata a base di cliché...

Al cinema d'élite tirano mattoni.


Se la strada potesse parlare
Reazione a caldo: Oddio...
Bolla, rifletti!: Dopo aver letto quanto ne dice la Poison, ho voglia di vedere questo film come di impiccarmi ma parliamo di un candidato all'Oscar quindi dovrò immolarmi per forza. Fatemi gli auguri.

mercoledì 30 gennaio 2019

La favorita (2018)

Approfittando di una miracolosa uscita savonese, lunedì sono corsa a vedere La favorita (The Favourite), diretto nel 2018 dal regista Yorgos Lanthimos e candidato a dieci Oscar: Miglior Sceneggiatura, Miglior Scenografia, Migliori Costumi, Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Attrice Protagonista (Olivia Colman), Miglior Attrice Non Protagonista (Emma Stone e Rachel Weisz), Miglior Fotografia e Miglior Montaggio.


Trama: alla corte della regina Anna d'Inghilterra, due cugine lottano per il potere, coinvolgendo le sorti di un'intera nazione.


Sinceramente non so da che parte cominciare a parlare de La Favorita. Il cinèfilo medio dell'internet direbbe che non posso neanche provarci, poiché non ho visto Kinetta e Kynodontas, ma posso inalberarmi con lo stesso scazzo inglese di Rachel Weisz e dire "chissenefrega", andando per la mia strada con lieta ignoranza. La favorita è l'esaltante scontro tra primedonne, una lotta al potere che ha come epicentro una donna tanto ambita e potente quanto fragile e pittima, la morbida, grassissima, floscia regina Anna, che esercita i suoi diritti di sovrana su una grottesca corte del 1700. Le due contendenti sono Lady Sarah Marlborough, arrogante consigliera ad amante della regina, e l'apparentemente innocente Abigail, ex dama caduta in disgrazia e accolta a corte proprio dalla cugina Sarah. Lo scontro tra le due diventa specchio della lotta tra Whig e Tory per il controllo di una regina incapace di decidere da sola e conseguentemente per le sorti degli abitanti della nazione, fiaccati da una lunga guerra contro la Francia che, nelle intenzioni della favorita Sarah, è indispensabile a dare lustro al nome del marito, con sommo scorno della controparte Tory. Cinico e pessimista, nel raccontare questo scontro Lanthimos si affida ad una sceneggiatura non sua che tuttavia rispecchia le sue convinzioni; non c'è infatti un solo personaggio, all'interno de La Favorita, che affronti i propri sentimenti di petto, in maniera sincera, almeno fino a che non è troppo tardi, e tutti hanno un secondo se non un terzo fine, persi in un intrico di complotti tesi all'autodistruzione. Si ride parecchio guardando La favorita, è vero. Anna è indubbiamente un personaggio caricaturale, gli scambi di battute tra i protagonisti sono il trionfo del wit inglese e della cattiveria gratuita, le smorfie di Emma Stone sono da antologia così come gli schiaffi che da e riceve in egual misura, ma di fondo c'è un disgusto estremo per il marciume nascosto in bella vista all'interno del Palazzo Reale, tra ciccioni colpiti da pomodori e le gambe putrescenti di una sovrana affetta da gotta, specchio delle passioni oscure che agitano cortigiani, ministri e semplici servi; il riso si trasforma quindi spesso in amarezza, in un senso di disagio dato dal fatto di non riuscire a provare empatia o pietà per nessuno dei personaggi coinvolti. All'inizio è inevitabile parteggiare per Abigail, la povera, innocente dama decaduta e vessata dalla cugina stronza, poi si comincia a pensare che, in fondo, la ragazza non è tanto diversa da Sarah, anzi, è persino peggio, e si arriva a sperare che la prima favorita la rivolti come un calzino; infine, la stessa Anna è degna sia di pietà per la sua condizione di pupazzo manipolato, sia di disprezzo per il modo in cui continua testardamente a nascondersi nella sua presunta debolezza, godendo dell'esclusività delle attenzioni altrui con un egoismo senza pari.


In questi personaggi grandi e difficili, le tre attrici ci sguazzano e mai come lunedì ho pianto per non aver potuto godere de La favorita in lingua originale, anche se il doppiaggio mi è sembrato valido. Olivia Colman è semplicemente mostruosa, non c'è altro modo di definirla, in senso positivo e negativo. La sua regina Anna muove a tenerezza e disgusto per il suo essere un grottesco involucro di carne decadente con le emozioni di una bambina, e tanto intriga il suo legame con Sarah quanto mette i brividi quello con Abigail; la scena finale, ulteriore esempio di un montaggio magistrale, con le immagini dello sguardo vuoto di Anna e Sarah che si sovrappongono a quelle dei coniglietti tanto amati dalla sovrana, mi ha fatto tornare in mente le ultime parole di Superheroes (And crawling, on the planet's face/ Some insects, called the human race/Lost in time and lost in space and meaning), causandomi una pelle d'oca non da poco. Tra le due favorite, invece, non saprei davvero chi scegliere. Sia Emma Stone che Rachel Weisz sono meravigliose, entrambe a modo loro. La Stone è grottesca per buona parte del tempo, un "mostro buono giusto per spaventare i bambini", persa tra innocenza, ambiguità, raffinatezza e la grazia di un ronzino, una creatura dalle mille facce capace di spiazzare lo spettatore di continuo; la Weisz, di contro, è algida e malvagia, una nobildonna perfetta che rivela dentro di sé un'inaspettato cuore tenero e la grazia di chi, nonostante la lingua di un portuale, sa perdere con una classe e un aplomb invidiabili. Ah, e il mio topolotto Nicholas Hoult nei panni del ministro inglese effemminato e malvagio è adorabile. Ma la cosa più bella de La favorita, come se non fosse già intrigante e bellissimo di suo, è la fotografia di Robbie Ryan, che sfrutta al 90% la luce naturale data dal sole e dalle candele, un po' come accadeva nell'adorato Barry Lyndon di Kubrick, e che rende l'incredibile location di Hatfield House ancora più suggestiva. Alla fine di questa girandola di intrighi, emozioni, dialoghi al fulmicotone resi ancora più stranianti da una colonna sonora inquietante e dal frequente ricorso di Lanthimos al fisheye, alle carrellate sui corridoi e al montaggio alternato, si rimane con la voglia di ricominciare tutto da capo, per godere di un Cinema sicuramente barocco e "strano" ma incredibilmente soddisfacente. Finalmente ho un film per cui tifare all'Oscar, pur sapendo che non vincerà mai nulla.


Del regista Yorgos Lanthimos ho già parlato QUI. Olivia Colman (Regina Anna), Rachel Weisz (Sarah), Emma Stone (Abigail) e Nicholas Hoult (Harley) li trovate invece ai rispettivi link.

Mark Gatiss interpreta Lord Marlborough. Inglese, ha partecipato a film come Shaun of the Dead, Victor: La storia segreta del dottor Frankenstein, Il traditore tipo e a serie quali Little Britain, Sherlock, Il trono di spade e Doctor Who; inoltre ha lavorato come doppiatore in Wallace & Gromit - La maledizione del coniglio mannaro. Anche sceneggiatore, produttore e regista, ha 53 anni.


Joe Alwin, che interpreta Masham, era anche nel cast di Maria, regina di Scozia. Kate Winslet era stata scritturata per il ruolo di Sarah ma alla fine ha rinunciato al film. Detto questo, se La favorita vi fosse piaciuto, recuperate Eva contro Eva. ENJOY!


martedì 29 gennaio 2019

A Star Is Born (2018)

Cominciano oggi i recuperi pre-Oscar sperando di riuscire a vedere più film possibili prima della fatidica notte. Stavolta tocca a A Star Is Born, diretto nel 2018 da Bradley Cooper e candidato a otto premi: Miglior Canzone Originale (Shallow), Miglior Missaggio Sonoro, Miglior Film, Miglior Attore Protagonista (Bradley Cooper), Miglior Attrice Protagonista (Lady Gaga), Miglior Attore Non Protagonista (Sam Elliott), Miglior Sceneggiatura Non Originale e Miglior Fotografia.


Trama: Ally si barcamena tra un lavoro ingrato e qualche piccolo concerto in un club di travestiti. Un giorno, proprio nel club incontra il famosissimo cantautore e chitarrista Jackson Maine, il quale si invaghisce non solo di lei ma anche e soprattutto della sua musica.


A Star Is Born era il film di cui più mi pesava il recupero e la visione non ha sfatato questo mio pregiudizio. Remake del remake del remake del remake di una storia portata al cinema già nel 1932 ma resa immortale da George Cukor prima e Frank Pierson poi, A Star Is Born è un film talmente banale e fasullo che non saprei nemmeno come scrivere un post privo di livore, senza dargli più importanza del necessario. Razionalmente parlando, non merita nemmeno uno degli Oscar che gli sono stati assegnati salvo forse quello per la Miglior Canzone Originale, effettivamente molto bella, e francamente continuo a non capire tutto l'entusiasmo per un film che non è altro che l'ennesima riproposta di un tema vecchio come il cucco: cantante/attrice di belle speranze incontra chi la fa diventare famosa, i due si innamorano, uno dei due ci perde, indovinate un po' chi. E come si fa a biasimare il povero Jackson Maine, cantante e musicista soffocato da un gorgo di alcool e droga, fiaccato dalla solita, tristissima storia di abusi famigliari e da una malattia all'udito, che sperava di aver trovato una cantante sensibile e si ritrova per le mani la brutta copia, per l'appunto di Lady Gaga? Ally, lei così bruttarella col naso importante ma tanto sensibile, con una voce della Madonna (e questo non può negarlo nessuno) e doti di paroliera che nemmeno Mogol, si ritrova all'improvviso centro delle attenzioni di un povero cristiano disilluso che in lei rivede l'innocenza e la forza perdute, e che se la trascina sul palco di un mega concerto a cantare una canzone a) sentita una sola volta b) mai provata prima ma soprattutto c) eseguita perfettamente da Ally, Jackson e persino tutta l'orchestra, cosa che le spalanca le porte della fama nazionale ed internazionale in un batter d'occhio. E certo. Avete idea di quanto ridesse il Bolluomo, provetto bassista? E avete idea di quanto stessi male io, che notoriamente ODIO i film dove mostrano tutto facile, bello e improvviso, soprattutto dopo che Whiplash e Tonya hanno dato un doveroso schiaffo a tutto questo ottimismo d'accatto?  Appunto. E da lì in poi il film è un crescendo, con scene d'aMMore strappalacrime, canzoni orribili, una prevedibilità imbarazzante non solo per la trama ma anche e soprattutto per la scelta del montaggio, le soluzioni di regia, il trucco e parrucco di una Lady Gaga sempre più vajassa (ma oh, lo stesso tanto sensibile!), quel finale fintamente commovente durante il quale la compianta Whitney Houston si stava sicuramente rivoltando nella tomba.


Ecco che mi sono lasciata trasportare, non volevo, lo giuro. Facciamo una cosa più schematica e razionale o da qui non ne usciamo. Allora. Miglior Film. Va bene che questo è l'anno della mediocrità, con Black Panther e Bohemian Rhapsody, due film che mi sono piaciuti ma che sono pellicole di vastissimo consumo, dimenticabili dopo una settimana o due, ma inserire una roba così banale ed ordinaria nella categoria è un insulto ad opere come La forma dell'acqua o ad altri film che invece non ce l'hanno fatta come Gosford Park o Pulp Fiction. Miglior Attrice Protagonista. Nulla da dire contro Lady Gaga ma, andiamo, gente, non è che l'abbiano messa ad interpretare Anna dei miracoli. Deve semplicemente essere se stessa, ovvero cantare e recitare un minimo. Che lo faccia bene è indubbio ma da qui ad elevarla ad attrice della Madonna ne passa. Miglior Attore Protagonista. Bradley Cooper è un figo assurdo, avrebbero tutte le ragioni per dargli l'Oscar come Miglior Mitifarei. Ma, per citare il bardo, "miocuggino è preoccupante e parla coi rutti", e il fatto di avere un personaggio meno monodimensionale di quello appioppato a Lady Gaga non lo rende automaticamente degno di vincere l'ambita statuetta. Su Sam Elliott non mi pronuncio, secondo me le lacrime sul prefinale derivavano dall'aver partecipato a questa cretinata per femminucce sospiranti ma tra i tre obiettivamente è comunque quello che fa una miglior figura. Il resto, lo ammetto, non posso giudicarlo. La fotografia sì, bellina ma non avendola particolarmente notata significa che non ha superato la barriera della mia ignoranza come, che so, quella di Blade Runner 2049 o de La forma dell'acqua, e per la miglior sceneggiatura non originale... davvero, onestamente, ci vuole tanto a sceneggiare una roba così? Per dire, non mi sono emozionata nemmeno per un istante, nemmeno sul finale, e si che io ho la lacrima facilissima. Con due candidati come La ballata di Buster Scruggs e BlacKKKlansman, articolati e complessi, nonché profondi, davvero merita qualcosa questa banalità deprimente? Bah. E' l'unico commento che mi sento ancora di fare su questo film. Evidentemente, non è proprio il mio genere.


Del regista Bradley Cooper, che interpreta anche Jackson Maine, ho già parlato QUI. Sam Elliott (Bobby), Alec Baldwin (se stesso) e Ron Rifkin (Carl) li trovate invece ai rispettivi link.

Lady Gaga (vero nome Stefani Joanne Angelina Germanotta) interpreta Ally. Cantante e compositrice americana, la ricordo per film come Men in Black 3, Machete Kills e Sin City - Una donna per cui uccidere, inoltre ha partecipato a serie quali I Soprano, American Horror Story e doppiato un episodio de I Simpson. Anche produttrice, regista e sceneggiatrice, ha 33 anni.


Dave Chappelle interpreta George "Noodles" Stone. Americano, lo ricordo per film come Robin Hood - Un uomo in calzamaglia, Il professore matto e Con Air, inoltre ha partecipato a serie quali Quell'uragano di papà. Anche sceneggiatore e produttore, ha 46 anni.


Greg Grunberg interpreta Phil, l'autista di Jack. Americano, lo ricordo per film come L'uomo senza ombra, Austin Powers in Goldmember, Ladykillers e Super 8 , inoltre ha partecipato a serie quali Melrose Place, Baywatch, La zona morta, Dr. House, Alias, Monk, Heroes, Lost, CSI - Scena del crimine, e doppiato episodi di American Dad! e Robot Chicken. Anche produttore, sceneggiatore e regista, ha 52 anni e quattro film in uscita tra cui Star Wars: Episode IX.


A contendersi il ruolo di Ally c'erano in primis Beyoncé, fortemente voluta dai produttori, poi Jennifer Lopez, Shakira, Demi Lovato, Selena Gomez, Kesha, Rihanna e Janelle Monáe. Il film è l'ennesimo rifacimento di A che prezzo Hollywood? e E' nata una stella (del 1937, 1954 e 1976) quindi se vi fosse piaciuto cercatene tutte le versioni e aggiungete Bohemian Rhapsody, giusto per restare in tema Oscar, e La La Land. ENJOY!

domenica 27 gennaio 2019

Satan's Slaves (2017)

A fine anno spuntano classifiche horror come se piovessero e, in particolare, ha attirato la mia attenzione quella stilata da DreadCentral relativamente a Shudder, canale streaming americano che tratta solo pellicole di genere. Tra i film più graditi sulla piattaforma nel 2018 c'era questo Satan's Slaves (Pengabdi Setan), diretto e co-sceneggiato nel 2018 dal regista Joko Anwar.


Trama: dopo la morte della madre malata, una famiglia si ritrova a dover fare i conti con un misterioso, terrificante passato...



Satan's Slaves è il remake di un famosissimo film indonesiano del 1982, Satan's Slave, ed essendo ambientato nel 1981 ne è anche il prequel. Ho scoperto questo aneddoto incuriosita dal fatto che il finale di Satan's Slaves sottolineasse la presenza sullo schermo di una persona mai vista per tutta la sua durata, quindi ho dedotto che costei dovesse essere in qualche modo importante; lo stesso, il film sarà anche ambientato nel 1982 come il 90% degli horror occidentali che cavalcano questa maledetta moda ma, poiché trattasi di film indonesiano, non è permeato da quell'aria vintage zeppa di strizzate d'occhio che spesso sacrificano la trama e l'approfondimento dei personaggi allo stile dei tanto amati eighties. Satan's Slaves si prende anzi il tempo di approfondire un minimo i legami tra i membri della famiglia protagonista, composta da padre, madre, nonna e quattro figli di diverse età, tra cui uno, il più piccino, sordomuto. E' una famiglia problematica, condannata alla povertà da una malattia che ha costretto la madre, ex cantante famosa, a rimanere immobile a letto, in stato semi-catatonico, eppure i membri "sani" sono molto uniti e non esitano a fare molti sacrifici per il bene degli altri, senza recriminazioni di sorta. Per questo, nel corso del film si arriva a voler bene ai ragazzi protagonisti, ben diversi dai mocciosi viziati e scassapalle dell'horror occidentale, tanto che quando la tragedia colpisce ci si ritrova a dispiacersi e a preoccuparsi, a sperare che la giovane Rini trovi il bandolo della matassa e impedisca ad un destino che pare ineluttabile di distruggerle la famigliola. Altro aspetto molto interessante di Satan's Slave è la possibilità di vedere un horror "satanista" non cattolico, bensì islamico. Un islam, fortunatamente, molto più liberale e rilassato di quello praticato in medio oriente, tanto che la famiglia protagonista può candidamente confessare di non pregare senza che i membri vengano lapidati, mentre Rini non è costretta ad andare in giro con l'hijab; anzi, dalla trama di Satan's Slaves si evince l'importanza delle donne all'interno della società indonesiana, la loro forza, la capacità di tenere unito un nucleo familiare o di distruggerlo con scelte scellerate. E si possono testimoniare anche i metodi di sepoltura dell'epoca, cosa che personalmente ho trovato interessante, al di là di una trama forse un po' scontata.


Satan's Slaves è infatti il tipico horror a base di case infestate e presenze demoniache, quindi c'è da aspettarsi qualche jump scare (non troppi, per fortuna), figure che strisciano nell'ombra, bambini che si comportano in maniera strana e risultano molto più inquietanti dei non morti che arrivano a perseguitarli; il make-up dei non morti e molte delle loro espressioni facciali, di fatto, dimostrano che il j-horror in Indonesia non è mai stato dimenticato e che il capello lunghissimo e nero, oltre agli occhioni e la bocca spalancati, tirano ancora moltissimo. Così come va ancora molto di moda, forse perché il film è ambientato negli anni '80, fare riferimento alla regia di Sam Raimi e del suo La casa, cosa che porta Joko Anwar a sperimentare punti di vista sghembi, probabilmente gli stessi delle presenze che perseguitano la famigliola di Rini, carrellate rapidissime nei momenti più concitati e quant'altro, rendendo così Satan's Slaves più dinamico e vivace di altri horror a tema ma senza esagerare, ché l'impostazione dell'insieme è prevalentemente classica. Per lo stesso motivo, Satan's Slaves non spaventa come altri film simili visti di recente, come Aterrados o Veronica, molto più subdoli nel giocare con i nervi dello spettatore, ma sicuramente lasciano a quest'ultimo un senso di angoscia maggiore, perché Joko Anwar pare più concentrato sulla progressiva disgregazione del nucleo familiare (preparatevi, il finale è molto triste. Non a livelli DelToriani ma comunque lo è) e sull'impotenza della religione piuttosto che sulle suggestioni horror. Detto questo, Satan's Slaves non è comunque un film malvagio, anzi, e consiglierei di tentare una visione soprattutto a chi ama sperimentare diverse nazionalità cinematografiche.

Joko Anwar è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Indonesiano, ha diretto film come The Forbidden Door, Ritual e A Copy of My Mind. Anche attore e produttore, ha 43 anni e un film in uscita.


Come ho scritto sopra, Satan's Slaves è il remake/prequel di Satan's Slave, che dicono essere molto bello. Se riuscite, recuperatelo, io farò altrettanto. ENJOY!



venerdì 25 gennaio 2019

Maria regina di Scozia (2018)

Attirata dall'idea di guardare un film in costume, martedì sono andata a vedere Maria regina di Scozia (Mary Queen of Scots), diretto nel 2018 dalla regista Josie Rourke e candidato a due premi Oscar (Makeup e pettinature, Costumi).


Trama: dopo la morte del marito, Re di Francia, Maria Stuarda ritorna in Scozia e cerca di riprendersi il regno come regina legittima ma trova opposizione nei protestanti, nel fratello e nella Regina d'Inghilterra, Elisabetta I.



Sono andata a vedere Maria regina di Scozia con tutte le migliori intenzioni. Adoro i film in costume, mi piacciono le ricostruzioni storiche così come le biografie, l'anno scorso ho fatto una splendida vacanza in Scozia e trovo che Saoirse Ronan e Margot Robbie siano due attrici magnifiche. Sulla carta, quindi, Maria regina di Scozia era il film perfetto per me, invece sono uscita dalla sala un po' delusa. La pellicola di Josie Rourke focalizza l'attenzione dello spettatore sulla regina del titolo, Maria, donna di potere in un mondo di uomini pronti a tutto per ottenerlo, straniera in una terra sua di diritto, cattolica in mezzo a una popolazione prevalentemente protestante; poteva essere l'occasione per offrire il ritratto di una donna forte e determinata, approfondire qualche interessante intrigo di corte, ma la sceneggiatura spesso e volentieri restituisce piuttosto l'immagine di una ragazzina umorale mossa principalmente dall'orgoglio più che dall'amore per il proprio Paese, una figura politica abile ma non troppo, incapace di prevedere gli umori di chi la circonda e prona ad incappare in clamorosi autogol. Il rapporto con Elisabetta I si concretizza giusto nel prefinale, con un confronto sulla carta appassionato ed appassionante ma in realtà freddo e retorico, per il resto si procede per giustapposizione, con una Maria che fiorisce proprio mentre Elisabetta affronta le prove più terribili della sua esistenza, come il vaiolo e la difficoltà di scegliere se essere un Re oppure una donna. Anche in questo caso, il ritratto di Elisabetta lascia un po' perplessi. Se Maria è una ragazzina umorale, Elisabetta è una pazza che prende decisioni per poi pentirsene, che pretende di dettare legge ai suoi lord ma alla fine lascia perdere, lasciando che siano loro a scegliere per lei, alterando le verità come più risulta comodo alla Nazione. Non che gli uomini ci facciano una figura migliore, per carità. Ognuno a modo suo spinto dall'invidia, dalla sete di potere e dalla rabbia, gli esponenti del cosiddetto sesso forte non fanno altro che ingannare e tramare, affiancandosi alle donne giusto quando fa loro comodo. Poi, vuoi non metterci il risvolto omosessuale che va tanto di moda oggi? Peccato, ci avevano già pensato nel 1972, quindi anche lì nulla di nuovo sotto il sole.


Questa trama un po' così, lineare e poco emozionante, quasi didascalica (la figura del secondo marito di Maria, in particolare, è esilarante per il modo in cui viene presentata al pubblico, come a dire "non fidatevi di questo, è un debosciato, vedrete quanti danni causerà alla protagonista!!"), non aiuta le pur brave protagoniste a brillare. Saoirse Ronan è cresciuta, si vede. Carica su di sé il peso della regalità di una donna orgogliosa e fragile, una bambina costretta a diventare adulta troppo presto, e abbraccia con cognizione di causa il dramma umano di Maria, regina, donna e martire, freddando chiunque con i suoi azzurri occhi innocenti. Dall'altro lato, c'è Margot Robbie, che dopo Tonya ci tiene a far vedere di essere attrice prima ancora che una gnocca stratosferica. Per questo, non esita ad imbruttirsi, invecchiarsi, mostrando prima la pelle deturpata dal vaiolo e poi il viso interamente ricoperto di biacca, mentre acconciature e colori impietosi la condannano ad essere un incrocio tra la Regina di Cuori e il Cappellaio Matto dell'orrido Alice in Wonderland di Tim Burton. Tra le due, per il poco che dura, c'è alchimia, un contrasto perfetto, eppure nessuna di loro riesce a rendere umana la sofferenza delle donne che interpretano, tanto che Maria ed Elisabetta sembrano due corretti manichini in balìa delle forze di un destino già scritto, persi tra dialoghi talvolta piatti, altre volte anche troppo retorici. Josie Rourke nasce come direttore artistico della Donmar Warehouse, la sua formazione è teatrale e si vede: per essere una dilettante dietro la macchina da presa cinematografica, le poche scene di battaglia non sono nemmeno malvagie ma la sua regia non riesce a cogliere appieno la bellezza dei paesaggi scozzesi né ad esaltarla, e pare sentirsi a suo agio giusto nelle scene d'interno, obiettivamente riuscite e ben illuminate. Insomma, Maria regina di Scozia non è un brutto film ma rientra nella categoria di pellicole "medie", se preferite delle occasioni sprecate. Per dire, c'è persino David Tennant ma, tra il trucco, il personaggio sottoutilizzato e il doppiaggio che non rende giustizia al suo splendido accento, chi diamine se n'è accorto?


Di Saoirse Ronan (Maria), Margot Robbie (Elisabetta I), Guy Pearce (William Cecil) e David Tennant (John Knox) ho parlato ai rispettivi link.

Josie Rourke è la regista della pellicola. Inglese, è al suo primo e finora unico film. Ha 43 anni.


Susanne Bier come regista e Scarlett Johansson come protagonista hanno entrambe dovuto dare forfait a causa della lunghissima pre-produzione del film, in ballo dal 2006. Se Maria regina di Scozia vi fosse piaciuto recuperate Maria Stuarda regina di Scozia, che racconta gli stessi eventi... nell'attesa ovviamente di vedere se La favorita è bello come dicono! ENJOY!


giovedì 24 gennaio 2019

(Gio)WE, Bolla! del 24/1/2019

Buon giovedì a tutti! Due giorni fa sono state fatte le nomination per gli Oscar 2019 e oggi la distribuzione italica risponde cominciando a sfoderare i grossi calibri (ovviamente Se la strada potesse parlare, tra i candidati, non è pervenuto a Savona. Speriamo prossimamente) ... ENJOY!

La favorita
Reazione a caldo: Waaaaah *__*
Bolla, rifletti!: Già che abbiano messo in programmazione l'ultimo film di Lanthimos, considerate tutte le nomination ricevute e gli apprezzamenti di chi lo ha già visto, è fonte di gioia enorme. Se in più pensate che non vedo l'ora di guardarlo già da quando sono incappata nel primo trailer, capirete come scalpiti dalla voglia di correre al cinema!!

Creed II
Reazione a caldo: Eeh...
Bolla, rifletti!: Avevo recuperato Creed - Nato per combattere perché Stallone era stato candidato all'Oscar e non me n'ero affatto pentita. Quest'anno, niente nomination ma mi si dice che il prosieguo della storia sia bellissimo e commovente. Chissà se riuscirò ad andare a vedere anche questo, vista la settimana devastante che mi aspetta?

Ricomincio da me
Reazione a caldo: E vabbé.
Bolla, rifletti!: Dopo due filmoni poteva mancare la ciofeca per bilanciare? Jennifer Lopez torna sugli schermi nel ruolo di donna che fa carriera con un falso curriculum, una sorta di Una donna in carriera dei giorni nostri, e io tranquillamente passo oltre.

Compromessi sposi
Reazione a caldo: Meh.
Bolla, rifletti!: Dopo due filmoni E una ciofeca USA,  poteva mancare la ciofeca italiana giusto per non rimanere indietro? Ecco a voi il solito scontro tra stereotipi del nord e stereotipi del sud nell'anno del signore 2019, con un po' di romanticismo che non guasta mai. Vade retro.

Al cinema d'élite si rimembra invece la giornata della memoria.

L'uomo dal cuore di ferro
Reazione a caldo: Hm!
Bolla, rifletti!: Storia dell'attentato ad Heydrich, colui che ha architettato la terribile "soluzione finale", con un grandissimo cast. Sembra interessante ma questa settimana ho altre priorità.

mercoledì 23 gennaio 2019

Bollalmanacco On Demand: Lake Mungo (2008)

Con una rapidità inquietante, ecco arrivare un altro On Demand! Stavolta accontento Lucia de Il Giorno degli Zombi, che tempo fa mi ha chiesto di recuperare Lake Mungo, diretto e sceneggiato nel 2008 dal regista Joel Anderson. Il prossimo film ON Demand sarà Solaris! ENJOY!


Trama: la sedicenne Alice Palmer scompare durante una vacanza nei pressi della diga di Ararat e il suo cadavere viene ritrovato qualche tempo dopo, annegato. Nel frattempo, i suoi familiari cominciano a testimoniare strani fenomeni paranormali...


Al Mungo Lake National Park sono stata nel 2006, nel corso della mia permanenza in Australia. Essendo passati tredici anni ammetto di ricordare pochissimo di quel luogo, a parte un vento fortissimo, del sale rosa recuperato da uno degli antichi laghi asciutti e il senso di divertimento provato durante l'intera giornata passata coi miei tre compagni di viaggio. Probabilmente, se avessi visto Lake Mungo prima di andare, la gita si sarebbe sedimentata di più nella mia mente, complice il senso di inquietudine e di qualcosa di "imminente" che permea l'intera pellicola, ma ormai è andata così e beh, ci si può sempre tornare. Irrealizzabili desideri di fuga a parte, Lake Mungo è, letteralmente, l'unico mockumentary che abbia visto dalla nascita di questo spesso insoddisfacente sottogenere a poter essere definito tale. Tutto del film ricorda, ed è realizzato, come una puntata di quelle trasmissioni in stile Mistero o Ultimo minuto, un po' meno glamour e un po' più legate al tipico squallore televisivo aussie; i protagonisti della vicenda di Alice Palmer, povera fanciulla annegata in una diga vicino ad Ararat (altro luogo dove credo di essere passata per recarmi a Ballarat), raccontano tramite interviste, fotografie e video amatoriali, tutto quello che è accaduto dalla scomparsa della ragazza, senza mai offrire il fianco ad un senso di irrealtà, anzi, trattando sempre tutto nella maniera più razionale possibile anche quando vengono tirati in ballo medium e inquietanti immagini "spiritiche". Attraverso tali testimonianze, lo spettatore viene costretto a fare proprio il punto di vista dei personaggi intervistati e a ricostruire così il rompicapo della scomparsa e successivo ritorno di Alice grazie alle informazioni che ci vengono fornite, non sempre attendibili e, soprattutto, proposte in ordine rigorosamente cronologico, così che i due o tre twist che ravvivano Lake Mungo riescono alternativamente a colpirci come un macigno... o a farci sentire dei cretini totali, perché nonostante si parli di mockumentary, uno dei fil rouge del film è l'idea di inganno o manipolazione.


Lake Mungo è un film che si preoccupa di raccontare non solo una storia inquietante ma soprattutto di mostrarci l'elaborazione del lutto, di ricostruire le vicende di una ragazza dotata di almeno un terribile segreto e vittima dell'angoscia, di testimoniare, in maniera assai Kinghiana, come il sovrannaturale si insinui nel quotidiano senza intaccarlo in modo eclatante quanto piuttosto agendo in maniera più subdola, difficile da percepire. In questo, anzi, Lake Mungo ricorda moltissimo l'incipit di Twin Peaks, non solo per il cognome della protagonista ma anche per le circostanze della sua morte e tutto ciò che è accaduto prima di essa. Detto questo, se cercate qualcosa di veramente spaventoso, non cominciate neppure a guardare Lake Mungo. La pellicola di Joel Anderson, per fortuna, non si appoggia né ai jump scare tipici del genere né alle concitate riprese vomitille che convincono qualsiasi incapace streppone a prendere in mano una cinepresa e correre come un cretino per poi fornire al pubblico pagante l'ennesimo collage di riprese traballanti e strilli perforanti; anzi, la regia di Lake Mungo è estremamente intelligente e curata, perché riesce a coinvolgere lo spettatore e condurlo esattamente dove vuole, fuorviandolo spesso e volentieri, costringendolo ad uno sforzo di attenzione decisamente inusuale per un mockumentary. Il che lo rende, ovviamente, uno dei migliori esponenti del genere, anzi, se non il migliore perlomeno il più affine a ciò che dovrebbe essere l'idea stessa di mockumentary, quindi se riuscite recuperatelo come ho fatto io!

Il vero Lake Mungo!!
Joel Anderson è il regista e sceneggiatore della pellicola, al suo primo e unico lungometraggio. Probabilmente è australiano.


Se Lake Mungo vi fosse piaciuto recuperate lo storico The Blair Witch Project. ENJOY!


martedì 22 gennaio 2019

Glass (2019)

Ammetto che, nonostante l'ormai radicato disprezzo per M. Night Shyamalan, qui in veste di regista e sceneggiatore, quella di Glass era una delle uscite che aspettavo di più.


Trama: mentre l'Orda e la Bestia continuano a mietere vittime, David Dunn decide di sfruttare propri poteri per fermarli. I due non ci metteranno molto a incrociare il cammino con Elijah Price, l'"uomo di vetro"...



Diamo subito un contentino a tutti coloro che hanno sputato veleno e non solo sull'ultima fatica Shyamalana. E' vero, sì, Glass non è degno di allacciare le scarpe né ad Unbreakable né a Split. Unbreakable era innanzitutto la storia dolente di un uomo incapace di accettare la propria natura e lo Shyamalan Twist finale era la ciliegina sulla torta di una storia già bella di suo, uno strano ibrido tra dramma e stilemi tipici dei fumetti; Split, per contro, partiva come un horror e rimaneva tale fino alla fine, con un racconto neppure troppo banale imperniato su dolore, abusi ed infanzie negate. Insomma, due film che non avevano nulla da spartire, se non per la scena appena prima dei credits del secondo, eppure da lì è nata una delle trilogie più attese degli ultimi tempi e Glass riesce ad essere contemporaneamente sia un ribaltamento delle concezioni dei primi due capitoli sia una naturale prosecuzione degli eventi. E, per questo, un film inferiore, vuoi perché pretende di raccontare troppo tutto assieme, vuoi perché sia Unbreakable che Split erano in grado di fare storia "a sé", senza bisogno di aggiungere altro e, guardando Glass, sembra quasi che il concept di "fumetto inserito nella realtà e viceversa" venga stiracchiato in maniera inverosimile. Eppure, proprio per questo ho trovato Glass la degna conclusione della trilogia, un divertissement simpatico nonché il ribaltamento di Unbreakable, poiché qui si parte dalla convinzione dell'esistenza dei supereroi per cercare di ridimensionarli e portarli coi piedi per terra. Alla Dottoressa Staple viene infatti accollato l'ingrato compito di smontare pezzo per pezzo sia le convinzioni di Elijah Price che le manie di grandezza dell'Orda, l'allegro trio composto da Dennis, Patricia ed Hedwig convinti dell'esistenza della Bestia; ovviamente, la mente più permeabile, quella che già diciannove anni fa metteva in discussione la propria natura di supereroe, è quella di David Dunn, ormai rimasto vedovo ma con accanto il figlio Jacob, che come sempre lo adora. Altro non dirò sulla trama, ché sarebbe una bestemmia, tuttavia vorrei spendere due parole su quello che ho più apprezzato di Glass e cioé il palese desiderio Shyamalano di inserire in un contesto reale tutti i cliché dei fumetti supereroistici, anche i più inverosimili. Se in Unbreakable questi stilemi erano inseriti ma solo lo spettatore attento poteva coglierli, qui vengono sbattuti in faccia al pubblico e alla Dottoressa Staple, tanto che è impossibile infilare la testa sotto la sabbia e fingere di non vederli: c'è la prosecuzione di una origin story, con tutti gli improbabili collegamenti del caso, ci sono un sidekick, un'eminenza grigia, una bella che riesce a placare la bestia, l'idea di una love story tormentata, gli spiegoni interminabili dei villain, scontri finali (i cosiddetti showdown, che noi forse chiameremmo "resa dei conti" e che qui, per colpa di un adattamento scellerato che ha tradotto persino "comic books" con libri DI fumetti - albi a fumetti pareva brutto?- acquisisce un'accezione tortuosissima), momenti in cui si mescolano le alleanze, mentori e persino personaggi secondari talmente stupidi da fare il giro, imbarazzanti quanto la cosiddetta "sicurezza" di un centro di igiene mentale espugnabile persino da un bimbo di 5 anni.


Tutto questo può apparire ridicolo, fuorviante, sicuramente da l'impressione di appesantire il racconto, eppure la spiegazione ad ogni cosa, anche quelle apparentemente fuori posto, viene fornita in un dialogo rivelatore, che conferma M. Night Shyamalan come uno dei migliori illusionisti cinematografici (o, se siete detrattori fino in fondo, ancora peggio di me, uno dei peggiori "venditori di fumo e merda" dell'industria - cit.-) e, per quanto continui a volergli male per roba come Lady in the Water, E venga il giorno e The Last Airbender, uno degli autori più coerenti in circolazione. Quando Shyamalan ha un'idea, state pur certi che la porterà fino in fondo e Glass, con tutti i suoi difetti, è il frutto di questa determinazione testarda, il che mi porta a stimarlo a prescindere. Poi, ovviamente, ci sono tutti i rimandi ai film precedenti, a partire da quei colori che diventano sempre più pallidi, mescolati al grigiore della realtà, a mano a mano che i protagonisti perdono di fiducia in se stessi... e poi c'è James McAvoy, che giustamente si becca il primo posto nei credits. Ora, dopo aver guardato Split in originale non c'è doppiatore che tenga, quindi mi riservo di riguardare anche Glass in lingua, appena sarà disponibile, tuttavia adoro il modo in cui l'attore cambia nel giro di un secondo il linguaggio del corpo, la postura, lo sguardo, adattandosi ad abiti e situazioni differenti senza mai cadere nel ridicolo e trasformandosi letteralmente nelle 24 diverse personalità che abitano il corpo di Kevin. Samuel L. Jackson, muto per buona parte del film, non si lascia mettere i piedi in testa dall'inglesotto, ci mancherebbe, e basta con la sua sola carismatica presenza a ridurre al silenzio o all'incredulità persino la Bestia, mentre il povero Bruce Willis è penalizzato sia dal ruolo ai margini riservato a Dennis Dunn (quello di silente e poco convinta nemesi) sia da un paio di riprese ravvicinate nei momenti più concitati, che spezzano la tensione e la gloria dei corpo a corpo presenti nel film. Sarà che Bruccino ormai non è più Unbreakable come un tempo? A prescindere dalla vecchiaia di colui che comunque è e sarà sempre un grandissimo figone, sta di fatto che durante la visione di Glass mi sono divertita, entusiasmata e parecchio commossa quindi direi che, pur non potendo ancora testimoniare il ritorno di Shyamalan, se non altro posso affermare che Shyabadà, anche stavolta, è rimasto a casa. Al prossimo showdown, caro il mio indianino megalomane!


Del regista e sceneggiatore M.Night Shyamalan, che interpreta anche Jai, ho già parlato QUI. James McAvoy (Patricia / Dennis / Hedwig / La Bestia / Barry / Heinrich / Jade / Ian / Mary Reynolds / Norma / Jalin / Kat / B.T. / Kevin Wendell Crumb / Mr. Pritchard / Felida / Luke / Goddard / Samuel / Polly), Bruce Willis (David Dunn), Samuel L. Jackson (Elijah Price), Anya Taylor-Joy (Casey Cooke), Sarah Paulson (Dr. Ellie Staple) e Spencer Treat Clark (Joseph Dunn) li trovate invece ai rispettivi link.

Charlayne Woodard interpreta Mrs. Price. Americana, ha partecipato a film come La seduzione del male, The Million Dollar Hotel, Unbreakable - Il predestinato e a serie quali Pappa e ciccia, Willy il principe di Bel Air, Frasier, E.R. Medici in prima linea e Medium. Ha 65 anni.


Neanche da dire, non andate a vedere Glass senza prima aver recuperato Unbreakable - Il predestinato e Split. sono due film molto belli, soprattutto il primo, quindi non ve ne pentirete a prescindere. ENJOY!


domenica 20 gennaio 2019

Howard e il destino del mondo (1986)

Già che si trova nel catalogo Netflix, durante i giorni di festa ho costretto il povero Bolluomo a guardare Howard e il destino del mondo (Howard the Duck), diretto nel 1986 dal regista Willard Huyck.


Trama: catapultato sulla Terra da un misterioso vortice, Howard il papero si ritrova alle prese con un universo sconosciuto e per nulla tenero ma per fortuna incontra la cantante Beverly, con la quale cercherà un modo per tornare a casa.


Gesù. Non so quanti giorni (settimane!!) siano passati dalla visione di Howard e il destino del mondo e io riesco a scrivere un post solo ora. E no, non sono una di quelle che ha passato l'infanzia guardando questo film al punto tale da ricordarlo a memoria; l'avrò guardato credo una volta sola e nemmeno tutto e ammetto di essermi vagamente assopita sul finale, durante il recupero, quindi scrivere qualcosa in merito sarà un casino. Nemmeno la presenza del meraviglioso Jeffrey Jones e la curiosità di vedere un imberbe, sfigatissimo Tim Robbins alle prese con un papero umanoide mi hanno salvata dal fatto che Howard il papero, per quanto trashissimo e vagamente imbarazzante, sia innanzitutto troppo lungo, tanto da farmi pregare di vederne presto la fine. Passato infatti il divertimento di vedere una Terra dove tutto viene declinato in chiave paperesca, film compresi, oppure un Howard alle prese con un pianeta sconosciuto, dove OVVIAMENTE un papero antropomorfo causa reazioni dal disgustato al perplesso, con varie sfumature nel mezzo, rimane una pesantissima trama avventurosa a base di alieni che si nutrono di energia e, orrore degli orrori, l'accenno di una love story tra Beverly e Howard. Per carità, per chi conosce i fumetti Marvel da cui hanno tratto il film la cosa non è una novità ma giuro che vedere Lea Thompson interagire "fisicamente" con questo nano inguainato in un costume da papero mi ha provocato più ribrezzo che tenerezza mista a un vago senso di nostalgia (anche perché di Howard il papero ho letto davvero pochissimo). Guardando il film, tra l'altro prodotto da nomi enormi tra i quali spicca quello di George Lucas, non si capisce davvero dove avessero voluto andare a parare i realizzatori. Per omaggiare un simile fumetto FORSE sarebbe servita una seria animata più che un live action a base di pessimi effetti speciali, quindi come "cinecomic" d'annata l'obiettivo è stato mancato. Film d'avventura per ragazzi... sì e no. Nonostante sia stato se non erro censurato nei passaggi televisivi USA, Howard il papero è abbastanza esplicito dal punto di vista sessuale, più nelle immagini che nei dialoghi, e solo la seconda metà della pellicola prevede qualche momento avventuroso concretizzato essenzialmente in un infinito inseguimento in volo/camion/altri mezzi e nella battaglia finale contro un malvagio introdotto in maniera gratuita, nemmeno segnasse l'inizio di un secondo film. Il resto assomiglia più ad una commedia americana leggermente sboccata, una roba tipo "scontro tra diverse realtà" alla Ho sposato un'aliena ma molto meno divertente e, come ho scritto all'inizio, dopo mezz'oretta di citazioni paperesche e Tim Robbins messo in imbarazzo uno alla fine si stufa e getta la spugna.


Per quanto riguarda il comparto tecnico e gli effetti speciali, fa un po' specie che il tutto porti la firma della Lucas Film e della Industrial Light and Magic. L'unica cose davvero terrificante e ben riuscita del film, a ben vedere, è il make up di Jeffrey Jones, impressionante per il modo in cui cambia nel giro di pochi fotogrammi e lo rende un mostro irriconoscibile, per il resto... eh. Diciamo che Lucas e compagnia hanno peccato di arroganza, sperando di riuscire ad affidare il "ruolo" di Howard a degli animatronics e ritrovandosi alla fine a dover optare per attori di diverse altezze da infilare all'interno di un vestito da papero, con ovvie e tristissime conseguenze, anche se la voce originale di Howard non è male. Sicuramente, meglio del look anni '80 affibbiato alla povera Lea Thompson e alle canzoni che l'hanno costretta a cantare con un gruppetto di sgallettate dalla dubbia moralità sessuale (sì, dite quello che volete ma le donne all'interno di Howard e il destino del mondo non ci fanno una bellissima figura, ché o sono zoccole o delle povere ochette, sempre per restare in tema). E molto meglio dei dialoghi messi in bocca a Tim Robbins, il quale fortunatamente non è stato toccato dal flop del film ed è andato avanti con la sua professione di attore senza mancare ottimi ruoli e almeno un Oscar, seppellendo giustamente nell'ignominia il suo insopportabile, psicotico Phil Blumburtt, l'unico personaggio "buono" della storia del cinema a sembrare malvagio senza un reale motivo. Howard e il destino del mondo è dunque uno di quei film anni '80 per i quali converrebbe tenersi stretto l'effetto nostalgia di chi ve ne parlerà come un cult della propria infanzia senza metterlo in dubbio, ché recuperarlo nel 2019 vorrebbe dire passare quasi due ore a chiedersi "perché?" oppure prendere un aereo solo per andare a tirare un coppino a George Lucas. Possiamo solo sperare, sicuramente invano, che prima o poi qualcuno come James Gunn riabiliti definitivamente il nome di Howard il Papero con un film degno di essere definito tale.


Di Lea Thompson (Beverly Switzer), Jeffrey Jones (Dr. Walter Jenning) e Tim Robbins (Phil Blumburtt) ho già parlato ai rispettivi link.

Willard Huyck è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto film come Messia del diavolo, Baci da Parigi e La miglior difesa è... l'attacco. Anche produttore e attore, ha 73 anni.


Sotto il costume di Howard si sono avvicendati otto attori ma il principale era Ed Gale, già stuntman utilizzato al posto di Chucky ne La bambola assassina. Howard e il destino del mondo è stato nominato per sette Golden Raspberry Awards, tra cui peggior regista, peggior canzone originale e peggior attore non protagonista  (Tim Robbins), vincendone quattro: Peggior Nuovo Attore (i sei attori e l'attrice nascosti dal costume da papero), peggiori effetti speciali, peggior sceneggiatura e peggior film, vinto assieme a Under the Cherry Moon di Prince. John Landis, al quale era stata offerta la regia del film, ci ha visto lungo e ha declinato. Detto questo, se Howard e il destino del mondo vi fosse piaciuto recuperate i nuovi film Marvel, tutti, perché prima o poi un live action spin-off de I Guardiani della Galassia se lo meriterà il papero... e voi non vorrete arrivare impreparati! ENJOY!


venerdì 18 gennaio 2019

The House That Jack Built (2018)

Con un misto di timore e reverenza, ho recuperato anche La casa di Jack (The House That Jack Built), diretto e co-sceneggiato nel 2018 dal regista Lars Von Trier.



Trama: Jack è un ingegnere, architetto e soprattutto un serial killer. Nel corso del film lo ascoltiamo raccontare la sua vita criminale, in cinque episodi che coprono un arco di dodici anni.



Il mio rapporto con Von Trier è altalenante. Non lo amo, non lo odio, a tratti mi affascina al punto da trovarlo adorabile, talvolta lo trovo talmente presuntuoso che vorrei prenderlo a schiaffi. Per questo, a differenza di molti altri spettatori, mi avvicino ad ogni sua opera senza particolari pregiudizi ma con un vago senso di ansia data dall'idea di non riuscire a capire tutto quello che vedrò sullo schermo; non si tratta di un terrore "lynchiano", ché bene o male le trame dei film di Von Trier sono sempre complesse ma comunque comprensibili, quanto piuttosto di un'inadeguatezza culturale che prevede un grande sforzo di ricerca da parte dello spettatore. Esempio banalissimo, che vi può far rendere conto di quanto sia capra: l'ultimo dei capitoli in cui è diviso The House That Jack Build si intitola Katabasis. Ora, non avendo studiato greco al liceo non avevo assolutamente idea di cosa fosse la catabasi anche perché nessuno dei professori coi quali ho analizzato la Divina Commedia alle superiori o all'università ha mai usato questo termine per definire una discesa nell'Ade e ora grazie a Von Trier lo so. Grazie ad Alessandra poi ho anche colto molti dei riferimenti "pop" presenti non solo nella catabasi ma anche nel corso del film, uno su tutti l'uso di cartelli scritti a mano dal protagonista per sottolineare alcuni dei concetti espressi, cosa che mi ha permesso di apprezzare maggiormente una pellicola che fa dell'amore per l'arte, per la cultura, per le "icone" e per l'ironica autocritica uno dei suoi punti di forza. Per dire, probabilmente se dovessi incontrare per strada Jack o, come arriva a definirsi nel corso del film, Mr. Sophistication, verrei accusata di essere "simple" o stupida come buona parte delle sue vittime e finirei uccisa nel peggiore dei modi, senza nemmeno rientrare nei cinque incidenti che il protagonista racconta al misterioso Verge, interlocutore di cui per buona parte della pellicola sentiamo solo la voce. Eppure, persino una "simple" come me capisce che il valore di The House That Jack Built non risiede nella sua anima corrotta di opera atta a sconvolgere il pubblico con una violenza insopportabile (se posso permettermi, è vero che il film di Von Trier ha delle sequenze agghiaccianti come quella di Mr. Grumpy, ma Il sacrificio del cervo sacro è MOLTO più insostenibile) ma nei botta e risposta tra Jack e Verge, all'interno dei quali una metodica, crudele follia viene combattuta con un'ironica razionalità... senza che vi sia un netto vincitore, perché a dispetto dell'apparente disinteresse di Verge, la strisciante, colta e raffinata oscurità di Jack minaccia di affascinarlo.


E dunque cos'è, in definitiva, questo The House That Jack Built? In sostanza, sono due ore di riflessione sulla fondamentale malvagità dell'esistenza, di terrificante correlazione tra arte o genialità e le peggiori cose mai capitate al genere umano, di una natura che non è meno terribile o fredda, un mix tra Dante Alighieri e Goethe all'interno del quale Von Trier entra a gamba tesa, col suo pessimismo e lo strascico di tutte le critiche che gli sono piovute addosso nel corso degli ultimi anni, riuscendo a confezionare un film molto valido dal punto di vista della regia e della parte più "riflessiva" della sceneggiatura, meno interessante dal punto di vista del mero, voyeuristico spettacolo "horror". Intendiamoci, come ho scritto sopra The House That Jack Built (titolo tratto da una nursery rhyme inglese che in pratica è la versione originale di Alla fiera dell'Est) non è privo di momenti nauseanti, ma come riflessione sulla natura di serial killer è molto meglio il recente The Clovehitch Killer, anche perché Jack è un maniaco terribilmente sfigato (benché vanesio ed arrogante) e meritevole di essere preso in giro da Verge, soprattutto nel corso del secondo incidente. Ed effettivamente, più del pur bravo Matt Dillon è lo straordinario Bruno Ganz a fare da mattatore, con la sua sola voce contrapposta a quella del protagonista; pacato, disilluso, ironico, perplesso e distaccato, l'attore tedesco diventa la nostra guida nei meandri della mente di Jack, ci consente di prenderne le distanze e talvolta anche di sbeffeggiare la sua presunta superiorità nei confronti del genere umano (sicuramente sbaglio ma l'ho letto come un invito a prendere più alla leggera anche Von Trier), a non "ragionar di lui ma guardare e passare", ché tanto la livella della morte alla fine mette tutti sullo stesso piano, geni malvagi o semplici ochette strillanti che siano. Von Trier sembra suggerire che il tempo delle icone è passato e che la modernità attuale rischia di lasciare ai posteri soltanto della grande mediocrità e la mera illusione di avere contato qualcosa o cambiato il mondo, soprattutto perché tutti sembrano concentrati solo ed esclusivamente su se stessi, sui loro piccoli desideri malvagi reiterati come se fossero davvero importanti. E considerato che questo, a quanto pare, rischia di essere l'ultimo film diretto dal regista, l'utilizzo di Hit the Road Jack! sul finale suona ancora più come autoironica presa in giro. Ci saremo liberati definitivamente del piccolo Lars?


Del regista e co-sceneggiatore Lars Von Trier ho già parlato QUI. Bruno Ganz (Verge), Uma Thurman (Donna 1), Riley Keough (Simple) e Jeremy Davies (Al) li trovate invece ai rispettivi link.

Matt Dillon interpreta Jack. Americano, lo ricordo per film come I ragazzi della 56ª strada, Rusty il selvaggio, Drugstore Cowboys, Da morire, In & Out, Sex Crimes - Giochi pericolosi, Tutti pazzi per Mary, Tu io e Dupree, inoltre ha partecipato a serie quali Wayward Pines e doppiato episodi de I Simpson. Anche regista, sceneggiatore e produttore, ha 54 anni e due film in uscita.


Siobhan Fallon Hogan  interpreta Donna 2. Americana, ha partecipato a film come Caro zio Joe, Forrest Gump, Striptease, Men in Black, Il negoziatore, Dancer in the Dark, Dogville, Funny Games, ... e ora parliamo di Kevin, e a serie quali Wayward Pines e American Gods. Anche sceneggiatrice, ha 58 anni e due film in uscita.


Il film era stato annunciato come una miniserie di otto episodi ma alla fine Von Trier ha deciso di realizzare un lungometraggio. Se The House That Jack Built vi fosse piaciuto recuperate The Clovehitch Killer e Il sacrificio del cervo sacro. ENJOY!


Se vuoi condividere l'articolo

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...