martedì 28 febbraio 2023

The Whale (2022)

Era uno dei film che aspettavo di più per questa stagione, così il giorno stesso dell'uscita sono corsa a vedere The Whale, diretto nel 2022 dal regista Darren Aronofsky, tratto dalla pièce teatrale omonima di Samuel D. Hunter e candidato a tre premi Oscar (Brendan Fraser miglior attore protagonista, Hong Chau miglior attrice non protagonista e miglior trucco e acconciatura).


Trama: Charlie, insegnante di lettere, a causa delle complicazioni derivanti dalla sua obesità patologica ha più pochi giorni da vivere. Nel tempo che gli rimane, cerca di ricucire il rapporto con la figlia adolescente, Ellie...


"Fanculo le tesi, fanculo questo corso". Queste sono le parole scritte da Charlie sulla chat del suo gruppo di studio, verso la fine di The Whale, quando tutto attorno a lui è sul punto di crollare definitivamente. Uno passa la vita ad imparare come analizzare le opere, diventando alla stregua di un freddo robot spinto, il 90% delle volte, a scrivere o enunciare ciò che gli altri vogliono sentire dire, seguendo la scia di altri critici più eminenti che hanno sviscerato tutto quello che viene percepito come "giusto" e dogmatico, e il risultato è che di verità ce n'è ben poca, di sincerità non ne parliamo. E così è la vita, ovviamente. Una vita in cui tutto dev'essere regolare, dove anche ciò che viene percepito come aberrante deve avere un senso e riportato alla "normalità", e dove rischiamo di arrivare a sentirci in colpa anche davanti alla felicità: in un atto di egoismo, Charlie l'ha agguantata abbandonando la sua vecchia famiglia e lo stesso ha fatto il suo compagno, Alan, ma nessuno dei due è riuscito a perseguirla fino in fondo, schiacciati dai sensi di colpa e dai fantasmi delle loro vite precedenti. Se Alan ha lasciato che il suo corpo si consumasse, Charlie, quasi come per un contrappasso dantesco, ha invece deciso di diventare l'equivalente di Moby Dick, una balena bianca di incommensurabile tristezza, lontano dagli occhi di un mondo a cui è legato giusto dal filo sottile di un lavoro online e di sporadiche telefonate alla moglie, sempre concentrate sull'unica cosa "vera" che ancora gli è rimasta, la figlia Ellie. Ma se dicessi di essere in grado di capire i sentimenti dei personaggi che si muovono sul palcoscenico di The Whale contraddirei l'apologia della verità salvifica che è il fulcro del film di Aronosfsky. La verità è che io non avrei mai sopportato di stare vicina a una persona debole e rinunciataria come Charlie e che capisco tutta la rabbia di Ellie, figlia abbandonata a otto anni e mai più contattata da un padre che prima ha cercato l'amore altrove e poi non ha avuto il coraggio di condividere il proprio dolore se non con il cibo. La verità è che io sarei stata tagliata fuori dalla vita di Charlie, perché a differenza di Liz non avrei mai assecondato la sua malattia e lo avrei costretto ad un ricovero coatto, anche a costo di perdere per sempre l'unico legame rimasto con la mia famiglia. 


La verità è che non c'è un solo personaggio che non abbia disprezzato profondamente all'interno di The Whale, ognuno per vari motivi, e che solo lo sguardo mite del meraviglioso Brendan Fraser mi ha dato la pazienza di aspettare e capire, mentre ringraziavo ogni divinità di non essere costretta innanzitutto a vivere come Charlie, ma anche a dover essere coinvolta in una situazione simile. Sono forse egoista? Sicuramente, non ho mai detto il contrario. La verità è che quel formato 4:3, assieme alla stazza immensa di Charlie, mi hanno chiuso lo stomaco all'idea di vivere in quella casa sporca, di sicuro puzzolente, dove l'unica oasi di serenità e pulito è una stanza chiusa a chiave dove non entra mai nessuno; la sensazione di una depressione perenne (così simile ma così diversa dalla mia, che da qualche anno mi picchietta delicatamente sulla spalla ricordandomi la sua sgradevole esistenza senza mai esagerare), rappresentata da ambienti quasi sempre bui o male illuminati e dalla pioggia scrosciante all'esterno, mi ha talmente serrato la gola che il tanto temuto pianto è arrivato solo alla fine, per un misto purificante di tristezza e liberazione. Il sole, il mare, la voce di Sadie Sink (vergognosamente snobbata agli Oscar) che, dopo tanti urli di rabbia, declama una sincerità ingenua, disarmante eppure impossibile da prendere sottogamba, sono arrivati a trafiggere quel blocco che mi teneva rigida e a disagio sulla poltrona, indecisa su cosa pensare di tutto ciò che era passato fino a quel momento sullo schermo, e mi ha scossa con immagini di pura poesia e leggerezza, porte su un mondo da sogno che noi stupidi, fragili, brutti esseri umani passiamo la vita a negarci, appesantiti da una realtà brutale e da catene che ci creiamo da soli. Al diavolo, ho di nuovo il magone quindi la smetto, tanto la verità è che non saprei mai scrivere bene di un film come questo. Brendan, mio dolcissimo Brendan. Ti auguro con tutto il cuore che The Whale ti riporti tutto il successo che meriti perché la bellezza, quella vera, non può togliertela nessuno, e neppure il talento. E fanculo l'Oscar, fanculo l'Academy, fanculo il sistema, servono solo ai cinèfili per farsi le pippe.


Del regista Darren Aronofsky ho già parlato QUI. Brendan Fraser (Charlie), Sadie Sink (Ellie) e Samantha Morton (Mary) li trovate invece ai rispettivi link.

Ty Simpkins interpreta Thomas. Americano, ha partecipato a film come Insidious, Iron Man 3, Oltre i confini del male - Insidious 2, The Nice Guys, Insidious: L'ultima chiave, Avengers: Endgame e a serie quali CSI: Scena del crimine. Anche produttore, ha 22 anni e due film in uscita tra cui Insidious: Fear the Dark.


Hong Chau interpreta Liz. Thailandese, ha partecipato a film come Vizio di forma, The Menu e a serie quali How I Met Your Mother e CSI - Scena del crimine; come doppiatrice ha lavorato in American Dad! e BoJack Horseman. Anche sceneggiatrice, ha 44 anni e due film in uscita. 



venerdì 24 febbraio 2023

Sick (2022)

I compiti per l'Oscar mi stanno un po' rallentando i recuperi horror, ma che fretta c'è, d'altronde? Oggi parliamo di Sick, diretto nel 2022 dal regista John Hyams.


Trama: nei giorni di lockdown nazionale, due ragazze vanno a passare la quarantena nella casa al lago di una di loro. Lì verranno attaccate da un killer misterioso...


Ve lo ricordate il 2020? Ormai sembra passata una vita dai giorni del lockdown, a dimostrazione di quanto in fretta possiamo dimenticare le cose brutte e riprendere le vecchie abitudini, ma quell'anno pensavamo o che ne saremo usciti migliori (cosa rivelatasi falsissima) o che non ne saremo usciti mai più, condannati a vivere per sempre in un mondo dove le mascherine pullulavano e scarseggiava la carta igienica. Sick è ambientato proprio in quel triste periodo di incertezze e virologi e coglie in pieno l'atmosfera di rabbia impotente mista a momenti di locura che abbiamo provato più o meno tutti, terreno fertile per le imprese di un killer pronto a fare fuori chi decide di andare ad isolarsi in una casa sul lago dove i vicini si trovano a chilometri di distanza. Alla sceneggiatura c'è Kevin Williamson, lo stesso di Scream, e da questa fortunatissima e storica saga Sick riprende moltissimi elementi, come l'utilizzo dei telefoni (aggiornati all'epoca di cellulari e social) come mezzi per accrescere ulteriormente l'ansia delle vittime, il killer mascherato ma non infallibile viste le saraccate che piglia in faccia spesso e volentieri, un minimo di ironica critica sociale con conseguenti strizzate d'occhio allo spettatore consapevole e, ovviamente, ragazzi che si ritrovano la loro vita di normali studenti stravolta da qualcosa che o hanno dimenticato o non hanno proprio capito. E qui finisce l'angolo del possibile spoiler, a voi basti sapere che ci sono due ragazze isolate per un motivo validissimo e che c'è un killer che le vuole uccidere (per un motivo forse non altrettanto valido), il che fa di Sick il primo slasher uscito nel 2023 e una piccola, divertente chicca se vi piace il genere. Di più non dimandate.


Passando alla regia, dietro la macchina da presa c'è l'amico John Hyams, che già parecchie gioie ci aveva regalato con Alone, un altro film "semplice" e derivativo ma girato in modo tutt'altro che stupido. La regia di Hyams non si perde in frivolezze; in perfetta sincronia con la sceneggiatura di Williamson, si prende giusto il tempo di una rapida introduzione "con morto", due dialoghi tra le protagoniste con annessa presentazione del campo di battaglia e poi via, un rimpiattino di una quarantina di minuti che non cala quasi mai di tensione, pieno di situazioni interessantissime e inquietanti (la mia preferita, ovviamente, è la sequenza che omaggia quel capolavoro kinghiano di La zattera, a dimostrazione di quanto Creepshow mi abbia traumatizzata da ragazzina) che vedono le povere vittime in rapidissima e concitata fuga da un killer implacabile. Considerato che buona parte del film è ambientato di notte, un plauso va anche alla fotografia, grazie alla quale ogni scena è nitida e comprensibile, e un ulteriore encomio va al fatto che, diversamente da molti horror recenti, Sick si conclude senza troppe menate né ambiguità, con un bel finale deciso preceduto da abbondantissime dosi di scazzo al femminile. Per una serata "tranquilla", passata davanti a uno slasher dinamico e divertente, non potevo davvero chiedere di più. Se vi piace il genere, recuperatelo!


Del regista John Hyams ho già parlato QUI mentre Jane Adams, che interpreta Pamela, la trovate QUA.


Marc Menchaca, che interpreta Jason, aveva già partecipato ad Alone, sempre di John Hyams. Ciò detto, se Sick vi fosse piaciuto recuperate la saga di Scream. ENJOY!

mercoledì 22 febbraio 2023

Aftersun (2022)

Siccome ne stanno parlando tutti benissimo e Paul Mescal è stato candidato all'Oscar come miglior attore protagonista, ho deciso di recuperare Aftersun, diretto e sceneggiato dalla regista Charlotte Wells.


Trama: Sophie e il suo giovanissimo padre Calum sono in vacanza in Turchia, da soli. Le giornate passano nell'ozio e nel sole, ma qualcosa stona all'interno di questo apparente idillio...


Mi tocca premettere una cosa un po' antipatica. Ho cominciato a guardare Aftersun piena di aspettative, in quanto molti dei cinefili che seguo e ammiro lo hanno incensato come film dell'anno, e forse per questo sono rimasta un po' delusa dalla natura "piccola" della pellicola, la cui struttura è quella di un video diario della vacanza di un padre con una figlia. D'altra parte, il fatto che non fosse conforme alle mie aspettative, non fa di Aftersun un brutto film, anzi. L'enorme pregio del primo lungometraggio di Charlotte Wells è quello di riuscire a tenere desta l'attenzione dello spettatore nonostante "non succeda nulla" per tutta la sua durata, costruendo una sottilissima ma resistente tela di tensione che spinge a rimanere sul chi va là, ad aspettare una tragedia incombente, uno scoppio di violenza (non necessariamente fisica), una rivelazione plateale, che in realtà non arrivano e che lasciano spazio alla sensibilità del singolo in uno dei finali più malinconici della passata stagione. Un altro, enorme pregio di Aftersun è che i personaggi e il legame che li unisce vengono tratteggiati con pochi dialoghi naturali, quelli che ci si potrebbe aspettare tra una vivace ragazzina di undici anni e il suo giovane papà, messi in bocca a due attori bravissimi; l'effetto complessivo è quello di un ricordo lungo e sfaccettato, filtrato dalla giovane età della protagonista, nel quale una vacanza forse anche un po' triste, di quella tristezza fatta di villaggi turistici per famiglie, si trasforma in una memoria indelebile, in grado di segnare l'esistenza di una persona e lasciare strascichi anche nell'età adulta.


Tutto ciò che Aftersun non dice, viene comunque espresso dalle sequenze incentrate sull'espressività di Paul Mescal, impegnato in un personaggio dalla psiche complessa e difficile, un momento padre "bambino" pronto a spassarsela con la figlioletta, quello dopo silenzioso e tormentato uomo che probabilmente vorrebbe essere a miglia di distanza dalla Turchia, abbandonato a un dolore impossibile da comunicare. Il tempo passato, filmato con una camera digitale a mano e, probabilmente, lasciato qualche volta all'improvvisazione degli attori, viene intervallato da sprazzi di presente vissuti da una Sophie adulta che arriviamo a conoscere poco, e da un sogno ricorrente che la vede in una scurissima discoteca a ballare con suo padre, sequenze caratterizzate dalla presenza di luci stroboscopiche che rendono difficile cogliere le immagini con chiarezza, come se il ricordo del genitore stesse a poco a poco abbandonando Sophie e il video di quella mitica vacanza fosse l'unico mezzo per mantenerlo nitido. Nonostante sia un film piccolo, dunque, Aftersun è pieno di cose da comunicare e, soprattutto, la Wells dimostra di avere moltissimi mezzi per farlo al meglio, anche nella scelta di una colonna sonora interessantissima e commovente, che fa di Under Pressure il pezzo portante di una delle scene più intense e "cult" dell'anno. Personalmente, sono molto curiosa di sapere cosa combinerà quest'autrice in futuro, intanto vi consiglio di recuperare questo Aftersun; nonostante per me non sia il film dell'anno è comunque una pellicola intensa e originale, che merita almeno una visione. 

Charlotte Wells è la regista e sceneggiatrice della pellicola, al suo primo lungometraggio. Scozzese, ha 36 anni ed è anche produttrice e attrice. 


Paul Mescal
interpreta Calum. Irlandese, ha partecipato a La figlia oscura. Ha 27 anni e due film in uscita.



martedì 21 febbraio 2023

Venus (2022)

Questo mese è uscito anche Venus, l'ultimo film del regista Jaume Balagueró, diretto nel 2022.


Trama: dopo avere derubato i suoi datori di lavoro ed essere stata ferita gravemente a una gamba, la cubista Lucía cerca rifugio da sua sorella Rocio e dalla nipotina Alba. Quello che Lucía non sa è che il condominio dove vivono le due nasconde un terribile segreto...


Dopo il deludente VeneciafreníaÁlex de la Iglesia si riserva il ruolo di produttore e presenta Venus come seconda pellicola di The Fear Collection, un progetto horror internazionale che vede coinvolti la Sony Pictures International, Amazon Prime Video e la Pokeepsie Films, casa di produzione del regista. Venus segna il ritorno di Balagueró alle atmosfere di [Rec] e mostra, ancora una volta, quanto gli sia congeniale ambientare le sue terrificanti storie all'interno di ambienti grandi ma comunque chiusi, per esempio una nave o un condominio, che sia popolato oppure decadente e quasi disabitato, come in questo caso. A ritrovarsi suo malgrado all'interno del condominio che dà il titolo al film è Lucía, una cubista che ruba un'enorme partita di pasticche ai suoi datori di lavoro e, ferita, è costretta a cercare rifugio dalla sorella che non vede da anni e con la quale ha un rapporto a dir poco pessimo; Rocio, da parte sua, stava cercando proprio di scappare da Venus con la figlioletta, in quanto l'appartamento dove abitano le due è spesso teatro di episodi sovrannaturali poco rassicuranti e pericolosi, durante i quali la piccola Alba viene designata come destinataria di inquietanti "doni" elargiti da una misteriosa "servitrice". Quello che accadrà dopo questo incontro/scontro a voi non interessa conoscerlo, accontentatevi di sapere che Venus è un vivace e sanguinoso pout-pourri che mescola atmosfere apocalittiche, topoi di un certo tipo di horror sovrannaturale a base di presenze demoniache (per rimanere in Spagna, a tratti mi ha ricordato un po' il recente The Grandmother ma anche Verónica) e persino elementi da heist movie zamarro popolato da criminali senza scrupoli e decisamente pittoreschi. E' una pellicola dal ritmo serrato, che tiene desta senza problemi la curiosità dello spettatore (ne è un esempio il Bolluomo, che passava di lì per caso e non si è più staccato dallo schermo), mette parecchia ansia grazie anche all'utilizzo di sequenze oniriche prive di una reale continuità, così da incrementare l'atmosfera claustrofobica, e riesce, con un paio di pennellate, a dare vita a personaggi interessanti e credibili, coi quali è facile empatizzare.


Buona parte del merito, almeno per quest'ultimo aspetto, va all'ottimo casting. La splendida Ester Expósito, che interpreta Lucía, ha il phisique du role della final girl alla quale vengono riservate le peggio cose e il regista non si fa scrupolo a ricoprirla di sangue e "imbruttirla", per quanto possibile, ma non è solo grazie a fisicità e make-up che la fanciulla buca lo schermo; la Lucía della Expósito subisce una graduale trasformazione psicologica, da bambolotta spaventata a terrificante giustiziera caricata a mille (le sequenze prima del finale sono così esaltanti ed esagerate da meritare l'applauso nonostante siano del tutto inverosimili!), e sul finale spunta qualcos'altro ad arricchire la sua bellezza, rendendola letteralmente divina. Alla Expósito si affiancano una serie di caratteristi uno più bello dell'altro, con menzione d'onore alle peculiari vicine di casa di Rocio e alla sensitiva dai metodi "discutibili", mentre tutto il codazzo di malviventi sulle tracce di Lucía sarebbero perfetti in qualunque film "di menare" come avversari di un eventuale, cazzutissimo protagonista. Menzione d'onore, infine, alla colonna sonora: se il socio di Balagueró, Paco Plaza, mi aveva commossa inserendo gli Heroes del Silencio all'interno di Verónica, in Venus possiamo godere non solo di una martellante melodia techno che accompagna la sequenza più delirante del film, ma anche di glorie nostrane come Musica leggerissima e l'inaspettata Nessuno di Mina, tutte cose che, per quanto mi riguarda, aumentano il valore di un film già meritevole di suo. Sperando che arrivi presto anche sul nostro Amazon Prime Video, vi consiglio di non perderlo!
 

Del regista Jaume Balagueró ho già parlato QUI.


Se Venus vi fosse piaciuto recuperate The Grandmother e Il giorno della bestiaENJOY! 

venerdì 17 febbraio 2023

Tár (2022)

E' uscito qualche giorno fa, con una distribuzione abbastanza pietosa, Tár, diretto e sceneggiato nel 2022 dal regista Todd Field e candidato a 6 premi Oscar (Miglior Attrice Protagonista, Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Sceneggiatura Originale, Miglior Fotografia e Miglior Montaggio).


Trama: Lydia Tár è una famosissima direttrice d'orchestra all'apice del successo. Alcuni scandali e reiterate accuse di favoritismi, tuttavia, fanno tramontare la sua stella...


A dimostrazione di quanto poco mi informi sui film prima di guardarli, ero straconvinta che Tár fosse la biografia di una direttrice d'orchestra realmente esistita e ancora vivente. La prima ora del film di Todd Field, in effetti, non è riuscita a dissuadermi, in quanto è strutturata come un documentario (fotografato e diretto con tutti i crismi ed eleganza innaturale, ma pur sempre un documentario) sulla vita di questa donna straordinaria e raffinatissima, che con piglio grintoso e deciso passa le sue giornate tra interviste, prove di registrazione, importanti decisioni legate alla gestione della Filarmonica di Berlino e mille altri impegni snocciolati attraverso dialoghi talmente dettagliati e legati a termini tecnici che per buona parte del tempo ho fatto fatica a seguirli. Anzi, per la prima ora ho fatto proprio fatica a seguire il film, a farmi coinvolgere dalla storia raccontata, in quanto, di fatto, questo tempo viene utilizzato "solo" per introdurre il personaggio di Tár e l'ambiente in cui vive. La storia comincia a muovere i primi, piccoli passi, nel momento in cui un'altra direttrice d'orchestra si suicida lasciando intendere che il motivo della sua decisione sia proprio il comportamento scorretto della Tár, ed è qui che mi sono effettivamente venuti dei dubbi relativamente alla natura biografica dell'opera, perché la rappresentazione di una potenziale indagata per istigazione all'omicidio era anche troppo "personale" e distante dai canoni della crime fiction. Spoiler alert: Tár NON è un film biografico, l'avrete capito tutti, e, a dimostrazione di quanto non sia mai contenta, una volta scoperto l'arcano mi è dispiaciuto che non lo fosse, in quanto, nonostante l'impegno profuso da tutti i coinvolti per creare un personaggio e un mondo così tanto verosimili da trarre in inganno, non sono riuscita comunque a farmi coinvolgere dalla progressiva caduta dall'Olimpo di Lydia Tár. O, meglio, di sicuro il film è diventato molto più interessante, perché se non altro hanno cominciato ad evidenziarsi le crepe e le imperfezioni della protagonista, tuttavia non sono riuscita ad empatizzare con quest'ultima nonostante l'innegabile bravura di Cate Blanchett.


L'attrice australiana offre l'interpretazione strepitosa di una donna ossessionata dal potere e dall'amore per se stessa, di una persona che si sforza in ogni momento di veglia di indossare una maschera di cultura, fascino e carisma, negando la propria fragilità e le proprie radici, che ovviamente arrivano, assieme ai peccati, a tormentarne le notti allontanandola da quello che dovrebbe essere l'unico motivo della sua esistenza: la musica. La musica, in Tár, si fa status symbol, è raro che veicoli emozioni e, quando lo fa, sono emozioni da cui la protagonista tenta di scappare o che non riesce a gestire e forse è per questo, paradossalmente, che non ricordo una sola nota della colonna sonora di Hildur Guðnadóttir, compositrice che solitamente riesce a toccare le corde del mio animo. In tutto questo, lungi da me definire Tár un brutto film, perché oggettivamente non gli manca nulla ed è, in primis, curatissimo sia a livello di sceneggiatura (io posso non essermi granché emozionata ma indubbiamente scava a fondo nella psiche della protagonista ed è perfetta nel rappresentare come quest'ultima si rapporta col mondo che la circonda, a cominciare dagli affetti) che di regia, quest'ultima impreziosita da una splendida fotografia che rende le immagini ancora più nitide; in più, ha vinto una marea di premi e non si contano le candidature, per non parlare del fatto che Martin Scorsese ha dichiarato addirittura che la visione di Tár riesce a spazzare via le nubi e a far tornare il sole. Tuttavia, nonostante questo, a me è sembrato che la vera forza di Tár risiedesse essenzialmente in Cate Blanchett e che, senza la sua nervosa, dolorosissima interpretazione, del film sarebbe rimasto ben poco da ricordare. Sono una capra, che volete farci. D'altronde, mi chiamo Erica Bolla, mica Henrietta Boullet. 


Di Cate Blanchett (Lydia Tár) e Mark Strong (Eliot Kaplan) ho parlato ai rispettivi link. 

Todd Field è il regista e sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto film come In the Bedroom e Little Children. Anche attore, produttore e compositore, ha 59 anni.


Noémie Merlant
interpreta Francesca Lentini. Francese, ha partecipato a film come Ritratto della giovane in fiamme e Jumbo. Anche regista, sceneggiatrice e produttrice, ha 35 anni e tre film in uscita. 


Se Tár vi fosse piaciuto recuperate Whiplash. ENJOY!

mercoledì 15 febbraio 2023

Niente di nuovo sul fronte occidentale (2022)

Dopo averlo serenamente snobbato all'uscita su Netflix, è successo che Niente di nuovo sul fronte occidentale (Im Westen nichts Neues), diretto e co-sceneggiato dal regista Edward Berger a partire dal romanzo omonimo di Erich Maria Remarque, abbia ottenuto ben 9 candidature agli Oscar (Miglior Film, Miglior Film Straniero, Miglior Sceneggiatura Non Originale, Miglior Fotografia, Miglior Scenografia,  Miglior Trucco e Acconciature, Miglior Colonna Sonora Originale, Miglior Sonoro e Migliori Effetti Speciali), quindi è scattato il recupero in automatico.


Trama: il giovane Paul si arruola volontario nell'esercito tedesco e viene mandato sul fronte occidentale durante la prima guerra mondiale. Nel corso di anni terribili e logoranti, il ragazzo e i suoi compagni subiscono tutto l'orrore della guerra...


Siccome non amo particolarmente le opere che hanno la guerra come argomento, posso confessare in tutta serenità non solo di non avere mai letto Niente di nuovo sul fronte occidentale, ma anche di non avere mai guardato i due film tratti dal romanzo. Come ho scritto sopra, avrei saltato tranquillamente anche questo, ma data la mole di nomination ottenute mi sono messa lì col Bolluomo a guardalo, sfruttando l'abbonamento Netflix, e sono contenta di averlo fatto. Certo, ancora non mi spiego la marea di nomination piovute addosso al film, soprattutto la combo Miglior Film e Miglior Film Straniero, ma comunque Niente di nuovo sul fronte occidentale è stata una visione piacevole, ovviamente in senso lato. Non può infatti definirsi tale una pellicola che sottolinea quasi in ogni sequenza l'orrore della guerra, non solo ideologico ma proprio fisico, e che in definitiva mostra per oltre due ore le vite di uomini giovani e speranzosi gettate nel fango, nel sangue e nella sporcizia di una terrificante ed inutile guerra di trincea. Niente di nuovo sul fronte occidentale si focalizza sull'esperienza del giovanissimo Paul Bäumer che, in un impeto di gloria nazionalista fomentata da insegnanti e amici, ha deciso di arruolarsi al fronte nonostante i genitori fossero riusciti a sottrarlo alla leva obbligatoria, convinto di portare lustro alla Germania e, soprattutto, di impegnarsi in una guerra lampo che l'avrebbe vista vittoriosa. La realtà del conflitto sul fronte occidentale esplode in faccia a Paul fin dalle prime sequenze, caratterizzandosi per un'immobilità pressoché totale alternata ad una serie di sanguinosi eccidi per conquistare pochi centimetri di terreno al prezzo di innumerevoli e giovani vite, tanto che i rari intermezzi "politici" del film sembrano quasi una presa in giro o un tentativo di chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati.


Niente di nuovo sul fronte occidentale si distingue per una messa in scena quasi "pornografica" della guerra e dei suoi orrori, grazie a scene degne di un film horror che riversano sullo spettatore tutto il dolore fisico a cui, magari, spesso non si pensa; al "uno sparo ed è tutto finito", Edward Berger preferisce la lenta agonia di corpi arsi vivi, schiacciati dal peso dei carri armati, soffocati dalla terra e dal fango delle trincee abbattute, persino dilaniati da armi improprie, e sottolinea (se ancora ce ne fosse bisogno) la stupidità e l'orrore della morte, che non guarda in faccia proprio nessuno. In questo senso, la sequenza più angosciante e grottesca è quella principale, che descrive l'orribile "cerchio della guerra" attraverso gli occhi di un soldato al quale, nel giro di pochissimi minuti, viene tributata la stessa importanza del protagonista, così da colpire ancora di più lo spettatore con la sua inevitabile morte. A proposito del protagonista, stupisce che il giovanissimo Felix Kammerer sia solo alla sua prima prova cinematografica dopo pochi anni di gavetta teatrale, perché l'intensità dello sguardo del suo Paul è qualcosa che rimane impresso a lungo, soprattutto quando la macchina da presa indugia, verso la fine, su quegli occhi privi di vitalità che spiccano su un viso ricoperto di fango e sangue che di umano non ha più nulla. Nel mare magnum delle produzioni Netflix, Niente di nuovo sul fronte occidentale spicca per la qualità e la potenza espressiva nonostante la sua natura "classica", spezzata solo dalla colonna sonora minimalista e particolare, quasi anacronistica; non è uno di quei film per cui farò il tifo a marzo, però merita tutto il mio rispetto e il consiglio che vi do è quello di recuperarlo, se siete titubanti come lo ero io, perché ne vale la pena. 


Di Daniel Brühl, che interpreta Matthias Erzberger, ho già parlato QUI.

Edward Berger è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Tedesco, ha diretto episodi di serie come The Terror. E' anche produttore.


Del romanzo di Remarque esistono altri due adattamenti, All'ovest niente di nuovo di Lewis Milestone, che ha vinto un Oscar per la Regia e uno come Miglior Film, e il film TV Niente di nuovo sul fronte occidentale, che vanta nel cast attori come Richard Thomas, Ernest Borgnine, Donald Pleasence e Ian Holm. Personalmente non li ho mai visti ma se Niente di nuovo sul fronte occidentale vi fosse piaciuto potreste guardarli e aggiungere 1917, La sottile linea rossa, Salvate il soldato Ryan e persino l'horror Deathwatch - La trincea del male. ENJOY!

martedì 14 febbraio 2023

Bussano alla porta (2023)

Siccome neppure questo film è uscito a Savona, sfruttando una giornata di shopping compulsivo all'Ikea ho trascinato il Bolluomo a Genova a vedere Bussano alla porta (Knock at the Cabin), diretto e co-sceneggiato dal regista M. Night Shyamalan a partire dal romanzo La casa alla fine del mondo di Paul Tremblay. Niente spoiler, tranquilli!!


Trama: mentre Wen e i suoi due papà, Eric ed Andrew, sono in vacanza al lago, quattro persone si presentano al loro chalet, armati e con una terribile richiesta...


Toc toc! Chi è? Ussignur, non aprire che c'è Bautista e se gli gira il belino con una schicchera ti scombina le ossa. Ah no, aspetta, peggio ancora: c'è il Ron Weasley di un universo alternativo dove alla magia si sono sostituite le droghe pesanti. Seh, ti piacerebbe: in realtà c'è Shyamalan che vuole venderti la mitica friggitrice ad aria, così poi ti tocca finire su Cucinare Male, e forse questa è la cosa peggiore di tutte. Insomma, chiunque stia bussando alla vostra porta, da che mondo è mondo, se vi trovate in un thriller horror sarebbe meglio non aprire, perché le conseguenze non sono mai belle, soprattutto quando al timone di tutto c'è Shyamalan. Visto che il regista ormai alterna un film decente a un film orribile e che la sua ultima pellicola, Old, era un disastro involontariamente comico, stavolta è andata bene e Bussano alla porta si è rivelato un'opera assai piacevole, almeno fino a un certo punto. Shyamalan si è affiancato ad altri due sceneggiatori per adattare il romanzo La casa alla fine del mondo di Paul Tremblay che, miracolo dei miracoli!, sono riuscita a leggere a gennaio proprio per prepararmi a Bussano alla porta; le due opere sono fondamentalmente identiche salvo per un dettaglio non proprio minuscolo, il quale, tuttavia, non inficia la bontà dell'adattamento filmico che, in sostanza, mantiene il nucleo fondamentale di una home invasion atipica ai danni di una famiglia adorabile, composta dalla splendida, dolcissima Wen e dai suoi due papà. In vacanza, questi ultimi si ritrovano alla porta quattro personaggi armati di oggetti dall'aspetto assai pericoloso, i quali pretendono di entrare in casa e di parlare, costringendo la famigliola a prendere una decisione terribile ma importantissima per il futuro dell'umanità tutta. I quattro, nonostante l'aspetto minacciosissimo, promettono di non usare alcuna forma di violenza su Wen e i suoi papà, il che ovviamente è una svolta straniante per lo spettatore, il quale si aspetta che la decisione venga estorta alla famiglia con la forza, e la convinzione che, prima o poi, i quattro invasori disattenderanno la promessa, è il primo strato di una spessa coltre di inquietudine che permane fino alla fine di Bussano alla porta.


Allo stravolgimento delle dinamiche di base del genere home invasion si aggiunge un progressivo ma costante mutamento dei punti di vista attraverso i quali vengono raccontati gli aspetti fondamentali della vicenda, aspetto che contribuisce ancora di più all'incertezza dello spettatore. Se, all'inizio, i papà di Wen rappresentano la razionalità assoluta contrapposta ai deliri mistici dei quattro invasori, gli sceneggiatori si prefiggono di instillare anche in Eric ed Andrew, a poco a poco, il tarlo del dubbio e lo stesso, con una mossa speculare, avviene verso il finale con i loro aguzzini, in un costante ribaltamento di ruoli che mantiene vivi sia la tensione che l'interesse verso la vicenda; di più, per chi non avesse letto il romanzo c'è anche la questione dell'attesa di un possibile Shyamalan twist a cui il regista ci ha abituati da anni, e l'ovvia conseguenza di questa abitudine è la necessità di non perdersi neppure un dettaglio di ciò che viene mostrato sullo schermo. A tal proposito, Shyamalan sarà anche (almeno per quanto mi riguarda) uno sceneggiatore sopravvalutato, ma come regista c'è da togliersi il cappello. Bussano alla porta è un trionfo di primissimi piani schiaccianti e riprese claustrofobiche, con alcune sequenze ad altezza bambino che rappresentano alla perfezione il senso di sconfortata impotenza di chi si ritrova piccolo ed inerme davanti a qualcosa di incomprensibile (il che vale anche per gli adulti presenti, e l'ho trovata una cosa geniale!), intervallate da allucinati ed allucinanti sguardi al mondo esterno, che si traducono in momenti da incubo. Shyamalan, stavolta, mostra anche di saperci fare col cast e si accaparra un Bautista perfetto per il ruolo di Leonard, che dal romanzo risulta essere un gigantesco capo farlocco, un umanissimo signor nessuno diventato protagonista per caso, il che costringe l'attore ad un'interpretazione misuratissima che non scade mai nel ridicolo, e anche gli altri attori brillano di luce propria. C'è qualcosa, sul finale, che non mi è andato assolutamente giù e ne parlerò dopo la Batista Bomb messa come riga dello spoiler, ma è qualcosa che magari ha dato fastidio solo a me e che non dovrebbe dissuadervi dall'andare in sala a godervi Bussano alla porta, che abbiate o meno letto La casa alla fine del mondo, in quanto merita almeno una visione. Non è uno dei film più felici che vi capiterà di vedere, ma quale film lo è in questo periodo? 


SPOILER:

Mamma mia quanto mi ha urtato lo spiegone finale messo in bocca ad Eric, agnello sacrificale costretto a convincere il compagno ad ucciderlo per salvare l'umanità. La storia dei quattro cavalieri dell'Apocalisse, accompagnata da agili "diapositive" dei quattro invasori, nel caso ce li fossimo già dimenticati dopo 5 minuti dalla loro progressiva dipartita, mi ha fatto scendere i marroni a un livello tale che giusto la commovente sequenza in macchina con Wen e il papà superstite è riuscita a tirarmeli un pochino su. Certo, la spontanea rinuncia alla propria vita per un bene più grande, unita alla fiducia cieca verso l'umanità tutta, è coerente con una sceneggiatura che risparmia allo spettatore la morte di Wen (per fortuna!), là dove il romanzo era di un pessimismo fuori dalla grazia di qualunque divinità, ma lo stesso, secondo me, si poteva trovare un modo meno didascalico di concludere il tutto. Eh, lo so, purtroppo Shyamalan è fatto così e dobbiamo tenercelo e di sicuro meglio il piccolo spiegone di Bussano alla porta che lo spiegone fatto a film che era Old, però che due palle cubiche, Manoj!


Del regista e co-sceneggiatore M. Night Shyamalan, che compare anche come conduttore di televendite, ho già parlato QUI. Dave Bautista (Leonard) e Rupert Grint (Redmond) li trovate invece ai rispettivi link. 

Jonathan Groff interpreta Eric. Americano, ha partecipato a film come American Sniper e a serie quali Mindhunter; come doppiatore ha lavorato in Frozen - Il regno di ghiaccio (è la voce originale di Kristoff), Frozen 2 - Il segreto di Arendelle, Frozen Fever, Frozen - Le avventure di Olaf e I Simpson. Anche produttore, ha 38 anni. 


Nikki Amuka-Bird interpreta Sabrina. Nigeriana, ha partecipato a film come Omen - Il presagio, Coriolanus, Panama Papers, Old e a serie quali Doctor Who. Ha 47 anni. 


Se Bussano alla porta vi fosse piaciuto recuperate The Visit, The Strangers e Noi. ENJOY! 

venerdì 10 febbraio 2023

Il mostro dei mari (2022)

Alla sua uscita su Netflix lo avevo snobbato ma, vista la sua candidatura all'Oscar come Miglior Film Animato, ho recuperato in questi giorni Il mostro dei mari (The Sea Beast), diretto e co-sceneggiato nel 2022 dal regista Chris Williams.


Trama: la piccola Maisie si imbarca come clandestina sulla nave di Capitan Crow, anziano ed esperto cacciatore di mostri marini, e conosce il suo secondo, Jacob Holland. Assieme a quest'ultimo, la ragazzina scoprirà una realtà inimmaginabile sulle terribili creature che popolano il mare...


Come ogni anno, la mia follia mi impone di recuperare quanti più film nominati possibili, nonostante riconosca che ormai la "magica" notte degli Oscar di magico non abbia più nulla o quasi. Lo dimostra la candidatura di questo Il mostro dei mari, pellicola molto carina, sì, ma non indimenticabile né particolarmente originale, che alla fine della visione mi ha portata a chiedermi quanta animazione (Americana ed internazionale) venga sacrificata dai membri dell'Academy per ignoranza, pigrizia o nazionalismo, oppure quanto sia basso il livello generale della stessa, se a spiccare è un film come questo. Ciò detto, dimentichiamo un attimo gli Oscar, perché parlare male di un'opera godibile e intelligente come Il mostro dei mari è un peccato. Il film di Chris Williams si ambienta in un'epoca non precisata di un posto non precisato (che sembrerebbero però ispirati all'Inghilterra del '600, a naso), dove ciurme di cacciatori solcano i mari alla ricerca di mostri da abbattere e portare ai reali della zona, eredi di una tradizione che risale a tempi lontanissimi. "Re" dei cacciatori di mostri è il Capitano Crow che, alla guida della nave chiamata Inevitabile, ha come unico obiettivo quello di catturare la Furia Rossa, un mostro che anni prima lo ha privato di un occhio. Essendo anziano, Crow è quasi arrivato al punto di dover cedere il comando della nave, e il successore designato è Jacob Holland, fiero e capace avventuriero nonché figlio putativo del capitano. Quest'ultimo incontra un giorno la piccola Maisie, che vorrebbe a sua volta far parte della ciurma, spinta dai racconti che vengono tramandati di generazione in generazione e che dipingono i cacciatori come eroi che "vivono una grande vita e muoiono di gran morte", unica salvezza di un mondo dove un tempo la gente veniva uccisa brutalmente dai mostri; l'innocenza di Maisie, come spesso accade nei cartoni animati recenti, aprirà gli occhi a Jacob su una realtà differente, portandolo a mettere in discussione verità date per scontate e a prediligere dialogo e tolleranza su una cieca sete di vendetta che rischia di esacerbare i conflitti e renderli infiniti.


Un po' Moby Dick, un po' (troppo) Dragon Trainer, Il mostro dei mari non è proprio originalissimo a livello di trama, benché offra degli spunti interessanti, tuttavia è soprattutto nel comparto tecnico che brilla, con animazioni spettacolari, colori brillanti e architetture da sogno (la città dove vivono i reali è un trionfo, meravigliosa). Chris Williams, dopo l'esperienza con Oceania, è indubbiamente diventato molto bravo a gestire gli scenari marini e a confezionare ottime scene d'azione zeppe di personaggi (d'altronde ha lavorato anche in Big Hero Six) e, nonostante le ovvie "licenze artistiche" prese dagli animatori, il film offre uno spaccato abbastanza realistico per quanto riguarda la vita su una nave e le manovre che servono per farla muovere; anche i mostri hanno un character design molto interessante, tra quelli più realistici ed orripilanti come il granchio gigantesco che combatte contro la Furia Rossa, per arrivare a quelli più deliziosi, come la Furia Rossa stessa o il meraviglioso Blu, che personalmente vorrei avere in casa come cucciolo. Anzi, forse il brutto de Il mostro dei mari è che di mostri se ne vedono anche pochi, e sembra quasi che i realizzatori si siano concentrati soprattutto sugli esseri umani e sulle relazioni tra questi ultimi, complicate al punto che è difficile tracciare una linea netta tra buoni e cattivi (salvo per la presenza di un paio di villain effettivi che, come accade nella realtà, sono perfettamente integrati con la società), anche perché molti membri della ciurma di Crow sono costretti, nel corso del film, ad affrontare un importante percorso di crescita e ad allontanarsi dalla "leggenda" che li dipinge come perfetti. Probabilmente, Williams e soci aggiusteranno il tiro per il prossimo capitolo, già in produzione visto il successo ottenuto su Netflix da Il mostro dei mari, quindi ho idea che il paragone fatto all'inizio con Dragon Trainer non sia poi così peregrino. Nell'attesa, Il mostro dei mari è un ottimo film per tutta la famiglia e il mio consiglio è quello di prendersi una serata per guardarlo. 


Del regista e co-sceneggiatore Chris Williams ho già parlato QUI. Karl Urban (voce originale di Jacob Holland), Jared Harris (Capitan Crow) e Dan Stevens (Ammiraglio Hornagold) li trovate invece ai rispettivi link.


Se Il mostro dei mari vi fosse piaciuto recuperate la trilogia di Dragon Trainer, Oceania e La canzone del mare. ENJOY!

mercoledì 8 febbraio 2023

Nanny (2022)

Consigliata dall'amica Silvia, ho recuperato su Prime Video il film Nanny, diretto e sceneggiato dalla regista Nikyatu Jusu.


Trama: Aisha è un'immigrata che lavora per buona parte della giornata come babysitter per una famiglia facoltosa, così da consentire al figlioletto, rimasto in patria, di raggiungerla. A un certo punto, però, Aisha comincia a venire perseguitata da inquietanti presenze...


Un avviso agli sparuti naviganti, così non vi create false aspettative com'è successo a me. Nanny viene definito thriller sovrannaturale ma è un prodotto atipico, che di thriller ha davvero poco o nulla; ci sono alcune sequenze perturbanti, legate al folklore della terra da cui proviene la protagonista, il Senegal, spunti assai interessanti che (per quanto mi riguarda, ovviamente) la regista e sceneggiatrice avrebbe potuto approfondire di più, ma fungono quasi da corollario per una storia profondamente ancorata alla realtà. E quest'ultima, neanche a dirlo, è orribile e fa più paura, oltre che più male, di qualunque racconto horror. Preso atto, dunque, del fatto che Nanny è uno slow burn che potrebbe non piacere a buona parte degli amanti del cinema "di paura", parliamone un pochino. L'opera prima di Nikyatu Jusu si focalizza sul personaggio di Aisha, giovane immigrata senegalese senza documenti, che lavora a New York presso una facoltosa famiglia di minchioni. Uso questo aggettivo non a caso, perché non saprei come  altro definire Alison e il marito, la tipica coppia che ha messo al mondo una figlia tanto per, ognuno dei due concentrato a vivere la propria esistenza di successo e a imporre agli altri (bambina compresa) le proprie stressanti imposizioni e convinzioni, con una superficialità inenarrabile; Aisha, poverella, sopporta, perché i due minchioni hanno i soldi che le servono per portare a New York il figlioletto che non vede da un anno, rimasto in Senegal con la sorella. Col piccolo, ovviamente, i rapporti si stanno sfilacciando, perché per un bambino di sei anni il tempo scorre molto diversamente rispetto a un adulto, di conseguenza Aisha è una giovane donna sofferente, lontana dalla famiglia e dagli amici, persa in un Paese che la tratta con diffidenza, costretta a fare più ore dell'orologio per ottenere una felicità che i suoi datori di lavoro danno per scontata al punto da non farci nemmeno più caso. Logico che qualcosa, a un certo punto, in Aisha si rompa.


La particolarità di Nanny, tuttavia, non è la progressiva deriva psicotica della protagonista, come ci si potrebbe aspettare in questo genere di film. Le presenze che arrivano a perseguitare Aisha nel momento in cui il controllo della sua vita comincia a sfuggirle di mano sono, come detto in uno dei dialoghi, "né buone né cattive", nonostante diventino sempre più insistenti; Anansi e le sirene veicolano un messaggio ben preciso e fungono da contatto con un mondo da cui Aisha rischia di staccarsi pur non volendo, ma più il terrore nel cuore della protagonista aumenta, più si affermano la sua freddezza e determinazione, per non parlare della (giusta) rabbia, almeno fino a un angosciante punto di rottura che mi ha lasciata più sconvolta di mille jump scares. La regia e la sceneggiatura di Nikyatu Jusu danno proprio l'idea di un mondo altro, sempre presente anche in un Paese lontano dove le divinità ancestrali sono state dimenticate, sacrificate a un dio denaro implacabile che costringe le persone a fare scelte tristissime per amore, e l'interpretazione di Anna Diop conferisce ulteriore potenza al messaggio veicolato dalla regista. L'attrice, americana di origine senegalese, ha una bellezza incredibile e interpreta Aisha donandole un misto di forza e delicatezza semplicemente perfette. Si potrebbe dire che la Diop regge da sola l'intero film, in realtà il resto del cast trae forza dalla sua e si vanno a creare delle alchimie perfette, sia in negativo (sfido chiunque a non voler strangolare i genitori della pargoletta, una con le sue crisi di nervi e l'altro col suo finto cosmopolitismo) sia in positivo, col dolcissimo Malik e la sua interessante nonna, due personaggi di cui, onestamente, avrei voluto venisse maggiormente approfondito il background. Nanny non è film perfetto, soprattutto per quanto riguarda una sceneggiatura che, a tratti, perde ritmo e va un po' fuori fuoco, ma alcune sequenze sono splendide e, per essere un'opera prima, fa davvero ben sperare per i futuri lavori della regista. Dategli una chance e fatemi sapere che ne pensate! 


Di Michelle Monaghan, che interpreta Amy, ho già parlato QUI.

Nikyatu Jusu è la regista e sceneggiatrice della pellicola. Americana, è al suo primo lungometraggio ed è anche produttrice. 


Anna Diop, che interpreta Aisha, aveva già partecipato al film Noi. Se Nanny vi fosse piaciuto recuperate His House. ENJOY!


martedì 7 febbraio 2023

Bolle dall'Abisso: Gli spiriti dell'isola (2022)

Oggi tocca a Vidur di Pellicole dall'Abisso parlare di uno dei film più belli dell'anno, ovvero Gli spiriti dell'isola (The Banshees of Inisherin), diretto e sceneggiato da Martin McDonagh, candidato a ben 9 Oscar: Miglior Attrice Non Protagonista Kerry Condon, Miglior Attore Protagonista Colin Farrell, Miglior Colonna Sonora Originale,  Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Attore Non Protagonista Brendan Gleeson e Barry Keoghan, Miglior Sceneggiatura Originale e Miglior Montaggio. ENJOY!



Assoluto outsider, nonché quasi un unicum nella cinematografia mainstream moderna, la nuova opera di Martin McDonagh è un film destinato a mietere premi (candidato a 9 Oscar!), strappare consensi dalla critica e a, quasi fisiologicamente, dividere i gusti del pubblico.



McDonagh aveva già fatto il botto con l’eccellente Tre manifesti a Ebbing, Missouri, dopo un paio di cult passati sottotraccia come In Bruges e 7 Psicopatici, e si conferma essere uno degli autori più coraggiosi e fuori dagli schemi di questi disgraziati decenni.

Gli Spiriti dell’Isola narra una storia apparentemente semplice, se vogliamo banale, di un’amicizia che si interrompe all’improvviso e senza una spiegazione. Il vecchio e introspettivo Colm, un violinista, decide infatti, da un giorno all’altro, di non parlare più al suo migliore amico, Pádraic, un allevatore tanto puro di cuore quanto povero di ingegno. Le conseguenze del gesto di Colm saranno terribili e imprevedibili, accentuate dal fatto che il tutto si svolge in una piccola isola (di fantasia) al largo della costa irlandese, ai tempi della guerra civile.



Dramma con tante punte ironiche, basato quasi esclusivamente sui dialoghi, Gli Spiriti dell’Isola si presenta come un film concettuale, in cui le dinamiche che coinvolgono lo stolido ma gentile Pádraic e il profondo ma spocchioso Colm, fanno da specchio a molteplici interpretazioni. Si può passare da una metafora dei conflitti tra gli uomini che nascono per motivi futili per poi trasformarsi in guerre fratricide, ad una sorta di coming of age del protagonista  - costretto a crescere e a mettersi in discussione per la prima volta nella vita - o ad una contrapposizione di approccio all’esistenza stessa, fino ad arrivare ad una riflessione più terrena sul tema dell'amicizia. Quale che sia il significato che aveva in mente il regista, lo scopo di far nascere nello spettatore più di una riflessione è sicuramente riuscito, così com’è riuscito a rendere interessante una trama teoricamente esile, ma in realtà molto potente.

Certo, non si tratta di un film per tutti: alcuni lo troveranno incredibilmente noioso e senza senso e, d’altronde io stesso, al termine della visione ho provato una certa sensazione di frustrazione per la mancanza del cosiddetto “payoff”, forse retaggio di un cinema che vuole spesso e volentieri un finale netto e definito. 



Dove Gli Spiriti dell’Isola vince a mani basse è in tutto il resto: l’interpretazione dei due protagonisti, Colin Farrell e Brendan Gleeson (padre di Domnhall) è veramente di altissimo livello e se il buon Colin si aggiudicasse davvero l’Oscar non ci sarebbe nulla da dire. Fantastici anche i comprimari, in particolare la sorella di Pádraic, Kerry Condon, e “lo scemo del villaggio”, Dominic, quel Barry Keoghan che aveva già lavorato con Colin Farrell ne Il Sacrificio del Cervo Sacro di Lanthimos.

A livello visivo, il film è un capolavoro senza se senza ma: la maestosa bellezza dei classici paesaggi irlandesi viene immortalata da una fotografia gelida e spietata che fa trasparire tutta la disperazione e la solitudine di una comunità rassegnata ad una vita insignificante, in cui i pettegolezzi risultano l'unica forma di svago. È altresì evidente la grande attenzione ai dettagli, come i vestiti degli abitanti dell'isola (a quanto pare i maglioni di tutti i protagonisti sono stati tessuti a mano dallo stesso sarto) e ad un certo gusto per le inquadrature ad effetto, sempre piazzate per esaltare il momento e non per puro esibizionismo.

Un film d'autore ricercato e intelligente, splendidamente realizzato, magistralmente interpretato, ma anche di difficile lettura e assimilazione. Se vi piace il genere, buttatevi a capofitto, in caso contrario statene alla larga.


Del regista e sceneggiatore Martin McDonagh ho già parlato QUI. Colin Farrell (Pádraic Súilleabháin), Brendan Gleeson (Colm Doherty), Kerry Condon (Siobhán Súilleabháin) e Barry Keoghan (Dominic Kearney) li trovate invece ai rispettivi link.

Se Gli spiriti dell'isola vi fosse piaciuto recuperate In Bruges. ENJOY!

Se vuoi condividere l'articolo

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...