E' uscito ieri in Italia Tonya (I, Tonya), diretto nel 2017 dal regista Craig Gillespie e vincitore di un premio Oscar finito ad Allison Janney come Migliore Attrice Non Protagonista.
Trama: il film racconta la vita sregolata di Tonya Harding, dagli esordi sulla pista di pattinaggio come bambina prodigio allo scandalo delle Olimpiadi del 1994, che l'ha vista coinvolta nell'incidente accorso all'avversaria Nancy Kerrigan.
Un genere di film che detesto è quello "sportivo", solitamente imperniato sulla brillante carriera di una stellina (vera o inventata, dipende) che ha trovato nello sport un modo per riscattarsi da una vita ingrata, assurgendo a modello per chiunque dopo anni e anni di duri allenamenti e sacrifici. A Tonya mi sono però avvicinata con fiducia, non solo per le tre nomination che lo infilavano di diritto nel novero dei film "da vedere" ma anche perché si parlava di uno scandalo che ha concluso la carriera della giovane pattinatrice, allontanando di prepotenza la pellicola da qualsiasi retorica sportiva (lo so, sono una stronza cinica). Quello che non mi sarei aspettata, però, era di trovarmi davanti un film drammatico ma anche esilarante, zeppo di caustica ironia e personaggi inattendibili che non ricostruiscono LA storia, bensì una versione della stessa filtrata dal loro punto di vista, al punto che lo spettatore arriva a chiedersi spesso chi sia la Tonya così fiera di mettere un Io davanti al nome proprio nel titolo originale. Indubbiamente, quello di Tonya Harding è un carattere temprato fin dalla più tenera età: nel corso del film vediamo come la madre LaVona abbia praticamente abbandonato la figlioletta sulle piste di pattinaggio sul ghiaccio, ricoprendola senza tregua con "amorevoli" insulti, schiaffi e sguardi di biasimo, insomma tutto ciò che potesse trasformare una piccola appassionata in una bambina prodigio colma di fiducia nelle proprie capacità atletiche ma assolutamente impreparata ad affrontare l'esistenza una volta tolti i pattini. Nello sport Tonya è incapace di trovare riscatto da una famiglia disfunzionale che l'ha condannata ad essere per sempre feccia ignorante e si ritrova così a cercare conforto, giovanissima, tra le braccia di un bifolco come lei, quel Jeff Gillooley clueless ma violento che è la quintessenza del white trash americano e col quale l'atleta avrà per anni un rapporto contrastato di mutua dipendenza che sfocerà persino in un matrimonio; proprio la stupidità incurabile di Gillooley e del suo pari, il disgustoso e folle Shawn, condanneranno Tonya all'oblio nel momento esatto in cui la ragazza sarebbe stata pronta ad acciuffare la gloria dell'oro olimpico, tenuta lontana da anni di eccessi.
Date le premesse e gli eventi non certo allegri che l'hanno caratterizzata, la vita di Tonya Harding avrebbe potuto venire tradotta in maniera patetica, sottolineando l'infinita serie di abusi fisici e mentali ai quali la ragazza è stata costretta a sottostare, ma Craig Gillespie e lo sceneggiatore Steven Rogers hanno scelto un'altra via e, oltre a sottolineare il lato ridicolo di una vicenda assai drammatica, hanno "sfidato" lo spettatore a trovare da solo un'eventuale simpatia per un personaggio che non ne cerca e, forse, non ne ha bisogno. A prescindere dalla teppaglia che la circonda, è infatti la stessa Tonya ad essere lamentosa ed incapace ad assumersi le proprie responsabilità ("Non è stata colpa mia" è la sua catchphrase per l'intero film ma ce n'è anche per l'audience di allora, accusata di averla trasformata in fenomeno da baraccone, e ovviamente per quella di oggi) oltre che incredibilmente testarda e in qualche modo orgogliosa delle sue origini proletarie, che fin dall'inizio l'hanno resa un outsider in un mondo fatto di signorine raffinate dove l'apparenza conta quanto l'abilità tecnica e dove, purtroppo, se non hai soldi né sponsor fai davvero poca strada; nel corso del film le interviste ai personaggi coinvolti nell'"incidente" di Nancy Kerrigan (assai simili a quelle reali, mostrate nei titoli di coda) si alternano senza soluzione di continuità ad attori che bucano la quarta parete e si rivolgono direttamente allo spettatore, commentando con cinica ironia molti degli avvenimenti oppure contraddicendo sfacciatamente quanto sta accadendo sullo schermo, lasciando il pubblico incredulo, divertito e a tratti sgomento davanti a tanta pochezza. All'interno del quartetto di attori principali spiccano Margot Robbie, atletica e grintosa ma anche terribilmente squallida, e una Allison Janney mostruosamente glaciale, ma la strana coppia Sebastian Stan/Paul Walter Hauser tocca altissimi vertici di sciocca depravazione e soprattutto Hauser passa nel giro di poche sequenze dall'essere patetica figura di sfondo a psicotico deus ex machina dell'intera, delirante operazione atta ad intimorire la Kerrigan: l'intervista sul finale è angosciante e mette una tristezza infinita, non tanto per lui quanto per la Harding che si è ritrovata vittima di un marito imbecille ed incapace di capire la portata della demenza dell'amico di sempre... sempre che, in realtà, la giovane non fosse consapevole fin dall'inizio di quello che sarebbe successo alla rivale. Questo, ovviamente, Tonya non lo dice (ci sono state condanne per tutti, Harding compresa, ma siccome i coinvolti si accusavano a vicenda le reali responsabilità non sono mai state interamente chiarite...) ma poco importa, anzi, perché lasciare il dubbio allo spettatore rende ancora più interessante il film ed ambigui i suoi protagonisti, ora ben lontani dai "fasti" di una fama giunta non grazie ad uno storico triplo axel, bensì ad una sbarra di ferro.
Del regista Craig Gillespie ho già parlato QUI. Margot Robbie (Tonya Harding), Sebastian Stan (Jeff Gillooley), Allison Janney (LaVona Golden), Julianne Nicholson (Diane Rawlinson) e Bobby Cannavale (Martin Maddox) li trovate invece ai rispettivi link.
Mckenna Grace interpreta Tonya da ragazzina. Americana, ha partecipato a film come Frankenstein, Amityville - Il risveglio, Ready Player One e a serie quali CSI - Scena del crimine, The Vampire Diaries e C'era una volta. Ha 12 anni e un film in uscita, The Bad Seed.
Se Tonya vi fosse piaciuto potete cercare il documentario The Price of Gold, episodio della serie 30 for 30 dedicato proprio al caso Harding e aggiungete Rocky IV (omaggiato nel film) e Da morire, che Gillespie ha citato come fonte di ispirazione per la struttura di Tonya. ENJOY!
venerdì 30 marzo 2018
giovedì 29 marzo 2018
(Gio)WE, Bolla! del 28/3/2018
Buon giovedì a tutti! Oggi esce una bella tripletta di titoli perfetti per tenerci compagnia nel weekend lungo di Pasqua, uno dei quali (Nelle pieghe del tempo, mannaggia!!) a Savona ovviamente non è arrivato. Quindi bando agli indugi e... ENJOY!
Ready Player One
Al cinema d'élite si sono accaparrati IL film della settimana!!
Tonya
Ready Player One
Reazione a caldo: La Meraviglia!
Bolla, rifletti!: Ciò che penso del film l'ho già scritto QUI. Non perdetelo per nulla al mondo!!
Io c'è
Reazione a caldo: Eh!
Bolla, rifletti!: Ho un debole per Edoardo Leo e Battiston quindi questo potrebbe essere il perfetto film anti-pasquale da andare a vedere questa settimana, anche perché il trailer mi ha fatta piegare in due dalle risate!
Contromano
Reazione a caldo: Meh.
Bolla, rifletti!: Per carità, voglio bene anche ad Albanese ma non so, questo film fin dal trailer invece mi ha dato l'idea di una paraculata dal cuore d'oro, buona solo per mandare in bestia Salveenee. Credo passerò, in attesa di commenti positivi.Al cinema d'élite si sono accaparrati IL film della settimana!!
Tonya
Reazione a caldo: La tripla meraviglia!!
Bolla, rifletti!: Ne parlerò domani a queste coordinate ma il consiglio che già vi do è di non perderlo per nulla al mondo, sperando che il doppiaggio infame non lo abbia rovinato (dal trailer radio Tonya ha una voce da travone che scansati!), perché è uno dei film più ingiustamente sottovalutati agli ultimi Oscar.
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mercoledì 28 marzo 2018
Tragedy Girls (2017)
Tra un film e l'altro c'è sempre tempo per dedicarmi alla prima, grande passione cinefila: l'horror! Ecco perché, su consiglio di Lucia, ho guardato Tragedy Girls, diretto e co-sceneggiato nel 2017 dal regista Tyler MacIntyre.
Trama: Sadie e McKayla, studentesse di liceo, arrivano a compiere i gesti più efferati per assicurare followers al loro blog Tragedy Girls.
Arriva un momento, nella vita di ogni blogger, in cui si passano i giorni a dare i numeri, ovvero a controllare gli strumenti di statistica per capire quante persone vengono a leggere i nostri sproloqui ogni giorno, quanti nuovi followers hanno cominciato a seguirci, quanti utenti hanno messo like sulla nostra pagina Facebook, a pensare se Twitter, Linkedin, Tumblr, Telegram ecc. potrebbero funzionare per aumentare ancora di più le visite... insomma, un delirio. Fortunatamente questa fase passa (almeno, con me è passata) e si torna a vivere tranquilli e trattare il blog per quello che dovrebbe essere, un diario dove mettere nero su bianco i propri pensieri oppure fissare i film visti in una memoria sempre più labile. Purtroppo, Sadie e McKayla sono due adolescenti e il loro blog verte su un argomento molto meno banale di semplici recensioni cinematografiche. Nella fattispecie, il blog Tragedy Girls parla di omicidi. E come si può fare a rimanere sempre sul pezzo e attirare consensi quando si vive in una delle cittadine più tranquille d'America? Che domande, ci si ingegna! Se il serial killer di turno non ha voglia di darci una mano è giusto portare il bodycount a livelli accettabili, così che tutti, dai compagni di scuola ai giornalisti "veri", arrivino a considerare Tragedy Girls la fonte più aggiornata per procurarsi la dose quotidiana di brutture, sangue e violenza. E' così che McKayla e Sadie diventano, letteralmente, le fonti di sostentamento della loro stessa sete di fama e potere, self made women se mai ne sono esistite, vuote adolescenti che portano la gara di popolarità a livelli massimi mentre gli sceneggiatori mettono alla berlina sia loro che la generazione "webete" senza essere pedanti, anzi, facendo divertire parecchio lo spettatore. Tragedy Girls vive infatti della stessa cattiveria "sociale" di cult come Schegge di follia, Amiche cattive, Mean Girls o Ragazze a Beverly Hills e inserisce questa cattiveria in una cornice slasher dove le persone muoiono come mosche nell'indifferenza dei loro carnefici, diventando materiale da hashtag e indignazione lampo, che dura il tempo di un click per poi esaurirsi lasciando a bocca asciutta chi ne vuole sempre di più.
Ininterrotta fucina di citazioni, dialoghi cool e cliché horror e adolescenziali, Tragedy Girls è un prodottino scoppiettante che non cala mai di tono e non si limita a strappare la risata grassa (anche se la gag con le scarpe di McKayla mi ha uccisa) rimanendo relegato nella nicchia della parodia. Verso il finale la storia si evolve, muta, scava nel passato e nella personalità delle protagoniste arrivando a risoluzioni inaspettate che si accompagnano ad immagini molto belle, spiazzando così lo spettatore, anche il più scafato (io sono rimasta anche un po' magonata, in effetti). Tyler MacIntyre fa il suo sia come regista che come co-sceneggiatore, conferendo alla sua creatura un gradevole aspetto pop e psichedelico, sicuramente perfetto per accattivare un pubblico giovane, ma il vero punto di forza di Tragedy Girls sono le due protagoniste, Alexandra Shipp e Brianna Hildebrand. La prima sembra uscita dritta dalla serie Scream Queens e non avrebbe sfigurato accanto a una delle Chanel (non fosse per il colore della sua pelle...) ma la seconda è semplicemente meravigliosa ed è il personaggio che rimane più impresso non solo per la zazzera di capelli biondi con le ciocche blu ma per quel "qualcosa" di oscuro che la rende ben più di un'adolescente scioccherella e assetata di sangue, quegli sguardi profondi che rivelano un abisso di disagio molto tangibile. Non a caso, la giovane Brianna si era già impressa nella mia memoria con Deadpool e con la seconda serie di The Exorcist ed è un'attrice che sinceramente non vedo l'ora di rivedere all'opera! Quindi, Tragedy Girls è un film assai carino e meno sciocco di quello che appare a una prima occhiata, lo consiglio senza remore anche a chi mastica poco l'horror... stando sempre comunque all'occhio a qualche splatterata che potrebbe scoraggiare eventuali stomaci deboli.
Di Kevin Durand (Lowell), Craig Robinson (Big Al) e Josh Hutcherson (che interpreta non accreditato Toby Mitchell) ho già parlato ai rispettivi link.
Tyler MacIntyre è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto film come Patchwork. Anche produttore, ha 34 anni.
Brianna Hildebrand interpreta Sadie Cunningham. Americana, la ricordo per film come Deadpool, inoltre ha partecipato a serie quali The Exorcist. Anche produttrice, ha 22 anni e un film in uscita, Deadpool 2.
Alexandra Shipp, che interpreta McKayla Hooper, è stata Tempesta nell'ultimo X-Men: Apocalisse e tornerà nei panni della mutante Ororo Munroe anche nell'imminente X-Men: Dark Phoenix mentre l'attrice Elise Neal, che interpreta la madre di McKayla, era la Hallie di Scream 2. Detto questo, se Tragedy Girls vi fosse piaciuto recuperate Detention, Schegge di follia e la saga di Scream. ENJOY!
Trama: Sadie e McKayla, studentesse di liceo, arrivano a compiere i gesti più efferati per assicurare followers al loro blog Tragedy Girls.
Arriva un momento, nella vita di ogni blogger, in cui si passano i giorni a dare i numeri, ovvero a controllare gli strumenti di statistica per capire quante persone vengono a leggere i nostri sproloqui ogni giorno, quanti nuovi followers hanno cominciato a seguirci, quanti utenti hanno messo like sulla nostra pagina Facebook, a pensare se Twitter, Linkedin, Tumblr, Telegram ecc. potrebbero funzionare per aumentare ancora di più le visite... insomma, un delirio. Fortunatamente questa fase passa (almeno, con me è passata) e si torna a vivere tranquilli e trattare il blog per quello che dovrebbe essere, un diario dove mettere nero su bianco i propri pensieri oppure fissare i film visti in una memoria sempre più labile. Purtroppo, Sadie e McKayla sono due adolescenti e il loro blog verte su un argomento molto meno banale di semplici recensioni cinematografiche. Nella fattispecie, il blog Tragedy Girls parla di omicidi. E come si può fare a rimanere sempre sul pezzo e attirare consensi quando si vive in una delle cittadine più tranquille d'America? Che domande, ci si ingegna! Se il serial killer di turno non ha voglia di darci una mano è giusto portare il bodycount a livelli accettabili, così che tutti, dai compagni di scuola ai giornalisti "veri", arrivino a considerare Tragedy Girls la fonte più aggiornata per procurarsi la dose quotidiana di brutture, sangue e violenza. E' così che McKayla e Sadie diventano, letteralmente, le fonti di sostentamento della loro stessa sete di fama e potere, self made women se mai ne sono esistite, vuote adolescenti che portano la gara di popolarità a livelli massimi mentre gli sceneggiatori mettono alla berlina sia loro che la generazione "webete" senza essere pedanti, anzi, facendo divertire parecchio lo spettatore. Tragedy Girls vive infatti della stessa cattiveria "sociale" di cult come Schegge di follia, Amiche cattive, Mean Girls o Ragazze a Beverly Hills e inserisce questa cattiveria in una cornice slasher dove le persone muoiono come mosche nell'indifferenza dei loro carnefici, diventando materiale da hashtag e indignazione lampo, che dura il tempo di un click per poi esaurirsi lasciando a bocca asciutta chi ne vuole sempre di più.
Ininterrotta fucina di citazioni, dialoghi cool e cliché horror e adolescenziali, Tragedy Girls è un prodottino scoppiettante che non cala mai di tono e non si limita a strappare la risata grassa (anche se la gag con le scarpe di McKayla mi ha uccisa) rimanendo relegato nella nicchia della parodia. Verso il finale la storia si evolve, muta, scava nel passato e nella personalità delle protagoniste arrivando a risoluzioni inaspettate che si accompagnano ad immagini molto belle, spiazzando così lo spettatore, anche il più scafato (io sono rimasta anche un po' magonata, in effetti). Tyler MacIntyre fa il suo sia come regista che come co-sceneggiatore, conferendo alla sua creatura un gradevole aspetto pop e psichedelico, sicuramente perfetto per accattivare un pubblico giovane, ma il vero punto di forza di Tragedy Girls sono le due protagoniste, Alexandra Shipp e Brianna Hildebrand. La prima sembra uscita dritta dalla serie Scream Queens e non avrebbe sfigurato accanto a una delle Chanel (non fosse per il colore della sua pelle...) ma la seconda è semplicemente meravigliosa ed è il personaggio che rimane più impresso non solo per la zazzera di capelli biondi con le ciocche blu ma per quel "qualcosa" di oscuro che la rende ben più di un'adolescente scioccherella e assetata di sangue, quegli sguardi profondi che rivelano un abisso di disagio molto tangibile. Non a caso, la giovane Brianna si era già impressa nella mia memoria con Deadpool e con la seconda serie di The Exorcist ed è un'attrice che sinceramente non vedo l'ora di rivedere all'opera! Quindi, Tragedy Girls è un film assai carino e meno sciocco di quello che appare a una prima occhiata, lo consiglio senza remore anche a chi mastica poco l'horror... stando sempre comunque all'occhio a qualche splatterata che potrebbe scoraggiare eventuali stomaci deboli.
Di Kevin Durand (Lowell), Craig Robinson (Big Al) e Josh Hutcherson (che interpreta non accreditato Toby Mitchell) ho già parlato ai rispettivi link.
Tyler MacIntyre è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto film come Patchwork. Anche produttore, ha 34 anni.
Brianna Hildebrand interpreta Sadie Cunningham. Americana, la ricordo per film come Deadpool, inoltre ha partecipato a serie quali The Exorcist. Anche produttrice, ha 22 anni e un film in uscita, Deadpool 2.
Alexandra Shipp, che interpreta McKayla Hooper, è stata Tempesta nell'ultimo X-Men: Apocalisse e tornerà nei panni della mutante Ororo Munroe anche nell'imminente X-Men: Dark Phoenix mentre l'attrice Elise Neal, che interpreta la madre di McKayla, era la Hallie di Scream 2. Detto questo, se Tragedy Girls vi fosse piaciuto recuperate Detention, Schegge di follia e la saga di Scream. ENJOY!
martedì 27 marzo 2018
I simili (2015)
L'avevo puntato qualche tempo fa leggendone QUI e facendo un giretto su Netflix ho recuperato I simili (Los Parecidos), diretto e sceneggiato nel 2015 dal regista Isaac Ezban. Il post sarà più breve del solito in quanto qualunque spoiler sarebbe peccato mortale!
Trama: in una notte di pioggia, nel 1968, delle persone si ritrovano in una stazione degli autobus dove cominciano ad accadere delle strane cose...
Ho scelto I simili all'interno dello sterminato catalogo Netflix perché cercavo un film breve da guardare nel solito ritaglio di tempo, senza sapere altro a parte che a Simone era piaciuto parecchio, e ne sono rimasta piacevolmente sorpresa. Di sicuro non mi sarei aspettata una pellicola delirante e zeppa di idee, che sfrutta le atmosfere e i topoi della fantascienza anni '60 contaminandole col body horror (nell'accezione più stretta del termine) e a qualcosa di più sottilmente Lovecraftiano, spiazzando lo spettatore a più riprese con una serie di dettagli apparentemente stridenti che acquistano significato con il prosieguo della visione. Isaac Ezban è bravissimo a creare suspance fin dall'inizio, affidando ad un narratore onnisciente (affiancato da alcune trasmissioni radio sempre più inquietanti) il compito di catturare l'attenzione dello spettatore prima ancora che lo facciano i due protagonisti con i loro problemi e l'arrivo di personaggi sempre più strani e misteriosi. All'inizio abbiamo Ulìses, che deve raggiungere l'ospedale dove la moglie sta per partorire, e Irene, incinta e in fuga da un marito violento; tutti e due hanno scelto l'autobus come mezzo di trasporto ma, a quanto pare, Città del Messico è completamente bloccata da piogge torrenziali e le corriere sono tutte in ritardo, i telefoni non funzionano, i taxi sono troppo costosi, il bigliettaio scorbutico non aiuta, dopo un po' le persone all'interno della stazione cominciano a stare male e molte di esse hanno qualcosa da nascondere, in parole povere è un gran casino. Ed è un gran casino per me scrivere de I simili senza fare spoiler perché il bello di un film simile è guardarlo senza sapere nulla, tornando alle atmosfere innocenti ma sicuramente terrificanti di un tipo di Cinema "vecchio" (senza dimenticare serie come Ai confini della realtà!), all'interno del quale la storia conta più dell'effetto speciale e dove persino le idee più spregiudicate e assurde acquistano una loro "serietà". Più volte, durante la visione de I simili, mi sono ritrovata a ridere come una pazza e un istante dopo a vergognarmi per averlo fatto, in quanto le implicazioni di ciò che viene raccontato nel film vanno a braccetto con la fantascienza più pessimista e i Dylan Dog più riusciti, portando lo spettatore a dubitare non solo di ciò che viene mostrato sullo schermo... ma anche a fare paranoiche considerazioni sul proprio concetto di realtà.
Quello che vorrei consigliare ai quattro gatti che staranno leggendo queste righe è di non farsi influenzare dall'apparente "pochezza" della messa in scena de I simili. Ezban gira (a mio avviso benissimo, senza arzigogoli ma con molta dimestichezza) con l'ausilio di una cinepresa digitale le cui immagini nitidissime sono state in seguito sporcate dal direttore della fotografia ricavandone un meraviglioso effetto vintage e lo stesso gusto per il "vecchio" caratterizza i pochi effetti speciali, i quali talvolta potrebbero fare gridare all'orrore più di un perfezionista. A questo bisogna aggiungere che gli attori non sono propriamente indimenticabili, soprattutto le donne, nonostante ci siano una faccia in particolare che rimane impressa, grazie a un'incredibile sinergia di casting, make-up e sceneggiatura, e un'altra che per me è già diventata sinonimo di assoluto ed inaspettato disagio. Tutto questo però, ripeto, non deve condizionarvi perché I simili è un meraviglioso giocattolo con un cervello, che non si limita a cavalcare l'onda della nostalgia presentandosi come l'ennesimo prodotto di vuota forma priva di sostanza; nel marasma dell'offerta Netflix e nel delirio di prodotti sci-fi horror che stentano a raggiungere il livello di sufficienza eppure lo stesso invadono cinema e mercato dell'home video, I simili è un'opera capace di lasciare il segno e farsi ricordare con piacere dallo spettatore talmente fortunato da riuscire a vederla. Se amate i film un po' weird e la fantascienza con leggere contaminazioni horror non potete proprio farvelo scappare anche perché rischiate che lo tolgano!
Isaac Ezban è il regista e sceneggiatore della pellicola. Messicano, ha diretto film come The Incident. Anche produttore e tecnico degli effetti speciali, ha 32 anni e un film in uscita.
Fernando Becerril, che interpreta Martín, oltre ad essere un attore molto prolifico in patria ha partecipato anche a pellicole dal respiro più internazionale come L'insaziabile, La maschera di Zorro e Viaggio in paradiso; Humberto Busto, che interpreta Álvaro, aveva invece già lavorato con Ezban nel film The Incident, in qualche modo "collegato" a I simili e disponibile anch'esso su Netflix. Detto questo, se I simili vi fosse piaciuto potreste recuperare L'invasione degli ultracorpi, Terrore dallo spazio profondo e La cosa. ENJOY!
Trama: in una notte di pioggia, nel 1968, delle persone si ritrovano in una stazione degli autobus dove cominciano ad accadere delle strane cose...
Ho scelto I simili all'interno dello sterminato catalogo Netflix perché cercavo un film breve da guardare nel solito ritaglio di tempo, senza sapere altro a parte che a Simone era piaciuto parecchio, e ne sono rimasta piacevolmente sorpresa. Di sicuro non mi sarei aspettata una pellicola delirante e zeppa di idee, che sfrutta le atmosfere e i topoi della fantascienza anni '60 contaminandole col body horror (nell'accezione più stretta del termine) e a qualcosa di più sottilmente Lovecraftiano, spiazzando lo spettatore a più riprese con una serie di dettagli apparentemente stridenti che acquistano significato con il prosieguo della visione. Isaac Ezban è bravissimo a creare suspance fin dall'inizio, affidando ad un narratore onnisciente (affiancato da alcune trasmissioni radio sempre più inquietanti) il compito di catturare l'attenzione dello spettatore prima ancora che lo facciano i due protagonisti con i loro problemi e l'arrivo di personaggi sempre più strani e misteriosi. All'inizio abbiamo Ulìses, che deve raggiungere l'ospedale dove la moglie sta per partorire, e Irene, incinta e in fuga da un marito violento; tutti e due hanno scelto l'autobus come mezzo di trasporto ma, a quanto pare, Città del Messico è completamente bloccata da piogge torrenziali e le corriere sono tutte in ritardo, i telefoni non funzionano, i taxi sono troppo costosi, il bigliettaio scorbutico non aiuta, dopo un po' le persone all'interno della stazione cominciano a stare male e molte di esse hanno qualcosa da nascondere, in parole povere è un gran casino. Ed è un gran casino per me scrivere de I simili senza fare spoiler perché il bello di un film simile è guardarlo senza sapere nulla, tornando alle atmosfere innocenti ma sicuramente terrificanti di un tipo di Cinema "vecchio" (senza dimenticare serie come Ai confini della realtà!), all'interno del quale la storia conta più dell'effetto speciale e dove persino le idee più spregiudicate e assurde acquistano una loro "serietà". Più volte, durante la visione de I simili, mi sono ritrovata a ridere come una pazza e un istante dopo a vergognarmi per averlo fatto, in quanto le implicazioni di ciò che viene raccontato nel film vanno a braccetto con la fantascienza più pessimista e i Dylan Dog più riusciti, portando lo spettatore a dubitare non solo di ciò che viene mostrato sullo schermo... ma anche a fare paranoiche considerazioni sul proprio concetto di realtà.
Quello che vorrei consigliare ai quattro gatti che staranno leggendo queste righe è di non farsi influenzare dall'apparente "pochezza" della messa in scena de I simili. Ezban gira (a mio avviso benissimo, senza arzigogoli ma con molta dimestichezza) con l'ausilio di una cinepresa digitale le cui immagini nitidissime sono state in seguito sporcate dal direttore della fotografia ricavandone un meraviglioso effetto vintage e lo stesso gusto per il "vecchio" caratterizza i pochi effetti speciali, i quali talvolta potrebbero fare gridare all'orrore più di un perfezionista. A questo bisogna aggiungere che gli attori non sono propriamente indimenticabili, soprattutto le donne, nonostante ci siano una faccia in particolare che rimane impressa, grazie a un'incredibile sinergia di casting, make-up e sceneggiatura, e un'altra che per me è già diventata sinonimo di assoluto ed inaspettato disagio. Tutto questo però, ripeto, non deve condizionarvi perché I simili è un meraviglioso giocattolo con un cervello, che non si limita a cavalcare l'onda della nostalgia presentandosi come l'ennesimo prodotto di vuota forma priva di sostanza; nel marasma dell'offerta Netflix e nel delirio di prodotti sci-fi horror che stentano a raggiungere il livello di sufficienza eppure lo stesso invadono cinema e mercato dell'home video, I simili è un'opera capace di lasciare il segno e farsi ricordare con piacere dallo spettatore talmente fortunato da riuscire a vederla. Se amate i film un po' weird e la fantascienza con leggere contaminazioni horror non potete proprio farvelo scappare anche perché rischiate che lo tolgano!
Isaac Ezban è il regista e sceneggiatore della pellicola. Messicano, ha diretto film come The Incident. Anche produttore e tecnico degli effetti speciali, ha 32 anni e un film in uscita.
Fernando Becerril, che interpreta Martín, oltre ad essere un attore molto prolifico in patria ha partecipato anche a pellicole dal respiro più internazionale come L'insaziabile, La maschera di Zorro e Viaggio in paradiso; Humberto Busto, che interpreta Álvaro, aveva invece già lavorato con Ezban nel film The Incident, in qualche modo "collegato" a I simili e disponibile anch'esso su Netflix. Detto questo, se I simili vi fosse piaciuto potreste recuperare L'invasione degli ultracorpi, Terrore dallo spazio profondo e La cosa. ENJOY!
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domenica 25 marzo 2018
Un sogno chiamato Florida (2017)
Giovedì è uscito in tutta Italia Un sogno chiamato Florida (The Florida Project), diretto e co-sceneggiato nel 2017 dal regista Sean Baker nonché candidato all'Oscar per il miglior attore non protagonista, un bravissimo Willem Dafoe.
Trama: in un motel appena fuori dall'area di Walt Disney World vivono la piccola Moonee e sua madre, una giovane che tira a campare di espedienti. La bambina passa le giornate giocando e combinando disastri assieme ai suoi amici in completa e lieta innocenza, incurante dell'ambiente degradato che la circonda...
Penso che qualunque persona cresciuta coi film Disney abbia sognato, almeno una volta nella vita, di mettere piede a Disney World. E' vero che noi europei abbiamo Disneyland Paris e che ce n'è una persino a Tokyo, però quella vicino a Orlando, in Florida, è quella originale quindi dotata di un fascino tutto particolare. Il problema è che io, negli ultimi anni, ho guardato due film ambientati proprio lì e il mio desiderio (non particolarmente forte, per la verità) di recarmi un giorno in Florida si è sciolto come neve al sole. Il primo responsabile di tutto questo è stato il terrificante Escape From Tomorrow, che al di là della sua infima qualità era comunque riuscito nell'intento di riportare su schermo Disney World come qualcosa di finto, una macchina mangiasoldi costretta a far convivere la "magia" Disneyana con le orde di turisti cheap, incazzati e sudaticci che invadono quotidianamente il luogo, e adesso è arrivato anche Un sogno chiamato Florida, titolo italiano imbecille se mai ce n'è stato uno. Vorrei capire con che coraggio qualcuno abbia guardato il film e deciso di infilare la parola "sogno" nel titolo ignorando che la definizione "Florida Project" era stata coniata per indicare Disney World nei primi tempi di sviluppo del progetto e che è perfetta per sottolineare la condizione disgraziata della piccola Moonee (oltre a quella di semi-abbandono di quella che avrebbe dovuto essere una CITTA' prima ancora di un complesso di attrazioni), altro che sogno. Diciamo pure che Sean Baker, pur con incredibile eleganza, ha portato al cinema un incubo al quale solo la fervida immaginazione innocente di una bambina può fare fronte, ricreando negli squallidi ambienti che circondano la sterminata superficie del parco tutti quei favolosi luoghi di divertimento che la piccola, pur abitando a un passo dagli stessi, non ha mai potuto vedere nemmeno per sbaglio. Il teatro in cui si snodano le vicende di Moonee e della madre Halley sono motel dai colori sgargianti e dai nomi ingannevoli come Magic Castle e Futureland Motel, ubicati accanto a strade evocative quali Seven Dwarfs Lane e simili, ma nulla di tutto ciò che viene mostrato da Baker è magico, men che meno futuristico: sotto gli occhi increduli dello spettatore scorrono immagini di ordinaria miseria e squallore, di persone senza casa che tirano a campare sperando che il gestore del motel di turno chiuda un occhio e non limiti il loro soggiorno come prevederebbe la legge, di diner e outlet di seconda mano, di sterpaglie incolte, di edifici abbandonati, di elettrodomestici che non funzionano, di pericoli presenti ad ogni angolo della strada.
Se Un sogno chiamato Florida seguisse solo un punto di vista "adulto", sarebbe fratello di sangue di quegli pseudodocumentari anni '90 che tanto detesto ma fortunatamente Sean Baker ha scelto di filtrare il tutto attraverso gli occhi di una bambina, decisione che influenza anche lo stile di regia e la fotografia. Sfruttando l'arrivo di una nuova vicina di casa, la piccola Jancey, lo spettatore viene preso per mano da Moonee e portato ad esplorare queste zone lontane dal turismo di massa, che con un po' di faccia tosta e tanta fantasia diventano quasi un paradiso di libertà dove i bambini monelli possono scorazzare, scroccare cibo, ballare, urlare, prendere in giro i grandi e fare scherzi agli ignari passanti, senza tanto badare all'aspetto decadente dei dintorni o a questioni triviali come sicurezza e igiene; d'altronde, mettendomi nei panni di un bambino, mi basterebbe avere il pancino pieno e un sacco di tempo libero per essere felice, soprattutto con una vita relativamente "nomade" in compagnia di una mamma più bambina di me e con una piscina interamente a mia disposizione. Badate bene: alla faccia dell'immedesimazione, per la prima mezz'ora di film vi verrà voglia di farvi sterlizzare, perché Moonee e i suoi amichetti sono dei piccoli, infimi bastardelli sboccati, cresciuti da genitori incapaci oppure assenti in quanto impegnati a mettere assieme due spiccioli per sopravvivere. E' solo dopo che comincerete a vederli con la stessa indulgenza del povero, bistrattato manager Bobby, adulto dotato di polso fermo e cuore d'oro. E qui subentra il secondo punto di vista del film, quello di chi è arrivato a voler bene a Moonee, Halley e tutti gli altri disadattati che popolano il violaceo Magic Castle anche quando vorrebbe soltanto mettere le mani addosso a ragazze-madri volgari, indisponenti e fondamentalmente stupide o tirare un calcio ai mocciosi casinisti. Bobby, interpretato da un magistrale Willem Dafoe, sopporta quasi stoicamente ogni camurrìa e cerca di metterci una pezza, fungendo un po' da guardiano un po' da cerbero del luogo, ma anche lui fa parte della triste umanità sottoproletaria che popola Kissimmee e deve sottostare a regole ferree per poter mantenere il proprio lavoro. La saggezza dell'esperienza che si scontra con la sconsideratezza dell'ignoranza, dunque, ma il problema è che per quanto mi stesse sull'anima non sono riuscita ad odiare nemmeno Halley, terzo ed ultimo personaggio in grado di influenzare la percezione dello spettatore.
Se Moonee rappresenta l'innocenza capace di trasformare uno squallido sobborgo in un parco giochi, Halley è colei che si è fatta inghiottire dall'incubo e, pur amando alla follia la figlia, non riesce ad uscirne ma, anzi, continua a scavarsi la fossa con le sue mani. Questo perché è la stessa Halley ad essere poco più di una bambina, ancora desiderosa di giocare e svagarsi con le amiche nonostante le pressanti responsabilità che comporta l'essere adulta e madre; questa bella ragazza dai capelli coloratissimi e zeppa di tatuaggi (interpretata da Bria Vinaite, attrice esordiente scoperta su Instagram) affronta la vita con tutto l'odio di un'adolescente ribelle, incurante del proprio corpo e della sua dignità, senza il minimo senso del risparmio, trattando Moonee da pari pur cercando di proteggerla dalle brutture che una simile condizione di disagio comporta. E' questo mix di senso materno e totale incoscienza a rendere Halley un personaggio complesso ed impossibile da odiare, soprattutto perché a margine delle scorribande di Moonee e compagni lo spettatore sente incombere l'inevitabile tragedia pronta a distruggere un equilibrio instabile e forzato. Bobby non è un supereroe e purtroppo Halley e Moonee non sono due principesse Disneyane che verranno ricompensate da un lieto fine dopo aver vissuto magiche avventure in una terra da sogno e prive di regole; l'urlo di rabbia di Halley, che manda giustamente a fanculo tutto e tutti, sconfitta dalla vita e dalla società, è lo stesso che sgorga spontaneo dal cuore dello spettatore davanti alle lacrime di Moonee, piccola pargolotta sboccata che alla fine sono arrivata ad adorare. Per questo il finale di Un sogno chiamato Florida (così come il film nella sua interezza) è uno dei più belli e dolorosi visti quest'anno, con quella corsa a perdifiato ripresa di straforo con un IPhone: se prima c'era la realtà filtrata dal sogno, alla fine c'è il sogno filtrato dalla realtà, un afflato di speranza che mi sono sentita di abbracciare in toto, augurando a Moonee e Jancey la più bella delle giornate e una vita piena di amore e amicizia, alla faccia di tutti gli stupidi problemi di noi adulti imbecilli... e alla faccia di una Casa del Topo che vuole bene solo ai bimbi abbienti.
Di Willem Dafoe, che interpreta Bobby, ho già parlato QUI mentre Caleb Landry Jones, che interpreta Jack, lo trovate QUA.
Sean Baker è il regista e co-sceneggiatore del film. Americano, ha diretto film come Prince of Broadway, Starlet, Tangerine ed episodi di serie come Greg the Bunny. Anche produttore, ha 47 anni.
Se Un sogno chiamato Florida vi fosse piaciuto recuperate Re della terra selvaggia. ENJOY!
Trama: in un motel appena fuori dall'area di Walt Disney World vivono la piccola Moonee e sua madre, una giovane che tira a campare di espedienti. La bambina passa le giornate giocando e combinando disastri assieme ai suoi amici in completa e lieta innocenza, incurante dell'ambiente degradato che la circonda...
Penso che qualunque persona cresciuta coi film Disney abbia sognato, almeno una volta nella vita, di mettere piede a Disney World. E' vero che noi europei abbiamo Disneyland Paris e che ce n'è una persino a Tokyo, però quella vicino a Orlando, in Florida, è quella originale quindi dotata di un fascino tutto particolare. Il problema è che io, negli ultimi anni, ho guardato due film ambientati proprio lì e il mio desiderio (non particolarmente forte, per la verità) di recarmi un giorno in Florida si è sciolto come neve al sole. Il primo responsabile di tutto questo è stato il terrificante Escape From Tomorrow, che al di là della sua infima qualità era comunque riuscito nell'intento di riportare su schermo Disney World come qualcosa di finto, una macchina mangiasoldi costretta a far convivere la "magia" Disneyana con le orde di turisti cheap, incazzati e sudaticci che invadono quotidianamente il luogo, e adesso è arrivato anche Un sogno chiamato Florida, titolo italiano imbecille se mai ce n'è stato uno. Vorrei capire con che coraggio qualcuno abbia guardato il film e deciso di infilare la parola "sogno" nel titolo ignorando che la definizione "Florida Project" era stata coniata per indicare Disney World nei primi tempi di sviluppo del progetto e che è perfetta per sottolineare la condizione disgraziata della piccola Moonee (oltre a quella di semi-abbandono di quella che avrebbe dovuto essere una CITTA' prima ancora di un complesso di attrazioni), altro che sogno. Diciamo pure che Sean Baker, pur con incredibile eleganza, ha portato al cinema un incubo al quale solo la fervida immaginazione innocente di una bambina può fare fronte, ricreando negli squallidi ambienti che circondano la sterminata superficie del parco tutti quei favolosi luoghi di divertimento che la piccola, pur abitando a un passo dagli stessi, non ha mai potuto vedere nemmeno per sbaglio. Il teatro in cui si snodano le vicende di Moonee e della madre Halley sono motel dai colori sgargianti e dai nomi ingannevoli come Magic Castle e Futureland Motel, ubicati accanto a strade evocative quali Seven Dwarfs Lane e simili, ma nulla di tutto ciò che viene mostrato da Baker è magico, men che meno futuristico: sotto gli occhi increduli dello spettatore scorrono immagini di ordinaria miseria e squallore, di persone senza casa che tirano a campare sperando che il gestore del motel di turno chiuda un occhio e non limiti il loro soggiorno come prevederebbe la legge, di diner e outlet di seconda mano, di sterpaglie incolte, di edifici abbandonati, di elettrodomestici che non funzionano, di pericoli presenti ad ogni angolo della strada.
Se Un sogno chiamato Florida seguisse solo un punto di vista "adulto", sarebbe fratello di sangue di quegli pseudodocumentari anni '90 che tanto detesto ma fortunatamente Sean Baker ha scelto di filtrare il tutto attraverso gli occhi di una bambina, decisione che influenza anche lo stile di regia e la fotografia. Sfruttando l'arrivo di una nuova vicina di casa, la piccola Jancey, lo spettatore viene preso per mano da Moonee e portato ad esplorare queste zone lontane dal turismo di massa, che con un po' di faccia tosta e tanta fantasia diventano quasi un paradiso di libertà dove i bambini monelli possono scorazzare, scroccare cibo, ballare, urlare, prendere in giro i grandi e fare scherzi agli ignari passanti, senza tanto badare all'aspetto decadente dei dintorni o a questioni triviali come sicurezza e igiene; d'altronde, mettendomi nei panni di un bambino, mi basterebbe avere il pancino pieno e un sacco di tempo libero per essere felice, soprattutto con una vita relativamente "nomade" in compagnia di una mamma più bambina di me e con una piscina interamente a mia disposizione. Badate bene: alla faccia dell'immedesimazione, per la prima mezz'ora di film vi verrà voglia di farvi sterlizzare, perché Moonee e i suoi amichetti sono dei piccoli, infimi bastardelli sboccati, cresciuti da genitori incapaci oppure assenti in quanto impegnati a mettere assieme due spiccioli per sopravvivere. E' solo dopo che comincerete a vederli con la stessa indulgenza del povero, bistrattato manager Bobby, adulto dotato di polso fermo e cuore d'oro. E qui subentra il secondo punto di vista del film, quello di chi è arrivato a voler bene a Moonee, Halley e tutti gli altri disadattati che popolano il violaceo Magic Castle anche quando vorrebbe soltanto mettere le mani addosso a ragazze-madri volgari, indisponenti e fondamentalmente stupide o tirare un calcio ai mocciosi casinisti. Bobby, interpretato da un magistrale Willem Dafoe, sopporta quasi stoicamente ogni camurrìa e cerca di metterci una pezza, fungendo un po' da guardiano un po' da cerbero del luogo, ma anche lui fa parte della triste umanità sottoproletaria che popola Kissimmee e deve sottostare a regole ferree per poter mantenere il proprio lavoro. La saggezza dell'esperienza che si scontra con la sconsideratezza dell'ignoranza, dunque, ma il problema è che per quanto mi stesse sull'anima non sono riuscita ad odiare nemmeno Halley, terzo ed ultimo personaggio in grado di influenzare la percezione dello spettatore.
Se Moonee rappresenta l'innocenza capace di trasformare uno squallido sobborgo in un parco giochi, Halley è colei che si è fatta inghiottire dall'incubo e, pur amando alla follia la figlia, non riesce ad uscirne ma, anzi, continua a scavarsi la fossa con le sue mani. Questo perché è la stessa Halley ad essere poco più di una bambina, ancora desiderosa di giocare e svagarsi con le amiche nonostante le pressanti responsabilità che comporta l'essere adulta e madre; questa bella ragazza dai capelli coloratissimi e zeppa di tatuaggi (interpretata da Bria Vinaite, attrice esordiente scoperta su Instagram) affronta la vita con tutto l'odio di un'adolescente ribelle, incurante del proprio corpo e della sua dignità, senza il minimo senso del risparmio, trattando Moonee da pari pur cercando di proteggerla dalle brutture che una simile condizione di disagio comporta. E' questo mix di senso materno e totale incoscienza a rendere Halley un personaggio complesso ed impossibile da odiare, soprattutto perché a margine delle scorribande di Moonee e compagni lo spettatore sente incombere l'inevitabile tragedia pronta a distruggere un equilibrio instabile e forzato. Bobby non è un supereroe e purtroppo Halley e Moonee non sono due principesse Disneyane che verranno ricompensate da un lieto fine dopo aver vissuto magiche avventure in una terra da sogno e prive di regole; l'urlo di rabbia di Halley, che manda giustamente a fanculo tutto e tutti, sconfitta dalla vita e dalla società, è lo stesso che sgorga spontaneo dal cuore dello spettatore davanti alle lacrime di Moonee, piccola pargolotta sboccata che alla fine sono arrivata ad adorare. Per questo il finale di Un sogno chiamato Florida (così come il film nella sua interezza) è uno dei più belli e dolorosi visti quest'anno, con quella corsa a perdifiato ripresa di straforo con un IPhone: se prima c'era la realtà filtrata dal sogno, alla fine c'è il sogno filtrato dalla realtà, un afflato di speranza che mi sono sentita di abbracciare in toto, augurando a Moonee e Jancey la più bella delle giornate e una vita piena di amore e amicizia, alla faccia di tutti gli stupidi problemi di noi adulti imbecilli... e alla faccia di una Casa del Topo che vuole bene solo ai bimbi abbienti.
Di Willem Dafoe, che interpreta Bobby, ho già parlato QUI mentre Caleb Landry Jones, che interpreta Jack, lo trovate QUA.
Sean Baker è il regista e co-sceneggiatore del film. Americano, ha diretto film come Prince of Broadway, Starlet, Tangerine ed episodi di serie come Greg the Bunny. Anche produttore, ha 47 anni.
Se Un sogno chiamato Florida vi fosse piaciuto recuperate Re della terra selvaggia. ENJOY!
venerdì 23 marzo 2018
BollAnteprima: Ready Player One (2018)
Grazie all'amico Roberto, martedì sera sono andata all'anteprima (savonese, miracolo in Terra!!) di Ready Player One, diretto da Steven Spielberg e tratto dal romanzo omonimo di Ernest Cline. Segue post entusiasta ma SENZA SPOILER, tranquilli!
Trama: in un futuro neppure troppo lontano tutte le persone sono connesse a OASIS, mondo virtuale dove ognuno può essere ciò che desidera. All'interno di questa realtà si conduce da anni una caccia al tesoro che consentirebbe al vincitore di ottenere una rendita bilionaria e il controllo di OASIS: il giovane Parzival è uno di questi "cacciatori" e si ritroverà ad avere a che fare con gli spietati dirigenti della IOI, multinazionale che vorrebbe OASIS tutta per sé...
Nonostante un paio di trailer ad alto tasso di scimmia sulla spalla ammetto che, dopo avere letto e adorato il libro di Cline, l'idea di andare a vedere Ready Player One mi terrorizzava un po', soprattutto a causa della poraccitudine di alcune di queste locandine. Mi aspettavo un film coi pupazzetti, un novello GGG che avrebbe confermato la definitiva incapacità Spielberghiana di approcciarsi all'elemento fantastico dopo anni di dignitosissime pellicole "serie", un'opera tutta tecnica e niente cuore... invece sono uscita dal cinema stordita e anche un po' impreparata a riaffrontare la fredda realtà del mondo reale, dopo avere condiviso il mio entusiasmo con parecchi amici esaltati quanto me. Per chi non avesse letto il romanzo di Ernest Cline, la versione "cartacea" di Ready Player One è un gigantesco omaggio ai videogame, film, serie TV, cartoni animati, libri e fumetti anni '80 condensato in una caccia al tesoro articolata in tre prove, avente per protagonista un moccioso nerd dai comportamenti talvolta discutibili; stare dietro a tutte le citazioni presenti nel romanzo è faticosissimo e spesso si ha l'impressione che Cline perda un po' il filo della trama, troppo impegnato a mostrare la sua conoscenza della cultura pop e a strizzare l'occhio al lettore per curare l'insieme come dovrebbe. Ciò non accade nel film di Spielberg, peraltro co-sceneggiato dallo stesso Cline, che "lima" le tre prove presenti nel libro (obiettivamente poco cinematografiche) e ammorbidisce il personaggio principale, rendendolo un ragazzone simpatico e un po' ingenuo privo della paranoica misantropia che caratterizza la sua versione cartacea; inoltre, come accadeva già nei migliori film di avventura della nostra infanzia, quando la situazione si fa pesante ci sono solo dei ragazzi giovanissimi a risolverla, senza nessun intervento da parte degli adulti (cosa che invece nel libro accade, almeno un paio di volte), il che porta a un certo punto ad avere in scena un gruppo di personaggi simpatici e scafati ma anche tremendamente goffi, ben diversi dagli avatar potentissimi ed infallibili che li rappresentano in OASIS. Questo a mio avviso è il vero tocco di magia spielberghiana, il gusto per l'avventura senza pensieri e anche un po' incosciente che si accompagna naturalmente ad un messaggio positivo più marcato rispetto a quello già presente nel romanzo di Cline, un invito non tanto a distinguere la realtà dal mondo virtuale (bella forza, visto il mondo distopico in cui vivono i protagonisti!) ma ad affrontare con coraggio tutto ciò che ci fa paura, assaporando ogni istante di libertà e "vita" concessoci senza paura di rimanere delusi o preoccuparsi troppo per il futuro; le lacrime finali di Parzival hanno raggiunto anche il mio cuore cinico e ammetto di avere avuto un groppo in gola durante le scene dedicate alle malinconiche figure dei due creatori di OASIS, caratterizzati al meglio nonostante il pochissimo tempo di presenza sullo schermo (nonché interpretati da due attori che adoro. Ciao Simon! Oh hi, Mark!).
Ready Player One è dunque un film con un grande cuore umano... ma vorremo mica dimenticare OASIS? La gioia e l'aspettativa di vedere Spielberg alle prese con un mondo in cui qualunque cosa può essere omaggiata e riproposta (tranne tutto ciò che appartiene alla Disney, maledetta, egoista Casa del Topo) sono state ripagate con intere sequenze da riguardare nei mesi a venire con il dito immobilizzato sul pulsante still così da analizzarle fotogramma per fotogramma, perché le citazioni, persino nell'adorato campo horror, sono davvero infinite. Si va da quelle microscopiche, perse nella marea di personaggi o mezzi di locomozione presenti nelle scene di massa e quasi impossibili da decifrare a meno di non avere una cultura nerd enciclopedica, a quelle buttate in faccia allo spettatore a mo' di bruschetta nell'occhio, sia visive che musicali (lo score è di Alan Silvestri. Vi dice nulla?), per arrivare ad almeno tre megacitazioni che diventano parte integrante della trama e che in due occasioni mi hanno fatto partire le coronarie nello sforzo di non mettermi a urlare e saltellare in sala; se siete fan di Spielberg o comunque lo riconoscete come uno dei più grandi registi viventi, arriverete ad ammettere che lo scontro finale tra tre personaggi, due dei quali pilastri di Nippolandia, è la cosa più epica che vedrete quest'anno. In tutto questo, il timore di ritrovarsi a guardare una schifezza in CG si è sciolto come neve al sole davanti all'incredibile fluidità ipercinetica delle scene d'azione e del montaggio (per dire, la corsa iniziale è da manuale) e anche gli avatar dei singoli personaggi sono bellissimi. Benché quelli dei "cattivi" siano palesemente finti e volutamente bruttarelli, Parzival e Art3mis funzionano perché non si è cercato di renderli realistici per forza: nei primi piani danno l'idea di essere delle colorate e dettagliatissime maschere di lattice ma nelle inquadrature un po' più distanziate non sembrano i personaggi di un videogame quanto piuttosto un riuscito mix tra animazione computerizzata e live action (la scena del ballo è una delle più belle viste nel 2018 a mio umilissimo parere). L'unico difetto che posso trovare a Ready Player One, in quanto maledetta Precisina Della Fungia, è l'aver trasformato Nolan Sorrento da villain tout court in belinone gabbabile con trucchetti da bambini oltre a un adattamento italiano da pelle d'oca ("Zio" utilizzato sempre più a sproposito ma anche robe come "ci KILLerai tutti"... Gesù, so di essere vecchia ma non si possono sentire!) ma anche questo lieve fastidio passa in secondo piano davanti a un film entusiasmante e ben realizzato, capace di tenere avvinto alla poltrona sia lo spettatore "acculturato" corso al cinema per fare il conteggio dei riferimenti (o fare le pulci a Spielberg) sia quello che vorrebbe godersi "solo" due ore e passa di sano divertimento. Io sono tornata bambina come non mi succedeva da tempo e per questo, dopo essermi profusa in ringraziamenti per Del Toro, torno a ringraziare un altro grandissimo Regista che non ha mai smesso di essere tale, nemmeno col GGG.
Del regista Steven Spielberg ho già parlato QUI. Tye Sheridan (Wade Owen Watts/Parzival), Olivia Cooke (Samantha Evelyn Cook/Art3mis), Ben Mendelsohn (Nolan Sorrento), T. J. Miller (i-R0k), Simon Pegg (Ogden Morrow/Og), Mark Rylance (James Halliday/Anorak) e Ralph Ineson (Rick) li trovate invece ai rispettivi link.
Tra i registi in lizza per dirigere il film c'erano Christopher Nolan, Robert Zemeckis (pluricitato, per inciso), Matthew Vaughn, Peter Jackson e Edgar Wright: nel 2015 Spielberg ha firmato il contratto e, tra le cose fatte nel corso della realizzazione del film, ha chiesto a Gene Wilder di partecipare, ottenendo un fermo rifiuto da parte dell'attore poi morto nel 2016. Altri attori che invece "non ce l'hanno fatta" sono Michael Keaton per il ruolo di Halliday ed Elle Fanning per quello di Art3mis. Detto questo, se Ready Player One vi piacerà non dimenticate di recuperare il libro da cui è tratto e magari ripescate Ralph Spaccatutto... oltre ai millemila film citati nella pellicola. Per non fare spoiler vi dico "aspettate, segnate, recuperate" ma intanto mi permetto di dire: Buckaroo Banzai. Almeno quello, visto che lo conosciamo in dodici. ENJOY!
Trama: in un futuro neppure troppo lontano tutte le persone sono connesse a OASIS, mondo virtuale dove ognuno può essere ciò che desidera. All'interno di questa realtà si conduce da anni una caccia al tesoro che consentirebbe al vincitore di ottenere una rendita bilionaria e il controllo di OASIS: il giovane Parzival è uno di questi "cacciatori" e si ritroverà ad avere a che fare con gli spietati dirigenti della IOI, multinazionale che vorrebbe OASIS tutta per sé...
Nonostante un paio di trailer ad alto tasso di scimmia sulla spalla ammetto che, dopo avere letto e adorato il libro di Cline, l'idea di andare a vedere Ready Player One mi terrorizzava un po', soprattutto a causa della poraccitudine di alcune di queste locandine. Mi aspettavo un film coi pupazzetti, un novello GGG che avrebbe confermato la definitiva incapacità Spielberghiana di approcciarsi all'elemento fantastico dopo anni di dignitosissime pellicole "serie", un'opera tutta tecnica e niente cuore... invece sono uscita dal cinema stordita e anche un po' impreparata a riaffrontare la fredda realtà del mondo reale, dopo avere condiviso il mio entusiasmo con parecchi amici esaltati quanto me. Per chi non avesse letto il romanzo di Ernest Cline, la versione "cartacea" di Ready Player One è un gigantesco omaggio ai videogame, film, serie TV, cartoni animati, libri e fumetti anni '80 condensato in una caccia al tesoro articolata in tre prove, avente per protagonista un moccioso nerd dai comportamenti talvolta discutibili; stare dietro a tutte le citazioni presenti nel romanzo è faticosissimo e spesso si ha l'impressione che Cline perda un po' il filo della trama, troppo impegnato a mostrare la sua conoscenza della cultura pop e a strizzare l'occhio al lettore per curare l'insieme come dovrebbe. Ciò non accade nel film di Spielberg, peraltro co-sceneggiato dallo stesso Cline, che "lima" le tre prove presenti nel libro (obiettivamente poco cinematografiche) e ammorbidisce il personaggio principale, rendendolo un ragazzone simpatico e un po' ingenuo privo della paranoica misantropia che caratterizza la sua versione cartacea; inoltre, come accadeva già nei migliori film di avventura della nostra infanzia, quando la situazione si fa pesante ci sono solo dei ragazzi giovanissimi a risolverla, senza nessun intervento da parte degli adulti (cosa che invece nel libro accade, almeno un paio di volte), il che porta a un certo punto ad avere in scena un gruppo di personaggi simpatici e scafati ma anche tremendamente goffi, ben diversi dagli avatar potentissimi ed infallibili che li rappresentano in OASIS. Questo a mio avviso è il vero tocco di magia spielberghiana, il gusto per l'avventura senza pensieri e anche un po' incosciente che si accompagna naturalmente ad un messaggio positivo più marcato rispetto a quello già presente nel romanzo di Cline, un invito non tanto a distinguere la realtà dal mondo virtuale (bella forza, visto il mondo distopico in cui vivono i protagonisti!) ma ad affrontare con coraggio tutto ciò che ci fa paura, assaporando ogni istante di libertà e "vita" concessoci senza paura di rimanere delusi o preoccuparsi troppo per il futuro; le lacrime finali di Parzival hanno raggiunto anche il mio cuore cinico e ammetto di avere avuto un groppo in gola durante le scene dedicate alle malinconiche figure dei due creatori di OASIS, caratterizzati al meglio nonostante il pochissimo tempo di presenza sullo schermo (nonché interpretati da due attori che adoro. Ciao Simon! Oh hi, Mark!).
Ready Player One è dunque un film con un grande cuore umano... ma vorremo mica dimenticare OASIS? La gioia e l'aspettativa di vedere Spielberg alle prese con un mondo in cui qualunque cosa può essere omaggiata e riproposta (tranne tutto ciò che appartiene alla Disney, maledetta, egoista Casa del Topo) sono state ripagate con intere sequenze da riguardare nei mesi a venire con il dito immobilizzato sul pulsante still così da analizzarle fotogramma per fotogramma, perché le citazioni, persino nell'adorato campo horror, sono davvero infinite. Si va da quelle microscopiche, perse nella marea di personaggi o mezzi di locomozione presenti nelle scene di massa e quasi impossibili da decifrare a meno di non avere una cultura nerd enciclopedica, a quelle buttate in faccia allo spettatore a mo' di bruschetta nell'occhio, sia visive che musicali (lo score è di Alan Silvestri. Vi dice nulla?), per arrivare ad almeno tre megacitazioni che diventano parte integrante della trama e che in due occasioni mi hanno fatto partire le coronarie nello sforzo di non mettermi a urlare e saltellare in sala; se siete fan di Spielberg o comunque lo riconoscete come uno dei più grandi registi viventi, arriverete ad ammettere che lo scontro finale tra tre personaggi, due dei quali pilastri di Nippolandia, è la cosa più epica che vedrete quest'anno. In tutto questo, il timore di ritrovarsi a guardare una schifezza in CG si è sciolto come neve al sole davanti all'incredibile fluidità ipercinetica delle scene d'azione e del montaggio (per dire, la corsa iniziale è da manuale) e anche gli avatar dei singoli personaggi sono bellissimi. Benché quelli dei "cattivi" siano palesemente finti e volutamente bruttarelli, Parzival e Art3mis funzionano perché non si è cercato di renderli realistici per forza: nei primi piani danno l'idea di essere delle colorate e dettagliatissime maschere di lattice ma nelle inquadrature un po' più distanziate non sembrano i personaggi di un videogame quanto piuttosto un riuscito mix tra animazione computerizzata e live action (la scena del ballo è una delle più belle viste nel 2018 a mio umilissimo parere). L'unico difetto che posso trovare a Ready Player One, in quanto maledetta Precisina Della Fungia, è l'aver trasformato Nolan Sorrento da villain tout court in belinone gabbabile con trucchetti da bambini oltre a un adattamento italiano da pelle d'oca ("Zio" utilizzato sempre più a sproposito ma anche robe come "ci KILLerai tutti"... Gesù, so di essere vecchia ma non si possono sentire!) ma anche questo lieve fastidio passa in secondo piano davanti a un film entusiasmante e ben realizzato, capace di tenere avvinto alla poltrona sia lo spettatore "acculturato" corso al cinema per fare il conteggio dei riferimenti (o fare le pulci a Spielberg) sia quello che vorrebbe godersi "solo" due ore e passa di sano divertimento. Io sono tornata bambina come non mi succedeva da tempo e per questo, dopo essermi profusa in ringraziamenti per Del Toro, torno a ringraziare un altro grandissimo Regista che non ha mai smesso di essere tale, nemmeno col GGG.
Del regista Steven Spielberg ho già parlato QUI. Tye Sheridan (Wade Owen Watts/Parzival), Olivia Cooke (Samantha Evelyn Cook/Art3mis), Ben Mendelsohn (Nolan Sorrento), T. J. Miller (i-R0k), Simon Pegg (Ogden Morrow/Og), Mark Rylance (James Halliday/Anorak) e Ralph Ineson (Rick) li trovate invece ai rispettivi link.
Tra i registi in lizza per dirigere il film c'erano Christopher Nolan, Robert Zemeckis (pluricitato, per inciso), Matthew Vaughn, Peter Jackson e Edgar Wright: nel 2015 Spielberg ha firmato il contratto e, tra le cose fatte nel corso della realizzazione del film, ha chiesto a Gene Wilder di partecipare, ottenendo un fermo rifiuto da parte dell'attore poi morto nel 2016. Altri attori che invece "non ce l'hanno fatta" sono Michael Keaton per il ruolo di Halliday ed Elle Fanning per quello di Art3mis. Detto questo, se Ready Player One vi piacerà non dimenticate di recuperare il libro da cui è tratto e magari ripescate Ralph Spaccatutto... oltre ai millemila film citati nella pellicola. Per non fare spoiler vi dico "aspettate, segnate, recuperate" ma intanto mi permetto di dire: Buckaroo Banzai. Almeno quello, visto che lo conosciamo in dodici. ENJOY!
giovedì 22 marzo 2018
(Gio)WE, Bolla! del 22/3/2018
Buon giovedì a tutti! Questa è una settimana DI starsene a casa mi sa. L'unico film che vi consiglio di non perdere, il bellissimo Un sogno chiamato Florida, a Savona non è uscito ma ne parlerò comunque in settimana. Cosa rimane dunque da vedere? Scorpriamolo... ENJOY!
Peter Rabbit
Il sole a mezzanotte - Midnight Sun
Pacific Rim: La rivolta
Una festa esagerata
Al cinema d'élite c'è aria "veneziana" invece...
Foxtrot - La danza del destino
Peter Rabbit
Reazione a caldo: Santiddio, no.
Bolla, rifletti!: Se non fosse per il dolore di vedere l'adorato roscio Domhnall Gleeson ridotto come il peggiore Jason Lee in un film dei Chipmunk, FORSE andrei anche a vederlo. Ma anche no, la critica d'oltreoceano lo sta demolendo e sinceramente non ho mai avuto la passione per Beatrix Potter.Il sole a mezzanotte - Midnight Sun
Reazione a caldo: BwahahaahahNNO!
Bolla, rifletti!: Già dopo la visione del trailer di quest'ennesimo YA con protagonisti malati ho dovuto ricoverarmi per un attacco di diabete fulminante e tra l'altro se c'è un'attrice giovane che mi sta sulle balle, con quella resting bitch face che si ritrova, è proprio Bella Thorne.Pacific Rim: La rivolta
Reazione a caldo: ...mah.
Bolla, rifletti!: L'assenza di Del Toro mi fa paura e dal trailer il sequel di Pacific Rim mi è sembrato un Transformers con mostri. Sinceramente? Credo che nulla sarà mai epico come lo scontro visto in Ready Player One (di cui parlerò domani!) quindi potrei anche passare, soprattutto in virtù del fatto che il Bolluomo deve ancora recuperare Pacific Rim.Una festa esagerata
Reazione a caldo: Uff...
Bolla, rifletti!: E ti pareva che non lasciassero al palo l'ennesima cretinata italiana, un film dedicato alla terrificante moda dei pre-diciottesimi. Gesù se penso che per 'st'indecenza i miei concittadini non vedranno Un sogno chiamato Florida mi sento male. Al cinema d'élite c'è aria "veneziana" invece...
Foxtrot - La danza del destino
Reazione a caldo: BOH?
Bolla, rifletti!: Dalla sinossi presente sul sito pare che Foxtrot sia un misto di dramma e commedia nera, imperniata sull'orrore della guerra. Ciò lo candida per essere un recupero molto interessante, d'altronde parliamo sempre di un film che ha vinto il Leone d'Argento all'ultimo festival di Venezia!mercoledì 21 marzo 2018
L!fe Happens (2011)
Dopo aver ripescato il titolo da una vecchia rubrica del blog mi è capitato di vedere L!fe Happens, diretto e co-sceneggiato nel 2011 dalla regista Kat Coiro.
Trama: Kim e Deena sono due twentysomething che vivono assieme e conducono una vita sregolata a base di feste e rapporti occasionali. Proprio durante uno di questi Kim rimane incinta e si ritrova a dover essere madre single mentre tutti attorno a lei sembrano realizzare qualsiasi obiettivo nella vita, Deena in primis...
Avvicinandosi i quaranta sempre più gente (leggi: padre e madre) comincia a domandarsi quando metterò la testa a posto sfornando un simpatico pargoletto e sempre più persone attorno a me (leggi: amiche di una vita) decidono di intraprendere il cammino della maternità/paternità con una serenità d'animo che talvolta gli invidio. Il problema è che io, pur non essendo gnocca come la Ritter e la Bosworth e pur avendo una decina di anni in più, sono cazzona come i due personaggi da loro ritratti e l'idea di ritrovarmi ricoperta di rigurgito latteo mentre cambio un pannolino invece, che so, di salire sul primo volo per la Nuova Zelanda e darmi alla pazza gioia per una settimana (o anche semplicemente andare una sera al cinema), consacrandomi per almeno 18 anni buoni al totale benessere psico-fisico di una mini-persona potenzialmente spaccamaroni, mi riempie appena appena d'ansia. A causa di questa disposizione d'animo, ho apprezzato parecchio che un film come L!fe Happens, almeno in parte, affrontasse la gravidanza indesiderata di Kim con un realismo che non coincide necessariamente con eccesso di drama e situazioni deprimenti, quanto piuttosto con piccoli scazzi quotidiani, difficoltà oggettive sia nella gestione della casa e del lavoro sia nella vita privata, fino ad arrivare alla tipica situazione di rottura che solitamente precede l'atto risolutivo in questo genere di "commedie formative". D'altra parte, per quanto la si possa infiocchettare, una gravidanza imprevista o non desiderata non è necessariamente un evento positivo e rischia di distruggere l'esistenza di una persona che dovesse ritrovarsi in una situazione già precaria di suo; se poi, come nel caso di L!fe Happens, si aggiunge la beffa di essere rimaste incinte perché l'ultimo preservativo l'ha "vinto" la coinquilina che nel frattempo è diventata ricca e famosa ha senso anche ritrarre la giovane mamma come una persona non tagliata per esserlo, ridotta a soffrire la propria situazione fino al punto di combatterla, negandola, con tutte le sue forze prima di rendersi conto che la vita "capita" e che una situazione potenzialmente negativa può anche nascondere delle belle sorprese. Per tutti, ci mancherebbe, persino per un inquietante stalker che meriterebbe di non vedere le donne neppure col binocolo.
Sì, nonostante quello che ho scritto all'inizio L!fe Happens è comunque una commedia rosa travestita da pellicola indipendente, che marcia spedita verso la sua conclusione a tarallucci e vino e richiede allo spettatore di tapparsi il naso senza badare troppo al fatto che, gira che ti rigira, nonostante le premesse realistiche si parla comunque di donne bellissime, libertine ma dal cuore di mamma, femministe ma in cerca del principe azzurro, spiantate ma comunque in grado di costruirsi una carriera invidiabile nel giro di un annetto al massimo accompagnate da uomini rozzi ma fighi oppure stalker ma interessanti. Insomma, proprio quello che happens nelle l!fe di tutti i giorni, come no! Forse in quella della Ferragni, sebbene lei non si sia beccata un uomo né figo né interessante. Ma non divaghiamo. Nonostante tutto non sono riuscita a volere male a L!fe Happens non solo perché l'ho presa come una semplice commedia divertente senza troppe pretese ma anche perché adoro Krysten Ritter (motivo per cui mi sono messa a guardare un film che avrebbe potuto farmi seriamente schifo) e la Bosworth si è rivelata un'esilarante protagonista/spalla capace di interpretare un personaggio che, di fatto, si becca tutte le battute migliori. Altra gioia è stata quella di rivedere il Prior di Angels in America, ovvero l'attore Justin Kirk, probabilmente l'unico capace di nobilitare il solito personaggio fuori dalle righe che tenta di concupire una delle protagoniste conquistandola coi suoi modi assurdi dopo essere stato rimbalzato per mezzo film (ops, spoileROTFL). Mettendo quindi assieme attori capaci, mise accattivanti, quel pizzico di follia in grado di invogliare lo spettatore ad avere Kim e Deena (e la loro terza coinquilina) come amiche, un po' di brani simpatici in pieno spirito "giovani sgallettate americane crescono" il risultato è che L!fe Happens diventa un film guardabile e perfetto per una di quelle sessioni di "stira & mira" alle quali periodicamente siamo costrette noi povere fanciulle spargolate... o magari per le mamme che con un occhio devono stare attente ai loro frugoletti!
Di Krysten Ritter (che interpreta Kim e ha co-sceneggiato il film), Kate Bosworth (Deena), Justin Kirk (Henri) e Seymour Cassel (Pop Pop) ho già parlato ai rispettivi link.
Kat Coiro è la regista e co-sceneggiatrice del film. Americana, ha diretto pellicole come Una rete di bugie. E' anche attrice e produttrice.
Geoff Stults interpreta Nicholas. Americano, ha partecipato a film come 2 single a nozze, J. Edgar e a serie quali Settimo cielo, How I Met your Mother e Bones. Anche produttore, ha 40 anni e un film in uscita.
Kristen Johnston interpreta Francesca. Americana, indimenticata Sally della serie Una famiglia del terzo tipo, ha partecipato a film come Austin Powers - La spia che ci provava, I Flinstones in Viva Rock Vegas, Austin Powers in Goldmember e ad altre serie quali Sex and the City, E.R. Medici in prima linea e Ugly Betty. Ha inoltre lavorato come doppiatrice per serie come Kim Possible. Ha 50 anni e due film in uscita.
Jason Biggs interpreta Sergei. Americano, lo ricordo per film come American Pie, American School, Assatanata, American Pie 2, Jay & Silent Bob... fermate Hollywood!, American Pie - Il matrimonio, Jersey Girl e American Pie: Ancora insieme, inoltre ha partecipato a serie come Will & Grace e lavorato come doppiatore per Teenage Mutant Ninja Turtles - Tartarughe Ninja. Anche produttore, ha 39 anni e un film in uscita.
Trama: Kim e Deena sono due twentysomething che vivono assieme e conducono una vita sregolata a base di feste e rapporti occasionali. Proprio durante uno di questi Kim rimane incinta e si ritrova a dover essere madre single mentre tutti attorno a lei sembrano realizzare qualsiasi obiettivo nella vita, Deena in primis...
Avvicinandosi i quaranta sempre più gente (leggi: padre e madre) comincia a domandarsi quando metterò la testa a posto sfornando un simpatico pargoletto e sempre più persone attorno a me (leggi: amiche di una vita) decidono di intraprendere il cammino della maternità/paternità con una serenità d'animo che talvolta gli invidio. Il problema è che io, pur non essendo gnocca come la Ritter e la Bosworth e pur avendo una decina di anni in più, sono cazzona come i due personaggi da loro ritratti e l'idea di ritrovarmi ricoperta di rigurgito latteo mentre cambio un pannolino invece, che so, di salire sul primo volo per la Nuova Zelanda e darmi alla pazza gioia per una settimana (o anche semplicemente andare una sera al cinema), consacrandomi per almeno 18 anni buoni al totale benessere psico-fisico di una mini-persona potenzialmente spaccamaroni, mi riempie appena appena d'ansia. A causa di questa disposizione d'animo, ho apprezzato parecchio che un film come L!fe Happens, almeno in parte, affrontasse la gravidanza indesiderata di Kim con un realismo che non coincide necessariamente con eccesso di drama e situazioni deprimenti, quanto piuttosto con piccoli scazzi quotidiani, difficoltà oggettive sia nella gestione della casa e del lavoro sia nella vita privata, fino ad arrivare alla tipica situazione di rottura che solitamente precede l'atto risolutivo in questo genere di "commedie formative". D'altra parte, per quanto la si possa infiocchettare, una gravidanza imprevista o non desiderata non è necessariamente un evento positivo e rischia di distruggere l'esistenza di una persona che dovesse ritrovarsi in una situazione già precaria di suo; se poi, come nel caso di L!fe Happens, si aggiunge la beffa di essere rimaste incinte perché l'ultimo preservativo l'ha "vinto" la coinquilina che nel frattempo è diventata ricca e famosa ha senso anche ritrarre la giovane mamma come una persona non tagliata per esserlo, ridotta a soffrire la propria situazione fino al punto di combatterla, negandola, con tutte le sue forze prima di rendersi conto che la vita "capita" e che una situazione potenzialmente negativa può anche nascondere delle belle sorprese. Per tutti, ci mancherebbe, persino per un inquietante stalker che meriterebbe di non vedere le donne neppure col binocolo.
Sì, nonostante quello che ho scritto all'inizio L!fe Happens è comunque una commedia rosa travestita da pellicola indipendente, che marcia spedita verso la sua conclusione a tarallucci e vino e richiede allo spettatore di tapparsi il naso senza badare troppo al fatto che, gira che ti rigira, nonostante le premesse realistiche si parla comunque di donne bellissime, libertine ma dal cuore di mamma, femministe ma in cerca del principe azzurro, spiantate ma comunque in grado di costruirsi una carriera invidiabile nel giro di un annetto al massimo accompagnate da uomini rozzi ma fighi oppure stalker ma interessanti. Insomma, proprio quello che happens nelle l!fe di tutti i giorni, come no! Forse in quella della Ferragni, sebbene lei non si sia beccata un uomo né figo né interessante. Ma non divaghiamo. Nonostante tutto non sono riuscita a volere male a L!fe Happens non solo perché l'ho presa come una semplice commedia divertente senza troppe pretese ma anche perché adoro Krysten Ritter (motivo per cui mi sono messa a guardare un film che avrebbe potuto farmi seriamente schifo) e la Bosworth si è rivelata un'esilarante protagonista/spalla capace di interpretare un personaggio che, di fatto, si becca tutte le battute migliori. Altra gioia è stata quella di rivedere il Prior di Angels in America, ovvero l'attore Justin Kirk, probabilmente l'unico capace di nobilitare il solito personaggio fuori dalle righe che tenta di concupire una delle protagoniste conquistandola coi suoi modi assurdi dopo essere stato rimbalzato per mezzo film (ops, spoileROTFL). Mettendo quindi assieme attori capaci, mise accattivanti, quel pizzico di follia in grado di invogliare lo spettatore ad avere Kim e Deena (e la loro terza coinquilina) come amiche, un po' di brani simpatici in pieno spirito "giovani sgallettate americane crescono" il risultato è che L!fe Happens diventa un film guardabile e perfetto per una di quelle sessioni di "stira & mira" alle quali periodicamente siamo costrette noi povere fanciulle spargolate... o magari per le mamme che con un occhio devono stare attente ai loro frugoletti!
Di Krysten Ritter (che interpreta Kim e ha co-sceneggiato il film), Kate Bosworth (Deena), Justin Kirk (Henri) e Seymour Cassel (Pop Pop) ho già parlato ai rispettivi link.
Kat Coiro è la regista e co-sceneggiatrice del film. Americana, ha diretto pellicole come Una rete di bugie. E' anche attrice e produttrice.
Geoff Stults interpreta Nicholas. Americano, ha partecipato a film come 2 single a nozze, J. Edgar e a serie quali Settimo cielo, How I Met your Mother e Bones. Anche produttore, ha 40 anni e un film in uscita.
Kristen Johnston interpreta Francesca. Americana, indimenticata Sally della serie Una famiglia del terzo tipo, ha partecipato a film come Austin Powers - La spia che ci provava, I Flinstones in Viva Rock Vegas, Austin Powers in Goldmember e ad altre serie quali Sex and the City, E.R. Medici in prima linea e Ugly Betty. Ha inoltre lavorato come doppiatrice per serie come Kim Possible. Ha 50 anni e due film in uscita.
Jason Biggs interpreta Sergei. Americano, lo ricordo per film come American Pie, American School, Assatanata, American Pie 2, Jay & Silent Bob... fermate Hollywood!, American Pie - Il matrimonio, Jersey Girl e American Pie: Ancora insieme, inoltre ha partecipato a serie come Will & Grace e lavorato come doppiatore per Teenage Mutant Ninja Turtles - Tartarughe Ninja. Anche produttore, ha 39 anni e un film in uscita.
martedì 20 marzo 2018
Marrowbone (2017)
Il passaparola internettiano mi ha portata a recuperare Marrowbone, diretto e sceneggiato nel 2017 dal regista Sergio G. Sánchez. NO SPOILER, ovvio!
Trama: dopo la morte della madre, quattro ragazzi si ritrovano a vivere soli in una casa isolata che nasconde un terribile segreto.
Prima di iniziare il post urge ringraziare Melissa e Mr. Ink che si sono sbattuti a scrivermi per segnalarmi l'esistenza di Marrowbone. Purtroppo, tra lavoro, incombenze casalinghe, necessità di rinforzare la zampa destra dopo la lesione, fidanzati poco anglofili, un po' (ma non troppa) di vita sociale e necessità di dormire almeno 6 ore altrimenti divento intrattabile rischio di perdermi un buon 90% delle novità o comunque di recuperarle dopo mesi quindi continuate a segnalare, per favore: la mia prima reazione è quella di aggiungere una cordina al cappio che mi sto confezionando onde appendermi a uno degli alberi dell'orto (visto anche l'anno di merda che sto passando e la sfiga perennemente in agguato) ma è un momento che passa e lascia subito il posto ad enorme gratitudine e aMMore spropositato. Detto questo, parliamo di Marrowbone. Il film è l'elegante semi-esordio alla regia dello sceneggiatore di The Orphanage e di quest'ultimo mantiene la natura di storia gotica a base di oscuri segreti che riesce allo stesso tempo a portare avanti un importante lavoro di approfondimento dei personaggi, tridimensionali come raramente succede in questi casi. Marrowbone è il nuovo cognome dei fratelli Jack, Billy, Jane e Sam, quattro ragazzi che, assieme alla madre, sono tornati a vivere nella casa d'infanzia di quest'ultima per fuggire all'orrore di un passato neppure troppo remoto; con questo cambiamento d'identità i cinque sperano di ricominciare una nuova vita, lasciandosi alle spalle tutti i demoni, ma dopo una calda e troppo breve estate felice passata insieme la madre muore, lasciando al figlio più grande l'incombenza di nascondere l'attuale condizione di orfani onde evitare che i fratelli gli vengano portati via. Dopo la morte della madre, la casa apparentemente tanto accogliente comincia inoltre ad emanare un'aura oscura e qualcosa al suo interno perseguita e spaventa i ragazzi, una sensazione di disagio che si accompagna, almeno per i più piccoli, all'impossibilità di uscire all'esterno per non destare sospetti negli abitanti del villaggio, mentre Jack ha il suo bel daffare a trovare i soldi per impedire che la casa materna venga loro tolta. Questa reclusione forzata e la paura dell'esterno, dell'"altro", pur se mitigata dalla presenza salvifica della giovane Allie (che diventerà l'interesse amoroso di Jack), rimanda non solo al già citato The Orphanage ma anche a The Others e al più recente The Lodgers, tutti film imperniati sul concetto di famiglia e traumi del passato che richiamano spesso e volentieri presenze ultraterrene poco amichevoli, talvolta nate dal senso di colpa di chi è rimasto in vita.
Altro non aggiungerei sulla trama di Marrowbone, film pieno di misteri e twist da scoprire a poco a poco, elegante nella messinscena e soprattutto graziato dalle ottime prove di giovani attori tra i più talentuosi di oggi. Fa specie che il film di Sánchez sia stato co-prodotto da Telecinco Cinema, branca della Mediaset spagnola, quando il massimo che la rete del Berlusca riesce a realizzare da noi sono fiction tra l'imbarazzante e l'inguardabile; in Italia i giovani attori sono delle macchiette ridicole, incapaci di parlare in maniera naturale senza forzare dialetti o lingua italiana, e spesso la stessa cosa vale per artisti più affermati, mentre Marrowbone offre il fior fiore della bravura giovanile. A onor del vero, Charlie Heaton e la sua faccia un po' addormentata non mi fanno impazzire né qui né in Stranger Things (quest'anno sono diventata #TeamSteve) ma George MacKay regge sulle sue spalle rosce buona parte della tensione del film, interpretando alla perfezione il ruolo di fratello maggiore determinato ma insicuro, ed è affiancato da due attrici splendide (oltre che da un pargoletto delizioso!). Di Anya Taylor-Joy ho parlato spesso e forse questo è il suo ruolo meno "gotico" ma la trovo perfetta anche nei panni della giovane ragazza indipendente e innamorata, con un look anni '60 che le si addice proprio, e Mia Goth ha una bellezza particolarissima che la rende adatta ad interpretare personaggi fuori dal tempo, intrisi di una malinconia, per l'appunto, gotica. Nomen omen in questo caso. La bravura degli attori e l'importante lavoro di scrittura fatto sui personaggi rende Marrowbone un film "ibrido", lontano dalle ghost stories americane moderne, fatte in gran parte di jump scare ed effetti speciali fracassoni, che si prende tutto il tempo di raccontare innanzitutto una storia umana e difficile, capace di commuovere il pubblico con quel modo tutto iberico di assestare cazzotti all'altezza dello stomaco. Al momento è sicuramente uno dei film migliori visti in quest'anno cinematografico cominciato all'insegna della delicatezza e dell'amore per il bello: è un caso che The Orphanage, prima sceneggiatura di Sánchez, fosse stato prodotto da Del Toro? Noi del Bollalmanacco pensiamo di no, quindi fatevi il favore di recuperare Marrowbone, non ve ne pentirete!
Di George MacKay (Jack), Anya Taylor-Joy (Allie) e Mia Goth (Jane) ho parlato ai rispettivi link.
Sergio G. Sánchez è il regista e sceneggiatore della pellicola. Spagnolo, famoso soprattutto per la sceneggiatura di film come The Orphanage e The Impossible, ha 45 anni.
Charlie Heaton interpreta Billy. Inglese, diventato famoso per il ruolo di Jonathan Byers nella serie Stranger Things, ha partecipato a film come Shut In. Ha 24 anni e un film in uscita, New Mutants, dove interpreterà Sam "Cannonball" Guthrie.
Se Marrowbone vi fosse piaciuto recuperate The Orphanage e Crimson Peak. ENJOY!
Trama: dopo la morte della madre, quattro ragazzi si ritrovano a vivere soli in una casa isolata che nasconde un terribile segreto.
Prima di iniziare il post urge ringraziare Melissa e Mr. Ink che si sono sbattuti a scrivermi per segnalarmi l'esistenza di Marrowbone. Purtroppo, tra lavoro, incombenze casalinghe, necessità di rinforzare la zampa destra dopo la lesione, fidanzati poco anglofili, un po' (ma non troppa) di vita sociale e necessità di dormire almeno 6 ore altrimenti divento intrattabile rischio di perdermi un buon 90% delle novità o comunque di recuperarle dopo mesi quindi continuate a segnalare, per favore: la mia prima reazione è quella di aggiungere una cordina al cappio che mi sto confezionando onde appendermi a uno degli alberi dell'orto (visto anche l'anno di merda che sto passando e la sfiga perennemente in agguato) ma è un momento che passa e lascia subito il posto ad enorme gratitudine e aMMore spropositato. Detto questo, parliamo di Marrowbone. Il film è l'elegante semi-esordio alla regia dello sceneggiatore di The Orphanage e di quest'ultimo mantiene la natura di storia gotica a base di oscuri segreti che riesce allo stesso tempo a portare avanti un importante lavoro di approfondimento dei personaggi, tridimensionali come raramente succede in questi casi. Marrowbone è il nuovo cognome dei fratelli Jack, Billy, Jane e Sam, quattro ragazzi che, assieme alla madre, sono tornati a vivere nella casa d'infanzia di quest'ultima per fuggire all'orrore di un passato neppure troppo remoto; con questo cambiamento d'identità i cinque sperano di ricominciare una nuova vita, lasciandosi alle spalle tutti i demoni, ma dopo una calda e troppo breve estate felice passata insieme la madre muore, lasciando al figlio più grande l'incombenza di nascondere l'attuale condizione di orfani onde evitare che i fratelli gli vengano portati via. Dopo la morte della madre, la casa apparentemente tanto accogliente comincia inoltre ad emanare un'aura oscura e qualcosa al suo interno perseguita e spaventa i ragazzi, una sensazione di disagio che si accompagna, almeno per i più piccoli, all'impossibilità di uscire all'esterno per non destare sospetti negli abitanti del villaggio, mentre Jack ha il suo bel daffare a trovare i soldi per impedire che la casa materna venga loro tolta. Questa reclusione forzata e la paura dell'esterno, dell'"altro", pur se mitigata dalla presenza salvifica della giovane Allie (che diventerà l'interesse amoroso di Jack), rimanda non solo al già citato The Orphanage ma anche a The Others e al più recente The Lodgers, tutti film imperniati sul concetto di famiglia e traumi del passato che richiamano spesso e volentieri presenze ultraterrene poco amichevoli, talvolta nate dal senso di colpa di chi è rimasto in vita.
Altro non aggiungerei sulla trama di Marrowbone, film pieno di misteri e twist da scoprire a poco a poco, elegante nella messinscena e soprattutto graziato dalle ottime prove di giovani attori tra i più talentuosi di oggi. Fa specie che il film di Sánchez sia stato co-prodotto da Telecinco Cinema, branca della Mediaset spagnola, quando il massimo che la rete del Berlusca riesce a realizzare da noi sono fiction tra l'imbarazzante e l'inguardabile; in Italia i giovani attori sono delle macchiette ridicole, incapaci di parlare in maniera naturale senza forzare dialetti o lingua italiana, e spesso la stessa cosa vale per artisti più affermati, mentre Marrowbone offre il fior fiore della bravura giovanile. A onor del vero, Charlie Heaton e la sua faccia un po' addormentata non mi fanno impazzire né qui né in Stranger Things (quest'anno sono diventata #TeamSteve) ma George MacKay regge sulle sue spalle rosce buona parte della tensione del film, interpretando alla perfezione il ruolo di fratello maggiore determinato ma insicuro, ed è affiancato da due attrici splendide (oltre che da un pargoletto delizioso!). Di Anya Taylor-Joy ho parlato spesso e forse questo è il suo ruolo meno "gotico" ma la trovo perfetta anche nei panni della giovane ragazza indipendente e innamorata, con un look anni '60 che le si addice proprio, e Mia Goth ha una bellezza particolarissima che la rende adatta ad interpretare personaggi fuori dal tempo, intrisi di una malinconia, per l'appunto, gotica. Nomen omen in questo caso. La bravura degli attori e l'importante lavoro di scrittura fatto sui personaggi rende Marrowbone un film "ibrido", lontano dalle ghost stories americane moderne, fatte in gran parte di jump scare ed effetti speciali fracassoni, che si prende tutto il tempo di raccontare innanzitutto una storia umana e difficile, capace di commuovere il pubblico con quel modo tutto iberico di assestare cazzotti all'altezza dello stomaco. Al momento è sicuramente uno dei film migliori visti in quest'anno cinematografico cominciato all'insegna della delicatezza e dell'amore per il bello: è un caso che The Orphanage, prima sceneggiatura di Sánchez, fosse stato prodotto da Del Toro? Noi del Bollalmanacco pensiamo di no, quindi fatevi il favore di recuperare Marrowbone, non ve ne pentirete!
Di George MacKay (Jack), Anya Taylor-Joy (Allie) e Mia Goth (Jane) ho parlato ai rispettivi link.
Sergio G. Sánchez è il regista e sceneggiatore della pellicola. Spagnolo, famoso soprattutto per la sceneggiatura di film come The Orphanage e The Impossible, ha 45 anni.
Charlie Heaton interpreta Billy. Inglese, diventato famoso per il ruolo di Jonathan Byers nella serie Stranger Things, ha partecipato a film come Shut In. Ha 24 anni e un film in uscita, New Mutants, dove interpreterà Sam "Cannonball" Guthrie.
Kyle Soller interpreta Tom Porter. Americano, ha partecipato a film come Anna Karenina e Fury. Ha 35 anni.
Se Marrowbone vi fosse piaciuto recuperate The Orphanage e Crimson Peak. ENJOY!
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