mercoledì 30 marzo 2022

La persona peggiore del mondo (2021)

Gli Oscar ormai sono stati assegnati ma qualche recensione a tema la farò ancora uscire, nelle prossime settimane. Fa parte di quelli "rimasti indietro"  La persona peggiore del mondo (Verdens verste menneske), diretto e co-sceneggiato dal regista Joachim Trier nel 2021 e candidato a due premi Oscar (Miglior Sceneggiatura Originale e Miglior Film Straniero).


Trama: Julie sta per compiere 30 anni e non sa cosa fare della sua vita. Gli anni passano, così come gli amanti, ma qualcosa sembra sempre mancarle.


La persona peggiore del mondo
è la commedia romantica che prende a schiaffi le commedie romantiche, non c'è altro modo di definire l'ultimo film di Joachim Trier. Il genere in oggetto è uno di quelli che non sopporto granché, eppure, alla fine, a volte mi ritrovo a guardarle queste maledette commedie romantiche, e ad apprezzarle, perché chi non vorrebbe una storia d'amore come quelle che si vedono nei film, fatte di incertezze superabili con incredibili prove d'aMMore da parte del partner, preambolo di una vita da sogno, priva di qualsiasi tipo problema terreno? Ecco, la bellezza de La persona peggiore del mondo sta nell'abilità con cui Joachim Trier prende i cliché del caso, li usa consapevolmente, e li mette di fronte alla spietatezza della realtà attraverso una protagonista che definire incontentabile ed insicura è un eufemismo. Julia, a dirla tutta, non è incontentabile ed insicura in quella maniera accattivante e tutta americana che ci propinano da anni le rom-com, ma è come potremmo essere tutti noi: non sa quale carriera universitaria scegliere, quale lavoro fare, con quale partner stare, e si ritrova a 30 anni con un pugno di mosche in mano, circondata da persone che, ovviamente, le fanno le domande meno opportune. Julia non è neppure una di quelle protagoniste che decidono di prendere in mano la propria esistenza e cambiare drasticamente. Vorrebbe, come succede a tanti di noi, ma non ha il coraggio di buttarsi, soprattutto non dopo tanti tentativi andati a vuoto, e ovviamente sogna una vita migliore, guardando sempre "oltre" quello che le viene concesso di volta in volta, e ciò si manifesta prevalentemente all'interno della propria sfera amorosa. Prima parlavo di cliché, e i due uomini della vita di Julia vengono infatti introdotti come i più classici dei colpi di fulmine: il primo avviene durante l'incontro con l'artista Aksel, "l'uomo con cui Julia era sicura avrebbe passato tutta la sua vita", più vecchio di lei e conseguentemente legato a diversi valori, il secondo durante quello con Eivind, introdotto come l'anima gemella della protagonista, un uomo che le assomiglia in tutto o quasi.


Trier
ci mostra quello che accade quando l'amore si scontra con l'incapacità cronica di avere un equilibrio, quando anche il sentimento più romantico e il coronamento dei desideri vengono "sporcati" dai problemi della vita di tutti i giorni, dalle insicurezze e, come ho scritto sopra, lo fa introducendo anche argomenti "spiacevoli", se vogliamo, come la morte, la malattia, la vecchiaia, l'annoso problema dei figli, particolarmente sentito da Julia, forse più del lavoro. Lo stile del regista, di conseguenza, si fa fluido quanto la storia che racconta; alle riprese realistiche (ma mai noiose) della vita quotidiana di chi, in quanto artista, dovrebbe di norma averne una da sogno e invece vive come una persona normale, si alternano montaggi di corteggiamento e dialoghi tipici di una rom-com (esemplare la serata che Julia passa con Eivind, dove anche i dialoghi sembrano "troppo belli per essere veri"), assieme a sequenze irreali in cui Julia si perde in sogni d'amore che farebbero l'invidia di Amélie oppure incubi indotti da funghi allucinogeni durante i quali vengono a galla tutte le paure della protagonista. Il tutto viene caricato sulle spalle di tre attori mostruosamente bravi. Renate Reinsve è stata giustamente premiata come migliore attrice a Cannes ed effettivamente la sua interpretazione di Julia è coinvolgente, incredibilmente realistica ed espressiva nonostante il personaggio in questione sia difficile da gestire, perché il rischio di trasformarlo in una macchietta insopportabile è subito dietro l'angolo; Anders Danielsen Lie, da par suo, comincia forse un po' sottotono (all'inizio resta più impresso Eivind, anche grazie alla magica serata passata con Julie), ma mano a mano che il film prosegue arriva a conquistare un enorme fetta del cuore dello spettatore, con la sua schiettezza, la sua fragilità di uomo innamorato e, sì, anche con l'arroganza tipica dell'intellettuale. La persona peggiore del mondo è dunque un film che consiglio spassionatamente. Maneggiare con cautela, ovvio, perché il rischio di riconoscersi in qualche aspetto di Julia e di finire preda dell'angoscia guardandolo c'è, ed è tangibilissimo. 


Del regista e co-sceneggiatore Joachim Trier ho già parlato QUI.


La persona peggiore del mondo
è l'ultimo pezzo della Trilogia di Oslo, di cui fanno parte Reprise (lo trovate su Netflix) e Oslo, 31. august, che purtroppo non è disponibile su nessuna piattaforma streaming e quindi sarà un po' più arduo da recuperare. ENJOY!


martedì 29 marzo 2022

Il Bollodromo #95: Lupin III - Parte 6 - Episodio 24

Causa Oscar, l'appuntamento con Lupin III - Parte 6 è stato traslato ad oggi, e vi parlerò del season finale della serie, 悪党が愛すもの  (Akutō ga aisu mono - L'amore del cattivo).



Nell'ex magione di famiglia, un Lupin ormai privo di volontà propria e già vittima di una ferita semi-mortale è costretto a scontrarsi con Matja, decisa a ucciderlo. Un colpo di pistola seda i bollori dei due e preannuncia l'arrivo di Jigen, Goemon e Fujiko, i quali giustamente vorrebbero capire se il loro amico è definitivamente ammattito e pronto ad abbandonarli per Tomoe, che funge da sorridente spettatrice. Mentre Goemon tiene a tiro di spada Matja, Fujiko si trasforma in Megumi (o Duenote) de L'incantevole Creamy e comincia a schiaffeggiare Lupin manco fosse Shingo (o Pentagramma), finché il ladro non si scogliona e non le chiede di piantarla con la messinscena, visto che era già rinsavito prima e i nostri lo sapevano. Lupin era riuscito a sottrarsi alla suggestione ipnotica di Tomoe grazie a quei piccoli "dettagli" che, all'interno delle visioni, gli richiamavano alla mente i suoi amici; dalle parole di Lupin, inoltre, si evince che Tomoe non è mai stata sua madre e che a rubare la famosa scatoletta contenente la prova dal caveau del nonno era stato proprio Lupin, ipnotizzato dalla donna. Tomoe, impazzita, non fa in tempo a minacciare il suo "boyo" dicendogli che troverà di nuovo il modo per farlo suo, non importa quante altre ragazze dovrà manipolare per riuscirci, che Lupin le spara in petto levandosela per sempre dalle balle. 


Matja, dal canto suo, si trasforma in Sidney Prescott, la final girl che sa benissimo come i mostri vadano pugnalati almeno 300 volte altrimenti si rialzeranno, e usa Tomoe a mo' di puntaspilli per vendicarsi dell'infanzia passata a fare da assassina per la vecchiaccia. Lupin la ferma alla ventordicesima coltellata, offrendosi di fare da capro espiatorio, nel caso Matja fosse così cretina da non cambiare vita o da continuare ad accusarlo di averle rovinato la vita per conto terzi; il confronto tra i due (con gli altri che si tengono cavallerescamente in disparte) si svolge sul tetto della magione, e vede Lupin vittorioso nonostante Matja abbia coltelli ovunque e nonostante lui abbia una ferita che gli trapassa il torace più o meno all'altezza del cuore. Matja si convince a lasciar perdere nel momento in cui arriva Zenigata, che la arresta dopo averle comunicato che Arianna è ancora viva, e Lupin è libero così di andare nel caveau della magione con gli amici per recuperare la scatoletta, invano in quanto arrivati nel caveau il sistema di allarme li scaraventa in giardino. E' Jigen a scuotere l'amico che non sa più che pesci pigliare, al grido di "Tu pensi troppo e persino Goemon vince contro di te a poker!", cosa che porta Lupin a cercare la scatoletta addosso al cadavere di Tomoe. Trovata la scatoletta, per ringraziamento Lupin da fuoco a Tomoe e alla magione e, una volta presa visione del contenuto, getta tutto nelle fiamme, con sommo scorno dei suoi soci che mai sapranno quale sia il segreto di Lupin, se mai ce n'è uno.


Tutto torna alla normalità. Le partite a carte per decidere chi cucinerà, Zenigata attaccato alle costole, i nostri sono pronti per tornare a imperversare nel mondo e le fanciulle plagiate da Tomoe (quelle ancora in vita, ciao Hazel!) tornano alle loro esistenze, tra chi entra in prigione come Matja e chi evade come Mercedes, sulle note della commovente Bitter Rain, che chiude a mo' di chiosa tutta la stagione. Sulla quale, che dire... posso permettermi di parlare di "diludendo" e nemmeno troppo piccolo? Al di là della qualità tecnica dei singoli episodi, alcuni dei quali davvero bruttini a livello di animazioni, è proprio la storia in sé che non sa di nulla. Il tanto pubblicizzato Lupin vs Holmes ha tenuto banco per un paio di puntate iniziali in cui l'investigatore si è mostrato davvero un osso duro per tutti, ma il personaggio è stato ben poco utilizzato in seguito e la trama ha lasciato parecchie cose in sospeso. Due su tutte: cosa stava macchinando Albert? Perché Moriarty è stato introdotto come futuro del crimine quando poi non è stato più utilizzato? Guardare Lupin III - Parte 6 è stato come guardare l'ultima, orribile stagione di American Horror Story, divisa in due parti, con l'aggravante che almeno lo show americano non si è perso in filler inutili ed è andato dritto al punto; nel caso della serie animata, la seconda parte è stata sì meglio della prima, più interessante e particolare a livello di trama principale, ma mentre nella quinta serie il disagio dei vari personaggi è stato portato avanti con coerenza per quasi tutte le puntate, qui Lupin ha perso e ripreso il controllo nel giro di due (pur interessantissimi) episodi, mentre sarebbe stato molto più entusiasmante una lenta discesa dentro la follia, con i superstiti costretti a cercare l'aiuto di Holmes, Albert e Moriarty, cosa che avrebbe legato i due story arc. Cari amici della TMS, se mi pagate in gadget di Jigen giuro che vi metto a posto io le trame e le sceneggiature, non sarete nemmeno costretti ad ospitarmi in Giappone né darmi un solo yen, perché se la settima parte (sperando che prima arrivi un altro film di Takeshi Koike a rallegrarmi) sarà come questa avrete sulla coscienza la mia depressione!



Ecco le altre puntate di Lupin III - Parte 6:

lunedì 28 marzo 2022

Oscar 2022

Buon lunedì a tutti! Quella di quest'anno è stata una delle premiazioni più vergognose della storia degli Academy Awards, con premi dati letteralmente a ca**o di cane (d'altronde, c'era il Potere del, tra i candidati); ringrazio la dolce gatta Sandy per avermi svegliata solo alle 5 di mattina, giusto in tempo per vedere Uma Thurman, Samuel L. Jackson e John Travolta omaggiare uno dei film più belli della storia, prima di dare un immeritato premio a un cretino, cosa che mi ha portata a spegnere la TV e rimettermi a dormire. ENJOY!


Cominciamo, come ogni anno, dal Miglior Film. Contrariamente a tutti i pronostici e anche un po' al senso logico, l'Oscar è andato a I segni del cuore, remake USA de La famiglia Bélier. Ora, io non ho mai visto l'originale e il film mi è anche piaciuto, ma come si fa a far vincere come miglior film una pellicola "derivata" da un'altra e, mi si dice, praticamente identica? Fossi nei realizzatori de La famiglia Bélier, mi girerebbero le palle a elicottero, visto che il loro film non era stato nemmeno considerato nella cinquina degli Oscar stranieri di quell'anno. Ovviamente, I segni del cuore ha vinto anche l'Oscar per la Miglior Sceneggiatura Non Originale ma l'unico premio davvero dovuto e che mi ha resa felicissima è quello a Sian Heder, il mio attore preferito tra quelli Non Protagonisti. Nonostante un po' di giustizia, comunque, la vergogna resta e quelli assegnati a I segni del cuore sono due tra i premi più paraculi della storia degli Oscar.



E il favoritissimo Il potere del cane? Niente, s'è portato a casa "solo" una statuetta, quella per la Miglior Regia, che ha costretto la regista a salire sul palco con la lista della spesa. Giusto ridimensionamento di un film che a me non ha detto proprio nulla, salvato solo dalla perizia tecnica di Jane Campion, che effettivamente ha dato tutto il respiro necessario a un western atipico, sottolineando comunque la natura claustrofobica di paesaggi apparentemente sconfinati. 



Un'altra somma minchiata in una serata che ne era zeppa, è stato il premio come Miglior Attore Protagonista a Will Smith, che in Una famiglia vincente rifà se stesso tranne per quei cinque minuti in cui apre il cuore a una delle due figlie, durante i quali ho pensato "eccolo lì. Il momento in cui l'Academy non capirà più un belino e gli darà l'Oscar". Appunto. Una cosa buona, però, l'ex Principe di Bel Air l'ha fatta, ovvero tirare davanti a mezza America, sul palco, una cinquina in faccia a Chris Rock, reo di avere fatto una battuta di merda su Jada Pinkett Smith, moglie di Will. In un mondo migliore, Rock avrebbe risposto per le rime e il tutto sarebbe finito con le facce rotte di due degli attori che più detesto al mondo ma, ahimé, questo non è un mondo migliore. 


Una delle poche, vere gioie della serata è stato il premio a Jessica Chastain come Miglior Attrice Protagonista. In realtà, sono anni che la Chastain merita l'Oscar, e dispiace che a rimetterci sia stata Kristen Stewart, che in tutta onestà era la mia prima favorita, ma a caval donato non si guarda in bocca. Gli occhi di Tammy Faye vince anche un meritato Oscar per Make Up e Acconciature. 


Mezza delusione anche per l'Oscar alla Migliore Attrice Non Protagonista. Vero è che Ariana De Bose, come scritto QUI, è una delle poche cose per cui West Side Story è degno di essere ricordato e che supera di venti spanne la protagonista, ma il mio cuore è andato tutto alla dolorosa interpretazione di Jessie Buckley in La figlia oscura. Poteva andare peggio, tutto sommato, quindi auguro una carriera sfavillante alla bella Ariana.  


Anche l'altro favorito Belfast è stato brutalmente ridimensionato, e porta a casa solo il premio per la Miglior Sceneggiatura Originale. A me fa venire da piangere che un film bello ma dalla storia banalotta, per quanto edificante, abbia surclassato Don't Look UpLicorice Pizza La persona peggiore del mondo, ma a quanto pare quest'anno andava di moda il trionfo del prevedibile, che vi devo dire. 


Ma parliamo della cosa più esilarante e vergognosa di tutte. Dune. Il film di Villeneuve mostra la sua supremazia vincendo TUTTI i premi tecnici, ma ovviamente, essendo un film di fantascienza (ORRORE!!) non ha potuto ambire a venir premiato come miglior film. Fotografia, Montaggio, Scenografia, Sonoro, Colonna Sonora Originale, Effetti Speciali e poi basta perché sono finiti, tutto s'è preso. Scuoto il capo con disappunto, prima o poi il talento di Villeneuve e la bellezza dei film "di consumo" realizzati da autori veri verranno riconosciuti.


Scontatissima la vittoria di Encanto per la categoria Film d'Animazione. Lo strapotere Disney, se posso permettermi, ha rotto le palle. Preferire Encanto, sebbene molto carino, a Flee I Mitchell contro le macchine, è qualcosa di incomprensibile per me. 


Altrettanto scontata la vittoria di Drive My Car nella categoria Film Straniero. E vabbé, sapete che io non sono andata matta per il film di Ryusuke Hamaguchi, a cui ho preferito Flee La persona migliore del mondo, ma sapete anche che sono una capra e che ogni premio che va al Giappone mi rende felice a prescindere, quindi sorvolo.


Riassumo qui quei due o tre premi che ancora mancano, come quello, meritato, per i Migliori Costumi a Crudelia, quello per la Miglior Canzone Originale a Billie Eilish per No Time to Die (i miei complimenti qui vanno a lei, che si è vestita come un sacchetto della rumenta, e a J.K.Simmons, la cui faccia, quando lei parlava e saltellava sul palco avvolta da quell'orrore, era tutta un programma). Aggiungo quelle categorie di cui non ho assolutamente conoscenza: Summer of Soul (...Or, When the Revolution Could Not Be Televised) come Miglior Documentario (ma Flee vi faceva così schifo???), The Queen of Basketball come Miglior Corto Documentario, The Windshield Wiper come Miglior Corto Animato e The Long Goodbye come Miglior Corto. E con questo concludo, vado anche io a prendere un po' a ceffoni Chris Rock, che lo merita sempre! All'anno prossimo (forse)!



venerdì 25 marzo 2022

Spencer (2021)

E' finalmente uscito ieri, dopo mille rinvii causa Covid, Spencer, diretto nel 2021 dal regista Pablo Larraín, film che vede Kristen Stewart candidata come Miglior Attrice Protagonista.


Trama: costretta a passare il Natale a Sandrigham House assieme all'intera Famiglia Reale, Diana si ritrova a mettere in discussione la sua intera esistenza...


Spencer
non è una biografia di Lady Diana, bensì la versione più o meno romanzata della sua decisione di liberarsi dal giogo della Famiglia Reale in generale e di Carlo in particolare. Ambientato nel Natale del 1991 (un anno prima che i problemi matrimoniali dei coniugi reali cominciassero a diventare il pane quotidiano dei tabloid inglesi), Spencer copre un periodo temporale di tre giorni festivi in cui Diana, costretta a recarsi a Sandrigham House, diventa sempre più insofferente alle regole secolari della Famiglia e al protocollo da seguire anche durante quella che, per le persone normali, sarebbe una simpatica riunione familiare a base di regali, abbuffate e allegre tradizioni; fin dalle prime immagini, Diana viene connotata come un piccolo agente di caos da tenere sotto controllo, da allontanare da tutto ciò che potrebbe ricordarle il passato, spiata in ogni istante "per il suo bene", prima ancora che per quello della nazione. Il film abbraccia in toto il punto di vista della protagonista e ciò che viene percepito dallo spettatore è la continua presenza di muri ed ostacoli alla libertà e alla felicità, costruiti da eminenze oscure che si impegnano fino allo spasimo a negare un minimo di ossigeno a un piccolo topolino al quale basterebbero davvero poche briciole di "normalità" per tornare a rinascere come persona e come donna. Questa sensazione di claustrofobia costante e di luoghi "nemici", viene riprodotta da Larraín attraverso riprese soggettive che trasformano Sandrigham House in un incubo labirintico e che contrastano con il rigore di riprese esterne dove l'edificio e i dintorni vengono mostrati in tutta la loro eleganza architettonica e naturale; alcune sequenze ricordano parecchio quelle in cui Danny vaga per l'Overlook Hotel, e a ciò va aggiunta anche la scelta di ricorrere, talvolta, a flashback ed allucinazioni che rappresentano il delirio mentale della Principessa.


Ad accrescere il senso di soffocamento che permea l'intero film, concorre ovviamente la splendida interpretazione di Kristen Stewart, giustamente nominata all'Oscar (sono molto indecisa sul tifo, quest'anno: la Stewart o la Chastain? Chissà!). Diana io la ricordo poco, o meglio, la ricordo bene come icona, ma ricordo ben poco del suo modo di esprimersi e di muoversi, ma chi l'ha ancora bene in mente dice che la Stewart è semplicemente perfetta per quanto riguarda voce, accento e modo di muoversi, e io non stento a crederci; da par mio, ho percepito interamente tutta la fragilità di una donna in procinto di spezzarsi, con ogni fibra del corpo pervasa dal desiderio di scappare via, di sottrarsi al peso enorme che le è stato messo sulle spalle, ma anche la forza di una donna che un tempo era stata "solo" Diana, elegante, felice e libera anche senza l'altisonante titolo di Sua Altezza Reale. Il disperato desiderio di Diana di riappropriarsi della sua identità, come donna e anche madre, trasuda da ogni gesto e da ogni sguardo della Stewart, che a tratti stringe il cuore non solo durante i teneri momenti passati coi figli, ma anche negli scontri sempre più "cruenti" con chi rifiuta di vederla come essere umano e non come titolo, inutile e scostante Carlo in primis. L'intento di Larraín, per quello che mi è parso, non è quello di glorificare Diana né di demonizzare i Windsor, che al limite sembrano sciocchi e ottusi, più che cattivi (il vero cattivo è un altro e ha il volto sempre inquietante di Timothy Spall), bensì quello di raccontare l'ordalia di una persona che cerca di liberarsi dai suoi demoni per raggiungere la luce e la libertà, e l'obiettivo mi sembra sia stato ampiamente raggiunto. Spencer è un film "piccolo", sussurrato, eppure riesce a regalare tantissime emozioni e, nonostante si sappia poi che fine abbia fatto Diana, anche un minimo di speranza. 


Del regista Pablo Larraín ho già parlato QUI. Kristen Stewart (Diana), Timothy Spall (Maggiore Alistar Gregory), Sean Harris (Darren) e Sally Hawkins (Maggie) li trovate ai rispettivi link.


Se Spencer vi fosse piaciuto recuperate Jackie (lo trovate a pochissimo su Chili o Prime Video) e Marie Antoinette (lo trovate su Netflix). ENJOY!

mercoledì 23 marzo 2022

Licorice Pizza (2021)

Nonostante le previsioni negative, Licorice Pizza, l'ultimo film scritto e diretto da Paul Thomas Anderson, è riuscito ad arrivare in Italia prima della fatidica Notte degli Oscar, dove è candidato a tre premi (Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Sceneggiatura Originale), e domenica sono riuscita ad andarlo a vedere.


Trama: il quindicenne Gary Valentine, attore bambino ormai al tramonto, si infatua di Alana, di dieci anni più grande di lui. Nonostante lei sia reticente, col tempo tra i due si instaura un legame, cementato da mille piccole esperienze...


Sapevo che sarebbe tornata, prima o poi, la sindrome di La La Land. Sapevo che mi sarei trovata a piangere davanti a un film amatissimo da tutti gli amici cinefili che più rispetto, obnubilata dalla terribile domanda "ma perché non l'ho adorato quanto loro?". Sono forse fallata? Sono forse una cialtrona (risposta: sì) che finge di amare il cinema (risposta: no)? E' forse Paul Thomas Anderson uno di quei registi che non riesco ad amare incondizionatamente come Tarantino e Scorsese, dei quali mai riuscirei a parlare male nemmeno volendo? Mi sa che a questa domanda posso rispondere tranquillamente con un sì. Anderson mi aveva folgorata da giovane con quei due capolavori che potrei riguardare in loop senza mai stufarmi, Boogie Nights e soprattutto Magnolia, e ultimamente avevo trovato adorabile Il filo nascosto, ma per esempio The Master mi aveva distrutta sia per la bellezza che per la pesantezza, mentre Vizio di forma... vabbé, di Vizio di forma non parlo, è un'altra di quelle pellicole amatissime da tutti e che io non sono riuscita proprio a farmi piacere. Licorice Pizza non ha raggiunto i livelli di scartavetramento di marroni provato durante la visione di Vizio di Forma, per carità. L'ho trovato simpatico e leggero, e ho trovato adorabili entrambi gli sciocchissimi protagonisti e la loro forsennata ricerca di uno scopo nella vita, quel gioco di sentimenti che li lega dall'inizio alla fine del film nonostante entrambi, a turno, cerchino di sottrarsi alla reciproca attrazione (o al filo rosso del destino?). D'altronde, è un po' impossibile non voler bene a Gary e Alana. Lui, con quella faccetta furba e malinconica ereditata dall'enorme padre che si è ritrovato, sembra la versione bambina di uno dei protagonisti di Animal House, sempre pronto ad imbarcarsi in imprese assurde e con l'enorme "difetto" di amare le belle ragazze; lei, la quintessenza dell'agitazione femminile di quegli anni, una 25enne che non sa ancora cosa fare della sua esistenza, consapevole del potere che è in grado di esercitare il suo corpo ma troppo goffa per sfruttarlo appieno. Assieme fanno tenerezza, fanno venire rabbia, fanno ridere e persino, sul finale, commuovono.


Eppure, con tutto il bene che ho voluto a questi due ragazzi "in corsa" per le strade leggendarie della Hollywood degli anni '70, fatte di glamour, di trash, di cinema, di musica ma anche di (potenziale) violenza e pericolo, mi sono resa conto di non avere apprezzato granché il contorno. Mi è sembrato che il cuore del film (almeno per come lo avrei preferito io, non fraintendetemi), che per mio gusto vorrei un po' più "universale", si perdesse a favore di un altro cuore, quello del regista; là dove Branagh, col suo Belfast, ha raccontato la sua storia personale rendendola universale, alla portata di tutti (forse troppo, direbbero alcuni, e forse potrebbero avere ragione), il ben più intellettuale ed élitario Anderson ha messo assieme un'infinita serie di situazioni, citazioni e rimandi strettamente legati alla propria esperienza personale o ai racconti fatti da amici, parenti e conoscenti, appartenenti tuttavia a un mondo "altro", ben distante da quello di noi poveracci ignoranti (da quel punto di vista forse ci è più vicino l'altro Autore che si è messo in gioco quest'anno, Sorrentino). Bisognerebbe avere una conoscenza enciclopedica non solo del Cinema, ma anche della TV, della musica e di tanti piccoli gossip dell'epoca per apprezzare appieno tutto ciò che viene mostrato in Licorice Pizza, letteralmente imbibito di tutte le passioni del regista, che spesso sovrastano le vicende di Gary e Alana diventando molto più importanti; certo, ogni siparietto, ogni dettaglio, persino ogni ristorante e negozio diventano parte fondamentale dell'esistenza e della crescita di questi due ragazzi, ma a volte ho avuto l'impressione che tutti gli elementi del film non si amalgamassero e si sfilacciassero, una sensazione che non ho mai provato guardando i film dell'altro re degli intellettuali cinematografici, Wes Anderson. Poi, per carità, probabilmente la mia è solo l'invidia di chi non ha mai avuto Alana Haim a farle da babysitter o Philip Seymour Hoffman come vicino di casa e migliore amico del padre, per dire, ma ad una prima visione mi sono sentita "respinta" da Licorice Pizza. Spero di potere cambiare idea tra qualche anno, ad una seconda visione, quindi nel frattempo sospendo il giudizio e consiglio comunque a tutti di andarlo a vedere al cinema, perché sarebbe disonesto, da parte mia, non riconoscere questo immenso atto d'amore verso la settima arte e la sua grandissima qualità a livello di regia, attori e colonna sonora.


Del regista e sceneggiatore Paul Thomas Anderson ho già parlato QUI. Maya Rudolph (Gale), John C. Reilly (Edward Munster), Sean Penn (Jack Holden), Tom Waits (Rex Blau), Bradley Cooper (Jon Peters) e Benny Safdie (Joel Wachs) li trovate invece ai rispettivi link. 


Il protagonista Cooper Hoffman, ovviamente figlio di Philip Seymour Hoffman, è al suo esordio come attore e gli auguro una lunga e prospera carriera; anche la cantante Alana Haim è alla sua prima esperienza come attrice in un lungometraggio, ma da anni collabora, assieme alla sua famiglia (sorelle, padre e madre compaiono nel film come la famiglia di Alana), assieme a Paul Thomas Anderson, che ha girato parecchi dei video musicali del gruppo Haim. Nel nutrito cast segnalo inoltre la presenza del padre di Leonardo di Caprio, George, come venditore di materassi ad acqua e di Skyler Gisondo, ovvero l'Eric di Santa Clarita Diet, nei panni di Lance Brannigan, modellato, a quanto dichiarato dal regista, sull'attore Tim Matheson. Se Licorice Pizza vi fosse piaciuto, o se anche solo vi mancassero alcune tra le più evidenti citazioni, vi consiglio di recuperare Taxi Driver, American Graffiti, Fuori di testa, Boogie Nights, C'era una volta a... Hollywood e magari anche Harold e Maude, perché no? ENJOY!

martedì 22 marzo 2022

Flee (2021)

Questo mese è uscito in Italia anche Flee (Flugt), documentario animato diretto e co-sceneggiato dal regista Jonas Poher Rasmussen, candidato per tre premi Oscar: miglior film d'animazione, miglior documentario e miglior film straniero.


Trama: alla vigilia del suo matrimonio, Amin, profugo afgano emigrato in Danimarca, racconta la sua dolorosa storia al migliore amico...


Fa male, in un periodo di guerre ed incertezza come questo, guardare film come Flee. Fa male perché, dagli anni '80 ad oggi, ben poco è cambiato, tra guerre, disperazione, razzismo, persone senza scrupoli che si arricchiscono sulla pelle degli altri e poveracci costretti a scappare dalle loro case per andare, troppo spesso, a morire in terre a loro sconosciute. Fa male perché, parliamoci chiaro e senza ipocrisie, sentirne parlare tutti i giorni al TG in qualche modo anestetizza al dolore, ce lo rende estraneo e dura il tempo di mezz'ora, massimo un'ora, di indignazione casalinga; poi subentrano tutti i nostri problemi (insignificanti ma pur sempre problemi) e quei volti senza nome chi se li ricorda più? E' dunque sempre più necessario, nella nostra società abituata a puntare l'attenzione solo sul singolo individuo, che vengano realizzati film come Flee, che vengano raccontate storie assurde di "ordinaria" ingiustizia e orrore, perché sono le uniche capaci di affondare una lama di disgusto e vergogna nel cuore dello spettatore, sciogliendo l'egoismo in umanissime lacrime di compassione. "Sì, ma lui è stato fortunato!": questo si potrebbe dire di Amin, nato in Afghanistan e costretto a subire (assieme alla famiglia) una terrificante ordalia in Russia prima di trovare la salvezza in Danimarca, intraprendere una carriera di successo e riuscire persino a venire a patti con la sua omosessualità trovando l'amore... purtroppo, come viene raccontato in prima persona da quest'uomo (il cui nome, Amin, è ovviamente falso), per chi ha subito ciò che lui è stato costretto a subire non esiste liberazione dalla paura costante di venire scoperto, catturato e rispedito nel suo Paese d'origine. Una sfiducia soverchiante, frutto di orribili esperienze con la peggiore feccia dell'umanità e con la spietatezza della burocrazia, costringe i migranti illegali a nascondere ogni aspetto della loro personalità e del loro passato per non correre rischi (e non farli correre alle proprie famiglie) e ciò, ovviamente, impedisce loro di godere della nuova vita e rischia di costituire una barriera insormontabile per integrarsi o anche, semplicemente, per vivere in serenità.


La triste storia di Amin viene trasposta in questo particolare film che unisce lo stile del documentario (o della seduta psichiatrica), con interviste, primi piani del protagonista e veri filmati d'archivio, ad un'animazione semplice ma efficacissima, che cambia stile a seconda del tempo che viene raccontato. Il presente vanta disegni eleganti e nitidi, precisi sia per quanto riguarda i personaggi che i dettagli, mentre il passato ha un'animazione leggermente più semplice quando i ricordi di Amin sono chiari e le sue emozioni controllate. I flashback cambiano decisamente tono e stile nei momenti più orribili e concitati: lì, l'animazione degli esseri umani si limita a definirne i contorni, dando prevalentemente l'idea di sagome antropomorfe, mentre gli sfondi diventano macchie di colore in movimento, dove spiccano toni cupi e violenti come il rosso e il nero, ma anche il grigio, che dà invece un'impressione di confusione e ansia. Jonas Poher Rasmussen sfrutta al meglio tutto l'infinito potenziale espressivo di questa scelta "ibrida" e confeziona un film capace di parlare a più livelli, veicolando forse molte più emozioni di quanto avrebbe potuto fare un semplice documentario, che mai avrebbe potuto rendere così bene le mille sfumature di un ricordo, che cambia col tempo e talvolta viene anche "romanzato", nel bene e nel male, magari infilando una colonna sonora ad hoc, fatta da una canzone particolarmente calzante (io adoro Veridis Quo dei Daft Punk e ritrovarla in Flee, in un determinato momento, mi ha sciolta in lacrime) che riesce a renderlo ancora più nitido per chi lo ha vissuto. Per questo vi consiglio di cercare Flee nelle pochissime sale che ancora lo danno e di guardarlo, e spero vivamente che possa portare a casa almeno uno dei tre Oscar per cui è candidato, perché merita di essere conosciuto da un pubblico ben più vasto di quello dei circuiti festivalieri.

Jonas Poher Rasmussen
è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Danese, ha diretto altri documentari a me sconosciuti. Anche produttore, ha 41 anni.




Se Flee vi fosse piaciuto recuperate The Breadwinner (o Sotto il burqa o I racconti di Parvana, chiamatelo come volete, lo trovate su Netflix e gratis su Rai Play), Persepolis (lo trovate a pochissimo su Chili o Prime Video) e lo splendido For Sama (sempre su Prime a una cifra irrisoria). ENJOY!

lunedì 21 marzo 2022

Il Bollodromo #94: Lupin III - Parte 6 - Episodio 23

Mancano ancora due episodi alla fine di Lupin III - Parte 6 e, finalmente, con il ventitreesimo si è arrivati al cuore della trama, quello preannunciato dai teaser dell'anno scorso e dal poster ufficiale della serie. Ce n'è voluto, santo cielo, ad arrivare all'interessante 最愛の魔女の思い出 - Saiai no majo no omoide (Memorie di una cara strega). ENJOY!


Lupin e soci sono ancora (rigorosamente in giacca e cravatta a congelar dal freddo) nelle terre dell'aurora boreale, davanti a casa di Finn, la protagonista dell'episodio precedente. Viene rivelato che Zenigata ha rincorso fino a lì Lupin solo per dargli una registrazione delle ultime parole di Arianna (la quale dovrebbe essere ancora viva visto che Yata è in una sala d'attesa di un ospedale), ascoltate le quali Lupin, finalmente, sbrocca: la lunga suggestione ipnotica di Tomoe è infine scattata e il ladro gentiluomo, dopo aver debellato con l'aiuto di Matja i suoi amici e nemici di sempre, scappa per raggiungere la vecchia tutrice. Mentre Lupin è in viaggio, frastornato da un mix di flashback, visioni allucinate e una realtà talmente labile che neppure un bacio con Fujiko (indispettita dall'aver perso uno dei suoi tesori) riesce a riscuoterlo, gli altri si mettono alla ricerca del nascondiglio di Tomoe.


Zenigata riesce a scoprire qualcosa grazie alla rossa Mercedes, che gli parla di Pueblos Magicos, dicendogli che Tomoe abitava proprio in uno di essi; non chiedetemi (la memoria è labile e stare dietro ad audio giapponese e sottotitoli italiani, visto quanto parlano velocemente, non è facilissimo) qual è il trucco linguistico per cui l'ispettore arriva da Pueblos Magicos al nome della città giapponese dove dovrebbe nascondersi la vecchia tutrice, accontentatevi del fatto che Zazà comprende e basta così. Nel frattempo, invece, Jigen e Goemon si rivolgono al "Professore", Moriarty versione ragazzino biondo ed emo, il quale, tra una perculata e l'altra, si offre di aiutarli per evitare che Tomoe si impadronisca di Lupin e, di base, arrivi a conquistare il mondo attraverso le sue abilità. Ma la domanda principale è: Tomoe è davvero la madre di Lupin? Quest'ultimo, ormai, ne è convinto. Raggiunta una Tomoe parecchio invecchiata, quest'ultima gli rivela di essere la sua vera mamma, e di avere rubato dal caveau della magione del nonno di Lupin proprio le prove che lo confermerebbero.


Tomoe rivela anche l'origine della lunghissima suggestione ipnotica impiantata in Lupin: la diabolica donna ha manovrato le vite di tutte le donne incontrate nella seconda parte della serie (Tutte. Persino la dottoressa di Jigen, da lui conosciuta decenni prima. Vedete che quest'uomo porta sfiga, poverello?) affinché, ognuna nella propria lingua, consegnasse un pezzetto di un poema sull'amore a un Lupin troppo poliglotta perché la suggestione potesse funzionare solo in giapponese. L'ultimo pezzo, quello che ha portato Lupin a cedere, era inserito nella registrazione di Arianna. Ciò detto, il ladro non ha neppure il tempo di riunirsi alla presunta madre, perché li ha raggiunti anche Matja, decisamente girata di palle per essere stata una pedina di Tomoe per tutto il tempo e pronta ad ammazzare sia lei che Lupin, dopo un primo tentativo fallito.


Troppo poco e troppo tardi, come direbbe Renée di Mallrats, ma finalmente la lunghissima trama bloccata da un numero infinito di filler (i quali, a quanto si evince, facevano tutti parte della suggestione ipnotica quindi sono io a non avere capito un ca-mavaffanmale, su!!! Non prendeteci in giro!!!) ha trovato il suo compimento e io sono decisamente soddisfatta di questo episodio. Un Lupin così negativo ed incerto, talmente dimentico di sé da mandare al diavolo persino una limonata con Fujiko, è una gioia per gli occhi e spero vivamente che il suo rapporto con Tomoe, benché ritenga non sia la sua vera madre, possa venire ulteriormente sviluppato negli ultimi due episodi. Voto dieci ai deliri mentali di Lupin, dove l'influenza di Tomoe viene apparentemente contrastata dall'apparizione di fedora, spade da samurai, rossetti, ovvero tutto ciò che, assieme alle onnipresenti carte, viene associato a Jigen, Goemon e Fujiko, tre presenze fondamentali nella vita di un Lupin che ormai ha dichiarato di aver perso se stesso, tre persone importanti che Tomoe sta facendo di tutto per cancellare; apprezzabilissimo, in tal senso, il contrasto tra immagini materne e rassicuranti fatte di kimono e fiori, e qualcosa di ben più subdolo, reso con colori cupi come il rosso e il nero. La speranza è quella che, sul finale, i compagni e la nemesi storica di Lupin giocheranno un ruolo importante nel farlo rinsavire, e che non venga lasciato tutto nelle mani di Matja, la quale è già stata elevata al ruolo di Super Sayan di terzo livello, capace di smontare (!) la pistola di Zenigata con la sola imposizione delle mani e sbaragliare senza problemi Jigen e Goemon. Per piacere, su. Alla prossima! 



venerdì 18 marzo 2022

A History of Violence (2005)

Il 13 marzo scorso è venuto a mancare William Hurt. Per celebrare degnamente il grande attore, ho deciso di riguardare dopo quasi 20 anni A History of Violence, diretto nel 2005 dal regista David Cronenberg e tratto dall'omonima graphic novel di John Wagner e Vince Locke


Trama: Tom gestisce una caffetteria in una sonnacchiosa cittadina americana, è felicemente sposato e ha due figli. Tutto cambia dopo che Tom, cercando di sventare una rapina, uccide due uomini...


Tutti questi anni ho lasciato passare. Mica perché non mi fosse piaciuto A History of Violence quando lo avevo visto al cinema, per carità. Certo, era un Cronenberg molto diverso da quello a cui ero abituata, ma ero rimasta così coinvolta dalla potenza di ciò che era stato trasposto in pellicola, da avere letto anche la graphic novel, che dovrei avere ancora a casa da qualche parte. Purtroppo sono trascorsi davvero troppi anni e mi risulta impossibile fare un confronto tra opera cinematografica e cartacea, quindi mi soffermerò solo sulla prima. A History of Violence è, come da titolo, una storia in cui la violenza, in ogni sua forma, distrugge la vita di un uomo. Fin dalla scena iniziale, un piano sequenza di più o meno cinque minuti che ricorda tantissimo (a mio avviso volutamente) lo stile di Tarantino, la violenza viene rappresentata come un qualcosa che serpeggia, indisturbato e spesso non visto oppure appositamente ignorato, tra le ombre della società americana, con l'unica eccezione della famiglia, istituzione apparentemente inviolata ed inviolabile. L'alcova familiare è un'oasi felice che deve essere protetta dalla polizia; al di fuori della stessa, la violenza può colpire durante una colazione al diner, una normale giornata di lavoro, a scuola, mentre si va a fare la spesa, e ciò vale non solo per le grandi città ma anche in quelle piccole, come la cittadina dove vivono Tom, la moglie e i suoi due figli, che si vedono stravolgere la vita da una tentata rapina durante la quale Tom uccide due malviventi. Poiché, come scritto sopra, la violenza non viene respinta, bensì semplicemente ignorata per la maggior parte del tempo, il gesto di Tom diventa ovviamente quello di un eroe e nessuno (tranne una scomoda giornalista liquidata in meno di un minuto) si chiede come sia possibile che l'uomo abbia agito con tanta freddezza e abilità, di sicuro non se lo chiede la moglie. Purtroppo, come tenta di comunicarci un regista come Cronenberg che, paradossalmente, aborre la violenza, quest'ultima ne attira sempre dell'altra. 


Strani, inquietanti figuri cominciano a ronzare attorno a Tom e alle persone a lui più care, come se il suo gesto avesse spalancato una porta su un mondo oscuro da cui lasciare entrare un infinito numero di demoni, a causa dei quali nemmeno l'alcova familiare è più un luogo sicuro. Ancora peggio, anzi: i demoni non vedono l'ora di trascinare Tom negli abissi da cui aveva faticosamente cercato di liberarsi, rinnegando un passato non solo di violenza, ma anche di orrore e follia (di cui allo spettatore viene concesso scorgere solo la punta dell'iceberg, perché non è importante scendere nei dettagli: sono tutti racchiusi nello sguardo da animale braccato di uno splendido Viggo Mortensen, nei sorrisi sprezzanti di Ed Harris, nei gesti di un William Hurt che compare giusto per 10, indimenticabili e tesissimi minuti). Fa sorridere come oggi, probabilmente, un film come A History of Violence durerebbe almeno due ore e mezza invece che un'ora e trentasei: un altro regista ci avrebbe subissati di flashback, spiegoni, dialoghi fiume per farci capire la progressiva distruzione dei rapporti familiari di Tom, dell'uomo ideale amato dalla moglie Edie, di un figlio che si ritrova orfano dei valori positivi magnificati dal padre e si abbandona a sua volta alla violenza, mentre Cronenberg abbraccia uno stile asciutto e conciso ma tremendamente efficace, colpendoci con la potenza di sequenze che spesso non solo sono prive di dialoghi, ma anche di colonna sonora, lasciando che siano le azioni degli attori e gli sguardi a parlare allo spettatore, anche a costo di venire mal interpretato (la violenta scena dell'amplesso tra Tom e Edie non rappresenta uno stupro ma molti l'hanno vissuta così). Paradossalmente, è proprio William Hurt a tenere banco col monologo più lungo del film, forse perché al male piace vantarsi, ascoltarsi, imporsi, fingersi amichevole e suadente prima di colpire a morte; ed è splendida la contrapposizione tra un male logorroico e il semplice, silenzioso gesto di una bambina che cerca, con innocenza e fatica, di riportare l'equilibrio e lenire le ferite, un palese insegnamento a non fingere di non vedere la violenza innata in ognuno di noi e cercare, per quanto possibile, di conviverci senza false ipocrisie. 


Del regista David Cronenberg ho già parlato QUI. Viggo Mortensen (Tom Stall), Maria Bello (Edie Stall), Ed Harris (Carl Fogarty), William Hurt (Richie Cusack) e Stephen McHattie (Leland) li trovate invece ai rispettivi link. 

Peter MacNeill interpreta lo sceriffo Sam Carney. Canadese, ha partecipato a film come Rabid - Sete di sangue, La fiera delle illusioni e a serie quali Alfred Hitchcock Presenta, La tempesta del secolo, Psi Factor e Mucchio d'ossa.  


Se A History of Violence vi fosse piaciuto, recuperate lo splendido La promessa dell'assassino. ENJOY!

mercoledì 16 marzo 2022

Red (2022)

Domenica sera ho riattivato l'abbonamento a Disney + solo per godermi Red (Turning Red), l'ultimo film Pixar diretto e co-sceneggiato dalla regista Domee Shi, scelleratamente relegato allo streaming quando invece avrebbe meritato ben più ampia distribuzione...


Trama: Mei Mei ha 13 anni ed è convinta di poter spaccare il mondo, nonostante si impegni per non dare neppure una delusione alla mamma. I casini cominciano quando un crogiolo di emozioni mai provate prima la trasforma in un enorme panda rosso...


Se devo essere onesta, i miei 13 anni non li ricordo proprio e per fortuna. Non che adesso sia Charlize Theron, ma a quell'età ero davvero un piccolo cesso vestito male, goffa da morire, con gli occhiali, l'apparecchio, quel fisico demmerda per cui non sei né cicciona né secca ma semplicemente un blob informe con le tette, presa tra il desiderio di nascondermi alla vista del mondo per tutto il resto della mia esistenza e quello di cominciare anche io ad uscire con qualche ragazzo, tra la necessità di sviluppare una mia personalità e la volontà di non deludere comunque i miei genitori; non stupisce, dunque, che di quegli anni ricordi solo un insopportabile, benché vago, senso di disagio e la sensazione di non capire né me né chi mi circondava. Insomma, alla faccia delle recensioni d'oltreoceano, che sottolineano quanto sia impossibile trovare "relatable" il personaggio di Mei Mei, io ho capito benissimo tutto quello che Domee Shi e soci volevano trasmettere con questo film, e non certo perché lo hanno ambientato nel 2002 (lì avevo già 21 anni e i problemi erano altri) ma perché ho vissuto sulla mia pelle buona parte delle esperienze della protagonista senza dovermi necessariamente trasformare in un graziosissimo, morbidosissimo panda rosso (magari mi fosse successo!). Red altro non è, infatti, che una delicata ma comunque neppure troppo trattenuta metafora dei problemi della pubertà, che raramente sono poetici ed aulici ma sono "stupidi", disgustosi, caotici, puzzolenti, tragici ed esagerati, e lo stesso vale ovviamente per le gioie e le passioni, da cui veniamo sopraffatti al punto da perdere la ragione. A Mei Mei è "semplicemente" questo che succede. La bambina modello che non vede l'ora di stare con la madre e fare, di base, quello che piace a quest'ultima, "chiusa" in un mondo protetto e controllato, comincia a diventare permeabile agli stimoli esterni, i ragazzi in primis, e a poco a poco scopre di essere un individuo unico, benché imperfetto, con pregi e difetti che prima sembravano insospettabili. 


Questi cambiamenti improvvisi (legati in primis allo sviluppo fisico ed ormonale, all'arrivo delle mestruazioni e al divenire donna a tutti gli effetti) vengono rappresentati dall'incapacità di Mei Mei di tenere a freno la sua trasformazione in un buffo panda rosso ogni volta che un'emozione la travolge, cominciando proprio con la lussuria, inusuale per un film Pixar ma naturalissima per una ragazzina che comincia a sognare i primi baci e forse anche approcci un po' più approfonditi (la scoperta dei disegni "pornografici" che mandano su tutte le furie la madre è da antologia), fomentata dal periodo storico più adatto a questo tipo di sensazioni, ovvero quello in cui spuntavano boy band da tutte le parti. Invece di fungere da mero veicolo di nostalgia "moderna", i fighettissimi e fittizi 4*Stars, diretti discendenti di NSync, Backstreet Boys e soci, diventano uno degli snodi fondamentali della trama in quanto fonte di isteria e caldane, fulcro di scontri generazionali e anche un modo per scoprire verità insospettabili su ancor più insospettabili persone, un'altra dimostrazione che chiunque può avere nascosto nel petto un panda rosso senza che questo si scateni per distruggere tutto.


Al di là del design buffo e bambolottesco sia dei personaggi principali che del panda, oltre che all'abbondanza di momenti esilaranti e di citazioni che spaziano dagli anime a Ghostbusters, Red si conferma dunque un prodotto molto profondo, che mira a parlare al cuore di tutti gli spettatori. I più piccoli saranno sicuramente deliziati dagli aspetti superficiali di una trama avventurosa che non cala mai di ritmo, dalla colonna sonora scoppiettante e dal design coloratissimo di un film giustamente stra-curato a livello di animazioni, i ragazzini più grandi penso possano facilmente riconoscersi in Mei Mei o in una delle sue amiche e magari riuscire a gestire un po' meglio tutti gli enormi cambiamenti da affrontare ogni giorno, facendo anche affidamento su amici e genitori, mentre questi ultimi potrebbero aprire un po' gli occhi e ricordare che anche loro sono stati degli esseri goffi e assurdi e dare una mano ai propri figli o nipoti in cerca di aiuto senza giudicare le loro non condivisibili scelte. Ho apprezzato tantissimo, durante il poetico e commovente finale, la connessione che gli autori hanno provato a creare tra un presente (ormai passato) fatto di piccoli, enormi problemi quotidiani che persistono nonostante un'epoca e una società che dovrebbero essere più tolleranti e aperti, e un passato in cui dolore, frustrazioni e rimpianti venivano ingiustamente imposti a causa di una fondamentale incapacità di comunicare e una chiusura mentale impossibile da abbandonare e da non riversare sui propri figli; dopo averlo già fatto nel devastante corto Fuori dal bosco, la Disney cerca anche in questo caso di sottolineare l'importanza di trarre esempio dagli sbagli dei propri genitori e cercare di non ripeterli coi figli, un messaggio fondamentale ed indirizzato agli adulti, che arricchisce ulteriormente quello principale, più universale. Nonostante tutto, comunque, disonore sulla Disney che nasconde questi gioiellini riservandoli allo streaming, e solo tanto amore per Domee Shi, sperando che il suo prossimo film possa raggiungere un pubblico ben più vasto!


Di Sandra Oh, che in originale doppia tutte le versioni di Ming, ho già parlato QUI mentre James Hong, che doppia Mr. Gao, lo trovate QUA.

Domee Shi è la regista e co-sceneggiatrice del film. Cinese, è al suo primo lungometraggio ma ha già vinto l'Oscar per il delizioso corto Bao. Anche animatrice e doppiatrice, ha 33 anni.


A doppiare la temibile Nonna è nientemeno che la Madame Gao di Daredevil, l'attrice Wai Ching Ho. ENJOY!

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