venerdì 31 gennaio 2020

Dolor y Gloria (2019)

A fronte delle sue due nomination all'Oscar (Miglior Attore Protagonista e Miglior Film Straniero) ho deciso di recuperare Dolor y gloria, diretto e sceneggiato nel 2019 dal regista Pedro Almodóvar.


Trama: Salvador Mallo, regista e sceneggiatore in crisi, afflitto da mali apparentemente incurabili, si ritrova a dover ripensare al suo passato e, conseguentemente, al suo percorso artistico...



Giusto per dimostrare che non sono una cinefila e, anzi, sono anche piuttosto capra, tutti si sono sperticati in lodi per questo Dolor y gloria, che ha vinto persino la palma d'oro a Cannes, e io ho fatto fatica, guardandolo, a tenere gli occhi aperti. A tratti mi sembrava di avere davanti mia madre (o mio padre, o mia nonna) a raccontarmi importantissimi episodi accorsi a gente che, di regola, dovrei conoscere e ritenere fondamentale quanto lei, mentre io non ho neppure idea di chi si stia parlando e mi ritrovo ad annuire dicendo, di tanto in tanto, "Aaah, sì. Eh sì, lui, me lo ricordo". Non fraintendetemi, è la cosa che, di regola, dovrebbe succedere quasi ogni volta che si va al cinema, visto che noi non conosciamo le persone di cui si sta parlando, soprattutto quando i personaggi sono inventati; però, il bello del cinema, della letteratura e della televisione, è fare appassionare il pubblico alle storie di sconosciuti, arrivando persino a far piangere e ridere con loro, altrimenti chi fruirebbe più di un libro o di un film? E io sono felicissima, ovviamente, per Almodóvar, che ha evidentemente trovato una catarsi all'interno di una pellicola biografica, incarnato in un alter ego di tutto rispetto, peccato che le sue preoccupazioni da Autore invecchiato, terrorizzato all'idea di non aver più nulla da dire, bloccato in un passato glorioso di provocazioni ed eccessi cinematografici, non mi abbiano toccata per nulla. Forse perché il buon Pedro non è mai stato uno dei miei registi preferiti o non conosco a menadito tutta la sua produzione? Eppure, diamine, ci sono alcuni suoi film che adoro, che nonostante un po' di antipatia a pelle nei suoi confronti sono arrivata ad amare, ma stavolta niente, un aburrimiento senza fine salvato solo da un finale che, lo ammetto, mi ha commossa, ma arrivare a commuovere dopo due ore di noia e vuoto pneumatico anche no. Ribadisco, il limite è mio, sono ignorante.


Eppure, onestamente, non sono riuscita ad interessarmi alle paturnie di un uomo che, attraverso tre/quattro incontri con persone del suo passato, ripensa a fallimenti e amori perduti ritrovando nell'arte l'unico motivo per continuare, nemmeno quando Almodovar si è impegnato a intrattenermi sfruttando persino delle animazioni, ironico contrappunto all'ipocondria del suo personaggio. Forse perché gli interpreti, salvo una splendida Penélope Cruz nelle sequenze che più ho apprezzato, quelle legate all'infanzia del protagonista, e salvo la madre "anziana" Julieta Serrano, non sono all'altezza di Banderas? Che poi, parliamo un attimo di Banderas. Bravo, per carità di Dio. Misurato, anche troppo, compreso nel suo ruolo di regista agorafobico, malato, debole, drogato, fiaccato da un passato di costrizioni, ecc. ma onestamente accanto a un Adam Driver e un Leonardo Di Caprio, quest'anno, non ce lo vedo davvero. Il problema reale di Dolor y gloria, che pure ha delle idee visive, come ho scritto più sopra, deliziose ed interessanti, in primis quei coloratissimi appartamenti ricavati nelle grotte che incarnano l'infanzia di Mallo e in generale la fotografia del film, curata e vibrante di colori, è che indubbiamente il film racconta qualcosa di importantissimo per Almodóvar, però il regista non è riuscito a far sì che diventasse importante anche per lo spettatore. L'idea che è rimasta a me è quella di un film episodico, un elenco di passaggi necessari affinché Mallo prenda nuovamente coscienza di sé, una sorta di "lista della spesa" che passa e va, senza lasciare nulla dietro di sé. Onestamente, piuttosto che un Almodóvar così fiacco avrei preferito la candidatura del nostro Il traditore o, ancor meglio, di Ritratto della giovane in fiamme. Provaci ancora, Pedro.


Del regista e sceneggiatore Pedro Almodóvar ho già parlato QUI. Antonio Banderas (Salvador Mallo), Penélope Cruz (Jacinta) e Cecilia Roth (Zulema) li trovate invece ai rispettivi link.


Julieta Serrano e Antonio Banderas sono già stati madre e figlio in due altri film del regista, Matador e Donne sull'orlo di una crisi di nervi. Se Dolor y gloria vi fosse piaciuto recuperate 81/2, dichiarata fonte di ispirazione. ENJOY!

giovedì 30 gennaio 2020

(Gio)WE, Bolla! del 30/1/2010

Buon giovedì a tutti! La distribuzione oscarofila si prende una settimana di pausa, almeno a Savona (ciao ciao Judy...) ma alcune uscite sono lo stesso molto interessanti. ENJOY!

Dolittle
Reazione a caldo: Sbav.
Bolla, rifletti!: Sono sincera. Di Dolittle non potrebbe fregarmene di meno. Ma Robert Downey Jr? Eddai, su. Non posso nemmeno dire che andrò al cinema sperando di non vedere una cretinata per bimbetti stupidi perché so che sarà così, lo stanno massacrando ovunque.

Underwater
Reazione a caldo: Sbavx2
Bolla, rifletti!: Con l'uscita di questo film probabilmente il Corona Virus approderà anche a Savona perché non si spiega come il multisala abbia deciso di programmare una pellicola horror così poco pompata e conosciuta. Io gioizzo, perché sono una maiala, e dopo RDJ voglio bavare anche davanti a Cassel!

Odio l'estate
Reazione a caldo: Uff.
Bolla, rifletti!: Aldo, Giovanni, Giacomo. Io vi voglio benissimo ma basta film, dai.

Il diritto di opporsi
Reazione a caldo: Hm.
Bolla, rifletti!: Una storia vera, ottimi attori, un dramma giudiziario, buone recensioni oltreoceano. Aspetterò che esca su Netflix/Amazon Prime e lo propinerò al Bolluomo, ché al momento non c'è fretta di vederlo.

Niente Judy nemmeno al cinema d'élite, ahimé.

Villetta con ospiti
Reazione a caldo: Mah.
Bolla, rifletti!: Definita dal sito del cinema "commedia noir", Villetta con ospiti ruota sui sette peccati capitali e su una cricca di personaggi ricchi e rispettati che tuttavia non sono così irreprensibili come sembrano. Potrebbe anche essere interessante per un futuro recupero.

mercoledì 29 gennaio 2020

Ed's Corner: Beyond the image, journey through the hidden meaning of movies - Mulholland Drive

Oggi è mercoledì, il giorno di Edoardo e delle sue analisi di film troppo complicati per essere compresi dalla capra che sono. Oggi tocca a Mulholland Drive, un Lynch visto parecchi anni fa e mai più riguardato per ovvie ragioni. Dopo questo utile compendio a firma edoardiana potrei riprovare, magari passata la febbre da Oscar! ENJOY!


This is the second-last movie of the filmmaker David Lynch, a great success among critics and audience, also acclaimed from many parts as “the best film of the 21st century”.
Needless to say, it’s a fascinating movie, eligible to be one of the greatest masterpiece in the history of cinematography, but this doesn’t mean it’s a film for all the tastes, as it often happens with most of the Lynch’s works. The reason of that is always the same: it’s a deconstructed and hard to understand film, with hidden meanings and a deep symbolic value (as it was for Eraserhead, Lost Highway, and so on).
Regarding to the plot, I can just write a few lines about the story: here, in fact, the association and dissociation of images reaches an extreme level (even if the highest level is reached by INLAND EMPIRE). The explanation will follow.
Rita, a black-haired beautiful woman, is the only survivor of a car accident happened in Mulholland Drive, a famous street of Hollywood. She loses her memory after the accident and, completely confused, ends up inside an apartment where lives Betty, a young and talented actress from Canada.


To better understand the film is important to list the events in the order they really came: Diane Selwyn (grandly played by Naomi Watts) is a talented actress ignored by the film industry, who manages to get to Hollywood after winning a Jitterbug competition (the beginning scene with people dancing). Despite her skills, she can only get small gigs here and there, given by Camilla Rhodes (Laura Harring), that she met on a movie set and with whom she started a homosexual relationship. But what for Diane is a serious love story, for Camilla is just a little game, something she did to fight off boredom, and now she’s tired of it. After getting engaged with Adam Kesher (Justin Theroux), the director of the movie both the women are working on at that moment, she decides to end this pseudo-relationship.
While Diane is furious about that decision, the other girl, on the contrary, seems to make fun of her, and that mockery reaches its top during a dinner at the director’s home, where the whole movie cast is attending. The house is located in Mulholland Drive, a famous street of Los Angeles.
All the mockery makes Diane feel sad and full of hate, to the point that she decides to have Camilla killed by a serial killer.
After the facts listed above, we have to go back to the short bit after the beginning scene (yet the one with the people dancing): the same night the serial killer gets hired, our actress goes back home (maybe drunk, but that’s not important) and falls asleep on the bed… here starts her dream.
It is now that Lynch shows all his genius, starting a pure association of images between both the characters and their names.
Inside her unconscious the name of Diane is Betty, a name seen on the badge of a waitress from the bar where she met the killer.
Mulholland Drive is the street where Camilla had an accident with the limousine, right where our actress had arrived when she was heading to the dinner at the director’s house, and because of that accident she lost her memory.
From the beginning we can see that she’s in danger: some men want to kill her (Italian-American men from the mafia), and here appears Diane’s will of making her ex lover suffering and the movie director that “took the woman away from her”, who is also a victim of the same men (leaded by a guy dressed like a cowboy), which force him to give the lead of his last movie to an actress of their choice. In addition to that, our actress punishes the movie director in other ways, like through the betrayal of his wife.


Inside the dream, Betty is a skilled and talented actress (as she is in reality by the way), recently arrived in Hollywood, who stays at the apartment of her aunt Ruth, that has left (there is where she finds Camilla injured and with a memory loss). In reality aunt Ruth is dead, and here appears our actress’s will too, her desire of not having lost a person she loved, that inside the dream has just left for a gig.
As said before, each character is designed by images association with the reality: the girl chosen as lead actress of the movie, the cowboy leading the mafia, the manager of the building where aunt Ruth’s apartment is (Coco, which in reality is Adam Kesher’s mother), the scared man in the bar, the waitress of the same bar, the clumsy killer (important detail this one, because maybe Diane repented of having hired him), Castigliani brothers, all people already seen in reality, some at the movie cast dinner, some other at the bar where she met the killer, some other simply neighbours.


An item with strong symbolic value is the blue key, the key of her new troubles. Yes, because in reality that’s the sign that the murder of her ex lover had happened, and she finds the key after she wakes up, on the table in the apartment. The blue box that it opens doesn’t contain anything in the “real world”, it’s just in the dream that this box has a symbolic value (it’s in Camilla’s purse): it contains the madness and desperation of our actress. If the box opens up, Camilla has been murdered.


The Club Silencio is another important element with a deep symbolic value: it represents the constant fear of death, the fear of being alone, the fear that after death there may not be anything at all (she already lost her aunt, and now she could lose Camilla too): there’s no band, but a music can be heard. But this music, maybe, it’s just an illusion.


Yet another important symbolic figure: the monster that hides behind the wall, the monster the man in the bar is terrified of, (one of the most powerful scenes in the history of cinematography): in reality that monster is just a poor dirty and hungry tramp who lives behind a wall close to the bar, where he finds the blue box inside a paper bag. Is Diane’s state of mind that makes him look like a monster inside the dream, he represents evil (“Nel giardino incantato lo costrinse a sognare, a ignorare che al mondo c’è il bene e c’è il male” - “In the enchanting garden he was forced to dream, to ignore in the world good and evil is”. Please forgive my off-topic here, but I couldn’t resist to quote the great Fabrizio De Andrè).


The culmination of the story arrives when Diane gets woken up by the neighbour that came to take some of her stuff back (they swapped their flats).
After have given her stuff back to her, Diane shuts the door and turn towards the table: the blue key is there, Camilla has been killed.
Now she’s desperate and cries, she thinks she can see her again, she can live their memories again (now we see the reality for what it really was), but it’s just an illusion, no one will ever take her back to life.
The pain drives her crazy and so we see the old couple that at the beginning of the film arrived to Hollywood (they represent her madness), coming out of the blue box the tramp got, going to her house and terrorize her.


They only exist inside her mind. So, to stop the pain forever, Diane shoots herself in the mouth (when in the dream Camilla and her go to find a certain Diane Selwyn, they see that she’s dead, putrefied in the bedroom: Diane Selwyn it’s just her real name, she sees her corpse as a premonition of what is going to happen).
Death, the end of all pain.

As you might have understood, I consider this film absolutely brilliant, a work surrounded by a sick atmosphere, sometimes deeply dark, sometimes funny, where each single actor plays his best part, and the evocative power of the images talks for itself: it’s a dreamlike world where the cinematography technique is just sublime. But be aware, I don’t consider this the very best film of the 21th century.
Among all the Lynch’s films, in my opinion this is the one that most approaches the real nature of the dream, because of it deconstruction, image association, evocative power, onirism, and a very few examples in the history of cinematography that can compete with that. Offhand, one particular film director comes to mind, Richard Linklater, with his immortal masterpiece: Waking Life.

But ladies and gentlemen the time to talk about Waking Life hasn’t come yet.

EDOARDO ROMANELLA

Special thanks to Alessandro Cardena and Glenda Fontana for the translation.


Versione italiana: http://ilbuioinsala.blogspot.com/2019/01/oltre-limmagine-viaggio-nel-significato.html

martedì 28 gennaio 2020

1917 (2019)

I compiti sono finiti e con 1917, scritto e co-sceneggiato nel 2019 dal regista Sam Mendes, ho recuperato tutte le pellicole candidate all'Oscar come miglior film.


Trama: sul fronte francese della prima guerra mondiale, due soldati inglesi si imbarcano in una missione per impedire a un intero plotone di connazionali di finire in una trappola tedesca.


Chiedo a chi ama i film di guerra di essere indulgente con me, ché il genere non rientra proprio tra i miei preferiti. Dico questo perché ho letto, fino ad ora, le peggio cose su 1917: è noioso, è risibile, non racconta la prima guerra mondiale com'è successa davvero, è un videogioco, ha tutte le esplosioni sbagliate, è facilone, chi più ne ha più ne metta. A me, che sono invece ignorante come una capra di Biella e avrò visto sì e no una decina di film a tema, 1917 è piaciuto, con tutte le riserve del caso, ovviamente. Innanzitutto, non lo avrei mai guardato se non fosse stato nella rosa di candidati all'Oscar ma, detto questo, la marea di premi destinati a piovergli addosso mi perplime oltremodo: sì, il film di Mendes mi è piaciuto e posso definirlo una bella pellicola, sono convinta che vincerà il premio per la Miglior Regia anche solo per il virtuosismo tecnico del finto piano sequenza, ma da qui a candidarlo nella categoria Miglior Film e Miglior Sceneggiatura Originale ne passa. Ma parliamo un po' della sceneggiatura. Persino io, che di cinema di guerra non capisco nulla, mi sono resa conto di come la trama di 1917 altro non sia che una "storia di guerra" raccontata dal nonno (non lo dico tanto per dire: la sceneggiatura si basa sui racconti di Alfred Mendes) e filtrata dall'occhio sognante di un ragazzino che lo sta ad ascoltare, semplice, lineare ma avvincente dall'inizio alla fine. C'è davvero tutto: ci sono le trappole, la corsa contro il tempo per portare a casa una missione impossibile, gente che muore inaspettatamente, nemici insidiosi ed infidi, personaggi quasi "mitologici", parentesi dolci e commoventi, momenti terribili in cui tutto pare cospirare contro il protagonista, persino ingratitudine ed insulti. Questi ultimi meritati, va detto. Blake e Schofield sono due minchie di mare, l'incarnazione letterale di un triste verso de La guerra di Piero, inconsapevoli, povere creature, del detto mors tua vita mea persino quando hanno i tedeschi pronti a far loro saltare in aria le chiappe, roba che la suspension of disbelief era seduta sulla poltrona accanto a me a ridere come una matta (soprattutto quando, a un certo punto, cicciano fuori soldati e mezzi da ogni dove) mentre io mi asciugavo una lacrimuccia furtiva.


Sì, io mi sono commossa nonostante tutto perché George MacKay è bravissimo. O, meglio, la sua faccia sconvolta e stralunata è l'elemento che, assieme ad alcune sequenze crude, conferisce il necessario realismo a questa storia di guerra e offre il contrasto tra chi guarda/ascolta con distacco/racconta dopo tanto tempo e chi quella storia se l'è vissuta sulla pelle, provando tutta la sofferenza, il dolore e la paura del caso. E' l'elemento umano necessario, altrimenti sì, con la sua trama semplice e i suoi virtuosismi tecnici, 1917 sarebbe solo un bell'esercizio di stile, perfetto appunto per gli Oscar ma nulla più. Sam Mendes, chevvelodicoaffare, dietro la macchina da presa è un drago: sfruttando tecniche Hitchcockiane, il regista passa con fluidità invidiabile da una semi-soggettiva a riprese più panoramiche, ci catapulta nel vivo dell'azione senza una sbavatura (grazie anche a un valido montaggio) e senza mai perdere di vista la centralità dei protagonisti, si permette persino alcune sequenze di sublime poesia notturna, quando sembra che i personaggi siano immersi nell'Apocalisse, ma soprattutto ci consente di percepire la durezza della vita di trincea, riportando su grande schermo la labirintica claustrofobia di un luogo che, più che proteggere i soldati, arrivava ad inghiottirli per non lasciarli andare mai più (sì, ci aveva già pensato il film Deathwatch, che vi consiglio di recuperare, ma a me non era ancora capitato di andare a vedere al cinema un film ambientato in buona parte all'interno di trincee). Insomma, avrete capito che sono uscita dal cinema soddisfatta e non mi pento dei soldi spesi ma devo dire anche che Sam Mendes ha fatto di meglio e che accanto agli altri candidati 1917 è robetta, e, a costo di risultare antipatica e spocchiosa, spero sinceramente non porti a casa nemmeno un premio salvo quelli tecnici legati al sonoro.


Del regista e co-sceneggiatore Sam Mendes ho già parlato QUI. George MacKay (Caporale Schofield), Colin Firth (Generale Erinmore), Mark Strong (Capitano Smith), Benedict Cumberbatch (Colonnello MacKenzie) e Richard Madden (Joseph Blake) li trovate invece ai rispettivi link.


1917 ha ben dieci nomination: Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Sceneggiatura Originale, Miglior Fotografia, Miglior Trucco e Pettinature, Miglior Scenografia, Miglior Colonna Sonora Originale, Migliori Effetti Speciali, Miglior Missaggio Sonoro, Miglior Montaggio Sonoro.  Dean-Charles Chapman, che interpreta Blake, era il Tommen de Il trono di spade e ha partecipato al film al posto di Tom Holland, non disponibile per impegni pregressi. Se 1917 vi fosse piaciuto recuperate Orizzonti di gloria. ENJOY!

domenica 26 gennaio 2020

Lupin III: Prison of the Past (2019)

Cercando qui e là notizie su Lupin III - The First, in uscita il mese prossimo, ho scoperto che nel frattempo è uscito in Giappone un altro special TV dal titolo Lupin III: Prison of the Past (ルパン三世 プリズン オブ ザ パスト), diretto nel 2019 dal regista Hatsuki Tsuji.


Trama: Lupin e soci arrivano nel paese di Druente per liberare un famoso ladro da una prigione inespugnabile, così da potersi spartire tutti i tesori di costui. Segreti, spadaccini e guardie si mettono in mezzo...


Dopo una serie di special televisivi non bellissimi né memorabili, Prison of the Past è stata una boccata di aria fresca e la conferma che con la quinta serie forse il ladro gentiluomo ha imbroccato una via giusta, a metà tra l'ironico e l'avventuroso, con qualche incursione un po' più seria, meno sciocca e superficiale rispetto al passato. Soprattutto, ha imbroccato la giusta via del cameratismo, ché se dopo più di 50 anni assieme i personaggi non si ritrovassero a prendersi in giro o punzecchiarsi, il che vale non solo tra amici ma anche e soprattutto tra nemici, che gusto ci sarebbe? E così abbiamo il litigioso terzetto formato da Lupin, Jigen e Goemon in viaggio per raggiungere il regno immaginario di Druente, caratterizzato dalla presenza di una prigione inespugnabile che è l'incubo di ogni architetto, all'interno della quale c'è una vecchia conoscenza di Jigen (il quale, va detto, non ricorre all'ausilio di flashback per raccontare il passato comune, mannaggia), un ladro che ruba ai ricchi e da ai poveri oltre ad aiutare i suoi colleghi meno fortunati; alcuni di questi, un manipolo di sfighé della peggior specie, degni emuli dei compagni di Miss Dronjo, si coalizzano con la bella Fujiko per fare evadere, a loro volta, il ladro in questione, un po' per stima, un po' per spartirsi il malloppo nascosto negli anni dall'uomo. Poiché la vicenda è ambientata in un regno sconosciuto, non mancano magheggi reali e misteri legati a figli scomparsi, guardie che sanno ma non possono dire o leggende su presunti salvatori armati di spada ma, per una volta, sia i personaggi secondari sia la damsel in distress (non tanto in distress, stavolta!) sono simpatici, ben caratterizzati e, soprattutto, non rubano la scena ai protagonisti, anzi, mettono ulteriormente in luce le loro caratteristiche.


Vale lo stesso per Goro Yatagarasu, giovane assistente di Zenigata comparso nella quinta serie dell'anime, che torna anche in questo special come "occhio esterno" del fan (una versione molto più posata e razionale del Bartolomeo di One Piece, se vogliamo), colmo d'ammirazione per tutti quei vecchi leoni che lo circondano e lo affascinano, a prescindere che si tratti di "guardie" o ladri; grazie alla presenza del giovane Goro, l'evasione dalla prigione del pre-finale diventa ancora più epica e spassosa ma non mancano altri momenti in cui, finalmente, le animazioni non sono fatte a tirar via e regalano al cultore degli anime un po' più "action" sequenze decisamente pregevoli, come per esempio lo scontro finale tra la direttrice della prigione Lorenza e la spalla di Finnegan, ironico ma allo stesso tempo incalzante e ben diretto. D'altronde, alla regia c'è un vecchio leone dell'animazione nipponica, quell'Hatsuki Tsuji la cui carriera è strettamente legata alla leggenda di Lupin (è stato il capo animatore di moltissimi episodi della seconda serie, quella che a rivederla oggi è talmente lunga, discontinua e piena di tesori nascosti che non ci si crede) e, magari mi sbaglio, ma mi è parso che un po' dello spirito vivace ed avventuroso dell'epoca sia stato mantenuto in questo special TV anche grazie a una regia così esperta. Sicuramente la visione di Prison of The Past è stata un toccasana dopo la deludente esperienza col pubblicizzatissimo Lupin contro tutti, episodio speciale creato in occasione dei 50 anni del manga, andato in onda poche settimane fa su Italia 2 e terrificante sotto ogni punto di vista: continuity, character design, demenza, adattamento e doppiaggio italiano. Rabbrividiamo e incrociamo le dita per Lupin III: The First!

Hatsuki Tsuji è il regista della pellicola. Giapponese, ha diretto Yu-Gi-Oh! The Movie ed episodi dell'anime Yu-Gi-Oh!. Anche animatore (ha lavorato nella seconda serie di Lupin), ha 70 anni.


Se Lupin III: Prison of the Past vi fosse piaciuto avete un sacco di materiale da recuperare QUI.

venerdì 24 gennaio 2020

Richard Jewell (2019)

Non si può ignorare un film diretto da Clint Eastwood quando esce al cinema, soprattutto se, come questo Richard Jewell, è anche candidato all'Oscar per la migliore attrice non protagonista.


Trama: Richard Jewell, agente di sicurezza, trova una bomba durante una manifestazione al Centennial Park di Atlanta in occasione delle Olimpiadi ed evita così un conteggio delle vittime ancora più grave. L'FBI, tuttavia, lo accusa di essere l'attentatore...


Tutto il mondo è paese, e il paese, consentitemi di dirlo con volgarità, sta andando a puttane, lo ha sempre fatto. E' una cosa che il cinema ci sta mettendo sotto il naso da tanti anni, aprendoci gli occhi su come le istituzioni non sono poi così adamantine come dovrebbero essere e su come i media troppo spregiudicati facciano l'esatto contrario di quello che dovrebbe fare il buon giornalismo, ovvero informare, limitandosi al becero sensazionalismo quando va bene (sto pensando agli exploit del nostro adorato Capitone verde, che adesso s'è messo a molestare anche la gente al citofono) e a mettere in croce le persone quando va male. A Richard Jewell, guardia di sicurezza con qualche problemino a livello fisico e mentale ma convinto al 100% del funzionamento delle istituzioni, della polizia e del governo, è andata malissimo nel 1996, anno in cui ha scoperto che a farsi i fatti propri avrebbe potuto campare cent'anni, e pazienza se a rimetterci la vita sarebbero state 300 persone invece di un centinaio. Richard Jewell, ligio al dovere ed incredibilmente entusiasta, quell'anno ha scoperto una bomba al Centennial Park di Atlanta e ha giustamente dato l'allarme (cosa che ha ridotto sensibilmente il numero di vittime, che purtroppo ci sono state), per poi venire accusato dall'FBI e dai giornali americani di essere l'attentatore e vedersi così rovinata una vita già non facilissima. Il vecchio Clint, qui "solo" in veste di regista, non critica assolutamente la legittimità di un dubbio, ché Richard Jewell non è l'uomo più gradevole del mondo e nemmeno il più rassicurante: un po' megalomane, ligio al dovere e alla giustizia al punto da essere stato condannato per abuso di autorità, fanatico delle armi, ciccione, single, ancora in casa con mamma, dotato di atteggiamenti ambigui e già sotto consiglio di una bella valutazione psichiatrica, non è così scandaloso che l'FBI abbia potuto tracciare un profilo negativo a suo discapito. Quello che è scandaloso, invece, è che i media ci si siano buttati a pesce, cancellando con un colpo di spugna tutta la privacy e la dignità di quest'uomo e di sua madre, trasformandolo in tempo zero da "eroe" (altra bella esagerazione) a "mostro" da sbattere in prima pagina.


Non sono la più grande estimatrice di Clint Eastwood e non mi ritengo un'esperta né della sua poetica, né della sua cinematografia, diciamo che prendo ogni suo film come fosse un'opera a sé stante, per questo non mi addentro in confronti con altri film; tuttavia, la frustrazione provata guardando Richard Jewell è assai simile a quella che ho provato con Mystic River, un senso di rabbia impotente e di voglia di piangere causati da una sensazione di claustrofobia ed incredulità crescenti. Mi sono messa nei panni non tanto di Richard Jewell (come ho detto, empatizzare con il protagonista non è facilissimo, ci si ritrova spesso a guardarlo perplessi e sconsolati come la "voce della ragione" Sam Rockwell, con le mani che prudono dalla voglia di prenderlo a schiaffi) quanto della povera Bobi, la mamma magistralmente interpretata da Kathy Bates. Che cosa significa dover sopportare tutta quella pressione mediatica, venire additata come mamma di un mostro e non poter nemmeno andare in bagno senza timore di essere ascoltati dall'FBI, il tutto mantenendo intatta la fiducia verso un figlio che tutti vorrebbero vedere morto? Onestamente, non riesco nemmeno a pensarci. In questo periodo, lo ammetto, sono psicologicamente fragile ma il pianto di Kathy Bates mi ha spezzato il cuore e mi sono vergognata, perché con tutta probabilità se all'epoca avessi avuto interesse nella vicenda mi sarei schierata a favore di un'opinione pubblica impietosa, perché è troppo facile giudicare male chi è debole e disadattato come Richard Jewell. E' troppo facile assecondare il carisma di una giornalista spregiudicata, abbassare le orecchie davanti alla strafottenza degli agenti dell'FBI, farsi intortare, anche in senso buono, dalla parlantina di un avvocato che per fortuna ha saputo guardare oltre e che è quanto di più americano si poteva inserire all'interno di una sceneggiatura (dai, lo si perdona); è facile ma anche terribile perché, alla fine, anche se vorremmo essere dei granitici Bruce Willis, siamo tutti un po' Paul Walter Hauser e quello che è successo a Richard Jewell potrebbe succedere anche a noi. E chi sarà lì per raccontarlo con questo rigore senza sbavature, riuscendo ad emozionare senza suonare retorico, quando Clint Eastwood non ci sarà più?


Del regista Clint Eastwood ho già parlato QUI. Paul Walter Hauser (Richard Jewell), Sam Rockwell (Watson Bryant), Olivia Wilde (Kathy Scruggs), Jon Hamm (Tom Shaw) e Kathy Bates (Bobi Jewell) li trovate invece ai rispettivi link.


Jonah Hill avrebbe dovuto interpretare Richard Jewell ma alla fine è rimasto solo come produttore del film e lo stesso vale per Leonardo Di Caprio, a cui si pensava per il ruolo dell'avvocato. Se Richard Jewell vi fosse piaciuto recuperate il già citato Mystic River. ENJOY!


giovedì 23 gennaio 2020

(Gio)WE, Bolla! del 23/1/2020

Buon giovedì a tutti!! Altra settimana molto interessante, questa, da passare in sale non necessariamente Multi... ENJOY!

1917
Reazione a caldo: Alé.
Bolla, rifletti!: Credo che questo sia il film atteso da tutti i cinefili impegnati col recupero pre-Oscar, vista l'incetta di nomination. I film di guerra non mi fanno impazzire ma Sam Mendes mi è sempre piaciuto e spero possa entusiasmarmi, nonostante tutto.

Figli
Reazione a caldo: Maledetti.
Bolla, rifletti!: Dopo La befana vien di notte ho giurato di non lasciarmi mai più intortare dalla presenza di Fresi nei film, soprattutto in combo con la Cortellesi. Andate voi, ditemi se è bello, nel caso ci farò un pensierino.

Al cinema d'élite programmazione estremamente varia!

Just Charlie - Diventa chi sei
Reazione a caldo: Aww.
Bolla, rifletti!: La storia di una ragazza nel corpo di un ragazzo, ambientata nella provincia inglese. Potrebbe essere una di quelle perle che non si dimentica più, spero davvero di trovare il tempo per andarlo a vedere.

La ragazza d'autunno
Reazione a caldo: Awwwwww
Bolla, rifletti!: Altro film che, già anche solo per la fotografia, i colori e i costumi, parrebbe bellissimo. E, se non ricordo male, ne parlava molto bene la gente al TFF, dove in effetti non sono riuscita a vederlo. Chissà se riuscirò a rimediare. 

mercoledì 22 gennaio 2020

Ed's Corner: Beyond the image, journey through the hidden meaning of movies - Lost Highway

Tornano le dissertazioni in inglese di Edoardo! Questa volta tocca a Strade perdute di David Lynch, che avevo già indegnamente "recensito" QUI senza capirci una mazza (ma apprezzando la colonna sonora, a differenza di Edoardo) quindi lo ringrazio doppiamente! ENJOY!



After Eraserhead is the turn of Lost Highway by David Lynch. Writing down the plot is basically pointless, here deconstruction and symbolism start to become quite serious (the culmination will be reached by INLAND EMPIRE). I’ll write some small bit of it anyway, then the explanation will follow, even if some can be found on the internet, nothing detailed though as far as I’ve seen.
As a reminder, this article is for whom has already seen the film, because reading the meaning of every single scene without having watched it would mean spoiling a great masterpiece. Only imperfection in my opinion, if I got to find one, is the soundtrack: Rammstein and Marilyn Manson cannot be compared to Angelo Badalamenti for these kind of films.
Fred Madison (Bill Pulman) is a good and successful jazz player, unhappy with his love life with his wife Renee (Patricia Arquette). One day he hears a strange voice at the intercom: “Dick Laurent is dead”. Times go by, his paranoia increases and he starts thinking that the woman is cheating on him.

So, let’s begin with describing the events in the right order: Fred Madison, as said before, is a jazz musician married with Renee, woman that he can’t sexually satisfy. One day he finds out that the woman is cheating on him with the suspicious Dick Laurent (Robert Loggia) and with the porno movie maker Andy (that she already knew because she had probably shot some film with him in the past). So, full of anger, he first kills the men, than the wife; gets caught by the police, arrested, sentenced to death on the electric chair, and during the execution, while he’s dying, he dreams to be someone else: Pete Dayton (Balthazar Getty).
What I just described is related to the “real” events, now let’s analyse the dream.
Pete (who is found inside the jail instead of Fred) represents what the jazz player would want to be: first of all he’s not going to die, he is a good lover (while Fred is impotent), he’s good with DIY (he is a mechanic), leads the relationship with Renee (who inside Fred’s unconscious is called Alice, married with Dick Laurent: here comes the association of names and images), and he is the one who “steals” the wife from Dick Laurent (in reality is the opposite).

Dick Laurent (Eddie in the dream) represents his rational part, the side of the unconscious that practices self control, reason that regulates instinct. On the internet there is the trend to quote Freud in order to explain Lynch’s films, and the reason becomes the superego, but basically it’s the same thing.
The fact that Eddie/Dick Laurent is the reason can be deduced from different factors: he tells Pete to stay away from other men’s women, or he’ll get only problems; he doesn’t go over the speed limit while driving his car, but only when he has to follow the inconsiderate driver, and beats him to educate him on the rules of the road; even when he calls Pete it’s not him to directly threaten the man, because he hands the phone over to the mysterious man with the white face (Robert Blake), who represents the pure instinct, the Instinct that in this case personify anger, the answer to what happened in the real life. It’s him that killed everybody.


When Fred meets him for the first time at Andy’s party, the man tells him that they know each other, and that now he’s home: here we understand that the party is only fictitious, it’s inside Fred’s mind (probably a memory). At that point the jazz player has already killed Dick and Andy, and now he’s home to kill his wife.
Fred hates cameras, because he prefers to remember things his own way, and not as they really happened; so the two first videos shot with the hand camera that the police finds were made by him as the Instinct, in a semi-unconsciousness state, whilst the third video is just his own mental projection (only he sees it).

At the beginning of the film Fred has a double personality: he imagines to speak with himself at the intercom, and when it happens he has just killed Dick Laurent. “Dick Laurent is dead”, the reason is dead, the superego is dead, now there’s just instinct.

Also frequent are the references to the reality; after Pete says: “We killed him”,  the wife at Andy’s house answers: “You killed him”; then in another flashback the wife appears in a bedroom of the same house and says: “Did you want to ask me why?”, referring to the reason of her cheating; then again the strange lightning that every now and then appears out of the blue and the frequent Pete’s nose bleeding, sign of the fact that the electric chair is on.


Fred, as Pete, is completely unaware of what happened before the police found him in jail and released him.
His parents know everything though, but when he asks them for explanation, they say that they can’t answer. If they’d answer the sand castle that our protagonist built would fall down, and he’ll get back to reality, and so back to fear, because in reality he is dying.
Finally we’ll come to the ending, with Pete back as Fred and on the run from the police, which is also unreal: we’re inside the dream again, and to his escape follows what seems to be another transformation, with him wiggling while driving the car and smoke coming out of his head right before the credits.
But it’s not: it represents his end, the electric chair made his job.

EDOARDO ROMANELLA

Special thanks to Alessandro Cardena and Glenda Fontana for the translation.


Versione italiana: http://ilbuioinsala.blogspot.com/2018/12/oltre-limmagine-viaggio-nel-significato_19.html

martedì 21 gennaio 2020

Jojo Rabbit (2019)

L'avevo perso al TFF perché lo proiettavano nei giorni in cui non sarei stata a Torino, quindi è da novembre che aspettavo l'uscita di Jojo Rabbit, diretto e co-sceneggiato nel 2019 dal regista Taika Waititi, tratto dal romanzo Come semi d'autunno di Christine Leunens e candidato a 6 premi Oscar: Miglior Film, Miglior Attrice Non Protagonista (Scarlett Johansson), Miglior Sceneggiatura Non Originale, Migliori Costumi, Miglior Scenografia, Miglior Montaggio.


Trama: Johannes Betzler, dieci anni, è pronto ad entrare nella Gioventù Hitleriana e ha un amico immaginario importante, lo stesso Adolf Hitler. L'esperienza nei ranghi dei suoi coetanei si conclude con un incidente e, quel che è peggio, tornato a casa JoJo scopre che la madre nasconde una ragazza ebrea nella camera della figlia defunta.


Non so se sia il caso di definire "geniale" Taika Waititi, ché "genio" è un'altra di quelle parole di cui si arriva ad abusare molto volentieri, come "capolavoro"; certo è che il regista neozelandese è uno degli autori più particolari ed eclettici sulla scena cinematografica internazionale e il suo ultimo film, Jojo Rabbit, è una perfetta espressione di questo suo assurdo modo di fare cinema. Un po' commedia un po' tragedia, un po' satira demenziale un po' serissima tirata anti-odio e anti-guerra, contenitore all'interno del quale c'è spazio persino per il romanticismo, capace di saltare da un registro all'altro nel giro di mezzo fotogramma, con sequenze dove Benigni va a braccetto con Wes Anderson ma anche con Jim Abrahams o con l'Adam McKay di The Anchorman, Jojo Rabbit è un film fuori da ogni schema in grado di far ridere a crepapelle e piangere in egual misura. Dando per buono che tutto sia filtrato attraverso lo sguardo stralunato di Jojo, tenero bimbetto di 10 anni che si sforza di essere un vero nazista per compiacere il suo amico immaginario Hitler, abbiamo la possibilità di vedere sullo schermo tutta l'assurdità (spesso, giustamente, ridicola) di un fanatismo che rifugge ogni razionalità e preda le menti delle persone più ignoranti e malleabili, schiacciandone la personalità grazie a un mix di terrore, propaganda e bugie propinate ad hoc; se i personaggi di Rebel Wilson, Sam Rockwell ed Alfie Allen sono volutamente estremizzati (soprattutto nel pre-finale), sta di fatto che le idiozie di cui i nazisti si riempivano la bocca e l'aria fritta distribuita a manciate da Hitler non saranno state tanto meno assurde, basti "solo" pensare alla fregnaccia della razza pura che ha condannato un intero popolo allo sterminio. Jojo, piccolo coniglietto impaurito con la salda volontà di diventare una tigre nazista, si ritroverà a sbattere la faccia contro quelle stesse fregnacce nel momento esatto in cui scoprirà che la madre nasconde in casa nientemeno che un'ebrea, la giovane Elsa, e proprio nel periodo in cui il castello di carte dell'incontrastato potere nazista è in procinto di crollare.


Con la comparsa di Elsa, il film piano piano prende una svolta più drammatica, malinconica e sentimentale. Le surreali idiozie che per Jojo erano la norma, in primis i dialoghi con un Hitler sempre più infantile e sciocco, cominciano a rivestire sempre meno importanza mano a mano che la patina di "nazismo" viene cancellata a favore della reale personalità del bambino, suo malgrado affascinato dalla "nemica ebrea" che, sorpresa delle sorprese, non è così diversa da una qualsiasi altra ragazza, con la differenza sostanziale che Elsa ha conosciuto dolore e sofferenza, diventando molto più saggia, consapevole e matura. Un personaggio molto simile a quello della madre di Jojo, interpretato da una Scarlett Johansson mai così affascinante e dolce, la quale è costretta a superare tutto il dolore causato da una guerra che non ha portato gloria nemmeno al "popolo eletto" indossando un viso felice mentre cerca di insegnare al figlio cosa sia davvero importante nella vita. In questo clima quasi favolistico, all'interno di una realtà filtrata da colori e costumi vintage incredibilmente accattivanti, dove nessun personaggio, salvo forse Elsa, risulta davvero "realistico", l'ingresso a gamba tesa della morte è l'equivalente di uno schiaffo. Priva della levità di un passo dell'oca con cui ingannare un figlioletto devoto, la morte rappresentata in Jojo Rabbit fa ancora più male perché arriva inaspettata, senza fanfare, senza anticipazioni, senza scene madri a precederla; è gretta, stupida e fa male, come la guerra, a prescindere da chi sia a combatterla, e come l'odio, a prescindere da chi sia a darlo o a riceverlo. E' per questo che ritengo Jojo Rabbit un film meno frivolo, sciocco e paraculo di quanto non appaia a una prima occhiata. Vero, la scorrettezza di un Waititi che infila a tradimento un Heroes di Bowie sul finale è pari a quella già citata di Benigni e del suo passo dell'oca, eppure proprio quella levità e quelle risate grasse che accompagnano il film dall'inizio alla fine rendono la pellicola adatta anche ad essere vista da un pubblico di ragazzini (ovviamente accompagnati da adulti intelligenti) che potrebbero ritrovarsi a ragionare, vivere ricordi non loro ma neppure troppo distanti, tenere viva una memoria che non andrebbe mai fatta scomparire. Adorabile Jojo Rabbit, con quel tenerissimo ragazzino dalla faccia buffa, che sembra proprio un coniglietto, ti ho aspettato per mesi ma ne sei valso la pena!


Del regista e sceneggiatore Taika Waititi, che interpreta Adolf, ho già parlato QUI. Scarlett Johansson (Rosie), Sam Rockwell (Capitano Klenzendorf) e Stephen Merchant (Deertz) li trovate invece ai rispettivi link.

Rebel Wilson interpreta fraulein Rahm. Australiana, ha partecipato a film come Ghost Rider, Che cosa aspettarsi quando si aspetta, Cats e ha lavorato come doppiatrice nel film L'era glaciale 4 - Continenti alla deriva. Anche sceneggiatrice e produttrice, ha 40 anni.


Alfie Allen interpreta Finkel. Inglese, è stato Theon Greyjoy nella serie Il trono di spade, inoltre ha partecipato a film come Elizabeth, John Wick e The Predator. Ha 34 anni.


Se Jojo Rabbit vi fosse piaciuto recuperate La vita è bella e Moonrise Kingdom - Una fuga d'amore. ENJOY!

domenica 19 gennaio 2020

The Lighthouse (2019)

Oggi parlerò del film che a Natale ha fatto sfracelli sia tra gli amanti del cinema in generale che dell'horror in particolare, ovvero The Lighthouse, scritto e co-sceneggiato dal regista Robert Eggers.


Trama: due uomini sono costretti a rimanere per mesi su un'isolotto, deserto salvo per il faro al quale devono fare manutenzione. A poco a poco, i due si ritroveranno preda della follia.


Sono costretta a cominciare il post citando paro paro la bellissima recensione di Lucia, perché la differenza del formato scelto da Eggers per le riprese è la prima cosa che salta all'occhio guardando The Lighthouse e io di queste cose purtroppo non so nulla: "The Lighthouse è stato girato in 35mm e in un formato stretto e lungo, 1.19:1, che era quello utilizzato dagli studios all’inizio dell’era del sonoro, e di conseguenza dagli horror della Universal, come è noto, fortemente influenzati dall’espressionismo, se non altro grazie alla presenza di tantissimi tedeschi sui set. Ma non solo: la pellicola del film è trattata con un procedimento ortocromatico, atto a evocare la fotografia del XIX secolo" (cit. Ilgiornodeglizombi). Ci avete mai fatto caso a quanto sia angosciante vedere, per l'appunto, un vecchio horror della Universal o, ancor peggio (meglio), un esempio del cinema espressionista tedesco? Al netto di tutte le ingenuità delle trame o dell'assenza degli effetti speciali "de paura" che tanto apprezziamo al giorno d'oggi, ciò a cui reagisce la mente, per quanto obnubilata da CGI e smartphone, sono i terrificanti giochi di luce ed ombra in cui si muovono i personaggi, quel costante senso di oppressione dato dalle riprese "strette", gli angoli sghembi di cineprese usate ancora in modo pionieristico e fantasioso e tutto questo si può ritrovare, tranquillamente, all'interno di The Lighthouse. Film che più minimal non si può, durante il quale compaiono sullo schermo solo due attori (quattro, per amor di precisione) e al massimo mezza dozzina di ambienti, nessuno dei quali viene mostrato nella sua interezza o con abbondanza di dettagli, ma sempre da angolazioni ristrette, soffocanti e scure da morire. Se andiamo a vedere l'unico momento chiaro e luminoso è quello in cui Dafoe e Pattinson guardano direttamente nella cinepresa, quasi volessero salutare assieme al pubblico la civiltà e la loro sanità mentale, perché da lì in poi comincerà un delirio ininterrotto di cui, sinceramente, non mi sento mica in grado di parlare.


Robert Eggers racconta un caso di cabin fever da manuale, dove tuttavia la fever si estende all'intero isolotto in cui il povero (ma nemmeno tanto, se andiamo a vedere) Ephraim Winslow, giovane ed inesperto tuttofare, si ritrova a dover convivere con Thomas Wake, lupo di mare provetto e soprattutto faccia di merda di prim'ordine, un ubriacone che non perde occasione di vessare Ephraim relegandolo ai compiti più ingrati e faticosi e impedendogli di avvicinarsi alla luce del faro, graal proibito in più di un senso. E' un mix di elementi perturbanti e decisamente negativi, affastellati l'uno sull'altro, a erodere lentamente la mente di Ephraim assieme ad ogni certezza dello spettatore, che si ritrova testimone di un incubo che avrebbe probabilmente fatto gioire Lovecraft in persona; la spietatezza degli elementi naturali (che sia una tempesta, il terreno roccioso dell'isolotto o persino i maledetti gabbiani) e di tutto ciò che è tangibile, come la bastardaggine di Wake, la fatica, la mancanza di sonno o l'isolamento, si uniscono al superstizioso terrore di leggende marinare alle quali forse sarebbe meglio credere, così come sarebbe meglio rispettare gli antichi adagi e ogni forma di superstizione legata al mare, pena il venire annientati dallo stesso. Tanti piccoli elementi vanno ad accumularsi e ci trascinano di peso dove vuole Eggers, ovvero in una dimensione dove non esistono certezze, il confine tra realtà e immaginazione si annulla e persino vecchi marinai (o presunti tali) diventano delle terribili divinità adirate.


A tal proposito, è incredibile cosa possa fare la fotografia di un film unita all'abilità del regista con la macchina da presa e al carisma di un attore. Ora verrò uccisa da orde di cinèfili scandalizzati per questo collegamento astruso ma guardando The Lighthouse mi è venuto in mente che Dafoe era anche nel cast di Aquaman, avvinto da pixelate di CGI pacchiana per riuscire a diventare una creatura acquatica; ecco, a Eggers invece è bastato "nulla" per farlo diventare un mostro terrificante, l'ira di Nettuno personificata, un essere inimmaginabile che avrebbe potuto mangiarsi Momoa e sputarlo per dispetto. E vogliamo parlare di Pattinson? Anzi, parliamo un po', Robert. Sei un pirla, fattelo dire. Chiccazzo te l'ha fatto fare di andarti a infognare nella cloaca di haters che infestano il fandom di Batman quando tu, come la tua ex, sei perfetto per i ruoli borderline all'interno di film realizzati da signori registi e non c'entri veramente una fava col cinema commerciale? Ti prego, ripensaci. Ti servono soldi? Te li presto io, piuttosto, ma non abbandonare le sceneggiature che ti costringono in personaggi ambigui, disperati, "brutti" e pronti a perdere l'umanità perché ti calzano alla perfezione, ragazzo mio, e questo The Lighthouse ne è la dimostrazione. Anche perché non è da tutti reggere un film sulla schiena senza farsi mangiare dal carisma di quel satanasso di Dafoe, terrificante persino quando sta zitto o si limita a scrivere su un diario. The Lighthouse, lo avete visto, è entrato nella mia top 5 di fine anno e mi rende molto triste l'idea che ancora non ci sia una distribuzione italiana perché, anche se non riesco a parlarne come dovrei, è splendido. E' vero, sarà un incubo da tradurre, adattare e doppiare, ma un film così DEVE essere visto su grande schermo, a costo di farlo uscire sottotitolato, perché è giusto che Eggers ottenga anche in Italia la fama che merita.


Del regista e co-sceneggiatore Robert Eggers ho già parlato QUI. Willem Dafoe (Thomas Wake) e Robert Pattinson (Ephraim Winslow) li trovate invece ai rispettivi link.


Se The Lighthouse vi fosse piaciuto recuperate il film precedente del regista, lo splendido The VVitch. ENJOY!

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