mercoledì 30 dicembre 2020

Bolla's Top 5: Best of 2020

L'anno è praticamente finito e dopo i pochi film brutti del 2020 è giunto il momento di parlare di quelli bellissimi. Come al solito, signore e signori, vi prego di non infierire: questo è stato un anno orribile per molti, anche per me; nella fattispecie, come ho già detto millemila volte, io sono una di quelle alle quali, per fortuna o purtroppo, la pandemia non ha giovato, anzi, mi ha privata ancor più del già scarso tempo libero e come al solito per me le feste (sì, anche quelle in zona rossa) significa stare in famiglia e ignorare qualunque tipo di "distrazione". Quindi no, non ho ancora visto Wolfwalkers, se volete infilarli di diritto in una delle prime posizioni, beati voi che l'avete guardato, che vi devo dire, e lo stesso vale per molti altri film che troverete nelle classifiche di chi ha tempo a profusione per guardare tutto (sì, so che manca Kaufman. Ribadisco, quando volete faccio a cambio con voi, gradirei molto un mese o due di riposo). A casa Bolla, purtroppo, si fa quel che si può con quello che si ha. E dopo questo invito, per dirla alla bonanima di Proietti, a "non rompe er ca'", via che si va! ENJOY!


5. The Gentlemen

Ebbene sì. In mancanza di grandi Autori, mi attacco anche a Ritchie quest'anno. Che ci posso fare, il suo ritorno alla gangster story piaciona mi ha conquistata.



4. Soul

Visto giusto pochi giorni fa (ne parlerò a breve, spero), mai film della Pixar è riuscito a parlarmi come se fosse stato scritto per me. L'invito a godere della vita, a non focalizzarsi su una "scintilla", su una "specialità" che rischia di far perdere di vista il senso delle cose, spero possa accompagnarmi nel 2021 e, soprattutto, spero di riuscire a non dimenticarlo alla minima difficoltà.



Visto per caso, probabilmente mai distribuito da nessuna parte, eppure è uno dei film più intensi che ho avuto la fortuna di guardare quest'anno. Spero che la storia di questo sfortunato ballerino georgiano, magnificamente interpretato, possa arrivare presto su qualche servizio streaming.


2. For Sama

E' la prima volta che un documentario finisce in una mia top qualcosa, ma For Sama lo merita. Angosciante, triste e pieno di speranza, è una delle cose più emozionanti viste quest'anno e di sicuro la migliore vista a un Torino Film Festival online e tristemente sottotono.


1. Shirley

Film vergognosamente dimenticato dalla distribuzione italiana. Ma come fate ad essere così ciechi, signori miei? L'interpretazione di Elisabeth Moss è da Oscar, l'unione tra regia e colonna sonora semplicemente perfetta, i personaggi "secondari" sono indimenticabili. Ho capito che qui da noi Shirley Jackson non la conosce nessuno, ma suvvia, questo film è apprezzabilissimo anche da chi non ne ha mai sentito parlare!


Menzioni speciali, ovvero film che entrerebbero di diritto nella lista dei primi "diesci": Jumbo, Mank, Antebellum, Over the Moon e Birds of Prey (giuro. Non prendetemi in giro). E ora passiamo ai top 5 horror, in un anno che è stato ricco e bello come non mai per il genere! Anche in questo caso, vista tutta la ricchezza è stato per me impossibile stare dietro ai film che a un certo punto hanno cominciato a uscire settimanalmente, soprattutto grazie a quella miniera di gioia che è Shudder. Quindi, per una completezza pressoché totale, vi invito ad andare QUI e a ringraziare Lucia di esistere. 

5. Swallow

Uno dei mille, splendidi horror indipendenti usciti durante la pandemia legati alla figura di una donna schiacciata dalle convenzioni, imprigionata in una gabbia dorata. Angosciante e bellissimo.


4. Color Out of Space

Che meraviglioso delirio viola. L'unico film in cui l'overacting di Nicolas Cage arricchisce il tutto senza esagerare, ANCHE quando c'è di mezzo Lovecraft. E gli alpaca, ovviamente.


3. Hosts

E' un film piccino picciò, sicuramente derivativo e girato con due sterline, ma mi ha messo un'angoscia tale che dimenticarlo mi riesce davvero difficile.


2. The Mortuary Collection

Divertentissimo, ben fatto, schifoso quanto basta e con uno strepitoso Clancy Brown. Se cercate una nuova antologia horror da amare l'avete trovata.


1. The Dark and the Wicked

E dopo l'ironica allegria di The Mortuary Collection, arriva il film che ha deciso di uccidervi, di privarvi di ogni gioia e di mettervi addosso una paura bestiale. L'ultimo film di Bertino è puro horror ma anche puro orrore per la vita e la morte, la cosa più sconvolgente vista quest'anno. 


Menzioni speciali in ordine sparso: ImpetigoreL'uomo invisibile, The Hunt, Vivarium, Gretel e Hansel, Little Joe, Soul, 1BR, His House, The Swerve, Nocturne, Host, The Beach House, Relic e In Fabric, tutti bellissimi, a modo loro, e meritevoli di essere guardati più di una volta. Menzione specialissima, fuori scala: Benny Loves You. Questo era oltre la top 5, è piezz'e core.

lunedì 28 dicembre 2020

Bolla's Top 5: Worst of 2020

E' arrivato il momento delle consuete classifiche di fine anno! Il 2020 è stato un anno orribile in generale e per il cinema in particolare, nel senso che le sale sono state spesso chiuse e chissà se e quando riapriranno nel 2021. Ci sarebbe stato quindi molto potenziale per una distribuzione streaming a tappeto di roba indegna, invece è andata anche bene, o forse sono io che, vittima di un tempo che, in pandemia, si è dilatato per tutti tranne che per me, sono stata costretta a fare scelte ponderate. Comunque, qualche schifezza l'ho beccata, eh, e mi dispiace dover ringraziare in buona parte Jason Blum. ENJOY!


5. Hammamet

La noia cerchiobottista di un film che non diventa mai interessante o critico, neanche per sbaglio. Peccato per Pierfrancesco Favino, un Craxi formalmente perfetto, costretto a destreggiarsi all'interno di questo polpettone indigesto.



Terrificante (e non in senso buono) thriller a base di drammi familiari e personaggi ai quali dare fuoco senza dar loro nemmeno la possibilità di giustificarsi o parlare. Credevo che l'operazione Welcome to the Blumhouse non potesse essere peggio di così ma poi è arrivato Evil Eye



Horror fighètto che parte da una buona idea ma alla fine crolla miseramente sotto la banalità di spiegoni infiniti e sotto il desiderio del giovane regista di mostrare il suo buon gusto e la sua abilità. Il risultato è una scemenza con qualche sequenza particolarmente artistica,  noiosa come la morte e mai inquietante, dimenticabile il giorno dopo.



L'ultimo dei Welcome to the Blumhouse è LA telenovela indiana che negli ultimi 15 minuti si ricorda della sua natura di thriller sovrannaturale. Due palle cubiche, non saprei come altro descriverlo. 



A man bassa, il film più brutto dell'anno. Malfatto, con degli attori cani, un casting svogliato, nessuna capacità di gestire degli jump scare e l'assurdo spreco di un pupazzo potenzialmente terrificante. Come sia arrivato addirittura nelle sale italiane è un mistero che ancora non so spiegare. 




giovedì 24 dicembre 2020

Auguri!

Il Bollalmanacco, che già ha rallentato parecchio le sue corse, visto che il 2020 continua ad essere un anno belliFFimo, si ferma un po' per le vacanze Natalizie. Quest'anno, spero di riguardare un po' di classici che non vedo da decenni, approfittando delle zone rosse e di tutto il cucuzzaro annesso, ma come al solito per me l'imprevisto è sempre dietro l'angolo, quindi non è detto che riuscirò ad esaudire il mio desiderio. Ci risentiamo con le classifiche di fine anno, nel frattempo...




martedì 22 dicembre 2020

Sound of Metal (2019)

Approfittando del fatto che il Bolluomo è musicista, gli ho propinato Sound of Metal, di cui tutti stanno parlando benissimo, film diretto e co-sceneggiato nel 2019 dal regista Darius Marder e disponibile su Amazon Prime Video.


Trama: un batterista, ex tossico, comincia a perdere irrimediabilmente l'udito. Accolto da una comunità per non udenti, il ragazzo a poco a poco impara a convivere col suo handicap ma sogna sempre di poter tornare a sentire...


Pochi film quest'anno mi hanno lasciata divisa a metà come Sound of Metal. Nemmeno Diamanti grezzi era riuscito a fare tanto, perché il sentimento di odio totale riversato sul protagonista è stato costante dall'inizio alla fine, nonostante abbia riconosciuto al film una bellezza formale incontestabile. Sound of Metal, invece, ha tante cose bellissime che si uniscono ad altre che mi hanno privata di un entusiasmo che, almeno fino a metà film, non mi ha abbandonata. Tra le prime, ovviamente, figura l'interpretazione di Riz Ahmed, attore che onestamente non mi aveva mai colpita più di tanto e che qui ci mette tutto il cuore nel portare sullo schermo la figura di Ruben, batterista che a un certo punto non riesce più a sentire nulla, colpito da una terribile malattia degenerativa dell'apparato uditivo. La sofferenza rabbiosa ed impotente di un musicista privato della possibilità di sentire, il nervoso bisogno di un tossico che torna ad avvertire il richiamo di qualcosa che riesca a farlo evadere dalla realtà, si percepiscono con una forza dirompente, negli sguardi e nei gesti dell'attore, la cui intensità a tratti stringe il cuore (nel momento del primo addio tra Ruben e Lou ho pianto tutte le mie lacrime, il Bolluomo lo sa); a rafforzare ancor più un'interpretazione già valida, ci pensa un sonoro che sarebbe da vittoria assicurata agli Oscar 2021. La genialità di Sound of Metal sta proprio nel farci sentire (o non sentire) tutto quello che sente Ruben, salvo poche, necessarie eccezioni, così da farci provare sulla pelle quell'orribile sensazione di isolamento inaspettato che il protagonista sperimenta dal momento in cui il suo udito scompare, per non parlare di tutto ciò che accade in seguito, nel male, terribilmente angosciante, e nel bene, con una sequenza finale di incredibile poesia.  


Il mio problema con Sound of Metal è da ricercarsi in qualcosa, anzi, in qualcuno, che mentre guardavo i titoli di coda tutta corrucciata e triste per non aver apprezzato il film come avrei voluto, mi ha fatta scattare dalla poltrona e urlare "aaaah, vabbé!": il maledetto Derek Cianfrance, regista di Come un tuono. E guardando bene, anche Darius Marder, porca miseria, aveva partecipato alla sceneggiatura di quell'insoddisfazione di film, e giuro che ad averlo saputo non mi sarei avvicinata a Sound of Metal con tutte queste aspettative. Fortunatamente non ricordo benissimo Come un tuono, ma rileggendo il post che avevo scritto all'epoca, mi ero scontrata con personaggi secondari poco incisivi ed eventi dati per scontati, probabilmente importanti ma trattati con una superficialità sconcertante; in misura minore, questo accade anche per Sound of Metal. Ho letto di una probabile nomination ai Golden Globe per Olivia Cooke e spero vivamente non sia vero. Non perché la Cooke non sia bravissima ma perché il suo personaggio raggiunge il picco di intensità emotiva e di importanza più o meno a metà film per poi scomparire e infognarsi in uno di quegli eventi di cui parlavo prima, quelli sicuramente importantissimi e fondamentali per i personaggi ma che tuttavia non riescono ad arrivare a toccare lo spettatore, che arriva solo a fatto "compiuto". Lo stesso, purtroppo, vale per tutta la comunità di non udenti che accoglie Ruben, coi quali non si riesce ad empatizzare mai, nemmeno per un secondo, soprattutto col direttore del centro di accoglienza, i cui metodi paiono funzionare sul protagonista giusto "perché sì", al punto che gli ovvi salti temporali legati ad esigenze di minutaggio sconfinano pericolosamente con omissioni legate alla presunzione degli sceneggiatori. Con questo, ribadisco che Sound of Metal ha tutti i numeri per piacere alla follia a moltissimi spettatori e io stessa ne sono rimasta ammaliata per parte della sua durata; tuttavia, la parte che intercorre tra la separazione da Lou e lo splendido finale mi ha lasciata abbastanza indifferente. Peccato, speravo già di aver trovato l'outsider prepotente delle classifiche di fine anno!


Di Riz Ahmed (Ruben), Olivia Cooke (Lou) e Mathieu Almaric (Richard Berger) ho già parlato a rispettivi link.  

Darius Marder è il regista e co-sceneggiatore della pellicola, al suo primo film dietro la macchina da presa. Americano, anche produttore, ha 47 anni.


Dakota Johnson e Mathias Schoenaerts avrebbero dovuto interpretare i due protagonisti ma i ritardi legati alla realizzazione del film hanno fatto sì che rinunciassero. ENJOY!

venerdì 18 dicembre 2020

12 Hour Shift (2020)

Finito il tour de force Torinese, per rilassarmi un po' mi do a qualche recupero horror per la fine dell'anno. Stavolta è toccato a 12 Hour Shift, diretto e sceneggiato dalla regista Brea Grant.


Trama: durante il turno di notte l'infermiera Mandy, tossicodipendente e trafficante di organi nel tempo libero, si ritrova a dover affrontare una situazione imprevista dopo l'altra...

12 Hour Shift è una simpatica commedia horror indipendente, popolata da tantissimi personaggi sopra le righe e ambientata nel corso di una notte in cui ne succedono di tutti i colori all'interno di un ospedale nell'anno del Signore 1999, con buona parte dei poliziotti impegnati ad affrontare i presunti, terribili effetti del millenium bug. Protagonista della storia è Mandy, infermiera ormai vinta dall'esistenza, che per arrotondare procura organi a una sua cugina sciroccata, prelevandoli da pazienti in fin di vita ai quali lei "dà una mano" a dipartire; purtroppo la cugina non è solo sciroccata ma anche inaffidabile e, quando perde uno dei reni gentilmente offerti da Mandy, decide di recuperarne un altro con ogni mezzo. Questo episodio già di per sé assurdo dà il via a una serie ininterrotta di eventi sempre più bizzarri e violenti che arrivano a coinvolgere non solo il personale del piano in cui lavora Mandy ma anche poliziotti e criminali vari, oltre ai poveri pazienti tanto sfortunati da ritrovarsi ricoverati lì. Il fulcro di tutto, ovviamente, è Mandy, la quale vorrebbe solamente essere lasciata in pace e libera di superare indenne le sue 12 ore, senza rotture di palle e con l'ausilio di qualche droga, evitando la "simpatia" delle colleghe e, soprattutto, evitando che la sua isola felice fatta di furtarelli e traffico d'organi si sbricioli sotto il peso di sospetti sempre più pressanti e di collaboratori inaffidabili. 

L'effetto esilarante della pellicola (che, per inciso, potrebbe non far così ridere chi non ama il genere, in effetti, visto che il sangue non è poco e nemmeno i momenti disgustosi) nasce dalla contrapposizione tra il carattere freddo e distaccato di Mandy e tutti i casini che le piombano sulla testa dal momento in cui la cugina perde il primo rene, nonché dallo scazzo costante che pare smuovere a fatica l'infermiera anche quando una persona "normale" si sarebbe già messa ad urlare; Mandy non è particolarmente intelligente o capace, anzi, a tratti è molto goffa e viene mossa giusto dalla disperazione o dalle crisi di astinenza, ma davanti a lei tutti, poliziotti, infermieri, criminali, fanno la figura dei mentecatti messi sulla scacchiera della vita giusto per meritarsi una schiccherata da qualche mano divina che li spedisca su Urano. Questo perché, fortunatamente, Angela Bettis è una signora attrice che si carica sulle spalle l'intero film e, con pochissimi tocchi di umanità, cattura la simpatia dello spettatore nonostante la sua natura difficile e lo spinge a preoccuparsi fino alla fine che tutto possa andare bene a Mandy e alla sua attività. La Bettis, per inciso, si mangia persino il personaggio più caricaturale della pellicola, la biondissima Regina che comunque dà parecchie gioie in quanto versione ancora più zozza e pazza di Harley Quinn, e impreziosisce un film scritto e diretto dalla protagonista di Lucky, film che già evidenziava le scelte controcorrente di Brea Grant. In più, produce David Arquette che si ritaglia anche una piccola parte ed è sempre un bel vedere, quindi cosa vogliamo di più dalla vita? 


Di Angela Bettis (Mandy) e David Arquette (Jefferson) ho parlato ai rispettivi link.

Brea Grant è la regista e sceneggiatrice della pellicola. Americana, ha diretto un altro film, Best Friends Forever. Anche attrice (era la protagonista di Lucky, visto al Torino Film Festival) e produttrice, ha 39 anni. 



martedì 15 dicembre 2020

L'incredibile storia dell'Isola delle Rose (2020)

Siccome ci era molto piaciuto Smetto quando voglio, ho convinto il Bolluomo a guardare abbastanza presto L'incredibile storia dell'Isola delle Rose, diretto e co-sceneggiato dal regista Sidney Sibilia.



Trama: l'ingegnere Giorgio Rosa decide di costruire un'isola artificiale a 6 miglia dalla costa italiana, in acque extraterritoriali. Quella che nasce come una specie di Paese di Bengodi all'insegna della libertà, diventa presto una spina nel fianco del governo italiano...



La cinefilia porta a compensare un sacco di lacune ignoranti. Per esempio, né io né il Bolluomo avevamo mai sentito parlare dell'Isola delle Rose, e invece per una volta un film che dichiara di essere stato tratto da una storia vera non scherza: l'Isola delle Rose è esistita davvero ed è stata costruita da Giorgio Rosa tra il 1960 e il 1967, per poi durare poco più di un anno e venire smantellata dal governo italiano. Onestamente, la vicenda è assai curiosa e mi piacerebbe molto recuperare i documentari e i libri che ne raccontano la vera storia, anche perché il terribile difetto del film è di essere di una faciloneria a tratti imbarazzante, che conduce lo spettatore ad avere dubbi (chissà se giusti o ingiusti) nei confronti dell'operato del povero ingegner Rosa e che ingabbia il tutto nei soliti cliché della commedia italiana, a partire dall'amore di Giorgio per Gabriella, almeno nel film il reale motore dell'impresa. Giorgio viene descritto così come un matto utopistico, il quale per amore e per insofferenza nei confronti delle leggi imposte, decide di creare un luogo privo di regole, realizzando, di fatto, niente più di una discoteca galleggiante; dal film di Sibilia non traspaiono altre motivazioni "nobili" o trasgressive nemmeno quando la sceneggiatura tira in ballo le rivoluzioni del '68 e la battaglia di Giorgio e soci per ottenere l'indipendenza, perorando la causa fino ad arrivare all'ONU e al Consiglio Europeo, il tutto lascia più perplessi che partecipi. In tutto questo, Rosa viene circondato da personaggi anch'essi assai legati a cliché (abbiamo il fancazzista alcolizzato, la coraggiosa ragazza madre, il muto, la bella e lo stravagante tombeur des femmes) che fungono al 90% da comic relief e lo stesso vale per i politici italiani impegnati a distruggere l'isola, la cui stupidità e cattiveria, così come alcuni elementi da action surreale, contribuiscono a far percepire il film più come una "cretinata" alla Smetto quando voglio (comunque, a tratti molto più poetico e serio) che un sentito omaggio a una leggenda italiana ormai dimenticata. 



Mettendo un'attimo da parte una sceneggiatura che può convincere o meno, indubbiamente la mano di Sibilia alla regia c'è e si vede... nel bene e nel male, ovvio. Bisogna capire se avete ancora voglia di immergervi nel suo stile fatto di canzoni stilose messe alla bisogna (la colonna sonora del film è molto bella), di un gusto assai particolare per le scene action e i veicoli inusuali (Sidney, a quando un bel film che metta in risalto queste doti?), e di quella fotografia sgargiante che trasforma ogni giornata, anche la più buia, in un momento luminoso. A me, per esempio, continua a non dispiacere e per il tono della storia narrata è uno stile ancora molto valido. Così come è valida la scelta degli attori, a cominciare da un Elio Germano che anche all'interno di una commedia ha il suo perché, soprattutto dal momento in cui un altro attore più belloccio e portatore di carisma naturale avrebbe fatto a pugni con la natura di ingegnere del protagonista; molto bene anche la presenza di comprimari quasi irriconoscibili come un esilarante Luca Zingaretti, che quando duetta col cardinale tocca vette di epicità pura, e Fabrizio Bentivoglio, mentre onestamente i colleghi di sventura di Giorgio non sono particolarmente memorabili e, come già accadeva in Smetto quando voglio, sul comparto quote rosa non ci siamo granché. In soldoni, L'incredibile storia dell'Isola delle Rose non è un brutto film e merita comunque una visione, soprattutto perché consente di fare luce su un episodio forse poco conosciuto della storia italiana ma, detto questo, forse sarebbe meglio buttarsi su opere di non-fiction, perché questa volta Sibilia non mi ha entusiasmata quanto avrei sperato.



Del regista e co-sceneggiatore Sidney Sibilia ho già parlato QUI. Elio Germano (Giorgio Rosa), Luca Zingaretti (Giovanni Leone), Fabrizio Bentivoglio (Franco Restivo) li trovate invece ai rispettivi link.



Come fatto notare dal Dottor Manhattan su Facebook, Tom Wlaschiha, che interpreta W.R. Neumann, è stato lo Jaquen H'ghar de Il trono di spade. ENJOY!|

domenica 13 dicembre 2020

Mank (2020)

E' il film che dopo nemmeno un'ora dalla sua uscita avevano già visto tutti i cinèfili (giuro. Ma come ca**o fate?) ma io mi sono fatta giustamente desiderare e ho guardato Mank, diretto da David Fincher, con quel giorno o due di ritardo che renderanno automaticamente questa recensione già vecchia. Azione!


Trama: ormai fuori dal giro della Hollywood che conta, lo sceneggiatore Herman Mankiewicz viene ingaggiato per scrivere la sceneggiatura del nuovo film dell'ultima stella assurta nella mecca del Cinema, Orson Welles. 

Mank nasce come sceneggiatura del padre di David Fincher, rimasta in un limbo per anni perché considerata poco interessante dalle varie case di produzione. Mamma Netflix, a un certo punto, ha deciso di produrre il film, facendo così un regalo al regista e anche ai cinèfili che pagano l'abbonamento storcendo il naso, bestemmiando contro il colosso dello streaming reo di aver ucciso le sale cinematografiche ancora prima che arrivasse il Covid a dare il colpo di grazia; quegli stessi cinèfili vi diranno che Mank è il film dell'anno, che non esiste omaggio al Cinema più Enorme, che Gary Oldman è il più grande attore vivente, e ve lo diranno sempre bestemmiando, ovviamente, ché un film simile andava visto sul grande schermo, invece ciccia. Io, che quest'anno ho veramente pochissima pazienza e ho scoperto di essere capra in tutto quello che credevo mi riuscisse bene, mi riconfermo capra all'ennesima potenza e non vi parlerò di un capolavoro, bensì di un bellissimo film che DEVE spingervi a recuperare l'unico, vero capolavoro che sentirete nominare da chiunque in questi giorni, ovvero Quarto potere. Anche perché la sottile gabola di Fincher è quella di raccontare una storia "falsa", nemmeno fosse il Vitello dai piedi di Balsa, quindi parte del divertimento di guardare Mank è anche quello di andare a scavare nelle vicende reali che hanno portato alla nascita di uno dei più bei film mai girati. Detto ciò, non starò ad annoiarvi con tutte le inesattezze storiche presenti in Mank, soprattutto perché esse sono parte fondamentale di una struttura creata ad hoc, che sfrutta i retroscena della realizzazione di un film per crearne un altro molto archetipico, un omaggio alle pellicole di una Hollywood scomparsa, la cosiddetta "fabbrica dei sogni" che spazzava sotto un tappeto di glamour tutto il marcio che la caratterizzava. E' un discorso, e adesso verrò lapidata, molto simile a quello portato avanti da una serie sempre Netflix, Hollywood di Ryan Murphy; benché meno legata a una realtà fattuale, la serie in questione sfruttava eventi accorsi e persone esistite per raccontare una favola di edificanti speranze, mentre Mank mette in scena la tipica storia di caduta e riscatto, col protagonista che cerca di fare ammenda per una vita di eccessi ed ubriachezza arrivando a "far giustizia" attraverso la vittoria di un Oscar per la miglior sceneggiatura. A un certo punto c'è persino la risoluzione felice di un dramma buttato lì all'inizio del film e non più nominato per il resto della sua durata, sottolineato dal tipico score gioioso hollywoodiano, per dire quanto Mank non abbia tanto delle pretese filologiche, quanto più ambizioni di omaggio formale, probabilmente anche verso l'epoca vissuta da papà Fincher


E quindi, per forza ci si ritrova commossi davanti alla bellezza di Mank. Il film di Fincher è fotografato in un bianco e nero che sa di "antico", la colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross è un capolavoro vintage che ci catapulta, assieme alla scelta di utilizzare una traccia sonora simile a quelle dell'epoca (credo che il termine tecnico sia "monofonia"), nei cinema degli anni '30 pur stando seduti comodamente a casa, e la storia raccontata non solo è interessante ma anche interpretata meravigliosamente. A onor del vero, che per vedere Mank non serva avere un minimo di infarinatura relativamente agli eventi narrati è una piccola bugia: come ho detto, non ho avuto cuore di guardarlo assieme a Mirco ma mi immagino che per lui non sarebbe stato né facile né interessante seguire gli svariati omaggi ai grandi nomi del tempo, i rimandi inevitabili a Quarto potere o l'importante sottotrama politica che diventa il motore di buona parte della vicenda. Quanto a me, proprio quest'ultima caratteristica del film me lo ha fatto trovare un po' "facilino" e "paraculo", cosa che mi porta a non urlare al capolavoro come molti. Detto ciò, Gary Oldman si riconferma (giovani, SI RICONFERMA: parliamo di Gary Oldman, non dell'ultimo sbarbatello che ha dovuto tirare l'orlo della giacca a Fincher per scoprirsi grande. I social sono davvero una piaga, porca miseria.) uno dei migliori attori viventi ed è un piacere vederlo gigioneggiare negli uffici fumosi della MGM, saltellare leggiadro nei giardini di una villa simile a un Paese delle Meraviglie o sputare veleno in una delle scene a più alto tasso emotivo dell'anno, e il resto del cast supporta con grandissima bravura un'interpretazione così grande. In quest'ultima parte dell'anno Netflix ci ha voluti coccolare un po' e dare materiale per le inevitabili classifiche e io non posso fare altro che ringraziare e "portare a casa", magari con meno entusiasmo di altri ma sicuramente con immenso piacere.


Del regista David Fincher ho già parlato QUI. Gary Oldman (Herman Mankiewicz), Amanda Seyfried (Marion Davies), Lily Collins (Rita Alexander), Tuppence Middleton (Sara Mankiewicz) e Charles Dance (William Randolph Hearst) li trovate invece ai rispettivi link.


Arliss Howard interpreta Louis B. Mayer. Americano, ha partecipato a film come Full Metal Jacket, Natural Born Killers, A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar, Il mondo perduto - Jurassic Park e a serie come L'incredibile Hulk, Ai confini della realtà, Medium e True Blood. Anche attore, sceneggiatore e produttore, ha 66 anni e un film in uscita. 


Tuppence Middleton interpreta Sarah Mankiewicz. Inglese, ha partecipato a film come I segreti della mente, In TranceThe Imitation GameEdison - L'uomo che illuminò il mondoDownton Abbey e Possessor. Anche sceneggiatrice, ha 33 anni. 


Se Mank vi fosse piaciuto o se l'argomento vi interessasse, ovviamente il consiglio è quello di recuperare lo splendido Quarto potere (lo trovate su Prime Video) e di aggiungere RKO 281 - La vera storia di Quarto potere, che però non ho mai visto. ENJOY!

venerdì 11 dicembre 2020

The Gentlemen (2019)

Mossa da pietà nei confronti del Bolluomo, nonostante l'uscita di Mank, di cui parlerò nei prossimi giorni, ho preferito dare la precedenza a The Gentlemen, diretto e co-sceneggiato dal regista Guy Ritchie nel 2019.


Trama: il boss della marijuana Mickey Pearson decide di ritirarsi dal giro e andare in pensione ma qualcosa non va per il verso giusto...


A meno che non faccia Scorsese di cognome, quando un regista torna sui suoi passi solitamente viene fuori una camurrìa; nel caso di Burton, per esempio, la camurrìa equivale ad un bollito misto, ma la lista potrebbe continuare. Guy Ritchie, a parer mio, se l'era rischiata molto grossa con Rocknrolla, durante il quale avevo dormito come non mi era successo neppure con Capote, e dopo una serie di film "strani", almeno per lui, come King Arthur e persino Aladdin, santo Cielo, è tornato a fare quello che sa fare meglio: il film di gangster apparentemente cazzoni, quello che per anni ha portato laGGente a salutare Ritchie come il Tarantino britannico prima che i due prendessero strade diametralmente opposte. Laddove Rocknrolla era una tavanata esagerata ed inutilmente pesante, The Gentlemen torna a puntare più sulle caratteristiche divertenti e divertite dei singoli personaggi e sulle loro mille sfaccettature di facce da ca**o e inserisce alla perfezione la storia del boss della droga Mickey all'interno di un discorso metacinematografico, che, mi permettano i cinèfili veri, ho trovato molto più sentito di quello portato avanti da David Fincher in Mank. The Gentlemen, infatti, gioca (a un certo punto letteralmente) con un bel mucchietto di scatole cinesi dove la realtà dei fatti narrati si interseca con la fantasia molto cinematografica di un giornalista, che diventa a un certo punto l'occhio di Guy Ritchie, che senza preavviso si trasforma nella sceneggiatura di The Gentlemen, prima di tornare in men che non si dica alla realtà, il tutto con una chiarezza e una leggerezza piacevolissime e senza mai perdere di vista l'intreccio della storia, che necessita di un inizio, uno svolgimento e una fine (o finale aperto, fate voi!) privi di snodi persi per strada a causa della troppa carne al fuoco. La rocambolesca storia di Mickey e del suo tentativo di "andare in pensione", con tutti i cagnolini a sbavare sopra un lascito criminale troppo grande per non generare doppi giochi a non finire, rimane dunque sempre il fulcro della narrazione pur con tutti i suoi snodi e il "giro intorno al mondo" in cui si imbarca il furbo giornalista Fletcher nel tentativo di rivelarne tutti i segreti, trasformandosi lui stesso, a un certo punto, in elemento fondamentale del racconto davanti all'occhio scoglionato di Ray, braccio destro del boss e incarnazione degli spettatori.

Ritchie si ritaglia un piccolissimo ruolo di produttore cinematografico ma si nasconde idealmente dietro il personaggio di Fletcher, offrendo allo spettatore sprazzi di ciò che va a formare la complicatissima macchina che porta un'idea a diventare film e giocando, di conseguenza, non solo con i generi ma anche e soprattutto con alcuni trucchi del mestiere e con le aspettative del pubblico, unendo il tutto a una raffinatezza formale e a un gusto per il dettaglio e la moda (i completi indossati di Mickey sono commoventi quanto l'arredamento della casa di Ray) che spesso cozzano con la natura "ignorante" del sottobosco criminale mostrato nel film. In tutto questo, a me è parso assai palese che gli attori si siano divertiti e il risultato ne è la dimostrazione. Abituata come sono alla follia di Colin Farrell, il personaggio di Coach è quello che mi aspetterei da lui e gli calza addosso bello comodo,  come una delle tute indossate dal personaggio, ma le sorprese risiedono altrove. In Hugh Grant, per esempio, il quale porta a casa una delle sue interpretazioni migliori da anni, diventando mattatore quasi assoluto della pellicola con un personaggio sopra le righe, ironico e a tratti disgustoso, un perfetto contraltare di due gangster "di classe" come McConaughey e Hunnam, entrambi molto misurati, soprattutto il primo, mentre il secondo nasconde più di un'esilarante "segreto". A questi pesi massimi dovete aggiungere un parterre di caratteristi di tutto rispetto, tra habitué dei film di Ritchie e new entry, e il risultato finale è uno dei film più simpatici e rilassanti visti quest'anno, una gioia per gli occhi e il cuore, di questi tempi bui. Lo trovate aggratise su Amazon Prime Video, cosa volete di più? 


Del regista e co-sceneggiatore Guy Ritchie, che interpreta anche il produttore, ho già parlato QUI. Matthew McConaughey (Michael Pearson), Charlie Hunnam (Ray), Jeremy Strong (Matthew), Colin Farrell (Coach), Hugh Grant (Fletcher) e Eddie Marsan (Big Dave) li trovate invece ai rispettivi link.


Kate Beckinsale era stata presa per interpretare il ruolo di Rosalind ma all'ultimo ha deciso di lasciare il progetto e le è subentrata Michelle Dockery, già tra i protagonisti della serie Downton Abbey. Eliot Sumner, la figlia del cantante Sting, interpreta invece la tossica Laura. Detto ciò, se The Gentlemen vi fosse piaciuto recuperate Lock & Stock, Snatch - Lo strappo, The Wolf of Wall Street e Quei bravi ragazzi. ENJOY! 


lunedì 7 dicembre 2020

Scare Me (2020)

Tra le segnalazioni di Lucia è spuntato Scare Me, diretto, sceneggiato e interpretato dal regista Josh Ruben.


Trama: uno scrittore fallito si ritrova a dover passare un blackout in compagnia di una scrittrice di successo e l'unico passatempo disponibile è raccontarsi storie di paura...

Scare Me è un film molto interessante che, a onor del vero, non mi ha entusiasmata granché proprio in virtù della sua natura incredibilmente teatrale. Lo sviluppo del film, infatti, è proprio come potete leggere nella trama: due attori che si raccontano quattro storie di paura con il solo ausilio della voce, della mimica, dell'interpretazione e di qualche accorgimento del regista, tra sprazzi di effetti speciali e qualche luce piazzata ad hoc. Le storie toccano i registri più disparati e si va dalla storia sui licantropi a qualcosa che ricorda moltissimo il primo episodio di Creepshow (ma anche un po' La nonna di Stephen King, va detto) per poi arrivare al pout-pourri sotto effetto di cocaina, apparentemente basato su ogni cliché horror possibile e immaginabile, per finire con un musical satanico che, onestamente, vorrei vedere messo in film; tutto nasce dalla noia e dalla sfida lanciata al mediocre scrittore Fred dalla star letteraria horror del momento, Fanny, che un giorno si incontrano per caso durante uno di quei ritiri privati che gli scrittori degni di questo nome devono fare di tanto in tanto per staccare dal mondo e ritrovare l'ispirazione. Fred se la crede, è uno che nella vita ha provato a fare qualunque cosa in campo artistico senza riuscirci e, diciamocela tutta, è anche un po' antipatico e viscido, mentre Fanny è una a cui riesce bene tutto, ha grinta da vendere e una personalità a dir poco debordante, grazie alla quale ci mette davvero poco a mettersi in tasca Fred e rigirarselo come un calzino, trasformandolo nella sua fonte di divertimento oltre che nel suo punch-ball personale. Il loro temporaneo rapporto tempestoso, che si complica con l'arrivo di un terzo incomodo, si sviluppa nel corso del film man mano che le storie raccontate si fanno meno incerte e più elaborate, fino ad arrivare a un twist finale magari non del tutto inaspettato ma comunque calzante.

Il mezzo diludendo che ho provato guardando Scare Me, lo avrete capito, non risiede quindi in qualche colpa del regista o degli interpreti. Anzi, riguardo questi ultimi mi sono ri-innamorata, dopo averla già adorata in The Boys, di Aya Cash, che è una mattatrice senza eguali e fa morire dalle risate ogni volta che apre bocca, mentre per quanto riguarda la regia è geniale che Josh Ruben, con pochissimi "trucchi", riesca a dare forma non solo all'immaginazione di chi ascolta una storia dell'orrore e si lascia suggestionare da ciò che viene raccontato, ma anche al lavorio mentale di chi si ritrova a dover dar vita a qualcosa di originale, fantastico e spaventoso. Purtroppo però, io sono una persona che riesce a godersi il viaggio fino a un certo punto, poi voglio della "ciccia" che Scare Me non mi ha dato; per dire, mi sarebbe piaciuto che sul finale Fred e Fanny si ritrovassero ad affrontare quegli stessi orrori da loro evocati o qualcosa di simile, invece l'intera pellicola si ritrova a servire una sorta di "morale", di critica cerchiobottista verso i belini molli ma anche verso le donne in carriera, entrambi insopportabili se portati all'estremo, e sull'amara ironia in cui rischia di incappare chi cerca qualcosa di originale in un'epoca di furbi matricolati, dove vince chi è in grado di rielaborare. Ecco, Scare Me rielabora senza vergognarsi di pescare a piene mani da una tradizione che affonda le radici nell'alba dell'uomo, e a prescindere da come posso essermi sentita alla fine del film, secondo me merita almeno una visione. 

Josh Ruben è il regista e sceneggiatore della pellicola e interpreta Fred. Americano, è al suo primo lungometraggio ma come attore ha partecipato al film Greener Grass. Anche produttore, ha 37 anni e un film in uscita. 

Aya Cash, che interpreta Fanny, era la meravigliosa Stormfront della seconda stagione di The Boys. ENJOY!

venerdì 4 dicembre 2020

Alone (2020)

Continua il recupero di film consigliati da Il giorno degli zombi! Oggi tocca ad Alone, diretto dal regista John Hyams.

Trama: rimasta vedova da poco, una donna intraprende un lungo e solitario viaggio verso la sua nuova casa ma nel cammino incontra un pazzo che la rapisce. 

Succede che il Bolluomo, costretto come tutte le mattine a subire pezzi di horror per colazione, mi dice "Ma che, sei monotematica?". In effetti, poverello, la sera prima avevamo guardato Il giorno sbagliato, quel film in cui borzo Russell sbrocca male e comincia a stalkerare una donna in macchina, e il giorno dopo mi sono messa a guardare Alone, film in cui una sorta di Ned Flanders sbrocca male e comincia a stalkerare una donna in macchina. Le differenze tra i due film ci sono, ma fa un po' ridere in effetti che li abbia visti entrambi a così breve distanza di tempo. Se, infatti, Il giorno sbagliato segue lo spirito dello slasher per cui a una cattiva azione dei protagonisti corrisponde una punizione esagerata (non si strombazza ai borzi per strada, per Dio! E nemmeno si arriva in ritardo agli appuntamenti) e ogni violenza perpetrata dal mostro presuppone il distacco psicologico dello spettatore, Alone è uno di quei film malvagi che vedono una persona già non felicissima subire ulteriori disgrazie "perché sì" e prevede un male casuale quanto quello spesso descritto da King, così che l'atmosfera della pellicola si impregna di una pesantezza di cui ovviamente Il giorno sbagliato è privo. Il valore delle due opere non è dunque nemmeno paragonabile, perché Alone gioca sulla bravura dei due interpreti, sul paesaggio da sogno che diventa da incubo, su momenti di inquietudine disgustata e sull'odio tremendo nei confronti dello stalker che rapisce e sevizia la povera Jessica, che ha l'unica colpa di aver provato a superare il suo antagonista in curva, nel sorpasso più ansiogeno visto di recente.

C'è di bello, però, che come Il giorno sbagliato anche Alone non si perde in frivolezze o spiegoni che rischierebbero di rallentare il ritmo del film. Anzi, anche Alone scorre che è un "piacere" ed entra subito nel vivo dell'azione, tratteggiando i due protagonisti con poche pennellate che li dotano di un background ben preciso da cui, ovviamente, deriveranno tutte le loro azioni e reazioni; per quanto riguarda queste ultime, nonostante Alone segua binari ben precisi e sia prevedibile dall'inizio alla fine, ogni sequenza è un gioiellino di tensione, che tocca l'apice soprattutto quando Jessica viene costretta a fuggire nei boschi, prigioniera di un rimpiattino al cardiopalma che prende una svolta inaspettata verso il finale. Il confronto tanto atteso tra il carnefice e una vittima che ha deciso di combattere si svolge, infatti... sul filo del telefono, ed è quasi catartico quanto le botte che avrei voluto dare al novello Flanders praticamente dalla prima inquadratura. Altra cosa degna di nota, oltre alla fotografia davvero molto bella, è la quasi assenza di colonna sonora, che da il là a una delle scelte più interessanti ed "ambigue" del film, ovvero dei titoli di coda dove si sentono solo i rumori del bosco. Ovviamente, sta allo spettatore trarre da essi conforto o ulteriore inquietudine. Io, per ora, vi consiglio di recuperare Alone, soprattutto se vi piace il genere di thriller "a inseguimento".

John Hyams è il regista della pellicola. Americano, ha diretto film come Universal Soldier: Regeneration, Uniersal Soldier - Il giorno del giudizio ed episodi di serie quali Z Nation. E' anche produttore, sceneggiatore e attore e ha un film in uscita. 

Anthony Heald, che interpreta il cacciatore, è famoso per essere stato il Dottor Chilton de Il silenzio degli innocenti e Red Dragon. Il film è un remake dello svedese Försvunnen, conosciuto come Gone; se il film vi fosse piaciuto magari recuperatelo. ENJOY!


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