martedì 31 marzo 2020

Castle Freak (1995)

Il 24 marzo è morto Stuart Gordon, come se questo 2020 non fosse già abbastanza schifoso. Per "celebrarlo" ho deciso di guardare uno dei suoi film che ancora non conoscevo, nella fattispecie Castle Freak, da lui diretto e co-sceneggiato nel 1995.


Trama: dopo aver ereditato un castello in Italia, John e la famiglia vanno a visitarlo, scoprendo che nelle segrete è recluso un mostro abominevole...


Cercavo un film per omaggiare Gordon e ho scoperto che in casa, ovviamente, avevo soltanto due pellicole già viste e amate, ovvero Dolls e Re-Animator. Dando una scorsa ai due servizi streaming di cui dispongo ho trovato, a conferma comunque della superiorità del catalogo horror di Amazon Prime rispetto a quello Netflix, solo Castle Freak e Il pozzo e il pendolo, quindi ho chiesto consiglio all'Esperta, che mi ha detto testuali parole: "Se hai voglia di un B-Movie lercissimo, Castle Freak; se hai voglia di un B-Movie un po' più di classe, Il pozzo e il pendolo". Che domande, porca miseria, OVVIO che mi sarei buttata sulla roba lercia, e infatti Castle Freak lo è talmente tanto che mi ha ricordato spesso e volentieri robe trucide italiane alla Joe D'Amato, non solo per la bella location Umbra (un castello di proprietà del produttore Charles Band, dove peraltro era già stato girato Il pozzo e il pendolo) ma soprattutto per l'efferatezza del Castle Freak del titolo. Costui, infatti, altro non è che un poveraccio costretto a passare l'esistenza sottoposto alle più orribili sevizie, il quale, una volta libero dalla sua prigione, comincia a perseguire i propri inevitabili desideri come può e sa; obiettivamente, la prima cosa vista dal mostro in questione sono due tizi che copulano, e come può il creaturo represso da quarant'anni non voler fare altrettanto? Sfortuna vuole che a finire vittima delle brame sessuali e violente del mostro vi sia Rebecca, giovane figlioletta cieca di John e Susan, eredi del castello con parecchi problemi famigliari alle spalle e un divorzio che incombe a mo' di spada di Damocle, dopo che l'ubriachezza di John ha causato la morte del figlio piccolo e la cecità di Rebecca. Non ci vorrà molto perché il disagio psicologico di John e la diffidenza di Susan diventino terreno fertile per le efferatezze del mostro, soprattutto perché tutti cominceranno, a un certo punto, a sospettare ingiustamente di John.


Per quanto il mostro faccia schifo (e lo fa, santo cielo, perché ha un make up sgradevolissimo e in più se ne va in giro col balollo per aria), non si può negare che l'impianto della storia sia soprattutto gotico perché, al di là delle efferatezze, sia la trama che la regia si concentrano parecchio sui misteri celati nel castello, radicati in un passato oscuro di leggende paesane e terribili segreti che si ripercuotono su personaggi tormentati, cercando di insozzare chi ancora è riuscito a preservare la propria innocenza. Anzi, nonostante il bassissimo budget, c'è da dire che Gordon si è impegnato per offrire allo spettatore innanzitutto delle sequenze che rendessero funzionale al racconto la bellezza del castello utilizzato come location, tra corridoi oscuri, specchi, catacombe e strette scale buie, fomentando un senso d'inquietudine che solo poche volte sfocia nel disgusto più becero. Certo, quando lo fa, Gordon non guarda in faccia nessuno e arriva ad omaggiare alcune delle scene più truci del cinema di genere italiano (continuo a dire che il freak mi ha ricordato spesso l'implacabilità del cannibale di Antropophagus, soprattutto quando insegue le sue vittime su per scale che sembrano interminabili), e anche per questo non si può non voler bene a quello che potrebbe essere stato uno degli ultimi, veri artigiani dell'horror. Castle Freak non è un film per tutti, soprattutto se non siete avvezzi al genere e avete lo stomaco debole, ma per una serata in "gioiosa" ma comunque dignitosissima ignoranza è l'ideale e, se volete un'ultima chicca, conta tra gli ottimi protagonisti anche un giovane Luca Zingaretti non ancora commissario ma già arruolato nelle forze dell'ordine. Su, veloci, prima che lo tolgano da Amazon Prime Video.


Del regista e co-sceneggiatore Stuart Gordon ho già parlato QUI. Jeffrey Combs (John Reilly), Barbara Crampton (Susan Reilly) e Carolyn Purdy-Gordon (The Gelato People) li trovate invece ai rispettivi link.

Luca Zingaretti interpreta Forte. Nato a Roma, famoso per il ruolo di Montalbano nei film TV tratti dai famosi romanzi di Camilleri, lo ricordo per film come, inoltre ha partecipato a serie quali Dio vede e provvede e La piovra 8. Anche regista, sceneggiatore e produttore, ha 59 anni e un film in uscita


Se Castle Freak vi fosse piaciuto recuperate Antropophagus e Le notti del terrore. ENJOY!

domenica 29 marzo 2020

Guns Akimbo (2019)

Amazon Prime Video ci viene incontro in questi giorni tristi e mette in catalogo il divertentissimo Guns Akimbo, diretto e sceneggiato nel 2019 dal regista Jason Lei Howden.


Trama: un nerd sfigatello, dopo una sessione di trolling on line, viene punito dai gestori del sito Skizm, dove la gente si uccide per il divertimento del pubblico, e costretto a partecipare come concorrente contro la campionessa in carica.


Voi avreste mai pensato che Daniel Radcliffe, con quel suo faccino ciccio e anche un po' sminchio in Harry Potter, sarebbe diventato un matto che fa film strani? Non fosse bastato Swiss Army Man, che se non avete ancora visto vi IMPONGO di recuperare subitissimo senza spoilerarvi nulla sulla trama (ma sappiate che lì Radcliffe è impagabile), ci si mette anche questo Guns Akimbo, all'interno del quale il non più giovane maghetto interpreta un tizio con delle pistole inchiodate alle mani, costretto per buona parte del tempo a correre qui e là con ciabatte pelose, boxer e veste da camera. Anche così, però, è difficile intuire i livelli di esilarante delirio che riesce a toccare Guns Akimbo, film divertentissimo al confronto del quale un qualsiasi John Wick è un serio e posato esempio di neorealismo, fumettone nel vero senso della parola e violento quanto basta. Non ci sono critiche sociali, salvo forse quella blanda dell'inizio in cui si perculano i troll alla Napalm di Crozza, per il resto il film scorre velocissimo e col cervello totalmente disinserito, retto interamente dalle interpretazioni non solo di Radcliffe, la cui aria stralunata è perfetta per interpretare un personaggio infilato a calci in una situazione inaspettata, ma anche di una Samara Weaving stranamente "brutta" (per quanto possa esserlo lei), sporca e drogata e di un Ned Dennehy mille spanne sopra le righe, entrambi usciti dritti da un Mad Max qualsiasi nonostante l'azione si svolga in un futuro abbastanza prossimo e simile al nostro presente, privo di particolari innovazioni tecnologiche ma zeppo di rifiuti per strada (è incredibile quante volte Radcliffe si spetasci sui sacchetti della spazzatura). All'interno della trama si intersecano un paio di improbabili colpi di scena e di sequenze completamente scollegate dalla realtà, il tutto commentato a volte dalla voce fuoricampo del protagonista, e tra le stragi di Nix, inseguimenti in macchina e il folle pubblico di Skizm non c'è mai un istante di noia.


Dovessi proprio trovare un neo a Guns Akimbo, potrei dire che Jason Lei Howden si è un po' rammollito. La sua fatica precedente, Deathgasm, aveva degli attori non solo poco famosi ma soprattutto memorabili (e in questo Guns Akimbo lo supera senza nessun problema), tuttavia era anche un trionfo di splatter ai livelli dei primi film di Peter Jackson, mentre qui mi è parso che sul versante "sangue" si sia tirato un po' il freno, preferendo ricorrere ad escamotage più "da videogioco", per quanto sempre e comunque violenti; non tanto per quanto riguarda le sparatorie, talmente esagerate da desensibilizzare lo spettatore, quanto per le brevi sequenze di corpo a corpo dove si può avvertire tranquillamente tutto il dolore provocato dall'uso improprio di un martello. Approfittando di quest'ultimo oggetto contundente, apro una parentesi sulla colonna sonora del film. Da uno che ha girato il suo primo horror sfruttando la musica metal non potevo aspettarmi una playlist di canzoni floscia, e infatti la musica che si sente per tutta la durata di Guns Akimbo non solo è esaltante e tamarra come atmosfera impone ma viene anche sfruttata per rendere i dialoghi ancora più divertenti e accattivanti (Lo "Stop. Hammer Time!" seguito dopo poco da Super Freak è da manuale ma vogliamo parlare del geniale utilizzo della cover truzza di You Spin Me Round?). Siccome siamo tutti tristi e nervosi per colpa di questa pandemia, un film come Guns Akimbo, così leggero e sciocchino, è manna dal cielo, quindi ringraziamo tutti in coro Amazon Prime Video per averlo reso disponibile anche in Italia così velocemente!


Del regista e sceneggiatore Jason Lei Howden ho già parlato QUI. Daniel Radcliffe (Miles), Samara Weaving (Nix) e Rhys Darby (Glenjamin) li trovate invece ai rispettivi link.

Ned Dennehy interpreta Riktor. Irlandese, ha partecipato a film come Sherlock Holmes, Harry Potter e i doni della morte - Parte 1, Anonymous, Grabbers - Hangover finale, Rogue One: A Star Wars Story e Mandy. Ha 54 anni e un film in uscita.






venerdì 27 marzo 2020

Bombshell - La voce dello scandalo (2019)

Sarebbe dovuto uscire ieri, già in vergognoso ritardo, e ora chissà quando uscirà, Bombshell - La voce dello scandalo (Bombshell), diretto nel 2019 dal regista Jay Roach.


Trama: dopo essere stata licenziata da Fox News la giornalista Gretchen Carlson decide di far causa al direttore Roger Ailes per molestie sessuali, portando diverse altre colleghe a fare altrettanto.



L'eco del movimento #metoo è arrivato fino a qui, "grazie" a quel vecchio suino di Harvey Weinstein e al coinvolgimento di molte attrici famose, ma già nel 2016 qualcosa si era smosso ai piani alti di uno dei posti più impensabili del mondo, ovvero la sede di Fox News, sentina di repubblicani duri e puri, conservatori e Trumpiani della peggior specie. Che lì in mezzo, e perdonatemi se ragiono per stereotipi, non si nascondano i peggio maschilisti e maiali sulla faccia della terra mi parrebbe un po' improbabile e infatti, alla faccia dei mille volti femminili che quotidianamente bucano lo schermo, qualcosa di marcio è venuto fuori. Bombshell è la storia di quel marciume che risponde al nome di Roger Ailes, vero e proprio numero uno, secondo giusto a Rupert Murdoch all'interno della piramide di potere della Fox, e delle donne che hanno scelto di farsi sentire e rivelare la mondo la sua natura di predatore seriale. Una scelta non facile, ovviamente, e non solo per questioni di carriera, reputazione o soldi, ma proprio per quella perversa malattia intrinseca delle persone, che tendono sempre a porre la stessa domanda idiota: "E come mai lo accusa proprio ora? Non poteva dirlo prima?". No, non si può, o almeno non sempre. Lo spiega alla perfezione il personaggio di Kaya Pospisil, uno dei pochi inventati per l'occasione, in un dialogo telefonico che spezza il cuore e conferma Margot Robbie, se ancora ce ne fosse bisogno, come una delle attrici più brave in circolazione. Il motore che spinge le donne a mantenere il silenzio è, semplicemente, la vergogna. Quel dubbio che comincia a rodere e che ti porta non solo a rivivere mille volte momenti disgustosi e dolorosi ma anche tutto quello che c'è stato prima (comportamenti, frasi, abiti, sguardi: e se fossi stata io ad incoraggiarlo, in effetti?), alimentando un senso di colpa inesistente e annullando ogni speranza di indulgenza o di riuscire a reagire e a cercare una qualche forma di giustizia. La colpa, certo, è di una società e di posti di lavoro dove il maschilismo ancora impera, ma spesso le nemiche più agguerrite delle donne sono altre donne, senza contare che non sempre questi enormi atti di coraggio pagano (in senso letterale e figurato), non nell'immediato almeno, e servono spalle enormi per sopportare critiche, insulti o minacce.


La vicenda di Bombshell viene quindi narrata da tre punti di vista prettamente femminili, a partire da quello di Megyn Kelly, probabilmente la donna più potente del network, invidiabile e sicura di sé al punto da poter addirittura osare dare addosso a Trump (pagandone le conseguenze, ovviamente; è interessante vedere come la vicenda di Ailes venga preceduta dallo scontro tra la Kelly e il futuro presidente USA, che contestualizza l'intera situazione e mostra come le giuste critiche mosse da una donna famosa, potente ed intelligente possano diventare in tempo zero il punto di partenza per slut shaming e altre orribili pratiche); Megyn è il vertice apparentemente "neutro" di un triangolo che vede presenti anche Gretchen Carlson, la "scarpa vecchia" da sostituire e trattare come una matta visionaria, e la già citata Kayla, giovane ed inesperta, potenzialmente la più malleabile del trio. Un trio di donne che scatenerà, ognuna a modo suo e ognuna coi suoi tempi, uno tsunami che andrà ad influenzare non sono i personaggi principali di questa scandalosa vicenda ma anche quelli secondari, che si ritrovano ad incrociare il cammino delle tre anche solo per poco tempo. La quantità di vite "toccate" dallo scandalo si rispecchia in una scrittura e in una regia veloci ed accattivanti ma comunque pregne, dove è un attimo perdersi la battuta o il dialogo fondamentali (soprattutto in lingua originale) e dove star dietro alla frenetica attività di Fox News non è facilissimo, tra momenti di dramma e altri in cui Bombshell diventa quasi una commedia, con tanto di quarta parete infranta e narratori esterni. Uno stile che forse riesce a gestire meglio Adam McKay, laddove Jay Roach a tratti pare un po' perdersi e lasciare che sia la grandezza delle tre attrici protagoniste a governare il ritmo della pellicola, ma comunque un modo di fare cinema che a me piace parecchio, soprattutto quando racconta storie importanti come questa sottolineando, con amara ironia, quanto ancora sia lunga la strada per un mondo più equo e giusto per tutti.


Del regista Jay Roach ho già parlato QUI. Charlize Theron (Megyn Kelly), Nicole Kidman (Gretchen Carlson), Margot Robbie (Kayla Pospisil), John Lithgow (Roger Ailes), Allison Janney (Susan Estrich), Malcom McDowell (Rupert Murdoch), Kate McKinnon (Jess Carr), Mark Duplass (Doug Brunt), Jennifer Morrison (Juliet Huddy), Ashley Greene (Abby Huntsman) e P.J. Byrne (Neil Cavuto) li trovate invece ai rispettivi link.

Connie Britton interpreta Beth Ailes. Americana, ha partecipato a film come Nightmare e a serie quali Ellen, 24, American Crime Story e American Horror Story; come doppiatrice ha lavorato ne I Griffin e American Dad!. Anche produttrice, ha 53 anni e due film in uscita.


Liv Hewson, che interpreta Lily Balin, era Abby Hammond in Santa Clarita Diet mentre Madeline Zima, che interpreta la truccatrice Eddy, era la piccola Gracie Sheffield de La tata. Alcuni degli eventi raccontati nel film sono stati riportati anche nella miniserie TV The Loudest Voice, che recupererò il prima possibile. ENJOY!

mercoledì 25 marzo 2020

Bollalmanacco On Demand: La donna della domenica (1975)

Complice il Coronavirus maledetto, il recupero dei vecchi On Demand procede più velocemente di prima e oggi parlerò di La donna della domenica, diretto nel 1975 dal regista Luigi Comencini, che dovrebbe avermi chiesto tempo fa su Facebook Paola. Il prossimo film On Demand sarà Brivido nella notte. ENJOY!


Trama: nella Torino bene, un uomo viene misteriosamente assassinato. I primi sospettati, a causa di una lettera in cui si parlava di uccidere la persona in questione, sono la ricca Anna Carla e il suo amico amico Massimo, ma i sospetti cominciano a moltiplicarsi a vista d'occhio.


Probabilmente sarò una delle tre/quattro persone in tutta Italia che non aveva mai visto prima d'ora La donna della domenica e alla fine della visione me ne sono amaramente pentita, perché l'ho adorato dall'inizio alla fine. Dovete sapere che io detesto la dizione dialettale del cinema italiano moderno; nonostante sia molto più naturale che in passato, mi sembra sempre di essere costretta ad ascoltare dei dilettanti che pascolano per strada, mentre ho trovato semplicemente delizioso l'uso di un dialetto molto più caricaturale in La donna della domenica, ambientato in una Torino "cosmopolita" dove all'accento da gianduiotto e al patois inglese delle classi agiate si mescolano il siciliano, il romano e il romagnolo dei poveracci, costretti a sudare sette camicie non solo per farsi accettare dalla cricca di ricconi ma anche per risolvere i loro guai senza ricevere nemmeno un "grazie". L'omicidio dell'architetto Garrone, leppegoso parvenu odiato da chiunque, si consuma infatti nell'ambiente dei torinesi coi nomi che contano, con due di questi nomi importanti trascinati nell'infamia dalla vendetta di due domestici licenziati per capriccio, e trascinati così in quella che per loro diventa nulla più che una distrazione dalla monotonia di una vita agiata. Poco importa ad Anna Carla e Massimo, lei bellissima ed annoiata moglie di un grande industriale e lui figlio di una famiglia ricchissima, che ci sia scappato il morto e che il loro desiderio di indagare e mettersi in competizione possa mettere in pericolo anche altre persone; i due si impegnano come possono per venire incontro al Commissario Santamaria e, così facendo, spesso mettono i bastoni tra le ruote al poveraccio, preso tra il fuoco di una potenziale passione (la donna della domenica del titolo è proprio l'amante da portarsi a casa nei giorni festivi) e un lavoro che comunque svolge con dedizione.


La sceneggiatura de La donna della domenica, scritta dallo storico Age e da Furio Scarpelli, contiene tutti gli elementi di un giallo all'italiana e stilemi tipici della commedia (assieme ad inusuali punte weird raggiunte con l'arma del delitto), con quel tocco di amarezza alla Fantozzi che porta a ridere a denti stretti; emblematico, in questo, il personaggio di Lello, impiegato omosessuale che mette a repentaglio la sua vita per venire accettato dal ricco amante Massimo, per dimostrargli di non essere inutile cercando di scagionarlo da un'accusa che, di fatto, lo tocca fino a un certo punto. Gli sfottò al "ricchione" non celano l'enorme disagio sociale di un paria che fa di tutto per essere accettato, condannato ad essere "inferiore" non solo per il suo orientamento sessuale ma anche per questioni economiche, così come buona parte dei poliziotti (in buona parte "terroni"), che agli occhi della Torino "bene" hanno giusto un po' più valore di un commerciante, un operaio o una puttana, se non altro perché sono potenziali fonti di emozioni forti e diversivi. Se l'architetto Garrone è l'elemento "mondano" più deprecabile tra tutti, gli altri ricconi torinesi non sono da meno, nonostante lo dissimulino meglio, magari grazie al loro aspetto bellissimo. E' il caso, ovviamente, di Jacqueline Bisset e Jean-Louise Trintignant, dinamico duo di trenta-quarantenni annoiati e baciati dalla dea della bellezza, che ridono letteralmente davanti alla morte e il cui unico problema "serio" è decidere la pronuncia più corretta di parole come Boston o taxi; il più bello di tutti, però, o perlomeno il più affascinante, è Marcello Mastroianni, che conferisce al suo commissario quell'aria da sciupafemmine raffinato, da agente segreto nonostante sia un comune poliziotto. E questi sono solo i tre grandi nomi presenti nel film, che non riescono comunque ad eclissare un cast formato da caratteristi indimenticabili, capaci di bucare lo schermo anche per un tempo brevissimo. In questi giorni di quarantena sono tantissimi i film recenti (anche troppo) che rischiano di distogliere la vostra attenzione ma, se potete, rubate anche del tempo per recuperare dei gioielli italiani come questo, non ve ne pentirete!!


Di Marcello Mastroianni, che interpreta il Commissario Salvatore Santamaria, ho già parlato QUI.

Luigi Comencini è il regista della pellicola. Nato a Salò, ha diretto film come Pane, amore e fantasia, Pane, amore e gelosia, La ragazza di Bube, Il compagno Don Camillo, Lo scopone scientifico e lo sceneggiato Le avventure di Pinocchio. Anche sceneggiatore, è morto nel 2007 all'età di 90 anni.


Jacqueline Bisset interpreta Anna Carla Dosio. Inglese, ha partecipato a film come James Bond 007 - Casino Royale, Airport, Effetto notte, Assassinio sull'Orient Express, Orchidea selvaggia e a serie come Ally McBeal e Nip/Tuck. Anche produttrice, ha 75 anni e due film in uscita.


Jean-Louis Trintignant interpreta Massimo Campi. Francese, ha partecipato a film come Il sorpasso, La meravigliosa Angelica, Metti una sera a cena, Il deserto dei tartari, Tre colori - Film rosso, Amour e Happy End. Anche sceneggiatore e regista, ha 80 anni.


Il film è tratto dal romanzo omonimo di Carlo Fruttero e Franco Lucentini. Tra gli interpreti segnalo la presenza di Giuseppe Anatrelli, lo storico Calboni di Fantozzi, nei panni del capo della polizia. ENJOY!


martedì 24 marzo 2020

L'uomo invisibile (2020)

Era uno degli horror che aspettavo di più quest'anno quindi, nell'attesa di riguardarlo, si spera al più presto, sul grande schermo, ecco che in questi giorni tristi ho recuperato L'uomo invisibile (The Invisible Man), diretto e sceneggiato dal regista Leigh Whannell. Per tutto ciò che concerne il recupero della pellicola in questione e la sfortunata, ignorante condizione in cui versa il mercato distributivo italiano, vi rimando QUI e QUI, altro non dirò sull'argomento.


Trama: Cecilia riesce a fuggire dal marito violento e pochi giorni dopo riceve la notizia del suo suicidio e dell'eredità che le è stata lasciata. Però qualcosa comincia a farle credere che l'uomo abbia soltanto finto la sua morte, e che la stia perseguitando...


Non mi ritengo un'esperta dei vari "Uomo invisibile", pur avendo visto la versione di Paul Verhoeven  che quella di James Whale, quindi non starò qui a fare paragoni perché onestamente ricordo poco entrambe e non sono riuscita a sfruttare il tempo di quarantena (oh, forse perché io non l'ho avuto!) per fare un bel ripasso. Quello che rammento, però, è che entrambi i film si concentravano molto sulla figura dell'uomo invisibile per se, a partire dal motivo che lo ha portato a sperimentare per divenire tale fino ad arrivare alla follia derivante dai suoi "immorali" esperimenti, mentre invece Leigh Whannell sceglie di abbracciare il punto di vista della vittima, partendo da una situazione molto horror ma ben poco inverosimile. Cecilia è una donna costretta a vivere un esistenza infelice, sotto il controllo di un marito violento sia fisicamente che psicologicamente, finché un giorno non trova il coraggio di scappare dalla casa-prigione che funge da "nido d'amore" (peraltro, un edificio asettico, zeppo di vetrate ma anche circondato da altissime mura, scogliere e mare, una sorta di fortezza inespugnabile) con l'aiuto della sorella, e si rifugia a casa di amici. Lì viene a scoprire che il marito si è suicidato, apparentemente preda della disperazione per essere stato lasciato, e come prova d'amore l'uomo le avrebbe anche lasciato dei soldi. Tutto è bene quel che finisce bene, almeno così parrebbe, il problema è che Cecilia è una donna spezzata nell'animo. Leigh Whannell descrive alla perfezione sia lo stato di paranoia e terrore costante in cui versa Cecilia sia la sua relazione con amici e parenti che cercano di farla rinascere, pur consapevoli che sarà difficile se non impossibile, perché le sue ferite sono troppo profonde; l'orrore, come ho scritto, la protagonista se lo porta già dentro prima ancora che subentri l'elemento "fantastico" e le prime sequenze del film sono talmente concitate e ansiogene che la presenza di un uomo invisibile si assesta sullo stesso livello di angoscia. Certo, dopo l'arrivo dello stalker invisibile la situazione precipita e gli amici di Cecilia arrivano a pensare che la sua paranoia sia finalmente sfociata in follia, anche perché gli episodi di violenza che cominciano a costellare la vita della protagonista diventano sempre più sanguinari, eppure anche lì l'orrore vero deriva dal senso palpabile di impotenza trasmesso da Cecilia, dall'impossibilità di controllare la propria vita e di dimostrare alle persone amate di essere un individuo assennato, non una pazza urlante e scriteriata.


Inevitabile, dopo aver visto i due film a distanza di pochi giorni, fare un minimo paragone con Swallow. In entrambe le pellicole la protagonista è una donna che, di regola, dovrebbe avere tutto per essere felice (anche Cecilia, come Hunter, è ricca, sposata ad un marito bello e di successo) ma ad entrambi i personaggi viene negata la possibilità di decidere della propria esistenza ed entrambe, a un certo punto, diventano semplicemente delle incubatrici funzionali alla nascita di un figlio, di un "erede" per il facoltoso marito. Certo, la violenza praticata su Hunter è più sottile e non viene neppure percepita come tale dal compagno, mentre il marito di Cecilia è un sadico bastardo senza se e senza ma, ciononostante non ho potuto fare a meno di pensare ai due personaggi come "sorelle" mancate e unite da un cieco, paranoico terrore, forse anche grazie all'incredibile bravura delle due protagoniste. Elisabeth Moss non è l'elegante stepford wife di Swallow, non glielo consente un lungo periodo di violenze reiterate, e quando la vediamo per la prima volta è già una creatura terrorizzata, scarmigliata, profondamente segnata da scure occhiaie; eppure, anche lei viene calciata a forza all'interno di un percorso di "formazione", atto a renderla sempre più sicura di sé, della sua intelligenza, della sua necessità di liberarsi non solo di un marito folle ma anche dell'aura di inaffidabile debolezza che spinge persino i suoi amici a dubitare di lei. Tutto questo viene tenuto assieme dalla regia di Leigh Whannell, che si affida ben poco ad effetti speciali digitali e gioca quasi tutto su angoscianti ed ampie inquadrature all'interno delle quali la Moss risulta piccola e spaurita, pronta a venire ghermita da mani invisibili che potrebbero spuntare da qualunque anfratto buio. E non si tratta solo di jump scare, ce ne sono davvero pochi, quanto di abilità nel trasmettere la paranoia del personaggio allo spettatore, non solo attraverso lo sguardo dell'attrice ma anche con "semplici" movimenti di macchina e con un sapiente montaggio. Onestamente, spero davvero che i distributori italiani non si dimentichino de L'uomo invisibile una volta che riapriranno le sale perché ho un fortissimo desiderio di posare il culo sulla poltrona e godermi questo gioiellino firmato Blumhouse e Leigh Whannell su un bello schermo gigante.


Del regista e sceneggiatore Leigh Whannell ho già parlato QUI mentre Elisabeth Moss (Cecilia Kass) la trovate QUA.


Oliver Jackson-Cohen, che interpreta Adrian, era il Luke Crain della serie Hill House. Inizialmente, L'uomo invisibile doveva far parte del Dark Universe de La mummia e Johnny Depp avrebbe avuto il ruolo del protagonista, ma il progetto è andato a farsi friggere e il film è diventato il primo dei futuri reboot dei classici mostri Universal ad opera della Blumhouse. Se il film vi fosse piaciuto recuperate L'uomo invisibile di James Whale, quello di Paul Verhoeven e anche A letto con il nemico. ENJOY!

domenica 22 marzo 2020

La morte ha sorriso all'assassino (1973)

Poiché mi è andata bene due mercoledì fa con Solamente Nero, ho deciso che, impegni permettendo, ogni mercoledì darò una chance ai gialli di Canale 34. Stavolta però è toccato a La morte ha sorriso all'assassino, diretto e co-sceneggiato nel 1973 dal regista Aristide Massaccesi, e la mia risolutezza rischia già di venire meno...


Trama: dopo un terribile incidente, una ragazza afflitta da amnesia viene accolta da due coniugi facoltosi e da quel giorno la villa che funge da loro dimora diventa il teatro di efferati omicidi.


Vabbè, potevo anche immaginarlo. Quando ho letto sulla stessa locandina i nomi di Aristide Massaccesi e Klaus Kinski avrei dovuto capire che mi sarei trovata davanti atmosfere morbosette e vagamente pornografiche unite a momenti splatter, ma onestamente avrei puntato tutto il mio stipendio su un'interpretazione caricatissima di Klaus e mi stavo già sfregando le manine al pensiero. Invece, mi è toccato testimoniare un vilipendio della libido Klausiana senza precedenti! Il poverino, in questo delirio di incesti, corna e amori saffici, è l'unico che non combina nulla e per il poco tempo in cui è presente sullo schermo è pure costretto ad armeggiare per una decina di minuti buoni con degli alambicchi! Ma non si fa, che brutta persona che è Aristide Massaccesi! Oltre allo spreco di Klaus, debbo ahimè sottolineare anche lo spreco di tempo mio, ché La morte ha sorriso all'assassino ha l'unico pregio di una protagonista affascinante e sottilmente perversa, alla quale si uniscono delle belle ambientazioni e parecchi riferimenti alle opere di Edgar Allan Poe, per il resto è uno dei gialli più pasticciati e noiosi che mi sia mai capitato di vedere. La caratteristica principale del film, infatti, è la ferma volontà di non far capire allo spettatore la durata temporale che intercorre tra un avvenimento e l'altro: i flashback, per esempio, sembrano avvenire decenni prima, invece sono passati solo tre anni, e tra le sequenze "presenti" intercorrono settimane intere ma l'impressione che si ha è che sia trascorso solo un giorno o due. In compenso, si ha la sensazione invece che la pellicola duri ore, perché per allungare la broda stantia vi sono delle scene di raccordo che hanno la stessa durata (e utilità) della partita a carte de Il fantasma di Sodoma, tra le quali figurano un imbarazzante, lunghissimo gioco di sguardi a tre alternato a ricordi di petting lesbo e scopate, il già citato trafficare Kinskiano con gli alambicchi e un gioco danzereccio di carnevale assimilabile alla storica performance del maestro Canello in Fantozzi.


Peccato, perché la matrice horror sulla quale viene costruita la trama sarebbe anche interessante e l'immagine di una sorta di "strega non morta" dotata di poteri inspiegabili e del dono dell'ubiquità avrebbe anche il suo fascino, anche se, di base, non si capisce 'sta creatura cosa voglia. Vendetta? Eh, diciamo che uccidere una persona lanciandole un gatto sulla faccia è un po' un "anticlimax", per non dire una cazzata col botto che ha ammazzato me e il Bolluomo dalle risate (scopro ora che il regista ha DAVVERO tirato il gatto in faccia all'attore, perché non riuscivano a girare una scena decente in cui l'animale gli graffiasse il volto), però c'è da dire che a meritare la vendetta sarebbero stati al massimo due personaggi, gli altri che c'entrano? Divertirsi un po' perché la morte e resurrezione portano seco molta malvagità? Già più comprensibile, ma il problema del gatto resta, così come la volontà di piazzare al termine della pellicola un finale "shock" che francamente lascia solo perplessi, come se gli sceneggiatori non sapessero bene che fare una volta morti tutti i personaggi. La faccia dell'unico sopravvissuto è da manuale, così come la sua aria generalmente scoglionata, che è poi simile a quella di molti degli attori che si sono ritrovati a partecipare a La morte ha sorriso all'assassino. Gli unici che meritano sono Klaus, purtroppo costretto in un ruolo sciapissimo, la bella Ewa Aulin, che si è palesemente divertita ad interpretare Greta, e il pittoresco Luciano Rossi, anche lui poco utilizzato, per il resto gli attori mi sono sembrati un po' tutti imbalsamati. Insomma, posso dire che ho visto ben di meglio ma lascerò subentrare  l'indulgenza verso il futuro Joe D'Amato, qui al suo primo film "completo", e confermerò di aver visto anche molti film peggiori. A qualcuno questa pellicola potrebbe anche piacere molto ma, come dicono gli inglesi, not my cup of tea.


Del regista e co-sceneggiatore Aristide Massaccesi ho già parlato QUI mentre Klaus Kinski, che interpreta il Dr. Sturges, lo trovate QUA.

Giacomo Rossi Stuart interpreta il Dr. Von Ravensbruck. Nato a Todi, padre di Kim Rossi Stuart, ha partecipato a film come L'ultimo uomo della Terra, I misteri della giungla nera, Operazione paura, La notte che Evelyn uscì dalla tomba, Sette scialli di seta gialla e Le porte dell'inferno. Anche sceneggiatore, è morto nel 1994 all'età di 69 anni.


venerdì 20 marzo 2020

Swallow (2019)

In questi giorni con le sale chiuse, i consigli degli amici su Facebook diventano ancora più importanti. E' proprio grazie a questi consigli, infatti, che ho deciso di guardare Swallow, diretto e sceneggiato nel 2019 dal regista Carlo Mirabella-Davis.


Trama: Hunter ha una vita apparentemente perfetta. Un marito bello e ricco, una casa enorme, un matrimonio da favola e un bambino in arrivo. Un giorno, però, comincia ad essere vittima di un desiderio compulsivo, quello di inghiottire piccoli oggetti, via via sempre più pericolosi...


Ho cominciato a guardare Swallow come al solito: senza sapere nulla salvo un abbozzo di trama e salvo un piccolo sprazzo autobiografico di Carlo Mirabella-Davis, la cui nonna era stata rinchiusa in un istituto di igiene mentale perché continuava a lavarsi compulsivamente le mani. Onestamente, mi aspettavo uno di quegli horror che cominciano molto lenti e finiscono in una sanguinolenta splatterata, per una serie di motivi intuibili fin dall'inizio del film, invece Swallow entra sottopelle e scava, si insinua nello stomaco come gli oggetti inghiottiti dalla protagonista e rimane lì, a far male dentro, a far sentire a disagio tutti, uomini o donne. Faccio quest'ultima precisazione perché il punto di vista attraverso cui viene raccontata la storia è sì quello di Hunter, tuttavia Swallow non è una di quelle pellicole che stigmatizzano il maschilismo imperante della società; Swallow, in realtà, ne ha per tutti, soprattutto per chi, uomo o donna che sia, manca di empatia verso le persone che vengono considerate a torto inutili e difettose, un peso da sopportare quando va bene o una macchia da nascondere quando va male, come nel caso di Hunter, piccola stepford wife che non riesce a vivere all'altezza delle aspettative di chi l'ha accolta in casa, nemmeno fosse un cucciolo. Hunter ci viene presentata, fin dall'inizio del film, come una persona tristemente sola, una moglie-trofeo che esiste solo in funzione del marito (bellissimo, ricchissimo, figlio di papà, totalmente assorbito dal suo importantissimo lavoro), dell'enorme villa che funge da gabbia dorata, e ovviamente del bambino che dovrà "regalare" alla famiglia che l'ha "adottata", a mo' di ricompensa. D'altronde, è il minimo che Hunter possa fare per i facoltosi Conrad, visto che il figlio si è abbassato a sposare una tizia senza soldi, senza lavoro, senza futuro, senza qualità, insomma, un pezzo di carne che ha solo due cose da fare bene, anzi tre: essere perfetta, sfornare figli e, soprattutto, non rompere le scatole.


Purtroppo, qualcosa nella testa di Hunter a un certo punto cede e la ragazza comincia ad inghiottire oggetti. All'inizio piccole cose innocue, come un pezzo di ghiaccio o una biglia di vetro, poi sempre più grandi e pericolose, ma se pensate, anche lì, che Carlo Mirabella-Davis indulga nel potenziale splatter che una simile situazione potrebbe innescare, cascate malissimo; le sequenze confezionate dal regista sono un incubo ansiogeno che lavora stuzzicando lo spettatore, scatenando nella sua mente dei rapporti di causa-effetto incredibilmente spiacevoli e racchiusi in agghiaccianti panoramiche di ninnoli più o meno grandi e più o meno taglienti, ripuliti da una mano amorevole o impietosamente tirati fuori in una camera operatoria. E' la ribellione di Hunter, o meglio, la punta dell'iceberg di un disagio che ha radici assai più profonde (e che, ovviamente, non rivelerò), il modo autolesionista non già di vendicarsi dei propri facoltosi carcerieri quanto piuttosto di recuperare il controllo su un'esistenza che ne è priva fin dalla nascita e, soprattutto, la consapevolezza di sé. La trama di Swallow si potrebbe così definire come un particolarissimo percorso di autoaffermazione, fatto di tanti piccoli episodi di violenza psicologica che troppo spesso tendiamo a sminuire in quanto parte di una perversa "normalità" e che, in questo caso, innescano un comportamento patologico di indicibile tristezza. La sensibilità e la bravura con cui Haley Bennett si carica sulle spalle un personaggio complesso come quello di Hunter è testimoniata dall'abbondanza di primissimi piani e piani medi che la ingabbiano all'interno delle inquadrature e delle scenografie, privandola di ogni via di fuga e costringendola ad arrivare dritta al cuore dello spettatore attraverso sequenze spesso prive di dialoghi, che testimoniano tutto il disagio interiore provato dalla protagonista. Carlo Mirabella-Davis, da par suo, confeziona un primo lungometraggio perfetto, sia dal punto di vista visivo (il modo in cui rende soffocante l'opulenza, trasformando ambienti ampi ed ariosi in celle, vincolando la protagonista ai complementi d'arredo attraverso l'uso dei colori è magistrale) che a livello di trama, offrendo una riflessione coerente, coraggiosa (sì, molto. Soprattutto nel prefinale) e non banale sulla natura infida dei disagi psichici e sulla nostra esigente società. Imperdibile.


Di Haley Bennett (Hunter), Austin Stowell (Richie) e Denis O'Hare (Erwin) ho parlato ai rispettivi link.

Carlo Mirabella-Davis è il regista della pellicola, al suo primo lungometraggio. Americano, è anche produttore.


Elizabeth Marvel interpreta Katherine Conrad. Americana, ha partecipato a film come Burn After Reading - A prova di spia, Il grinta, A Royal Weekend, Lincoln, 1981: Indagine a New York e Cattive acque. Ha 51 anni e un film in uscita.



mercoledì 18 marzo 2020

The Grudge (2020)

Di riffa o di raffa, sono riuscita a recuperare anche The Grudge, diretto e co-sceneggiato dal regista Nicolas Pesce.


Trama: una poliziotta da poco trasferitasi in una nuova cittadina si ritrova per le mani un incidente stradale legato a doppio filo con misteriosi omicidi-suicidi accorsi tempo prima...


Dovessero puntarmi una pistola alla testa e chiedermi qual è la saga che più mi ha terrorizzata tra quella di The Ring e quella di The Grudge, sicuramente nominerei quest'ultima. Samara/Sadako e la sua videocassetta maledetta, col suo uscire a scatti dagli schermi televisivi, è sempre stata un bel trauma, ma Kayako, Toshio e il loro gatto nero sono più insidiosi e implacabili, spuntano dove meno te lo aspetti e hanno il potere di portare alla rovina e alla desolazione intere città, soprattutto se a metterci mano sono i giapponesi. Ora, Nicolas Pesce giapponese non è e non si poteva pretendere che creasse qualcosa di deprimente ed arzigogolato, non ora che i fasti del J-Horror a base di capelli lunghi e facce bianchicce sono passati già da un pezzo, tuttavia il suo modo di reebotare la saga mantenendo un legame con i primi due The Grudge non mi è dispiaciuto, con tutti i limiti del caso e tenendo bene a mente che dei morti occidentali non potranno MAI fare paura quanto contorsioniste nipponiche e demonigattobambini. La storia del nuovo The Grudge comincia prima dell'inizio del remake nipponico del 2004 (quello con Sarah Michelle Gellar per intenderci) e da lì prende una direzione tutta nuova che è anche una direzione tutta vecchia, nel senso che cambieranno Paese e protagonisti ma la maledizione non cambia: si mette piede nella magione dov'è andato a crearsi il "ju-on" e si aspetta pazientemente di venire fatti fuori dagli spettri incazzosi, però stavolta Kayako e il figlioletto non hanno ottenuto il foglio di via e se ne sono rimasti in Giappone, lasciando spazio a un'altra allegra famigliola sopraffatta dal rancore. Poco importa se, nel The Grudge del 2006, erano stati aboliti i confini che separavano l'America e la terra del sol levante, evidentemente a 'sto giro i due yurei erano stanchi e hanno delegato ad altri, creando così una succursale yankee della casa maledetta.


Scherzi a parte, mi aspettavo una schifezza inaudita o una noia mortale alla The Ring 3, invece questo nuovo The Grudge non mi è dispiaciuto. Ho apprezzato molto la scelta di non realizzare una storia lineare ma di spezzettare la trama in microstorie cronologicamente mescolate, unite da un fil rouge investigativo, e più di ogni altra cosa ho amato i titoli di coda silenziosi, che scorrono sulla lapidaria inquadratura finale di una casa. Apprezzabile anche la dose di cattiveria che permea l'intera pellicola, nonostante gli omicidi più efferati avvengano off screen. Anzi, diciamo pure che la sceneggiatura non lesina colpi bassi, soprattutto quando mette in scena personaggi già sfortunati di loro e per nulla antipatici, anzi, decisamente delle brave persone; piagati da una vita che già non è stata tenera, vederli anche soccombere per mano delle spietate entità è un colpo al cuore, e spesso e volentieri sono colpi al cuore assai crudeli, sia quando il gore viene mostrato sia quando viene "solamente" suggerito. Tutto ciò, obiettivamente, mi ha fatta sorvolare sulla presenza di questi anonimi fantasmi occidentali, privi del terrificante carisma dei loro corrispettivi nipponici, e un'altra cosa che mi ha bendisposta più verso The Grudge che verso The Ring 3 è la presenza di caratteristi amati come Lin Shaye e William Sadler, peraltro protagonisti di alcune delle scene migliori. Che ci volete fare, so che vi aspettavate una stroncatura ma io, nonostante tutte le strizzate d'occhio, scopiazzature e remake di intere sequenze, o proprio forse in virtù di tutto ciò, non riesco a non essere indulgente con questa saga che ormai va avanti da vent'anni.


Di Andrea Riseborough (Detective Muldoon), Demián Bichir (Goodman), Lin Shaye (Faith Matheson), John Cho (Peter Spencer), Jacki Weaver (Lorna Moody) e William Sadler (Detective Wilson) ho già parlato ai rispettivi link.

Nicolas Pesce è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto film come Eyes of my Mother e Piercing. Ha 30 anni.


Se il film vi fosse piaciuto avete da recuperare qualunque cosa, in primis The Grudge del 2004 e i suoi sequel, The Grudge 2 e The Grudge 3. Per completezza, ovviamente, aggiungete Ju-On: Rancoreil primo Ju-On, Ju-On 2, Ju-On: Black Ghost e Ju-On: White Ghost, Ju-On: The Beginning of the End, Ju-On: The Final Curse Sadako vs KayakoENJOY!

martedì 17 marzo 2020

Queen & Slim (2019)

Chi lo aveva visto al Torino Film Festival ne aveva detto meraviglie, io purtroppo non ero riuscita a vederlo allora ma l'ho recuperato adesso. Sto parlando di Queen & Slim, diretto nel 2019 dalla regista Melina Matsoukas.


Trama: un ragazzo e una ragazza di colore, alla fine di un primo appuntamento disastroso, vengono fermati da un poliziotto per un banale controllo di routine e lo uccidono. Da quel momento i due si ritrovano in fuga...


"Un ragazzo incontra una ragazza. Sono entrambi fuoco, incendiano la stanza". Capita, se i due ragazzi sono di colore e la stanza è l'America. Capita anche se, all'inizio, questi due ragazzi non sono fuoco, quanto piuttosto olio ed acqua: non si capiscono, non si piacciono granché, vengono da due mondi che più diversi non si può. Lui, Slim, è uno sfigatello coccolato dalla famiglia, dai sogni semplici e dal cuore buono. Lei, Queen, apparentemente regina lo è davvero, in quanto è un avvocato di colore e guarda Slim dall'alto in basso. Eppure, la prima scintilla scocca quando i due vengono fermati da un poliziotto e, per una nefasta serie di eventi facenti capo alla stupidità di quest'ultimo, lo uccidono. Da lì comincia una fuga disperata per le strade d'America, una fuga in cui soprattutto Queen rivela di non essere la stronza superiore e distaccata che voleva far credere; donna complessa, dal passato difficile e dall'animo deturpato da mille cicatrici, in lei ci sono una durezza e una disillusione tali da isolarla dal resto del mondo e, allo stesso tempo, da farglielo comprendere in tutte le sue brutture. Però anche Slim non è un semplice babbeo felice. In lui albergano una tristezza infinita ma anche una forza inaspettata, una forza legata a ideali come la famiglia e la religione, alla capacità di tenere comunque i piedi per terra. I due impareranno a rispettarsi, a capirsi, persino ad innamorarsi a un certo punto, ma come accade nei migliori road movie non è l'arrivo il punto importante (anche perché Queen & Slim non è un film d'amore) quanto piuttosto il percorso fatto per arrivarci, un percorso che non si limita ai due protagonisti e che arriva a toccare le diverse realtà di un America dove i neri sono ancora una minoranza in difficoltà. Una scintilla, appunto, che segue la scia di benzina che i due si lasciano dietro, scatenando spesso degli incendi e, talvolta, anche delle deflagrazioni, in un'America razzista che ha un disperato bisogno di (anti)eroi.


Queen & Slim è un film bellissimo, come lo sono i suoi due protagonisti. Icone loro malgrado, Daniel Kaluyya e Jodie-Turner Smith interpretano i ruoli dei due fuggitivi con una sensibilità incredibile, regalando allo spettatore momenti memorabili di infinita, malinconica dolcezza; penso alla sequenza della sala da ballo, in cui la fuga ha cominciato ad avvicinarli ma ancora con qualche diffidenza, laddove la paura di vedere finire la propria vita dietro le sbarre si mescola al profumo di libertà e, forse, anche di felicità, ma ci sono mille altre sequenze di gioia dolceamara, all'interno delle quali sono sguardi, gesti e non parole a farci percepire vivi i personaggi più di qualunque dialogo. Melina Matsoukas, invece, è una regista sorprendente e tutta da scoprire; a vedere Queen & Slim, non si direbbe che la signora ha diretto solo videoclip nella sua carriera, perché riesce a tenere le fila di una pellicola molto lunga e sfaccettata senza una sola caduta di stile, un'inquadratura sbagliata, una sequenza che non sia assolutamente necessaria a completare l'insieme del bellissimo affresco realizzato. Persino momenti retorici incarnati in pugni alzati o concessioni al melodramma, soprattutto sul finale, sono note indispensabili di una sinfonia che compone uno dei film più belli ed interessanti dell'anno, che spero vivamente possa venire riproposto nei cinema quando questa maledetta crisi da coronavirus sarà passata. Già l'industria cinematografica sta soffrendo, privare gli spettatori di un film come Queen & Slim sarebbe veramente un peccato.


Di Daniel Kaluuya (Slim), Chloe Sevigny (Mrs. Shepherd) e Flea (Mr. Shepherd) ho parlato ai rispettivi link.

Melina Matsoukas è la regista della pellicola, al suo primo lungometraggio. Americana, anche produttrice, ha 39 anni.


Jodie-Turner Smith, che interpreta Queen, aveva già partecipato a The Neon Demon. ENJOY!

domenica 15 marzo 2020

Solamente nero (1978)

Sul nuovo Canale 34, appartenente all'offerta gratuita del digitale terrestre, tutti i mercoledì in prima serata c'è un giallo o un thriller all'italiana. Qualche giorno hanno programmato Solamente nero, diretto e co-sceneggiato nel 1978 dal regista Antonio Bido.


Trama: Stefano, giovane professore universitario, si prende un periodo di riposo a Venezia, ospite del fratello Don Paolo. Al suo arrivo, tuttavia, la città comincia a venire scossa da terribili delitti.


Non avevo mai sentito parlare né di Solamente nero né di Antonio Bido, ho deciso di guardare il film mercoledì perché un amico appassionato me lo ha comunicato via whatsapp e ho pensato "perchè no?". Mi aspettavo, onestamente, qualcosa di trash e realizzato malissimo, la tipica parodia di giallo all'italiana con attori cani e surreali momenti di sconforto, invece mi sono trovata davanti un prodotto sicuramente derivativo ma anche molto dignitoso. L'inizio, già, non è male, col titolo piazzato in sovrimpressione sull'immagine di una ragazza morta in un paesino di campagna, appendice di un flashback che racconta un delitto commesso anni prima dell'inizio della storia. Veniamo quindi introdotti ai misteri di un'isoletta della laguna veneziana attraverso le parole di un parroco non molto tenero nei confronti dei suoi compaesani, tra i quali figurano alcuni elementi di spicco impegnati in serate turpi in compagnia di una medium; il fratello del parroco, il protagonista Stefano, è vittima di un forte esaurimento nervoso e spera di ritrovare la tranquillità nel luogo dov'è nato e cresciuto, ma purtroppo il suo arrivo inaugura una serie di delitti efferati e misteriosi che cominciano a toccarlo da vicino nel momento in cui suo fratello, testimone di uno degli omicidi, inizia a ricevere minacce anonime. La trama del film si snoda dunque tra misteriosi delitti commessi da un killer con le mani e il volto celati e i tentativi di Stefano di capire chi si nasconda dietro l'ombra che sta eliminando a poco a poco tutte le persone legate alla medium, ognuna col suo bello scheletro nell'armadio, tentativi non molto convinti, a dire il vero, poiché il bel professorino è anche impegnato a concupire Sandra, artista in erba depositaria di un indizio preziosissimo, anzi, risolutivo.


Due cose, anzi tre, colpiscono di Solamente nero. Innanzitutto, per essere un giallo vi sono molte sequenze ambientate di giorno, con una fotografia luminosa a base di colori caldi, che vedono i personaggi vagare per le calli veneziane senza uno scopo oppure a divertirsi, in aperto contrasto con le scene notturne o piovose tipiche dei gialli dell'epoca, in cui la tensione si taglia col coltello. Gli attori, poi, sono semplicemente belli belli in modo assurdo. Sarà che la sera prima avevo guardato Non ho sonno, ma qui spiccano proprio l'eleganza e la bellezza dei due protagonisti (e persino del prete, decisamente un bell'uomo) e l'espressività calzante dei personaggi secondari o degli antagonisti, oltre a un doppiaggio o ri-doppiaggio gradevolissimo da ascoltare. Gli omaggi del regista ad Argento e persino, in una sequenza, ad Hitchcock non privano di personalità un film che, sul finale, regala allo spettatore una bella sequenza visionaria a base di sensi di colpa, e la colonna sonora scritta da Stelvio Cipriani ed eseguita dai Goblin è la ciliegina sulla torta di una pellicola che si lascia guardare senza nessun problema, magari sperando di ottenere, un giorno, il fisico per indossare una sexyssima collana da girovita come la bella Stefania Casini.


Di Lino Capolicchio, che interpreta Stefano, ho già parlato QUI.

Antonio Bido è il regista e co-sceneggiatore della pellicola, inoltre compare in una scena al cimitero. Veneto, ha diretto film come Il gatto dagli occhi di giada, Barcamenandoci e Blue Tornado. Anche attore e produttore, ha 71 anni.


Stefania Casini, che interpreta Sandra, era la sara di Suspiria. Se Solamente nero vi fosse piaciuto recuperate la trilogia degli animali di Dario Argento e Sette donne per l'assassino di Mario Bava, oltre ad altri gialli del periodo! ENJOY!

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