venerdì 30 aprile 2021

Nomadland (2020)

Esce oggi su Disney+ lo splendido Nomadland, diretto e sceneggiato nel 2020 dalla regista Chloé Zhao e tratto dal libro omonimo di Jessica Bruder, che durante la notte degli Oscar ha vinto per le categorie Miglior Film, Miglior Regia e Miglior Attrice Protagonista.


Trama: dopo aver perduto lavoro e casa a causa della crisi economica, Fern sale su un minivan e viaggia per l'America, cercando come può di sopravvivere...


In questa annata di Oscar poco convincenti, solo due pellicole hanno rapito il mio cuore e hanno smosso delle emozioni vere durante la visione. Una è stata Promising Young Woman, l'altra questo Nomadland, ognuna per motivi diversi. Il film di Chloé Zhao è una commovente parabola sulla natura sfuggente dell'essere umano, sul modo in cui ognuno vive a modo suo la tristezza della morte e la gioia della vita, e punta i riflettori sulle moderne popolazioni di nomadi americani che seguono il flusso delle stagioni e delle occupazioni temporanee, creando una sorta di tribù o famiglia allargata fatta di aiuti reciproci e di scambi non solo materiali ma anche e soprattutto umani. Fern è diventata uno di questi nomadi suo malgrado, ché lei le radici le aveva trovate col marito Bo, in una città "aziendale" ai margini del deserto del Nevada che, in quanto tale, si è svuotata di tutti i suoi abitanti quando l'azienda proprietaria è fallita; vedova, senza lavoro e senza casa, Fern decide di portarsi dietro poche cose importanti e di cominciare a vivere in un van, spostandosi seguendo le disponibilità lavorative offerte da altre aziende, come Amazon, o dalle varie località turistiche. La vita del nomade è pericolosa, perché innanzitutto si è spesso soli e come tali bisogna imparare a cavarsela, ci sono malattie improvvise, c'è il freddo dell'inverno, c'è l'impossibilità di trovare un posto sicuro (e legale) dove parcheggiare il van e dormire, al di là di tante altre piccole cose scomode, ma per Fern ancora più pericoloso è quello che potrebbe succederle se dovesse di nuovo mettere radici, lei che ancora non ha superato il lutto per il marito morto e sente di non appartenere ad altri che a se stessa. La protagonista di Nomadland non è né speciale né particolare, è un piatto dozzinale, rotto e rabberciato alla bell'e meglio con l'Attack, non certo un esempio dell'arte del Kintsugi, ed è per questo ancora più facile empatizzare con lei e mettersi nei suoi panni, nonostante il suo carattere schivo.


Non ho letto il libro di Jessica Bruder da cui Chloé Zhao ha tratto la sceneggiatura di Nomadland e la stessa mette ben poche parole in bocca a una Frances McDormand umanissima e meravigliosa, che si mescola senza fatica tra i veri nomadi con i quali ha condiviso non solo lo stile di vita, ma anche lavori ed esperienze, preferendo siano le immagini e la malinconica musica a trasmettere tutte le emozioni del personaggio. I primi piani di Fern, col suo sguardo perso verso l'orizzonte e verso qualcosa che solo lei può vedere, si alternano a campi lunghissimi che riportano tutti i colori e la bellezza selvaggia del paesaggio americano, che risulta così stranamente accogliente ed ospitale, in aperto contrasto con l'innegabile squallore dei piccoli van, delle lavanderie a gettoni, delle tavole calde. La cinepresa si sofferma a lungo su questi elementi naturali e sulla vita dei nomadi, dandoci modo di toccarla quasi con mano, mentre per contro le poche sequenze ambientate all'interno di quattro mura "sicure" e solide, abitate da Famiglie con la F maiuscola, vengono spezzettate da un montaggio rapido che rende palpabile l'ansia di Fern, ormai estranea a questo stile di vita, la sofferenza di sentirsi fuori posto nonostante la gentilezza di chi vorrebbe per lei una presunta normalità e la reintegrazione, l'inquietudine che sembra di leggere in ogni ruga e in ogni sguardo della McDormand, nei suoi capelli tagliati male e nel suo aspetto dimesso. Eppure, in tutti questi piccoli dettagli, quanta dignità si riesce a percepire, e quanta forza. La stessa che serve a scegliere come vivere la propria esistenza, magari sbagliando ma senza compromessi e senza fare male a nessuno. E pazienza se qualcuno, lungo la via, deciderà che quello non è il suo stile di vita, perché la strada perdona e capisce più delle persone, consapevole che, prima o poi, tutti quelli che abbiamo conosciuto e amato li rincontreremo lungo il cammino. Life isn't pain. Life isn't bliss. Life is just this. Is living. 


Di Frances McDormand, che interpreta Fern, ho già parlato QUI mentre David Strathairn, che interpreta Dave, lo trovate QUA.

Chloé Zhao è la regista e co-sceneggiatrice della pellicola. Cinese, ha diretto film come Songs My Brothers Taught Me e The Rider -  Il sogno di un cowboy. Anche sceneggiatrice e produttrice, ha 38 anni e un film in uscita, Gli Eterni.



martedì 27 aprile 2021

Minari (2020)

E' uscito ieri nei cinema riaperti (tranne a Savona, ovviamente, dove non ha riaperto una ralla) Minari, diretto e sceneggiato dal regista Lee Isaac Chung nel 2020 e accolto da 6 nomination (Miglior Film, Steven Yeun come Miglior Attore Protagonista, Miglior Regia, Yuh-Jung Youn come Miglior Attrice Non Protagonista nonché l'unica vincitrice, Miglior Sceneggiatura Originale, Miglior Colonna Sonora Originale).


Trama: Negli anni '80, una famiglia di immigrati coreani si trasferisce in campagna, all'interno di un ex caravan trasformato in casa, e lì i suoi membri si ritrovano a dover affrontare una serie di problemi...


Anni fa, credo ormai almeno 10, un'amica dall'umorismo particolarmente spiccato mi regalò il libro Cinquanta lavori più schifosi del tuo, all'interno del quale scoprii l'esistenza del sessatore di pulcini, ovvero del povero cristo che si occupa di controllare se le dolci bestiole sono maschi o femmine. Avere per le mani tutto il giorno dei gialli piumini immagino potrebbe fare la felicità di qualcuno, non fosse che bisogna essere velocissimi e che, dopo un giorno, la poesia rischia di svanire, persa in un turbine di codine da fissare per otto ore di fila, inoltre è assai crudele il destino dei pulcini maschi, non tutti prescelti per poter crescere e spesso gettati in un tritacarne o peggio. Onestamente, non riuscirei a condannare animalini così piccoli a una morte precoce e non fatico a comprendere la speranza di Jacob, protagonista di Minari, di affrancarsi da questo genere di attività, anche se l'uomo non è certo spinto dalla pietà per i pulcini, quanto piuttosto dalla volontà di acquisire un po' di prestigio sociale dopo un'esistenza passata a soffrire nella povertà della Corea. Da qui nasce il dramma di Minari, storia di una famiglia alle prese con la durezza della vita di campagna, nella squallida provincia americana, all'interno di un ex caravan a cui hanno tolto le ruote per trasformarlo in una casa, bloccandolo in un terreno aspro e zeppo di sterpaglie che Jacob considera una specie di terra promessa da far diventare azienda agricola. Ma quel che Jacob desidera, agli occhi della moglie sono i capricci di un uomo egoista, che non tiene da conto i molti problemi pratici di una simile vita, problemi che rischiano di condannare la famiglia a un ulteriore isolamento e all'indigenza, cose che giustamente Monica avverte come una spada di Damocle sospesa sulle teste dei due bambini, soprattutto del piccolo David, affetto da una malattia cardiaca.  


Lee Isaac Chung
racconta quello che conosce meglio, prendendo spunto dalla sua infanzia, e si vede. Il filtro dei ricordi addolcisce molte cose e David è di una tenerezza inenarrabile (così come la nonna è un personaggio talmente sopra le righe che tutti vorremmo averla accanto), ma il regista non indulge in happy ending consolatori né offre allo spettatore una storia compiuta; il destino della famiglia di Jacob, che passa per esperienze non certo felici e quotidiane preoccupazioni quali povertà, malattia, senso di isolamento e paura per il futuro, rimane sospeso in un finale interamente dedicato al minari che dà il titolo al film, una pianta che cresce e si ramifica senza bisogno di troppe cure, regalando i suoi frutti a chi desidera coglierli, ricchi o poveri che siano. Il minari è una perfetta rappresentazione delle persone, che attecchiscono e si ramificano cercando di sopravvivere; c'è qualcuno tra noi che riesce a fruttificare, lasciando magari un segno tangibile nella storia (dell'umanità, della propria famiglia), ma in definitiva la maggior parte rimane lì, tranquilla, senza fare male a nessuno, in letterale balìa degli eventi. Un segno tangibile, almeno sullo spettatore, lo lasciano però senza dubbio le interpretazioni di Minari, tutte assai toccanti (Yeun non ha vinto l'Oscar ed era scontato ma lui e tutti gli altri attori sono perfetti, non solo la vincitrice Yuh-Jung Youn ma anche Yeri Han) e molte sequenze rischiano di rimanere impresse a lungo, come il confronto finale tra Jacob e la moglie, che mi ha annegata in un mare di lacrime alla faccia dei due isterici di Storia di un matrimonio, o quella in cui nonna consola un terrorizzato David, e anche la colonna sonora di Emile Mosseri è deliziosa, l'ideale per tenersi stretta l'atmosfera malinconica del film anche durante lo scorrere dei titoli di coda. 


Di Steven Yeun, che interpreta Jacob, ho già parlato QUI mentre Will Patton, che interpreta Paul, lo trovate QUA.

Lee Isaac Chung è il regista e sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto film come Munyurangabo, Lucky Life e Abigail Harm. Anche produttore, ha 43 anni.




lunedì 26 aprile 2021

Oscar 2021

Buon lunedì a tutti! Qualcosa stanotte mi ha fatta svegliare giusto cinque minuti prima che cominciasse la lunghissima, noiosissima premiazione degli Oscar, ambientata in una location ariosa e particolare ma affossata dalle solite menate da cerimonia; unici sprazzi carini, il balletto di Glenn Close alla fine di un tristissimo gioco a tema musicale, il discorso della vincitrice Yuh-Jung Youn con tanto di tentativo di concupire Brad Pitt e la mise da spolverino de La bella e la bestia di una frizzante Laura Dern. Ma bando alle ciance e vediamo chi ha vinto... ENJOY!


Cominciamo dal miglior film, anche se alla Academy, con sommo scorno di Canova, hanno lasciato per ultime le premiazioni agli attori protagonisti, sovvertendo l'ordine solito. Scontatissima ma meritatissima la vittoria di Nomadland, che dopo Promising Young Woman è stato il film che mi ha emozionata di più. Nomadland ha portato a casa tre statuette: Miglior Film, Miglior Regia e Miglior Attrice Protagonista, andata ad una Frances McDormand che evidentemente aveva lasciato aperto il gas, visto che ha arraffato l'Oscar, ha detto due parole ed è fuggita. Certo, l'adorabile attrice aveva già parlato molto nel corso della premiazione per Miglior Film, invitando gli spettatori ad andare a vedere Nomadland al cinema. Magari, Frances, magari: oggi hanno riaperto in tutta Italia tranne a Savona, quindi potevi anche evitare di girare il coltello nella piaga!


Passiamo al Miglior Attore Protagonista e a quella che è stata la vera sorpresa della serata, ovvero l'Oscar ad Anthony Hopkins, il secondo assegnato a The Father dopo essersi aggiudicato quello, meritato, per la Miglior Sceneggiatura Non Originale. Il premio ad Hopkins mi ha riempita di felicità, non solo perché l'attore ha imbroccato la miglior interpretazione da dieci anni a questa parte, commovente ed intensa dall'inizio alla fine, ma anche perché un Oscar postumo a Chadwick Boseman sarebbe stata una vera beffa. Il ragazzo era talentuoso, la sua perdita è grande, ma non avrebbe avuto senso omaggiarlo solo perché morto anzitempo, privando chi è ancora vivo degli onori del caso.


Nel caso cominciaste a preoccuparvi della mancanza di statuette alla marea di film ispirati e pompati dal Black Lives Matter, però, state tranquilli: Daniel Kaluuya (che pareva lì col corpo e altrove con la testa, almeno finché non ha vinto e si è animato durante i ringraziamenti) ha portato a casa l'Oscar per il Miglior Attore Non Protagonista. Tra lui e la co-star Lakeith Stanfield non ho dubbi che la mia preferenza vada a Daniel, tuttavia lasciatemi dire che Judas and the Black Messiah è un film davvero insipido, con una sola caratteristica positiva: è servito ad impedire che l'Oscar per la Miglior Canzone Originale andasse alla Pausini e alla sua ammorbantissima Io sì. Non che Fight for You di H.E.R. mi piacesse, io avrei fatto vincere Husavid, ma evidentemente non l'hanno presa abbastanza sul serio.


Altro motivo di gioia è stato l'Oscar come Miglior Attrice Non Protagonista a Yuh-Jung Youn, attrice famosissima in patria ma snobbata per decenni, come da lei sottolineato durante il discorso di premiazione, dagli USA in generale e dall'Academy in particolare. E' bellissimo come ai coreani non freghi nulla degli Oscar (ha detto anche questo, la meravigliosa signora) e come siano privi di peli sulla lingua. Questo, per inciso, è stato l'unico Oscar andato a Minari, un film che partiva favoritissimo ed è stato tristemente ridimensionato, nonostante fosse un altro dei miei preferiti. 


Purtroppo, come previsto, a rimetterci più di tutti è stato lo splendido Promising Young Woman, che ha vinto "solo" il premio per la Miglior Sceneggiatura Originale. Avrei voluto molto di più per il mio film preferito, ma la gioia di vedere la Fennell in tutta la sua giunonica bellezza è stata grande. 


Grande soddisfazione anche per Un altro giro, ovvero il Miglior Film Straniero. Ammetto di essermi commossa durante il discorso di Thomas Vinterberg, che ha dedicato il premio alla figlia scomparsa poco dopo l'inizio delle riprese.


Scontata la vittoria dell'adorato ed adorabile Soul come Miglior Lungometraggio Animato, a cui l'Academy ha aggiunto il premio per la Miglior Colonna Sonora, che forse io avrei assegnato a Minari. Se dicessi di non essere felice mentirei ma un pezzo enorme del mio cuore è a Kilkenny da anni, alla Cartoon Saloon, e mi avrebbe resa ancora più contenta il riconoscimento, per una volta, a uno studio che fa della tradizione e della magia uno dei suoi punti di forza. Guardatelo Wolfwalkers che è un gioiellino!


Passiamo ora ad un mega riassuntone dei premi "tecnici", dei quali mi intendo ancora meno. Mank vince per la splendida Fotografia e per le raffinate Scenografie, due premi meritatissimi, almeno per quanto mi riguarda. Perplimente l'Oscar per il Miglior Montaggio a Sound of Metal, quando la perizia con cui sono stati realizzati quelli di Promising Young Woman e soprattutto The Father saltava agli occhi persino a me, ma meritatissimo quello per il Miglior Sonoro, la cosa migliore di un film che non mi ha fatta impazzire. Altro film mediocre ed ingiustamente premiato con due premi scippati (quelli sì, altro che Pausini) all'Italia è Ma' Rainey's Black Bottom, al quale, per non farlo rimanere a bocca asciutta, sono state assegnate le statuette per Costumi e Make-Up. Che vergogna, su. Giustamente ridimensionato anche Tenet, candidato solo per i Migliori Effetti Speciali, l'unica cosa notevole di un film bello ma non all'altezza della fama di Nolan. E con questo chiudo, che come al solito vivo nell'ignoranza per quanto riguarda corti e documentari. Ci risentiamo il prossimo anno!

domenica 25 aprile 2021

WolfWalkers - Il popolo dei lupi (2020)

Sapevo che mi sarei tenuta il buono per ultimo, infatti non avrei potuto concludere meglio i recuperi in vista della notte degli Oscar se non guardando WolfWalkers - Il popolo dei lupi (WolfWalkers), diretto e co-sceneggiato nel 2020 dai registi Tomm Moore e Ross Stewart.

Trama: nell'Irlanda del 1600 una ragazzina e suo padre, cacciatore di lupi, si ritrovano ad avere a che fare con un Lord dispotico e superstizioso, che ha giurato di liberare la foresta dai lupi. Peccato che nella foresta in questione abitino anche i Wolfwalkers...


Dio benedica il Cartoon Saloon e i suoi meravigliosi capolavori animati, capaci di salvare il nostro cervello annebbiato dalla computer graphic e di regalarci non solo emozioni vere ma anche piccole opere d'arte in movimento, radicate nella tradizione irlandese zeppa di creature magiche e meravigliose, strettamente legate alla natura. Questa volta Tomm Moore ha deciso di affrontare il 1600 puritano, grigio e triste, popolato da demoni in abito talare pronti a brandire crocefissi ed anatemi per privare i cittadini della libertà di credere, pensare e vivere; è in questo clima profondamente triste ed ignorante che la giovane Robyn, inglese, si trasferisce nella cittadina fortificata di Killkenny assieme al padre, un cacciatore di lupi messosi al servizio del terribile Lord Protector, che governa i cittadini col pugno di ferro. Nata femmina e per questo costretta a venire relegata al focolare, Robyn (come molte "principesse" della tradizione Disneyana, in questo Wolfwalkers è più "classico" dei suoi fratellini della trilogia dedicata al folklore irlandese) vorrebbe essere a sua volta cacciatrice e durante una delle sue fughe fuori dalle mura si scontra con la vivacissima Mebh, ultima superstite, assieme alla madre, della stirpe dei Wolfwalkers, creature in forma umana di giorno e lupi di notte. L'incontro con Mebh cambierà la vita di Robyn e il suo modo di vedere la realtà che la circonda, facendole scoprire non solo che i lupi non sono malvagi come vengono dipinti ma soprattutto che la bestia più terribile e pericolosa, per se stesso e gli animali a quattro zampe, è soltanto l'uomo, in particolare quando a muoverlo sono la paura e la sete di potere.


Quella di Wolfwalkers è una storia che parla di amicizia, di crescita e della scoperta dell'indipendenza ma anche dell'importanza dei legami e della necessità di tenere una mente aperta, senza dimenticare mai quanto siamo legati a ciò che ci circonda, a chi è diverso da noi e alla natura stessa; è una storia che non fa sconti, malinconica e molto triste, perché sappiamo che i Wolfwalkers sono destinati ad essere sempre meno e sempre più impossibilitati a scorrazzare liberi in foreste eliminate per far spazio a coltivazioni e industrie, mentre le Robyn "infettate" dal morso della libertà sono ben poche. Eppure, la bellezza di Wolfwalkers è tale che, durante la visione, il nostro cuore non può fare a meno di abbandonarsi alla gioiosa sensazione di una corsa a perdifiato immersi in tutti i toni del verde, letteralmente abbracciati dalle forme circolari che si intrecciano per creare la foresta più materna che si sia mai vista in un cartone animato, resa ancora più preziosa e mistica da quegli sprazzi d'oro che risollevano lo spirito; ci si fa conquistare dalla vivacità e dal rosso acceso dei capelli della deliziosa Mebh e si rimane ammutoliti e meravigliati quando, nelle sequenze notturne, il mondo di trasforma in un trionfo di pennellate di colore in movimento, che seguono il ritmo del cuore e della musica, altra grande protagonista di questo splendido Wolfwalkers. Tomm Moore non riuscirà nemmeno quest'anno a vincere l'Oscar, è scontato, ma spero vivamente che, conclusa la trilogia "irlandese", possa tornare a deliziarci con un altro dei suoi gioielli disegnati a mano, custodi di una tradizione che confido non venga mai abbandonata. 


Del co-regista e co-sceneggiatore Tomm Moore ho già parlato QUI. Sean Bean (Bill Goodfellowe) e Simon McBurney (Lord Protector) li trovate invece ai rispettivi link.

Ross Stewart è il co-regista e co-sceneggiatore della pellicola, al suo primo lavoro dietro la macchina da presa. Famoso come animatore, irlandese, ha 45 anni.


Se Wolfwalkers - Il popolo dei lupi vi fosse piaciuto non perdetevi ovviamente The Secret of Kells e La canzone del mare (lo trovate su Rakuten a un prezzo irrisorio). ENJOY!

venerdì 23 aprile 2021

Un altro giro (2020)

Il giro sta quasi finendo sì, e domenica notte sapremo chi si sarà aggiudicato le ambite statuette, ma io ho ancora qualche recupero da fare per gli imminenti Oscar, dove tra i candidati (per la miglior regia e  il miglior film straniero) c'è anche Un altro giro (Druk), diretto e co-sceneggiato nel 2020 dal regista Thomas Vinterberg.


Trama: un gruppo di insegnanti di scuola superiore decide di fare un esperimento e mantenere un costante livello di alcool nel sangue, per migliorare le loro relazioni interpersonali e le performance lavorative.


Forse guardare un film alcoolico durante lo stress da pandemia non è stata un'idea grandiosa, ché un minimo di tentazione nell'indulgere nell'esperimento di Martin e compagnia ci sarebbe, ma l'importante è prendere Un altro giro per quello che è. Non una celebrazione dell'alcool ma della vita, di quella quotidianità che spesso ci lasciamo scivolare addosso, seppellendo le poche fortune che ci sono state concesse sotto una pesantissima coltre di noia, stress, insoddisfazione personale, tristezza e chi più ne ha più ne metta, al punto da arrivare a vivere male (o, meglio, a NON vivere) senza quasi che ci sia un perché. Quest'anno è già il terzo film che vedo imperniato sull'argomento dell'insoddisfazione e dell'ennui: c'è stato Soul, c'è stato The Swerve (ma perché non candidate gli horror, porca la vostra miseria?), c'è per l'appunto Un altro giro, dove i personaggi fanno ricorso all'alcool per vedere se, effettivamente, con l'assunzione di quantità controllate le nostre capacità relazionali e lavorative possono migliorare arrivando a dare beneficio anche alla qualità della vita in generale. La risposta è nì. Sarà successo a tutti voi, se non siete astemi. Non è un mistero che essere un po' brilli ci renda più audaci ed entusiasti, piacevolmente incoscienti ed anche più pronti a cercare soluzioni creative ai problemi, oltre che rilassati, ma il limite tra leggermente brillo ed ubriaco rischia di scomparire nel giro di pochissimo e allora sono dolori; inoltre, non è sicuramente piacevole, per chi ci sta accanto e ci vuole bene, scoprire che possiamo vivere felici solo con l'ausilio di un po' di alcool in corpo, ché una dipendenza è tale anche se piccola ed innocua. A questo va aggiunta la volontà di Martin e soci di testare i loro limiti ricercando una giovinezza e una forza perdute, il che trasforma un esperimento piacevole in una discesa sempre più rapida verso il baratro dell'alcolismo, con tutto quello che ne consegue.


L'approccio di Vinterberg a questa celebrazione della vita, girata poco dopo la morte della figlia in un incidente stradale (il film è dedicato a lei), probabilmente è qualcosa in cui solo un abitante della penisola scandinava sarebbe potuto riuscire, soprattutto mantenendo un equilibrio così invidiabile tra tragedia e commedia, tra critica e indulgenza: il divertimento con cui il regista guarda alle bravate dei giovani danesi, che consumano la giovinezza vomitando e bevendo come se non ci fosse un domani, è pari al senso di imbarazzo che trapela dai filmati di repertorio in cui si vede, tra gli altri, Eltsin barcollare durante alcuni eventi ufficiali, e il destino di chi, ad una certa età, non riesce a reagire e ad aprire gli occhi, è definitivo e per nulla pietoso. Eppure, con tutti i loro pregi e difetti o forse proprio in virtù di questi ultimi, arriviamo a volere bene a questo quartetto di professori così umani ed imperfetti, a divertirci con loro nelle prime fasi dell'esperimento e a provare una forte dose di ansia quando il "gioco" comincia a fuggire di mano, fino ad arrivare a quella danza finale sulle note di What a Life che ci libera il cuore da tutti i fardelli e ci fa desiderare, stupidamente, di poter anche noi affrontare a testa alta tutti i problemi, almeno per qualche minuto, ballare assieme all'atletico Mads Mikkelsen e magari anche andarsi a fare un cicchetto assieme a lui, nonostante il volto granitico e lo sguardo scazzato. Provare per credere!


Di Mads Mikkelsen, che interpreta Martin, ho già parlato QUI.

Thomas Vinterberg è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Danese, ha diretto film come Festen - Festa in famiglia, La comune e Il sospetto. Anche attore e produttore, ha 52 anni.


Thomas Bo Larsen
interpreta Tommy. Danese, ha partecipato a film come Festen - Festa in famiglia, Il sospetto e a serie quali Il regno. Ha 58 anni.



martedì 20 aprile 2021

Shaun, Vita da Pecora: Farmageddon - Il Film (2019)

Vai a sapere perché, tra  i candidati alla miglior pellicola di animazione c'era anche Shaun, Vita da Pecora: Farmageddon - Il film (A Shaun the Sheep Movie: Farmageddon), diretto nel 2019 dai registi Will Becher e Richard Phelan.


Trama: una piccola aliena arriva per caso nella fattoria dove vivono Shaun e i suoi amici e tutti si adoperano per farla tornare a casa.


Viste le prime righe di post, non vorrei che pensaste che io abbia disprezzato Farmageddon, perché non è affatto vero. Anzi, è un film d'animazione delizioso, perfetto soprattutto per i più piccoli e divertente anche per i grandi, che potranno ridere scovando le millemila citazioni a film e serie di fantascienza che hanno fatto la storia del cinema e della televisione. Personaggi amatissimi come la scafata pecorella Shaun, la sua burbera nemesi Bitzer il cane e il padrone completamente ignaro di quello che succede nella fattoria, oltre a tutti gli altri animali, sono perfettamente a loro agio anche all'interno di una trama che sposta i confini della fattoria dalla città (come succedeva nel primo film) allo spazio e l'aggiunta del nuovo personaggino Lu-La è assai gradevole, anche perché l'amena alienetta alza di una spanna il livello di tenerezza già coperto dal pecorello Timmy e dispone di poteri e aggeggi capaci di mettere nei guai tutti quanti, rendendo Farmageddon non solo molto dinamico e scorrevole ma anche coloratissimo.


Però, ecco, non vorrei dire ma è un po' esile come pellicola, più che altro a livello di trama, già stravista in mille altre salse, e lo dimostra il fatto che arrivata a questo punto non so davvero più cosa scrivere su Farmageddon, mentre il primo film dedicato a Shaun the Sheep a mio avviso toccava temi un po' più profondi e meno sdoganati. Per carità, è giusto che venga dato un riconoscimento alla tecnica della stop motion, tra le più affascinanti che ancora resistono nel campo dell'animazione, alla faccia di tutte le opere realizzate al computer, tuttavia, visti gli altri candidati, Farmageddon mi sembra un po' un riempitivo in un anno che probabilmente è stato particolarmente privo di opere animate che non fossero di paternità Disney, Pixar o simili, con un Giappone sempre un po' lontano e altri Paesi che non vengono mai considerati salvo rare eccezioni. Ciò detto, lo ripeto, la visione di Farmageddon è stata piacevolissima e molto divertente, quindi lo consiglio tranquillamente a tutti, grandi e piccini!


Di Andy Nyman, che doppia il matto, ho già parlato QUI.

Will Becher è il co-regista della pellicola. Inglese, è al suo primo lungometraggio e ha diretto vari episodi della serie Shaun, vita da pecora. E' anche sceneggiatore, animatore e doppiatore.  

Richard Phelan è il co-regista della pellicola. Inglese, è al suo primo lungometraggio. Anche sceneggiatore, animatore e doppiatore, ha 39 anni.  


Se il film vi fosse piaciuto ovviamente recuperate Shaun, vita da pecora - Il film e la serie omonima. ENJOY!

venerdì 16 aprile 2021

Bad Luck Banging or Loony Porn (2021)

Su Miocinema è disponibile il vincitore dell'Orso d'Oro all'ultimo festival di Berlino, Bad Luck Banging or Loony Porn (Babardeala cu bucluc sau porno balamuc), diretto e sceneggiato dal regista Radu Jude.



Trama: dopo che un video porno che la vede assieme al marito viene accidentalmente caricato su internet, l'insegnante Emilia si ritrova a dover subire un processo sommario da parte di genitori furibondi...


L'ultimo film di Radu Jude, regista che io ovviamente non conoscevo, è proprio loony, come da titolo internazionale. L'argomento trattato è più attuale che mai, visti anche i recenti fatti di cronaca che hanno toccato l'ambiente scolastico italiano, tuttavia stavolta non si tratta di revenge porn, ancor più deprecabile, quanto della normale vita sessuale di due coniugi che hanno la sventura di portare ad aggiustare un PC da qualcuno che non si fa scrupoli a caricare su YouPorn il contenuto dell'hardware. A scanso di equivoci, Bad Luck Banging comincia davvero come un porno e non vi salti in mente di guardarlo con qualche pargolo in giro per casa, perché il video incriminato viene mostrato all'inizio della pellicola, con molta dovizia di particolari, e per tutto il film, soprattutto nel secondo capitolo, vi sono immagini di falli, vagine, seni e quant'altro mescolate ad episodi storici tra l'aberrante e il deprimente: il simbolo dell'ipocrita deriva della società, dove vengono accettate e ritenute "normali" le peggio cose (stragi, omicidi, povertà, divario sociale, razzismo, violenza sessuale, pedofilia e dittature, solo per citarne alcune) ma GUAI, come si diceva nei Simpson, se non si pensa ai bambini e a quello che potrebbe succedere dovessero anche solo pensare che la loro insegnante faccia S.E.S.S.O. La cultura cattolica "pancina", ovviamente, prevede che l'atto sessuale sia solo a livello procreativo, che non rechi piacere alcuno a chi in esso indulge (men che meno alla donna, ça va sans dire) e che una coppia dia comunque di sé un'idea assolutamente asessuata, altrimenti tocca visualizzare cosa potrebbe succedere nel talamo, ed è un attimo dimenticare i pregi scolastici di un'insegnante palesemente brava come educatrice quando la stessa viene immortalata mentre fa un pompino al marito. Davanti ad un simile affronto, l'ottima insegnante di storia diventa una troia fatta e finita (agli occhi degli uomini che però non si fanno scrupolo di sbavare guardando il video e a quelli delle donne, probabilmente invidiose della vita sessuale di Emilia, molto simili a quelle che davanti a ragazzine violentate dicono "se va vestita così, se l'è andata a cercare") e,  in quanto tale, incapace di insegnare e anzi, sicuramente persino sovversiva, piena di idee deleterie per la crescita equilibrata dei suoi studenti.  


Il processo ad Emilia, fulcro del terzo atto del film, è qualcosa di estremamente faticoso da guardare, perché non è difficile immaginare come quei dialoghi all'apparenza fuori da ogni logica siano parte fondante di ogni pettegolezzo sulle labbra della gente "bene", che arriva persino a negare di avere mai fatto sesso "in quel modo", come se fosse la cosa più orrenda del mondo, mentre non si preoccupa di nascondere il proprio razzismo e la propria ignoranza, difetti ben peggiori; al processo di Emilia ci sono rappresentanze per tutte le classi razziali e sociali, per tutti gli "ismi" moderni, uniti (nonostante la diversità) dall'odio verso un nemico comune e soprattutto dalla ferma volontà di seguire una visione univoca di "normalità", che ovviamente non prevede spazio per alcuna forma di ripensamento o pietà. Il finale è surreale e liberatorio, si conclude con un fermo immagine blasfemo ed esilarante, ed è un perfetto contrasto (nella sua struttura teatrale, più che cinematografica), di una prima parte praticamente priva di dialoghi e quasi documentaristica, che vede Emilia camminare per le strade di una Bucarest ferita, impegnata a spazzare macerie e difetti sotto il tappeto, vittima comunque di rigurgiti di squallore e maleducazione mentre la vita delle persone continua come se niente fosse, anche nel bel mezzo della pandemia di Coronavirus. Come ho scritto a inizio post, Bad Luck Banging or Loony Porn è loony davvero. Lo è nella struttura, nel modo in cui mescola stili diversi, per come spiazza lo spettatore abituato a narrazioni più lineari, per il tentativo di insegnare qualcosa e far aprire gli occhi su quel mondo che vediamo ogni mattina e che ormai diamo per scontato, dimenticando il passato e appiattendo ogni esperienza particolare e sprazzo di diversità, se non addirittura condannandole. Ecco, il film di Radu Jude è sicuramente un'esperienza particolare e anche solo per questo andrebbe visto, almeno una volta, senza troppi pregiudizi di sorta. Poi fatemi sapere com'è andata la visione!

Radu Jude è il regista e sceneggiatore della pellicola. Romeno, ha diretto film come The Happiest Girl in the World e Aferim!. Anche produttore, ha 44 anni.



martedì 13 aprile 2021

Saint Maud (2019)

In questi giorni ho recuperato anche il film vincitore al Tohorror Film Festival dell'anno scorso, Saint Maud, diretto e sceneggiato nel 2019 dalla regista Rose Glass.


Trama: l'ex infermiera Maud si incapriccia di Amanda, ex ballerina malata terminale, e cerca di convertirla al cattolicesimo..


Quest'anno, sarà forse per la pandemia, gli horror particolarmente pessimisti sono stati una marea e Saint Maud non fa eccezione. Subdola e priva di jump scare (quasi), interamente giocata su un terrore psicologico e su una protagonista "inaffidabile", l'opera prima di Rose Glass è una raffinata discesa nei meandri della psiche di una persona traumatizzata da eventi mortiferi accorsi in un passato recente (benché quali, di preciso, non sia mai dato sapere, in quanto meramente accennati in flashback e nelle parole pungenti e curiose di una ex collega di Maud) che ha deciso di cercare sollievo nella religione. Purtroppo, come spesso accade, religione e fragilità mentale sono un binomio terribile perché Maud è preda di quel fervore totalizzante che la convince di essere costantemente nella ragione, "fortunata" depositaria di un legame con Dio che coincide con momenti di estasi orgasmica e che funge da riempitivo per una vita altrimenti solitaria, miserabile e squallida. Maud non ha amici, non ha famiglia, è stata cacciata dall'ospedale dove lavorava ed è stata costretta a reinventarsi infermiera a domicilio; il suo unico sollievo è proprio questo contatto diretto con Dio, che la porta ovviamente a cercare una missione, un modo per rendersi degna del Suo sguardo, nella fattispecie cercare di convertire l'ex ballerina e coreografa Amanda, la quale è all'ultimo stadio di una malattia incurabile e, soprattutto, è una peccatrice convinta che fuma, beve e fa sesso a pagamento con una donna più giovane di lei. Gli sforzi di Maud sono angoscianti quanto la vita che conduce, costantemente sospesa tra realtà e deliri mistici, ogni passo mosso col desiderio di sacrificarsi nel nome di un Dio benevolo ma severo, che la mette costantemente alla prova: non c'è gioia nella Fede di Maud, c'è solo il completo annullamento di una persona triste che, forse, è stata persino ingannata.


Saint Maud
, infatti, gioca anche su una doppia ambiguità. Personalmente sono convinta che tutto ciò che viene mostrato nel film sia frutto della mente di Maud, come si intuisce dallo splendido finale, eppure c'è quel prefinale in cui la regista ci mette davanti alla possibilità che Maud sia guidata, non verso la salvezza ma verso la rovina, da un'entità che ha preso la sua Fede pervertendola nel peggiore dei modi, con tutte le conseguenze del caso. A mio avviso entrambe le ipotesi funzionano e sono ugualmente affascinanti, cosa che rende Saint Maud ancora più prezioso e sfaccettato, nonostante la pesantezza che lo permea. Non è facile seguire le peripezie di Maud. Il personaggio interpretato da un'intensa Morfydd Clark non offre alcun appiglio per l'empatia dello spettatore, nonostante la sua incredibile solitudine e la commovente, "imbarazzante" sequenza ambientata nei vari pub, anzi, verrebbe spesso voglia di prenderla a schiaffi come accade con tutti i ferventi invasati convinti che la religione sia l'unica risposta e che bisognerebbe imporla a chiunque. Purtroppo, anche il microcosmo di persone che circonda Maud non è fatto di simpaticoni, ciò vale per Amanda in primis, e tutto lo squallore di un'umanità egoista e piccina si ripercuote su una fotografia cupa, su ambienti opprimenti (sia che si tratti della magione di Amanda, dello sporco appartamento di Maud e persino della cittadina di riviera in cui vivono le due) e attori dall'apparenza dimessa. Ovviamente, è proprio questo pessimismo globale che mi ha fatta urlare alla meraviglia e a consigliare Saint Maud in quanto film da non perdere assolutamente, con la speranza che Rose Glass continui su questa strada. 


Di Jennifer Ehle, che interpreta Amanda, ho già parlato QUI.

Rose Glass è la regista e sceneggiatrice della pellicola, al suo primo lungometraggio. Inglese, ha 31 anni.


Morfydd Clark
interpreta Maud. Svedese, ha partecipato a film come PPZ: Pride and Prejudice and Zombies, Amore e inganni, Crawl - Intrappolati e a serie come Dracula. Ha 31 anni. 



domenica 11 aprile 2021

Il sabba (2020)

Spinta dalle recensioni positive di alcuni amici su Facebook, ho finalmente recuperato anche io Il sabba (Akelarre), diretto e co-sceneggiato nel 2020 dal regista Pablo Agüero e distribuito su Netflix.


Trama: in un paesino basco del 1600 alcune ragazze vengono accusate di stregoneria e condannate al rogo. Per prendere tempo, una di loro convince l'inquisitore ad assistere a un vero Sabba...


Nonostante la fiducia riposta nei miei amici che su Facebook si intendono davvero di cinema, non come la sottoscritta, ammetto di avere avuto un po' di ansia a guardare Il sabba, soprattutto a propinarlo a Mirco, il quale poverello in questi giorni si è messo le mani nei pochi capelli davanti a molti dei film visionati per l'Oscar, definendoli "ammorbanti" (effettivamente gli ho fatto subire Ma' Rainey e One Night in Miami, come faccio a dargli torto?). Fortunatamente Il sabba ammorbante non è, anzi, se dovessi scegliere un solo aggettivo lo definirei affascinante come Amaia Aberasturi, una delle ragazze che interpretano le fanciulle inquisite, la "protagonista", si potrebbe dire, di sicuro colei che cattura per buona parte del film l'occhio dello spettatore e anche dell'inquisitore, che si ritrova vittima di un potere più grande di lui. L'ignoranza e la paura sono infatti armi a doppio taglio, utili sicuramente per colpire le persone più deboli, ma cosa succede quando i deboli decidono di alimentare queste due emozioni in un disperato tentativo di riottenere la libertà, facendo leva sulla natura predatoria e superba di un certo tipo di uomo? L'inquisitore Rostegui, irreprensibile e timorato di Dio, con le sue domande trabocchetto e la volontà di tramandare ai posteri tutto l'orrore dei sabba e dei vili incantesimi delle presunte streghe, non può fare altro che rimanere letteralmente ipnotizzato quando una di loro decide di dargli quello che vuole e di trasformare momenti di innocente libertà assoluta nell'idea di perversione femminile che purtroppo molti uomini anche al giorno d'oggi hanno e che, alternativamente, li porta o a violare quella libertà prendendosela con la forza, oppure ad annullarla a causa di un' orribile forma di invidia e gelosia.


Eppure, nonostante le voglie represse di Rostegui e la sua natura di persona immonda, ogni azione di Ana viene compiuta per amore, non per rappresaglia nei suoi confronti, amore verso le giovani compagne di quotidiane scorribande, fatte di danze nelle radure, di segreti da confessare, di prime palpitazioni, di una comunione con la natura e le tradizioni di una terra ovviamente definita "ignorante" dagli inquisitori, perché fanno a pugni con ciò che gli uomini e la religione si aspettano dalle donne. E così Il sabba diventa un'ottima metafora per molte, deprecabili situazioni odierne, ma non solo. E' anche un validissimo film di genere, inquietante per il modo in cui ci porta a scoprire a poco a poco l'orribile destino delle condannate, interamente giocato su un'ambiguità di fondo per cui non è mai detto al 100% che Ana e le altre non siano streghe, e con un finale che viene lasciato alla libera interpretazione dello spettatore. Inoltre, per essere una produzione spagnola finita su Netflix, gode di attrici bravissime, di una bella regia, di un montaggio serrato e vivacissimo, e soprattutto di una fotografia splendida, che trasformano la sequenza che dà il titolo al film in un delirio visivo esaltantissimo, fatto di corpi che si contorcono in mezzo alle fiamme dell'inferno al ritmo di una melodia antica e liberatoria. Una pellicola come questa, da sola, dà senso all'intero abbonamento Netflix, datemi retta e recuperatela!

Pablo Agüero è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Argentino, ha diretto film come Eva no duerme. Anche produttore, ha 44 anni.


Se Il sabba vi fosse piaciuto recuperate The VVitch (anche questo disponibile su Netflix). ENJOY!

venerdì 9 aprile 2021

Judas and the Black Messiah (2021)

Altro giro di Oscar, altro regalo. Esce oggi sulle varie piattaforme di streaming Judas and the Black Messiah, diretto e co-sceneggiato dal regista Shaka King e candidato a ben 6 statuette (Miglior Film, Daniel Kaluuya e Lakeith Stanfield migliori attori non protagonisti, Miglior Canzone Originale, Miglior Sceneggiatura Originale, Miglior Fotografia).


Trama: Billy O'Neal è un ladruncolo di colore che, per evitare il carcere, viene costretto dall'FBI ad infiltrarsi nelle Pantere Nere di Chicago e avvicinarsi a Fred Hampton, il presidente della sezione.


Io non capisco se quest'anno non sono dell'umore per i biopic oppure se la gente (e non parlo solo di quelli che hanno riversato mille candidature su Judas and the Black Messiah e One Night in Miami, ma anche degli spettatori che si sono profusi in lodi) si impegna a trovare questi film splendidi per paura di risultare razzista, ma anche la pellicola di Shaka King ha messo a dura prova la mia capacità di attenzione e, per dirla semplicemente, "mi ha lasciata come mi ha trovata", quindi adesso mi sento anche un po' scema ed ignorante. Quest'ultimo aggettivo in particolare mi turba perché, di base, guardando Judas and the Black Messiah uno rischia di non imparare davvero nulla sul movimento delle Pantere Nere e sul leader del ramo di Chicago, il giovanissimo Fred Hampton. Con tutto il bene che voglio a Daniel Kaluuya, che ha messo tutto se stesso nel personaggio e si vede, l'attore ha 32 anni mentre Hamtpon ne aveva 21 quando è morto, il che è sconvolgente. Vero, i tempi sono cambiati così come la percezione dell'età anagrafica, e di certo un ventunenne nero nell'America razzista degli anni '60 non poteva essere imbecille come un ventunenne attuale, ma il pensiero che a fare la rivoluzione (non "giocare", è diverso) razziale e sociale dell'epoca, imbracciando fucili ed idee politiche radicali che nel film vengono appena accennate, fossero dei ragazzini stravolge tutta la percezione di un film che punta più sugli slogan vuoti e sulla natura di agitatore di masse di Fred Hampton, nonché sulla love story più sciapa del mondo, che sull'offrire un ritratto a tutto tondo del suo giovane e sicuramente incredibile protagonista.


Non è un caso, per l'appunto, che sia Billy O'Neal, il Giuda del titolo originale, a focalizzare maggiormente le attenzioni del pubblico, tanto che gli attori sono stati candidati entrambi come Non Protagonisti per par condicio. Ma, anche lì, Billy O'Neil non era uno scafato ladro di auto trentenne con atteggiamenti da pimp, era un teenager di 17 anni che si è ritrovato in una storia più grande di lui e che ha fatto quel che ha fatto (attenzione: non è certo che abbia avvelenato lui Hampton, come invece viene mostrato nel film) probabilmente spinto da un mix di paura, esaltazione, incoscienza e Dio solo sa quante altre emozioni, emozioni che traspaiono in maniera molto blanda da Lakeith Stanfield, affidate giusto a qualche atteggiamento spavaldo, qualche "fuck" di troppo e alcuni scambi zeppi di cliché attraverso i quali si sviluppa il rapporto con l'agente Roy Mitchell, "buono" costretto dai mala tempora ad inghiottire in silenzio tutto il razzismo dell'FBI e ad agire come vogliono i superiori. A questo stravolgimento "anagrafico", che rende i personaggi più belli, patinati e maturi di quanto non fossero, si aggiungono una messa in scena e una scrittura "piacevoli" e prive di difetti, che concorrono a rendere digeribile un capitolo controverso della lotta sociale nera anche al pubblico bianco, mostrando le Pantere come un gruppo inclusivo (c'è pure la parentesi coi personaggi gay, scritti su un foglio di carta velina) di benefattori col vizio di atteggiarsi un po' da guappi e di inneggiare alla lotta armata, con un capo che, dietro tutti i paroloni e gli atteggiamenti minacciosi, è un pupazzetto dolciotto bisognoso d'amore. La morte su schermo di Hampton si priva così della sua valenza tragica, di giovane carismatico falciato dalla manazza del Governo spaventato e razzista, e quella di O'Neil, apparentemente suicidatosi dopo la sua prima intervista televisiva all'età di 40 anni, viene relegata alla solita riga di spiegazioni prima dei titoli di coda ma il suo senso di colpa, se mai c'è stato, non viene quasi mai trasmesso allo spettatore. Insomma, anche stavolta, un film che dimenticherò nel giro di una settimana e che spero vivamente non porti a casa neppure una delle troppe statuette per cui è candidato. 


Di Daniel Kaluuya (Fred Hampton), Lakeith Stanfield (Billy O'Neal), Jesse Plemons (Roy Mitchell), Martin Sheen (J. Edgar Hoover) e Robert Longstreet (Leslie Carlyle) ho già parlato ai rispettivi link.

Shaka King è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto anche un altro film, Newlyweeds. Anche produttore e attore, ha 41 anni.


Se Judas and the Black Messiah vi fosse piaciuto, recuperate Il processo ai Chicago 7. ENJOY! 

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