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mercoledì 29 giugno 2022

Elvis (2022)

Dopo settimane di assenza, sono tornata al cinema per godermi l'ultimo film diretto e co-sceneggiato da Baz Luhrmann, Elvis.

Trama: Il colonnello Tom Parker, imbonitore di Vaudeville, scopre per caso il giovane Elvis Presley e da quel momento ne condiziona l'esistenza, nel bene e nel male...

La "cultural opera" di Baz Luhrmann è finalmente arrivata in Italia ed era uno di quei film che, nonostante conosca poco l'argomento trattato, non vedevo l'ora di guardare. Poiché ci ha messo le mani il barocco Baz, Elvis non è il solito biopic fatto a mo' di compitino per gli Oscar (anche se qui materiale per eventuali statuette ce ne sarebbe) e, benché segua comunque il tipico canovaccio del genere, riesce a sorprendere almeno chi non conosceva la storia di Elvis Aaron Presley. Innanzitutto, la vita del più famoso e iconico rocker del mondo viene raccontata da una voce narrante non proprio gradevole, ovvero quella del suo discusso e discutibile manager, il Colonnello Tom Parker. Esponente di una generazione antiquata e legata al vaudeville e ai circhi itineranti, il Colonnello Parker non rifiuta di vedere il progresso rappresentato da Elvis, anzi, lo cavalca e ne approfitta prevedendone in qualche modo il brillante futuro, eppure il suo modo di gestire le cose è molto simile a quello del padrone di un circo di freaks. Il giovanissimo Elvis, gallina dalle uova d'oro se mai ce n'è stata una, diventa per Parker la merce preziosa da blandire, curare e proteggere, dandogli un'illusione di libertà che non può esulare da un guinzaglio assai corto e da un controllo pressoché totale. Il circo di Elvis era, ed è rimasto per tutta la sua vita, l'America scossa da tragedie, guerre, movimenti civili, un circo zeppo di cambiamenti continui che, di conseguenza, il Colonnello Parker ha tentato di restringere sempre più, fino a confinare Elvis nella città senza tempo per eccellenza, Las Vegas, dove in effetti il mito di Elvis si è cristallizzato per arrivare intonso fino ai nostri tempi, con immagini e mise facilmente riconoscibili anche dai non appassionati. Se l'artefice principale del successo di Elvis è anche il villain della storia narrata, Luhrmann sta bene attento a non santificare Elvis e ce lo consegna con tutte le sue fragilità ed ingenuità da ragazzo di campagna cresciuto troppo in fretta, da uomo folgorato dall'amore per la musica a prescindere da razza, sesso ed età, al punto da farne la sua unica ragione di vita, ma ne viene sottolineata anche la debolezza di carattere che portava l’artista ad alzare le testa per pochi, importanti istanti, prima di soccombere nuovamente ai consigli fraudolenti (o all’incapacità) di chi più di tutti avrebbe dovuto tutelarlo.

L'aspetto apprezzabile di Elvis è la scelta degli sceneggiatori di non indulgere (come sarebbe stata prassi per un biopic strappalacrime) nella fase di declino dell'artista, cosa che avrebbe rischiato di trasformare il film in un polpettone strappalacrime su un ciccione strafatto, bensì di dare maggior spazio all'aspetto meno universalmente conosciuto del cantante. Prima di diventare l'icona "kitsch" di Las Vegas, Elvis è stato infatti il trait d'union tra la musica nera e il country dei bifolchi bianchi, un elemento di ribelle, pericolosa instabilità in un'epoca di contestazioni civili e pesantissime tensioni razziali. La natura universale della sua musica suscita ammirazione tanto quanto provocano sgomento gli arresti e i tentativi di censura, e commuove la vista di un Elvis pronto a cantare alla Nazione nei momenti più neri di quest'ultima mentre attorno a lui si mobilitano interessi economici pronti a schiacciarlo e zittirlo. Il declino di cui sopra viene compresso nel finale e ridotto a pochi episodi fondamentali che lasciano tuttavia spazio alle immagini reali di una delle ultime esibizioni di Elvis, gonfio e praticamente immobile ma ancora dotato di una voce fenomenale e della capacità di mettere cuore ed anima nell’esibizione, elemento, quest’ultimo, che caratterizza tutti gli splendidi numeri musicali di cui il film è costellato, nonostante Elvis non sia un musical, e che condiziona lo stile con cui è stata confezionata la pellicola. 

A fronte di un comparto tecnico fenomenale, soprattutto a livello di costumi e scenografie, che rimane costante dall’inizio alla fine, la regia di Baz Luhrmann e il montaggio si modificano adattandosi alle varie fasi della carriera di Elvis. L’inizio, frenetico e scoppiettante, dove ciò che vediamo è filtrato dapprima dallo stupore e poi dalle macchinazioni del Colonnello Parker, e in buona parte influenzato dalla natura anticonformista degli artisti che hanno contribuito alla formazione del Re del Rock, al punto che molto spesso i giri di macchina e il montaggio seguono il ritmo della musica, lascia a poco a poco spazio ad uno stile più lineare, quasi “banale”, che torna tuttavia a stupire ogni volta che Elvis sceglie di abbracciare nuovamente la sua anima ribelle, la musica, il pubblico, “staccandosi” letteralmente dai prosaici problemi terreni di soldi, contratti e merchandising. Per quanto riguarda la musica, hit del passato si mescolano all'omaggio di artisti presenti, in un continuo alternarsi di stili ed epoche che, giustamente, sottolineano come senza Elvis, B.B. King, Little Richards e gli altri esponenti della loro generazione, non esisterebbe la maggior parte dei generi odierni, rap e trap compresi, e come la musica non abbia epoca né confini, come ci insegna da anni Luhrmann. Assai coinvolgenti anche le interpretazioni non solo di Austin Butler, perfetto nei panni di un Elvis bello, fragile e sensuale, pronto a regalare una performance capace di superare l'imitazione fine a sé stessa nonostante le tipiche mosse del Re siano riproposte in maniera quasi filologica, ma soprattutto quella di Tom Hanks, finalmente distante dal ruolo di vicino buono della porta accanto; il Colonnello Perkins è un abietta macchia di muffa nel salotto, un falso voltagabbana della peggior specie, e al di là del trucco sotto cui è sepolto sono proprio gli occhi e gli atteggiamenti di Hanks a veicolare tutto lo schifo che dovevano provare per Perkins i pochi che ancora avevano occhi per vedere oltre il bagliore del lusso e dei soldi da spremere a Elvis. In definitiva, direi quindi che Elvis mi è piaciuto molto: non siamo ai livelli di Moulin Rouge o Romeo + Juliet, ci mancherebbe, ma di sicuro l'ho apprezzato molto più de Il grande Gatsby, quindi vi consiglio di correre a vederlo!

Del regista e co-sceneggiatore Baz Luhrmann ho già parlato QUI. Tom Hanks (Colonnello Parker), David Wenham (Hank Snow), Olivia DeJonge (Priscilla), Kelvin Harrison Jr. (B.B. King) e Kodi Smit-McPhee (Jimmie Rodgers Snow) li trovare invece ai rispettivi link. 

Austin Butler interpreta Elvis Presley. American, ha partecipato a film come Yoga Hosers, I morti non muoiono, C'era una volta... a Hollywood e a serie quali Hannah Montana, CSI: Miami e CSI: NY. Anche, ha 31 anni e un film in uscita, Dune - Part Two.


Richard Roxburgh
interpreta Vernon. Australiano, ha partecipato a film come Moulin Rouge, La leggenda degli uomini straordinari, Van Helsing, Mission: Impossible II e La battaglia di Hacksaw Ridge. Anche sceneggiatore, produttore e regista, ha 60 anni e un film in uscita.


Dacre Montgomery
interpreta Steve Binder. Australiano, famoso per il ruolo di Billy in Stranger Things, ha partecipato a film come Better Watch Out. Anche regista, sceneggiatore e produttore, ha 28 anni.


Ansel Elgort, Miles Teller, Aaron Taylor-Johnson e Harry Styles hanno sostenuto il provino per il ruolo di Elvis, mentre Maggie Gyllenhaal e Rufus Sewell erano stati presi per il ruolo dei genitori del cantante ma hanno dovuto rinunciare per altri impegni dopo che la produzione si era interrotta a causa del Covid. Ciò detto, se Elvis vi fosse piaciuto recuperate Rocketman e Bohemian Rhapsody. ENJOY! 

martedì 30 maggio 2017

Pirati dei Caraibi - La vendetta di Salazar (2017)

Si dice "chi disprezza compra". Seguendo questa vecchia massima, nonostante la faccia di Johnny Depp mi istighi ormai solo violenza, domenica sono andata a vedere Pirati dei Caraibi - La vendetta di Salazar (Pirates of the Caribbean: Dead Men Tell No Tales), diretto dai registi Joachim Rønning ed Espen Sandberg.


Trama: per cercare di liberare il padre dalla maledizione, il figlio di Will Turner si mette in cerca del pirata Jack Sparrow. Purtroppo, alle calcagna di Jack c'è anche una ciurma di fantasmi al soldo del capitano Salazar...


Potrei ripetermi e tornare a usare le stesse parole scritte per Pirati dei Caraibi: Oltre i confini del mare, uscito ormai sei anni fa: "Se, come me, avete già visto i primi tre episodi della saga dedicata allo strepponissimo Capitan Sparrow questa recensione vi servirà a poco, perché sapete già a cosa andate incontro con La vendetta di Salazar. Inutile che la gente dica “è meno bello dei precedenti episodi”, “ha stufato”, o altre simili amenità. Sono tutte balle. La formula che ha decretato il successo dei primi tre film non è assolutamente cambiata: se avete apprezzato i film precedenti vi piacerà molto anche questo, salvo il fatto che Jack Sparrow potrà avervi stufato, ma questo è affar vostro, o di Johnny Depp al limite". Ma scriviamo anche due righe nuove, vah. Il franchise Pirati dei Caraibi è tornato e intende rimanere col pubblico pagante almeno per un altro episodio e l'unica cosa che potrei aggiungere alle righe copiate quasi pedissequamente dal post precedente è che, a differenza di Oltre i confini del mare, La vendetta di Salazar è molto più legato alla prima trilogia e apre la strada per una possibile ulteriore tripletta con quegli stessi personaggi che erano venuti a mancare nel quarto capitolo. Per il resto, gli ingredienti che compongono la tranquilla, prevedibile sceneggiatura della pellicola sono sempre gli stessi da ormai dieci anni: avventura a palate, tesori da cercare, nemici sovrannaturali da sconfiggere, fughe rocambolesche della ciurma di Jack Sparrow, un pizzico di sentimento, Hector Barbossa che ruba la scena a tutti gli altri personaggi nonostante la storyline zeppa di cliché che lo riguarda e, ovviamente, Johnny Depp che fa quello che gli riesce meglio, ovvero faccette schifate e camminata da ubriacone, probabilmente ciò che lo caratterizza anche nella vita reale ormai. Accantonati gli intrighi arzigogolati del secondo e del terzo capitolo della saga, Pirati dei Caraibi si è assestato ahimé su una formula un po' più semplice già sdoganata col quarto episodio ma stavolta perlomeno i personaggi nuovi sono abbastanza interessanti (almeno per il tempo di durata del film) e la trama non è interamente incentrata sulla cialtroneria di Sparrow, ridotto a poco più che un elemento comico con l'aggiunta di un flashback che, se devo dirla tutta, fa venire voglia di rivedere in azione il Capitano prima che l'alcool gli spappolasse il cervello, così da poter tornare finalmente ad avere un protagonista degno di nota.


Sulla storia in sé c'è davvero poco altro da dire, adesso cominciano le note dolenti. Gore Verbinski non è mai stato visionario come Lynch ma era comunque un regista con molte cose da dire e da mostrare, Rob Marshall era invece un buon mestierante, per quanto un po' anonimo; Joachim Rønning ed Espen Sandberg funzionano per quel che riguarda le scene d'azione in diurna e alcune sequenze ambientate in mare (molte riprese in esterni sono state effettuate in Australia, quindi tanta roba) ma sono sostenuti da un reparto effetti speciali a mio avviso orrendo e da una fotografia non all'altezza, soprattutto nelle scene notturne. I fantasmi guidati da Javier Bardem sanno di posticcio lontano un chilometro e c'è un'ingerenza talmente grande per quel che riguarda il digitale da far venir voglia di piangere come si dice abbia fatto Ian McKellen durante le riprese della trilogia de Lo Hobbit, quegli squali "pompati" anche durante le anteprime poi non si possono davvero guardare e non fatemi parlare dei flashback, con un imbarazzante Johnny Depp di plastica. Ma che ne so io, di regia ed effetti speciali? Parliamo degli attori. Johnny Depp, come ho detto, porta a casa la pagnotta e così per tutti i recurrent (tolti i due che passano a battere cassa, soprattutto UNA, vergogna. I fan comunque possono attendere la fine dei titoli di coda e la scena post credit), con menzione speciale per il signorile Geoffrey Rush penalizzato solo da quella voce da pupazzo Four che hanno deciso, chissà perché, di appioppargli in Italia. Allo stesso modo, Bardem secondo me avrebbe potuto essere mille volte più figo se ascoltato in lingua originale, mentre i due giovinetti Brenton Thwaites e Kaya Scodelario sono molto carini: il primo ha perso un po' di quell'espressione ebete che lo fiaccava negli altri film da lui interpretati, la seconda ha le carte in regola per sfondare in questo tipo di film e sicuramente fa una figura molto migliore rispetto alla blasonata Penélope Cruz, che come figlia di Barbanera era davvero improponibile. Con tutti i suoi difetti, mi tocca comunque dire che La vendetta di Salazar fa il suo dovere di intrattenimento senza troppe pretese e che la saga Pirati dei Caraibi rimane sempre un appuntamento simpatico, nonostante continui a preferire i pirati di Eiichiro Oda, quelli sì davvero emozionanti e imprevedibili!


Di Johnny Depp (Jack Sparrow), Javier Bardem (Capitan Salazar), Geoffrey Rush (Hector Barbossa), Brenton Thwaites (Henry Turner), Kevin McNally (Gibbs), David Wenham (Scarfield), Stephen Graham (Scrum), Martin Klebba (Marty), Orlando Bloom (Will Turner) e Keira Knightley (Elizabeth Swann) ho già parlato ai rispettivi link.

Joachim Rønning è il co-regista della pellicola. Norvegese, ha diretto film come Bandidas e Kon-Tiki. Anche sceneggiatore e produttore, ha 45 anni e un film in uscita.


Espen Sandberg è il co-regista della pellicola. Norvegese, ha diretto film come Bandidas e Kon-Tiki. Anche produttore, ha 46 anni e due film in uscita, tra cui Pirates of the Caribbean 6.


Come guest star compare Paul McCartney nei panni dello zio di Jack Sparrow. Come ho già detto più volte nel corso del post, La vendetta di Salazar è il quinto capitolo di una saga che comprende La maledizione della prima luna, Pirati dei Caraibi: La maledizione del forziere fantasma, Pirati dei Caraibi: Ai confini del mondo e Pirati dei Caraibi: Oltre i confini del mare quindi se il film vi fosse piaciuto recuperateli tutti e aspettate il sesto capitolo! ENJOY!


domenica 12 febbraio 2017

Lion - La strada verso casa (2016)

Me l'ero perso al cinema per vari motivi ma in previsione della Notte degli Oscar ho recuperato Lion - La strada verso casa (Lion), diretto nel 2016 dal regista Garth Davis, tratto dall'autobiografia La lunga strada per tornare a casa di Saroo Brierly e nominato per sei Oscar (Miglior Film, Dev Patel Miglior Attore Non Protagonista, Nicole Kidman Migliore Attrice Non Protagonista, Miglior Sceneggiatura Non Originale, Miglior Fotografia e Miglior Colonna Sonora Originale).


Trama: il piccolo Saroo, nato e cresciuto in un villaggio sperduto dell'India, rimane bloccato su un treno e si perde a Calcutta dopo aver percorso 1600 chilometri. Dopo alterne vicende viene adottato dai coniugi Brierley e portato in Australia ma, crescendo, decide di ritrovare la madre e il fratello...



Chissà dove sarebbe finito Proust se invece di una madeleine avesse addentato un jalebi? Probabilmente da un cerusico dell'epoca, col palato offeso da un cibo simile, mentre invece il protagonista di Lion viene soverchiato dai ricordi di un passato sepolto per trent'anni e si ritrova a cominciare la sua Ricerca del tempo perduto con l'ausilio indispensabile di Google Earth. Tié, Proust, beccati questa! Quest'introduzione al limite dell'imbecillità è messa per dissimulare il fatto che Lion, neanche a dirlo, mi ha ridotta ad uno straccio lacrimante, soprattutto nella prima parte del film, interamente dedicata alle disavventure del piccolo Saroo, separato dalla famiglia e perso nell'immensa Calcutta, dove tra rapitori di bambini, pedofili e miseria non si sa davvero quale sia la minaccia peggiore per un bimbo di soli cinque anni. La sceneggiatura di Lion - La strada verso casa costruisce il film non come un flashback ma come la storia di Saroo dal fatale giorno in cui si è ritrovato solo sul treno all'incontro con i futuri genitori, per poi focalizzarsi dopo un salto temporale sul ragazzo ormai adulto, improvvisamente ossessionato dai ricordi della famiglia lasciata in India e roso dal senso di colpa all'idea che madre e fratello lo stiano ancora cercando; la seconda parte del film si sviluppa come la storia di una ricerca forsennata, di un'ossessione durata anni, al prezzo della distruzione di un'armonia familiare faticosamente raggiunta, e sebbene meno commovente della prima è comunque impreziosita da alcuni momenti intensi legati al rapporto tra Saroo e la madre adottiva e, ovviamente, alla risoluzione dell'intera vicenda. Al di là della storia personale del protagonista, ho molto apprezzato come Lion faccia riflettere intensamente su questioni come l'adozione e l'importanza che essa può avere per bambini che hanno avuto la sfortuna di nascere in luoghi poveri o malsani. Indubbiamente, la famiglia originale di Saroo lo amava molto ma quale futuro avrebbe avuto il bambino se non avesse avuto la "sfortuna" di salire su un treno e andare lontano, se non avesse incontrato i Brierley e se Sue, nonostante la possibilità di avere figli suoi, non avesse scelto consapevolmente di dare amore e possibilità infinite a due dei migliaia di bimbi costretti a vivere negli orfanotrofi di tutto il mondo?


Per quanto possa sembrare un film stucchevole, costruito a tavolino per racimolare Oscar che probabilmente e (forse) giustamente non vincerà mai, già solo il fatto che spinga lo spettatore a porsi questo genere di domande lo rende ai miei occhi un film onesto e meritevole di venire apprezzato, nonostante la regia semplice e "classica" o qualche eccesso di retorica. C'è da dire inoltre che la prima parte di Lion ha una potenza cinematografica che è raro trovare al giorno d'oggi, soprattutto se si pensa che per almeno un'ora la pellicola è recitata in dialetto hindi e bengali e poggia quasi interamente sulle piccole spalle del grandissimo Sunny Pawar, un bimbo dallo sguardo talmente intenso e dal faccino così tenero che è impossibile non lasciarsi trasportare dalle sue terribili vicende. La seconda parte, come ho detto, è più "banale", se mi passate il termine: Dev Patel è molto bravo nel ruolo del Saroo adulto e Nicole Kidman, pur avendo ben poche scene a disposizione, regala una delle interpretazioni più intense e belle di questi ultimi anni in cui la sua stella pareva essersi un po' offuscata, soprattutto durante il confronto finale tra Sue e Saroo, commovente ed intelligente. Meno bene Rooney Mara, costretta invece nell'inutile personaggio di Lucy che, in pratica, altro non è che un amalgama di tutte le fidanzate che hanno accompagnato il vero Saroo nella ricerca della sua famiglia, probabilmente messo lì per dare un valore ancora più positivo al protagonista ma in definitiva assolutamente non necessario (ma davvero al giorno d'oggi per accentuare la moralità adamantina di una persona bisogna mostrarlo per anni con la stessa ragazza? Mah.). Peccato, perché Rooney Mara mi piace tantissimo e solitamente sceglie i suoi ruoli con maggiore oculatezza. A parte questo dettaglio, Lion - La strada verso casa è un film intenso e commovente che merita una visione; non so se dopo averlo visto vi sentirete meglio ma a me è tornata un po' di speranza nei confronti dell'umanità intera!


Di David Wenham (John Brierley), Nicole Kidman (Sue Brierley) e Rooney Mara (Lucy) ho già parlato ai rispettivi link.

Garth Davis è il regista della pellicola. Australiano, ha diretto prevalentemente serie TV a me sconosciute. Ha un film in uscita.


Dev Patel interpreta Saroo Brierley. Inglese, ha partecipato a film come The Millionaire, L'ultimo dominatore dell'aria, Marigold Hotel e Ritorno al Marigold Hotel. Anche produttore, ha 27 anni e un film in uscita.




venerdì 24 aprile 2009

300 (2007)

In questo periodo sto guardando davvero un sacco di film ma il tempo per recensirli è sempre meno.

Ho festeggiato la domenica di Pasqua guardando, dopo mesi di consigli e recensioni altrui, 300 di Zack Snyder, tratto dall’omonima graphic novel di Frank Miller, spinta anche dall’indubbia bellezza di Watchmen. Che dire, si agitano in me opinioni contrastanti…

 



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La trama, come ben mi disse l’amico Toto: “Quale vuoi che sia? E’ storia”. Per gli ignoranti come me che non la conoscessero si parla della battaglia delle Termopili, avvenuta nel 480 a.C. tra gli Spartani, appunto 299 uomini guidati dal prode guerriero Leonida (e con questo fanno 300), e l’enorme esercito del grande re Serse che vorrebbe sottomettere il regno di Sparta. Inutile dire che la battaglia, nonostante gli inaspettati successi, può avere un solo esito, anche grazie al patetico gobbo Efialte.

 



300




Questo è uno di quei film che riesce ad essere artistico, epico e trash al tempo stesso. E’ innanzitutto un film assai “visivo”, giustamente. Non avendo mai letto la graphic novel non posso essere certa che, come in Sin City, ogni scena riprenda la sua gemella nel fumetto: certo è, però, che ogni singolo fotogramma della pellicola è curato fin nel minimo dettaglio, grazie anche ad un uso della computer graphic che, pur essendo assai invadente, crea comunque delle immagini che sono indimenticabili.

I colori sono molto intensi, predominano ovviamente il rosso del sangue ed il nero delle armi e delle frecce. Gli sfondi sono uno splendore come le scene di battaglia, meravigliosamente coreografate pur nella loro rozzezza (non è un film alla “Hero” o “La foresta dei pugnali volanti” ma l’immagine del cielo oscurato dalle frecce non ha nulla da invidiare a questi due capolavori). L’aggettivo che mi veniva in mente mentre guardavo il film era “caravaggesco”: gli sguardi intensi dei guerrieri, l’intensità del contrasto tra luce ed ombra, la violenza delle immagini continuava a richiamarmi Giuditta e Oloferne. E anche la scena finale ricorda molto più un martirio dell’iconografia cristiana, un San Sebastiano, piuttosto che un eroe greco.

 



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La trama di per sé è semplice ma, come ben ho detto, non è molto importante quella. Alla fine la pellicola è una sequela ininterrotta di battaglie, condita da qualche risvolto legato al tradimento e al sesso, che sia quello legato all’amore di una moglie, che sia quello libidinoso di vecchi oracoli o quello più orgiastico di Serse e della sua corte. Quello che conta è la retorica di Leonida, la rappresentazione della fierezza di questi guerrieri che si battono per la libertà consapevoli che, se anche loro dovessero venire sconfitti, il loro esempio verrà seguito da tutti i popoli liberi del mondo allora conosciuto. Come film ricorda molto il Gladiatore, le musiche sono assai simili e anche il destino del protagonista, così distaccato all’apparenza, legato al suo ruolo ma in verità animato da sentimenti e idee impossibili per noi comuni mortali. Interessanti gli scorci più o meno realistici che mostrano la vita della società spartana, a cominciare dalla selezione impietosa dei neonati, uccisi se non rispettano determinati canoni di salute e forza, per arrivare agli oracoli arroccati su una rupe, tanto osannati quanto abietti e corrotti. I due personaggi più interessanti, al di là della moglie di Leonida, Gorgo, il cui ruolo di donna “forte” non la rende troppo diversa da tutte le improbabili eroine di film simili, sono quelli di Efialte e Delios.

Efialte è la vittima di una società ingiusta e di leggi troppo rigide. Gobbo, debole nello spirito e nel corpo, rispetta così tanto Leonida da arrivare a trasformare l’amore in odio quando il condottiero lo rifiuta. Nella corte di Serse crede di trovare tutto ciò che ha sempre desiderato: donne, denaro, rispetto. Quando però viene messo di fronte alla morte di Leonida non può fare altro che pentirsi, portando in silenzio il peso del tradimento, accentuato dal palese perdono di Leonida. Un personaggio patetico e tragico fino all’ultimo. Meno delineato il ruolo di Delios, uno fra tanti dei guerrieri, finché ironicamente, una volta perso l’occhio in guerra, diventa l’osservatore e il custode della storia dei 300, colui che poi motiverà i greci fino a condurli nella battaglia di Platea, che segnerà la fine della tirannia di Serse.

 





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E nonostante l’indubbia bellezza… il mio occhio non ha potuto non cogliere la vena trash che pervade tutta la pellicola. Fiumi di inchiostro sono già stati spesi per gli addominali ritoccati al computer, quindi non starò a parlare del fatto che gli Spartani sembrano un branco di gayssimi Big Jimme (come direbbe Elio…) e neppure starò a discutere la famosa scena del “Questa… è… SPARTA!!” con calcione annesso. No, ciò che mi ha colpito di più è stato l’incontro tra Spartani e Arcadi, con il seguente dialogo:

Leonida: Ah, voi siete arcadi. Tu, arcade, cosa sei?

A: Pastore.

L: E tu, Arcade?

A: Fabbro.

L: E tu?

A: Sono un sarto.

L: E noi, cosa siamo, Spartani?

Spartani: UHUHUHHUHHUHUHHUHU!!!!!

Ora, io devo dedurne che gli Spartani non mangino, rubino le armi senza fabbricarle e soprattutto abbiano come vestiario solo quelle mutande che ormai staranno in piedi da sole… ma soprattutto mi immagino il pensiero comune che ha attraversato la mente di ogni Arcade presente: Siete dei gibboni?!?

Altra punta di spicco del trash è Efialte. Già poveraccio sei gobbo e mostruoso… ma all’inizio mentre segue i 300 sembra davvero Gollum che segue la Compagnia dell’Anello, e poi la faccia libidinosa mentre le donnacce del bordello di Serse gli si strusciano contro è tutta un programma; cosa chiede lui all’apice dell’arrunchio? Una corazza nuova. Ora, già fai schifo all’animo, non ti viene in mente che chiedendo una corazza nuova ad uno che è palesemente un trans, come minimo ti ritroverai con un costume da giullare? E infatti. A proposito di Serse, è forse la figura più trash del film, il dio re ricoperto da piercing, dall’aspetto simile a quello di Cher e con la voce profonda da macho, circondato da orde di guerrieri che più che esseri umani sembrano dei mostri usciti dalla penna di Clive Barker. Incredibile ma vero, amici. E nonostante questi elementi weird o forse proprio in virtù degli stessi, questa è una pellicola che decisamente mi sento di consigliare a tutti, seppur con la dovuta cautela: evitate di esaltarvi e farlo diventare il vostro film preferito, a mò di Gladiatore. E’ carino, ben diretto e ben recitato, ma il vero cinema è altro, secondo me.

 

Del regista Zack Snyder ho già parlato qui.

 

Gerard Butler interpreta Leonida. L’attore scozzese è stato uno splendido Fantasma dalla meravigliosa voce ne Il Fantasma dell’Opera di Schumacher, ed inoltre ha partecipato a Il domani non muore mai, Lara Croft Tomb Raider: la culla della vita. Da anche la voce al Capitano nella trasposizione video dei Tales of The Black Freighter, nato da una costola di Watchmen. Ha 40 anni e cinque film in uscita.

 




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David Wenham interpreta Delios. L’attore australiano è diventato conosciuto universalmente per la sua intrerpetazione, seppur breve, di Faramir nella trilogia de Il Signore degli Anelli. Tra le altre pellicole ricordo Dark City, Moulin Rouge, Van Helsing e Australia. Ha 44 anni e tre film in uscita.






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Vi lascio con il trailer non già di 300, ma di Meet the Spartans, ovvero Treciento. Mi sono innamorata della scena con Britney Spears, lo ammetto... ENJOY!!!!






 

 

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