Trama: l'architetto László Tóth, fuggito per miracolo ai campi di concentramento, trova rifugio in America. Lì, viene preso sotto l'ala protettiva dal ricco Harrison Van Buren, che gli commissiona un'opera monumentale...
Iniziamo il post ripassando un po' cos'è il Brutalismo, a beneficio di chi, come me, non tocca più un libro di storia dell'arte (in questo caso specifico, dell'architettura) dal lontanissimo 2005. Brutalismo deriva dal francese béton brut, che indica il cemento a vista, uno degli elementi tipici di questo movimento architettonico. Il cemento veniva utilizzato non solo per andare contro alla leggerezza degli stili precedenti, ma anche perché, nel primo dopoguerra, la necessità era quella di ricostruire in fretta, con materiali economici, utilizzando uno stile pratico e semplice, che prediligesse la funzionalità all'estetica. In realtà, c'era anche dietro un'idea di equità, fagocitata di lì a poco dal ritorno in piena forma del capitalismo, che avrebbe condannato il Brutalismo definendone gli edifici in gran parte obbrobriosi. Se vogliamo, all'interno di The Brutalist, si parla anche di Bauhaus, al quale Corbet si è ispirato per gli splendidi titoli di testa, somigliantissimi al Bilanz des Bauhauses di Theo van Doesburg, ma non stiamo a spaccare il capello. Tanto, l'epica opera di Corbet non pretende certo una conoscenza enciclopedica dell'architettura del dopoguerra: crea un parallelo tra il protagonista, l'architetto László Tóth, e gli edifici da lui costruiti, un mix di opprimente austerità monocromatica e un desiderio di libertà e respiro, di luce, di pace. Quella che è mancata e manca al povero László, sopravvissuto per miracolo ai campi di concentramento e pronto a ricominciare una nuova vita in America, con la speranza di riunirsi, prima o poi, con la moglie Erzsébet e la nipote Zsófia, ancora prigioniere. Non ci mette molto, l'architetto, a capire che l'America non è la land of the free, quanto piuttosto un mostro pronto a divorare gli stranieri e i poveracci, per nulla tenero con chi non riesce a conformarsi, magari rinnegando religione e convinzioni. Nel mucchio di immigrati, straccioni e poveri provenienti da tutto il mondo, l'unica speranza è attirare lo sguardo di qualche riccastro, e László riesce a conquistarsi quello di Harrison Van Buren, che decide di commissionargli un mausoleo per la madre, lieto di poter presentarsi ad amici e clienti come mecenate illuminato, protettore e benefattore della scimmietta ebrea dal grande talento. The Brutalist racconta del rapporto contrastato tra l'artista e l'uomo d'affari, per estensione del moderno rapporto tra arte e capitalismo, dipendente dalla moda e dagli umori del momento, con picchi di afflato poetico cancellabili con un colpo di spugna, quando i soldi cominciano a bruciarsi con troppa velocità. The Brutalist è anche il racconto della ricerca disperata di un posto da poter chiamare casa, dove non bisogna essere costretti a nascondersi o vergognarsi, dopo decenni di orrori perpetrati da chi ha scelto di condannare normali esseri umani a sentirsi dei mostri, dei diversi indesiderati. Il film di Corbet è tutto questo e anche di più, ed è il motivo per cui sono rimasta molto delusa nel constatare che, nonostante un potenziale enorme, sia riuscito sì ad interessarmi, ma senza mai commuovermi, se non all'inizio, di fronte a corpi sfiniti e animi confusi, assiepati sotto una Statua della Libertà giustamente capovolta.
Girato interamente in VistaVision, per rispettare lo stile dell'epoca in cui è ambientato The Brutalist, il film di Corbet è una gioia per gli occhi, a cominciare da quelle riprese dove la cinepresa "corre" assieme alla strada, e grazie ad un montaggio dinamico che rende ancora più incredibili le immagini dei panorami, degli elementi naturali toccati dalla mano dell'uomo (le sequenze girate all'interno della cava di marmo sono da slogarsi la mascella) e dell'interno del mausoleo, un labirintico inferno di acqua e colonne. Ha una colonna sonora perfetta, che sottolinea non solo la solennità della narrazione, ma si adegua anche allo scorrere degli anni, cambiando completamente (così come lo stile di regia) nella Venezia anni '80 che chiude il film. Ha un cast d'eccezione, all'interno del quale spicca un Adrien Brody che, quasi sicuramente, vincerà l'Oscar, e regala il ruolo della vita a Felicity Jones, quello di un personaggio non proprio gradevole, distrutto da esperienze traumatiche, spezzato eppure costretto ugualmente a tenere in piedi chi avrebbe tutte le carte in regola per essere un marito esemplare e un buon compagno di vita, ma preferisce lasciarsi distruggere dalla propria vanità e dal disprezzo altrui. Come ho scritto sopra, The Brutalist ha un potenziale enorme e sfida lo spettatore a cogliere indizi, aggiungere tasselli mancanti, interpretare segni. E allora perché, sul finale, mi deve far crollare tutto forzando il pubblico ad ingoiarsi un monologo-spiegone che ne sottovaluta l'intelligenza come se Corbet fosse Van Buren e noi i poveri, ignoranti animaletti da catechizzare con "conversazioni stimolanti"? E' una scelta che non ho apprezzato, inutilmente strappalacrime e anche un po' supponente, soprattutto perché la sceneggiatura di The Brutalist non è complessa, né atta lasciare a bocca aperta quanto tutto il comparto tecnico che la sostiene, anzi. Sceglie sempre le soluzioni più semplici, con i cattivissimi capitalisti (razzisti, gretti, violenti, prevaricatori fino all'estremo) che annientano e sviliscono l'artista, sfruttandone anima e corpo, letteralmente; sceglie di spingere il protagonista a cercare rifugio nella droga senza mai, neppure una volta, mostrarci gli effetti che questa ha sulla sua arte e sui suoi demoni interiori; sceglie di usare il sesso come veicolo di sequenze controverse, disturbanti, rendendolo tossico nelle scene che vedono protagonisti moglie e marito, che mai una volta mostrano di provare un sano piacere l'uno nell'altro se non quando sono fatti come cocchi. Sceglie, infine, l'ennesima fuga verso un presunto paradiso, prima di consegnare i personaggi ad un timeskip blandamente consolatorio, dopo tutta l'oscurità inghiottita in quasi quattro ore. Ah, giusto, mi sembrava brutto non finire il post senza aver nominato la durata del film. A me, in tutta sincerità, non è pesata per nulla, ed è l'ennesimo punto a favore di un film bellissimo ma ben lontano dall'essere il capolavoro incensato da chiunque. Per quanto mi riguarda, The Brutalist va visto, va goduto sul grande schermo, andrà rivisto più di una volta, quello sicuramente; dovessi dire, però, non mi ha catturato il cuore, che ancora batte per altre storie, forse ancora più semplici, ma che non intendono camuffare la semplicità dietro un'architettura zeppa di fronzoli che, di brutalista, non ha proprio nulla.
Del regista e co-sceneggiatore Brady Corbet ho già parlato QUI. Adrien Brody (László Tóth), Felicity Jones (Erzsébet Tóth), Guy Pearce (Harrison Lee Van Buren Sr.), Raffey Cassidy (Zsófia), Stacy Martin (Maggie Lee) e Alessandro Nivola (Attila) li trovate invece ai rispettivi link.
Joe Alwyn interpreta Harry Lee. Inglese, ha partecipato a film come La favorita, Boy Erased - Vite cancellate, Maria regina di Scozia, Harriet e Kinds of Kindness. Ha 34 anni e due film in uscita.
Il film era stato annunciato nel 2020 con un cast diverso, interamente rivisto nel 2023: Adrien Brody ha sostituito Joel Edgerton, Felicity Jones ha sostituito Marion Cotillard, Guy Pearce ha sostituito Mark Rylance e Joe Alwyn ha rimpiazzato Sebastian Stan. Se il film vi fosse piaciuto recuperate The Master e Il pianista. ENJOY!
Tre ore e mezza anche no. Soprattutto alla luce di tante svolte narrative bruciate in fretta eccessiva, dopo l’essersi soffermati invece - specie nel primo tempo - su una miriade di frammenti e chiacchiericci superflui.
RispondiEliminaTutto sommato un film che non può far gridare al miracolo, dove il solo Adrien Brody se la canta in lungo e in largo, indulgendo magari a qualche solfa melodrammatica di troppo.. una sorta di gigantismo e di sottolineature spesso fuori luogo.
Volevo rivederlo in vista degli Oscar ma incastrarlo nel tempo libero e negli orari pazzi dei cinema di zona è stato impossibile.
RispondiEliminaForse non arriva al cuore, ma bastano poche scene per capire di essere davanti a un grande film, che fa pensare al cinema di una volta, quello che aveva un peso e una consistenza anche solo per come è girato e per i personaggi che lo abitano.
La prima parte incanta più della seconda e quel finale con spiegone rovina un po' le cose, ma la sensazione di "wow, che film!" non mi abbandona appena ne sento parlare.
Per almeno 3/4 sì, per me è un capolavoro assoluto. Poi hai ragione, c'è quel finale spiazzante, posticcio, fin troppo palesemente "appiccicato" per essere un errore e che ancora non sono riuscito a spiegarmi: vorrei tanto incontrare Corbet un giorno e chiedergli una spiegazione. Ma è comunque un'esperienza visiva, sensoriale e stilistica meravigliosa: un film che ti fa ritrovare il piacere di andare al cinema come negli anni '50, quando passavi intere serate dentro la sala cinematografica e vedere un film era come andare all'opera o a teatro (non a caso è - volutamente - diviso in un prologo, primo atto, intervallo, secondo atto ed epilogo). La sceneggiatura, è vero, è piuttosto basica eppure nemmeno per un minuto ti fa pesare la lunghezza del film. E' un grande romanzo americano, totalizzante, epico, ed è incredibile che sia costato solo 9 milioni di dollari! (che sullo schermo sembrano 90, abituati ai nostri standard). Un'opera dichiaratamente monumentale, che solo per lo sforzo produttivo merita un posto al sole. Sul fatto che non commuove e non empatizza sono d'accordo, ma non è un melò... e non è detto che sia quello lo scopo del film. Che per me rimane al momento, di gran lunga (in tutti i sensi! :) ), il più bello della stagione.
RispondiEliminaPer me è stato il film di questa edizione Oscar 2025, visto che il resto dei candidati mi ha lasciata freddina. L'ho apprezzato, il minutaggio non mi è pesato. Brody bravo come sempre, premio meritatissimo. Fotografia e colonna sonora godibili e valide, anche qui premi meritati. Per me ci sarebbe stata bene anche la regia, ma Anora ha sbancato. Non credo sia un film per facili sentimentalismi, empatie immediate con i personaggi. C'è poco di eroico e molta fragilità umana. Anche per questo mi è piaciuto. Concordo con Kris Kelvin , qui sopra : anche per me è uno dei migliori film visti quest'anno. Ulteriore onore al merito, il budget ridotto per un film che ci appare monumentale.
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