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venerdì 14 dicembre 2018

La ballata di Buster Scruggs (2018)

Nel catalogo di originali Netflix spesso ciofecosi ecco spuntare la magia dei Coen e del loro western ad episodi, La ballata di Buster Scruggs (The Ballad of Buster Scruggs), diretto e sceneggiato proprio da Joel ed Ethan Coen.


Il film comincia con l'episodio titolare, The Ballad of Buster Scruggs, appunto. Tra tutti, l'ho trovato il segmento più divertente, un mix tra western, influenze campyssime di musica country, alcuni dei migliori episodi di Lucky Luke e ovviamente Fratello, dove sei? , film dei Coen che dovrei decidermi a riguardare e recensire. The Ballad of Buster Scruggs è un florilegio di musica e personaggi surreali che più caricati non si può, a partire dal protagonista, interpretato da uno spettacolare Tim Blake Nelson. Andando avanti ci sono episodi più elaborati e profondi ma come antipasto questo è perfetto perché mette subito nel mood giusto, introducendo il fil rouge delle storie narrate dai Coen, ovvero la casualità di un destino di morte che non guarda in faccia a nessuno, che si tratti di buoni, cattivi, intelligenti o stupidi.


Near Algodones è un episodio altrettanto esilarante e pregno di umorismo nero. In dieci minuti i Coen sono riusciti a fare quello che non è riuscito a MacFarlane nelle due ore del suo logorroico Un milione di modi per morire nel West, presentandoci una terra pericolosissima, zeppa di contraddizioni, dove nel giro di un momento la vittima diventa carnefice e il bandito diventa vittima e dove non bisogna sottovalutare nessuno, nemmeno i vecchietti ciarlieri. Il finale è decisamente poetico e malinconico e, per una volta, ho adorato la faccetta da ca**o di James Franco dall'inizio alla fine.


A proposito di triste e malinconico, ma anche grottesco, Meal Ticket è indubbiamente uno degli episodi che rischiano di rimanere maggiormente impressi nella mente dello spettatore e di spezzargli il cuore per la casualità con la quale la disperazione arriva a privare le persone di ogni residuo di umanità. In una terra dove la sopravvivenza e la povertà vanno a braccetto, dove il pericolo è sempre dietro l'angolo, essere indifesi è una condanna ed essere acculturati non serve a nulla; soprattutto, la disumanizzazione del protagonista tocca il cuore e fa male. Potrei dire anche che fa pensare, riflettere su un mondo odierno non tanto diverso dal West, dove lo sfoggio di cultura fine a se stesso si risolve in un tweet o in un post su Facebook di rapido consumo e altrettanto rapido disinteresse, ripetuto fino a privarsi del suo significato originale, ma servirebbe solo a  deprimersi ulteriormente.


Basato su un racconto di Jack London, All Gold Canyon è lo one man show di un Tom Waits strepitoso, un inno alla testardaggine e alla natura predatoria dell'uomo. In esso, seguiamo un cercatore d'oro che all'inizio viene connotato nel modo più negativo possibile, soprattutto se confrontato con la natura incontaminata che la sua sete d'oro arriva a disturbare: acque limpide sporcate di terra, animali costretti a fuggire, splendidi prati ridotti a un colabrodo, risorse rubate, ecco ciò che porta la febbre, la smania del Cercatore. Eppure, nella sua ricerca febbrile ci sono metodo e rispetto, un qualche codice d'onore che ad un certo punto, quando l'uomo è a un passo dal suo obiettivo, ce lo rendono molto più simpatico, ribaltando in un istante la percezione del protagonista. Un episodio girato benissimo, recitato alla perfezione, costruito come un cerchio perfetto ed incredibilmente profondo nella sua brutale semplicità.


The Girl Who Got Rattled (ispirato a un racconto di Stewart Edward White) è invece uno spaccato di quotidianità colonica con tutto quel che ne consegue. Probabilmente è il segmento più "complesso", dal momento che è reiterato nel tempo, si basa su eventi sottesi e prevede un'evoluzione costante dei personaggi principali, al punto che lo spettatore comincerebbe ad affezionarsi agli occhioni sgranati di Zoe Kazan (sempre bellissima) e al timido cowboy che arriva a farle la corte, sperando di poterli seguire nella loro futura vita da marito e moglie. Invece i Coen non sono minimamente interessati all'aspetto più soapoperistico dello slice of life western portato sullo schermo, anzi, ci tengono a ribadire come la quotidianità del west andava comunque a braccetto con terribili incognite e con la morte sempre a un passo; ignorare il pericolo trincerandosi dietro ingenuità ed ignoranza significa mettere con le spalle al muro se stessi e gli altri, diventare un peso insostenibile che rischia di scatenare tragedie ancora più grandi. E' la tipica natura clueless di buona parte dei personaggi Coeniani a venire celebrata (criticata?) qui, l'atteggiamento di chi non ha ben inquadrato la realtà in cui vive e si limita a stare ai margini combinando solo casini. Il che ci porta dritti all'ultimo segmento.


The Mortal Remains, le spoglie mortali. Il semplice viaggio di cinque persone all'interno di una carrozza? O forse il loro ultimo viaggio, quello definitivo? L'ambiguità è voluta ma come chiosa finale propenderei più per l'ultima opzione, anche per quella fotografia cupissima, virata sul grigio, e quelle scenografie inquietantemente posticce sul finale. Sta di fatto che l'episodio, benché in esso, di fatto, succeda poco o nulla, è uno dei miei preferiti perché è recitato benissimo, ha dei dialoghi che spaziano dall'incredibilmente witty al malinconico e permette a Brendan Gleeson di sfogare le sue doti canore con una tristissima ballata irlandese.


Riassumendo, La ballata di Buster Scruggs è un'antologia western che non perde un colpo che sia uno. Introdotta ed intervallata, come i vecchi film Disney, dalla ripresa di un libro a cui vengono sfogliate le pagine, sulle quali c'è scritto esattamente come iniziano e finiscono gli episodi, consente ai Coen di sfruttare diversi stili di regia e spaziare attraverso svariati registri narrativi che coinvolgono lo spettatore senza mai annoiarlo: si passa dal musical al western, dallo slice of life alla tragedia per arrivare a tinte da ghost story, il tutto interpretato, diretto, scritto e soprattutto musicato alla perfezione. Al momento, oserei dire che La ballata di Buster Scruggs è uno dei più bei film che potete trovare su Netflix e consiglierei il recupero non solo agli amanti dei Coen, che troveranno pane per i loro denti, ma anche a chi di solito non mastica western perché qui c'è da rimanere estasiati a prescindere dal genere.


Dei registi e co-sceneggiatori Joel e Ethan Coen ho già parlato QUI. Tim Blake Nelson (Buster Scruggs), Clancy Brown (Surly Joe), David Krumholtz (il francese), James Franco (Cowboy), Stephen Root (Teller), Ralph Ineson (Leader del branco), Liam Neeson (Impresario), Zoe Kazan (Alice Longabaugh) e Brendan Gleeson (L'irlandese) li trovate invece ai rispettivi link.

Tom Waits interpreta il Cercatore. Cantautore americano, ha partecipato a film come I ragazzi della 56sima strada, Rusty il selvaggio, La leggenda del re pescatore, Dracula di Bram Stoker, America oggi e ha lavorato come doppiatore in un episodio de I Simpson. Anche sceneggiatore, ha 69 anni e un film in uscita.


Harry Melling, che interpreta l'Artista nell'episodio Meat Ticket, era l'odioso Dudley Dursley nei film di Harry Potter. Detto questo, se La ballata di Buster Scruggs vi fosse piaciuta potete recuperare Il Grinta e Fratello, dove sei? ENJOY!

mercoledì 25 luglio 2018

Colossal (2016)



Con un bel ritardo di un paio d'anni, qualche settimana fa ho guardato Colossal, film diretto e sceneggiato nel 2016 dal regista Nacho Vigalondo. Il post contiene qualche inevitabile spoiler, siete avvisati.



Trama: Gloria, fancazzista ed ubriacona, viene scaricata dal fidanzato newyorkese e torna a vivere nella cittadina di provincia dov'è nata. Lì rincontra l'amico di infanzia Oscar, comincia a lavorare nel suo bar e, soprattutto, scopre di essere legata a qualcosa di terribile e... colossale!



Non so cosa mi aspettassi da Colossal quando ho cominciato a guardarlo ricordando un paio di blandi consigli da parte di alcuni blogger ma sicuramente non credevo che avrei adorato un film che si presenta come la più grossa cretinata del secolo e si sviluppa come un gioiello, come qualcosa che travalica i generi per prendere lo spettatore e scuoterlo come un pupazzo. Parlo di apparente cretinata perché Colossal inizia abbracciando i toni della commedia surreale, con una protagonista che si ritrova nella più classica delle situazioni da "racconto formativo". Gloria, ragazza afflitta da un serio problema di alcolismo, viene cacciata di casa da un fidanzato che la ama ma non ne può più delle sue amnesie da sbronza e torna a vivere nel paese dov'è nata e cresciuta incontrando Oscar, simpatico amico d'infanzia con una palese cotta per lei che la aiuta a riambientarsi. Logico sarebbe pensare che Gloria ritroverà senno e amore con questo ritorno alle origini... e invece no! Infatti proprio lì, dopo l'ennesima sbronza, Gloria scopre di essere collegata ad un kaiju che compare a Seul ogni volta che lei mette piede in un determinato parco giochi a una determinata ora, compiendo i suoi stessi movimenti; di più, a un certo punto a Seul spunta anche un robot, che si scopre essere mosso da Oscar allo stesso modo. Un simile incipit offrirebbe il fianco a mille svolte demenziali, probabilmente ad una parodia del cinema di mostri, invece Vigalondo la vira a poco a poco nel dramma esistenziale, nel thriller, nella commedia nera che strappa più gemiti di angoscia che risate. Immaginate infatti un'alcolista senza nessun controllo delle proprie azioni, non cattiva, non depressa, semplicemente noncurante e dimentica di ogni cosa accaduta nel momento di massimo picco alcolico, che rischia di causare migliaia di morti in una grande città solo per essere inciampata. C'è ben poco da ridere, nevvero? Ma questo non è l'unico risvolto oscuro di Colossal perché, come ho detto, il regista e sceneggiatore non si limita a mettere in piedi una commedia nera dai risvolti fantastici ma scava anche nella psicologia dei personaggi, mettendo davanti allo spettatore una delle evoluzioni caratteriali più devastanti e plausibili tra quelle viste ultimamente, che porta alla rappresentazione di un legame fatto di dipendenza e sopraffazione, malato eppure terribilmente realistico, angosciante.


Con un budget ridotto e la possibilità di ricorrere alle sequenze tipiche di un film di mostri giganti solo per pochi minuti, sfruttando giochi di prospettive intelligenti e validi effetti speciali, la genialata di Nacho Vigalondo è stata quella di sfruttare l'elemento fantastico del film per parlare delle pulsioni autodistruttive degli esseri umani e delle emozioni oscure che li muovono. Parallelamente al percorso di Gloria, che fatica a recuperare controllo e dignità per la salvezza di una popolazione, c'è infatti la progressiva discesa nel baratro del simpatico e gioviale Oscar. Costui compare come possibile love interest di Gloria e si conquista le simpatie di lei e degli spettatori nell'arco di un quarto d'ora, durante il quale sono riuscita persino a sfanculizzare la protagonista per le attenzioni dedicate al belloccio della situazione a discapito del povero barista barbuto. In realtà, Oscar è un personaggio oscuro e alcuni suoi comportamenti sembrano fin da subito in contrasto col suo sembiante pacioso. Per esempio, che senso avrebbe affidare un bar a una persona palesemente alcolizzata invece di aiutarla a uscire dalla sua malattia? Oppure, ancora, perché aggredire uno dei propri migliori amici davanti a un innocente tentativo di flirt? Sono tutte domande che mi pongo ora, a ben vedere, perché Oscar è costruito in modo da ingannare non solo i personaggi del film ma anche e soprattutto gli spettatori, e posso assicurarvi che ce n'è voluto perché anche io gettassi la spugna e arrivassi a rinunciare ad una sua redenzione finale, ritrovandomi col cuore spezzato come Gloria. Il che è angosciante, perché la violenza di Oscar esplode solo negli ultimi dieci minuti di film, per il resto il suo è un terrificante gioco di ricatti e subdole catene che vengono strette al collo della protagonista, frutto non tanto di cattiveria quanto piuttosto dell'incapacità di gestire la propria vita e di risalire una volta che si è toccato il fondo, una sorta di perverso "mal comune mezzo gaudio" che fa ancora più paura se si pensa a quante persone sono davvero così. E quante ce ne sono che non riescono a liberarsi di chi le sopraffà in questo modo, tornando a riprendersi la propria libertà. Anne Hathaway è bravissima in questo film, gestisce un personaggio molto difficile, ma la mia intera ammirazione è andata giocoforza a Jason Sudeikis; abituata come sono a vederlo in ruoli sciocchi, questa sua interpretazione mi ha alternativamente spiazzata e affascinata, oltre ad avere contribuito ad aumentare il mio amore per Colossal, diretto e sceneggiato in maniera magistrale. Non capisco come abbia fatto un simile gioiello a non trovare distribuzione ma adesso dovrebbe essere su Netflix, quindi non avete più scuse!


Di Anne Hathaway (Gloria), Jason Sudeikis (Oscar), Tim Blake Nelson (Garth) e Dan Stevens (Tim) ho già parlato ai rispettivi link.

Nacho Vigalondo è il regista e sceneggiatore della pellicola. Spagnolo, ha diretto episodi di film come The ABCs of Death e V/H/S Viral. Anche attore e produttore, ha 41 anni.


Austin Stowell interpreta Joel. Americano, ha partecipato a film come Dietro i candelabri, Whiplash e Il ponte delle spie. Ha 34 anni e un film in uscita.




venerdì 26 giugno 2015

La regola del gioco (2014)

Come pubblicizzano durante i trailer, quest'estate cinematografica dovrebbe essere particolarmente ricca e tra gli altri film che vengono citati nel corso di questa pubblicità c'è anche La regola del gioco (Kill the Messenger), diretto nel 2014 dal regista Michael Cuesta e basato sia sulla serie di articoli Dark Alliance di Gary Webb sia sulla stessa biografia di Webb, redatta da Nick Schou, dal titolo Kill the Messenger.


Trama: il giornalista Gary Webb pubblica una serie di articoli dove accusa la CIA di avere collaborato in Nicaragua con i ribelli anti-governativi Contra, aiutandoli a spacciare cocaina e crack nei bassifondi di Los Angeles per finanziare la loro causa. All'inizio Webb viene trattato come un eroe, dopodiché le cose si fanno sempre più dure, per lui e per la sua famiglia...


Sarà che sto invecchiando ma, pur continuando ad avere qualche difficoltà nel tenere il filo di tutti i nomi e le facce che scorrono sullo schermo nell'arco di due ore, i film tratti da storie vere come La regola del gioco (altro titolo italiano imbecille: che regola sarebbe? Chi si fa i fatti suoi campa cent'anni?) mi intrigano sempre di più. Al di là delle parti palesemente romanzate, di "dettagli" aggiunti per rendere più umani i personaggi (come per esempio, in questo caso, il rapporto tra il protagonista e il figlio maggiore, cementato dal restauro di una moto d'epoca) e dell'ovvia scelta di rendere il sembiante dei coinvolti più glamour e piacevole di quanto non fosse in realtà, questi spaccati di vita vissuta mi interessano molto e in particolare mi affascina l'intricato mondo del giornalismo o, meglio, di quello che era una volta il giornalismo, fatto di professionisti appassionati e libero dal pressapochismo internettiano. Purtroppo per Gary Webb, non libero da influenze politiche  né da diffidenza, invidia o ipocrisia; reporter di un giornale di provincia, il nostro è balzato agli onori della cronaca per un'inchiesta nata assolutamente per caso, che gli ha sì permesso di mettere in piazza gli altarini più squallidi ed ipocriti della CIA ma ha anche attirato su di sé le e ire e, conseguentemente, le sgradevoli attenzioni di persone prive di scrupoli e molto pericolose. Nel mondo dei media la credibilità è tutto ma, come già ci ha insegnato Fincher con il suo Gone Girl, è ancora più importante assecondare e fomentare la volubilità di un pubblico che ama sguazzare nel torbido e che in pochissimo tempo può passare dall'elevare una persona al rango di guru al reputarlo un truffatore della peggior specie per degli errori passati che nulla hanno a che fare con la sua professionalità. Nel corso di La regola del gioco a Gary Webb (reporter realmente esistito e morto in in circostanze misteriose, abbandonato dalla famiglia e senza avere avuto mai più la possibilità di lavorare per un giornale) succede proprio di passare dalle stelle alle stalle; la sua inchiesta desta molto scalpore ma viene insabbiata in brevissimo tempo e nonostante smuova parecchie acque ancora oggi il mistero sul reale coinvolgimento della CIA nella guerra civile in Nicaragua e, soprattutto, nella conseguente distribuzione della droga dei Contra a Los Angeles, è avvolta in una nube di mistero.


La pellicola si concentra quindi più sull'aspetto umano di Gary Webb che sull'effettiva validità della sua inchiesta ed offre un inquietante spaccato di quello che sta dietro le quinte di quella che dovrebbe essere un'informazione imparziale, fatta in realtà di giochi politici, compromessi ed ipocrisia: la lunga sequenza in cui Webb ritira comunque un premio come "giornalista dell'anno" mentre né il suo capo né il suo redattore hanno il coraggio di guardarlo in faccia dopo avere rinnegato pubblicamente i suoi articoli mette i brividi e lascia impotenti davanti al peso di una realtà così tragicamente e schifosamente negativa. Essere tacciato di falsità e pressapochismo ma ricevere comunque un premio per l'eccellenza del lavoro svolto è il culmine di una tragedia umana che si mescola in maniera molto naturale alla spy story, elementi che trasformano La  regola del gioco in un thriller d'inchiesta privo di momenti "morti" e capace d'inchiodare lo spettatore alla poltrona. Merito della storia narrata, sì, ma anche di un bravissimo Jeremy Renner, che si carica sulle spalle tutta l'ambizione, la sfrontatezza e la fragilità di Gary Webb senza risultare mai posticcio o forzato. Accanto a lui c'è tutta una ridda di comprimari che incarnano le due anime di La regola del gioco: a mio avviso funzionano molto bene attori come Mary Elizabeth Winstead o Oliver Platt, che ancorano la storia alla sua parte maggiormente "reale", mentre altri grandi nomi quali Ray Liotta o Andy Garcia (due attoroni quasi sprecati per quel che compaiono sullo schermo e lo stesso vale per Robert Patrick e Barry Pepper, per quanto ottimi caratteristi di lusso) risultano un po' fasulli nei loro ritratti di malviventi quasi leggendari, come se interpretassero le caricature dei loro personaggi più famosi. A parte questo trascurabile, piccolissimo difetto, La regola del gioco è un solido film dal sapore quasi anni '70, una di quelle pellicole intelligenti in grado di spingere lo spettatore a volersi documentare ulteriormente sui fatti narrati. In questa torrida estate di dinosauri, orsacchiotti e futuri post-apocalittici sarebbe bene ritagliare uno spazio anche per il film di Michael Cuesta!


Di Jeremy Renner (Gary Webb), Robert Patrick (Ronald J. Quail), Mary Elizabeth Winstead (Anna Simons), Barry Pepper (Russel Dodson), Tim Blake Nelson (Alan Fenster), Michael Kenneth Williams (Ricky Ross), Oliver Platt (Jerry Ceppos), Andy Garcia (Norwin Meneses), Michael Sheen (Fred Weil) e Ray Liotta (John Cullen) ho già parlato ai rispettivi link.

Michael Cuesta è il regista della pellicola. Americano, ha diretto film episodi delle serie Six Feet Under, Dexter, True Blood e Homeland. Anche produttore e sceneggiatore, ha 52 anni.


Paz Vega (vero nome Paz Campos Trigo) interpreta Coral Baca. Spagnola, ha partecipato a film come Lucía y el sexo, Parla con lei, The Spirit, Vallanzasca - Gli angeli del male, Gli amanti passeggeri, Grace di Monaco e doppiato Madagascar 3 - Ricercati in Europa. Ha 39 anni e cinque film in uscita.


Durante le primissime fasi di produzione del film, erano stati fatti i nomi di Brad Pitt e Tom Cruise per il ruolo di Gary Webb mentre Spike Lee si era dimostrato molto interessato a finire dietro la macchina da presa. Detto questo, se il film vi fosse piaciuto recuperate Tutti gli uomini del presidente, Good Night, and Good Luck. e Insider - Dietro la verità. ENJOY!

venerdì 25 gennaio 2013

Lincoln (2012)

Nemmeno fossi fan sfegatata del regista o di Daniel Day Lewis, ieri appena uscito mi sono fiondata a vedere Lincoln, diretto nel 2012 da Steven Spielberg. E come avrebbe detto il Numero Uno di Alanfordiana memoria: "Abbuccio, gli dissi, io ormai sono troppo vecchio per questo lavoro ma..."...


Trama: il film racconta l'ultimo, sanguinoso anno della guerra di secessione americana e di come Abraham Lincoln sia riuscito a far approvare (e non abrogare come scritto prima, grazie Pio, il sonno fa questi scherzi!!) il tredicesimo emendamento, quello che avrebbe abolito legalmente la schiavitù.


Tratto non già dalle sterminate biografie dedicate al presidente USA ma dal libro di Doris Dearn intitolato Terms of Rivals: The Political Genius of Abraham Lincoln, l'ultimo film di Spielberg non ripercorre l'intera storia del buon Abramo ma decide di concentrarsi su due aspetti fondamentali del suo secondo mandato, la guerra di secessione e l'approvazione del tredicesimo emendamento. Questi due "poli" servono al regista per tratteggiare un ritratto estremamente umano di questo grande uomo politico e di consacrarlo ai posteri come un incredibile, cialtronissimo paraculo. In senso buono, ovviamente. Nonostante, infatti, l'estrema serietà degli argomenti trattati e il difficile, terribile dilemma morale che grava col suo enorme peso sulle spalle del Presidente, buona parte della pellicola viene affrontata con piglio ironico e quasi "avventuroso", con un Lincoln amante dello scherzo e degli aneddoti, impegnato nell'ideazione di mille barbatrucchi per far passare il tredicesimo emendamento cercando contemporaneamente di distogliere l'attenzione dell'intera America dalla guerra, affiancato da un trio di esilaranti "motivatori" che cercano di comprare voti presso gli irremovibili deputati. Ovvio, adesso non pensate che Lincoln sia tutto un grande scherzo. La tensione trasuda palpabile da ogni fotogramma e si riflette negli occhi infossati di Daniel Day Lewis e del suo personaggio, un uomo costretto a decidere cosa sia meglio per la Nazione, se la libertà e l'uguaglianza di tutti, bianchi e neri, pagata col prezzo sanguinoso di una guerra infinita, oppure un trattato di pace, pagato però con la schiavitù dei neri. Come ogni buon film basato sulla Storia, Lincoln mostra insomma le luci e le ombre degli eventi e degli uomini, creando contemporaneamente un'opera in grado di intrattenere ed interessare un'ampia fetta del pubblico.


Certamente, ci troviamo davanti ad un film MOLTO verboso, quasi completamente girato in interni, fortunatamente e necessariamente graziato da attori di una bravura incredibile. Daniel Day Lewis è praticamente lo spirito di Lincoln reincarnatosi in un attore, incredibilmente magnetico, carismatico e al contempo fragile ed umanissimo; nella versione italiana lo doppia un grande Pierfrancesco Favino, ma ovviamente recupererò al più presto il film in lingua originale perché un'interpretazione come quella di Daniel Day Lewis merita la completezza ed il purismo ai massimi livelli. Sally Field e Tommy Lee Jones, i principali comprimari, sono altrettanto grandiosi e non vengono minimamente eclissati dall'ingombrante presenza del protagonista; dico la verità, ho apprezzato soprattutto l'interpretazione di Tommy Lee, che è riuscito a dare vita ad un personaggio sorprendente, incredibilmente complesso e sfaccettato, un vecchio politico disilluso e costretto ad indossare più di una maschera in società. Menzione d'onore la merita infine James Spader, cialtrone capo del trio di procacciatori di voti, una spanna sopra tutte le altre "comparsate" d'eccezione e divertentissimo fulcro comico della pellicola, che tra le guest star conta anche altri attori di altissimo livello, tutti impegnati in ruoli abbastanza importanti.


Per quel che riguarda la regia, Spielberg da il suo meglio nelle poche scene girate in esterno ovviamente. Sconvolgente la sequenza iniziale, dove viene sbattuta in faccia al pubblico tutta la triste brutalità di una guerra civile, con dovizia di baionettate, corpi squassati e sangue, ma la maestria del regista si avverte anche in altri momenti magari meno "epici", ma sicuramente molto importanti. Personalmente, ho amato tantissimo il drammatico confronto tra Lincoln e la moglie Molly, dove tutta la tensione accumulata tra i due personaggi nel corso del film esplode in una reciproca e dolorosissima confessione; sono riuscita crogiolarmi nell'ansia durante l'estenuante attesa del voto alla Camera per poi ritrovarmi, stupidamente e come se non sapessi come sarebbe andata a finire, ad esultare per la vittoria dei sì, insultando a mezza voce tutti quelli che venivano inquadrati solo per sibilare il loro dissenso; infine, mi sono commossa al momento della morte del Presidente, preceduta da un emblematico e divinatorio "Devo andare, adesso. Ma mi piacerebbe restare" e mostrata non già attraverso gli occhi dell'assassino, ma attraverso il lancinante urlo di dolore del piccolo Tad, costretto a sapere dell'assassinio del padre mentre a sua volta assisteva ad uno spettacolo teatrale. A proposito di queste ultime, bellissime scene, arriviamo al grande difetto del film: la lunghezza. La prolissità. La scoglionante decisione di inserire delle sequenze praticamente morte tra la vittoria del sì e l'assassinio del presidente, per poi uccidere definitivamente lo spettatore, già provato da due ore e mezza di pellicola, con un pippone finale sottoforma di discorso di Lincoln alla nazione. Ora, arrivare ai livelli dello pseudo-Mereghètti che, alle mie spalle, si è alzato dicendo "Oh, a me i film di m*** mi fanno in***are di brutto. E poi a me i film di Spielberg hanno sempre fatto schifo"... beh, anche no (a proposito, ma allora cosa sei venuto a fare al cinema??), però effettivamente qualche sforbiciata l'avrei data anche io, senza offesa. Per il resto, chapeau! grandissimo film, grandissimi attori e... davvero, Abramo, grandissimo uomo. Ti voterei se non fossi già nella tomba da parecchi anni.


Del  regista Steven Spielberg ho già parlato qui. David Strathairn (William Seward), Joseph Gordon – Levitt (Robert Lincoln),Tommy Lee Jones (Thaddeus Stevens), John Hawkes (Robert Latham), Jackie Earle Haley (Alexander Stephens), Bruce McGill (Edwin Stanton), Jared Harris (Ulysses S. Grant), Lukas Haas (uno dei due soldati che parlano con Lincoln all'inizio) e Walton Goggins (Clay Hawkins) li trovate invece ai rispettivi link.

Daniel Day Lewis (vero nome Daniel Michael Blake Day – Lewis) interpreta Abraham Lincoln. Inglese, uno dei più grandi e meno prolifici attori viventi, lo ricordo per film come Gandhi, Il Bounty, Camera con vista, Il mio piede sinistro (che gli è valso il primo Oscar per migliore attore protagonista, il secondo è arrivato con Il petroliere che però non ho mai visto), L’ultimo dei mohicani, il meraviglioso L’età dell’innocenza, Nel nome del padre e Gangs of New York. Ha 55 anni.


Sally Field interpreta Mary Todd Lincoln. Americana, la ricordo per film come Le stagioni del cuore (che le è valso il secondo Oscar come miglior attrice protagonista, il primo lo aveva ricevuto per Norma Rae), Mrs. Doubtfire - Mammo per sempre e Forrest Gump, inoltre ha partecipato alla serie E.R. - Medici in prima linea. Anche produttrice, regista e sceneggiatrice, ha 66 anni e un film in uscita.


James Spader interpreta W.N. Bilbo. Americano, lo ricordo per film come Wall Street, Sesso bugie e videotape, Wolf – La belva è fuori, Stargate, Crash e Secretary.  Ha 52 anni e un film in uscita.


Hal Holbrook (vero nome Harold Rowe Holbrook Jr.) interpreta Preston Blair. Americano, ha partecipato a film come Una 44 magnum per l’ispettore Callaghan, Tutti gli uomini del presidente, Fog, Creepshow, Wall Street, Il socio e alle serie Oltre i limiti, I Soprano, E.R. – Medici in prima linea e Sons of Anarchy. Come doppiatore, inoltre, ha lavorato per l’Hercules della Disney. Anche regista e sceneggiatore, ha 87 anni e due film in uscita.


Tim Blake Nelson interpreta Richard Schell. Americano, ha partecipato a film come Donnie Brasco, La sottile linea rossa, Fratello dove sei?, Minority Report, Scooby-Doo 2: Mostri scatenati, Syriana, L'incredibile Hulk e alla serie CSI: Scena del crimine. Anche regista, sceneggiatore e produttore, ha 48 anni e quattro film in uscita.


E ora qualche curiosità sugli autori: il summenzionato Hal Holbrook ha interpretato Lincoln in un’omonima miniserie andata in onda in America negli anni ’70 e in Nord e Sud, che ricordo vagamente per essere arrivata anche da noi negli anni ‘80; il piccolo Gulliver McGrath, che nel film interpreta Tad Lincoln, aveva già partecipato a Hugo Cabret e Dark Shadows; Gloria Reuben, che interpreta Elizabeth Keckley, è stata invece per tanti anni parte del cast di E.R. - Medici in prima linea nei panni dell'infermiera sieropositiva Jeanie Boulet. Passiamo ora a "chi non ce l'ha fatta": Liam Neeson, che avrebbe dovuto interpretare Lincoln fin da quando era stato messo in piedi il progetto, alla fine ha deciso di rinunciare perché convinto di essere troppo vecchio per il ruolo, mentre per parecchio tempo si è parlato anche di una partecipazione speciale di Harrison Ford, che alla fine è sfumata nel nulla. Il film ha ricevuto ben 12 nomination all’Oscar: fotografia, costumi, regia, montaggio, colonna sonora originale, sonoro, scenografia, miglior film (e qui voleranno insulti all’Academy perché so già che preferiranno il patriottico Lincoln a Django Unchained…), miglior attore protagonista (Daniel Day-Lewis), miglior attore non protagonista (Tommy Lee Jones ma spero sinceramente che il premio vada a Christoph Waltz), miglior attrice non protagonista (Sally Field) e miglior sceneggiatura non originale. Chi vivrà vedrà, come sempre. Nel frattempo, se Lincoln vi fosse piaciuto, consiglierei la visione di Schindler's List, per esempio. ENJOY!

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