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martedì 25 febbraio 2020

Cattive acque (2019)

Messo di fronte ad una scelta, per il cinema della domenica il Bolluomo ha optato per Cattive acque (Dark Waters) diretto nel 2019 dal regista Todd Haynes.



Trama: Un giovane avvocato si ritrova dover intentare una causa milionaria all'azienda chimica DuPont, rea di aver inquinato le acque di svariate cittadine del West Virginia.



Se devo essere onesta, stavolta devo ringraziare il Bolluomo per aver proposto di guardare Cattive acque, perché non ero granché ispirata. Dal trailer, nel quale spiccava un Mark Ruffalo particolarmente bolso, si evinceva la solita mattonata americana di denuncia, tratta da una storia vera, a base di avvocati ed indagini, ma guardando il film si può capire che questi aspetti sono solo la punta dell'iceberg di una pellicola molto umana, costruita più come un thriller che come legal drama, ancor più angosciante di questi tempi in cui la gente ha perso la testa per il Coronavirus. La vicenda è tratta dall'articolo The Lawyer Who Became DuPont's Worst Nightmare di Nathaniel Rich e il titolo del pezzo in questione dà proprio l'idea di come il fulcro di tutto sia la testardaggine di Rob Bilott, avvocato che, benché all'inizio riluttante, non si è mai tirato indietro una volta addentata la carne nera di un'azienda chimica tra le più potenti in America, restando tenacemente attaccato alla preda non tanto per la gloria (anzi, ha rischiato più volte vita, carriera e famiglia) quanto piuttosto per l'indignazione e il desiderio di impedire che l'azienda continuasse ad avvelenare gli ignari americani e il resto degli ancor più ignari abitanti del pianeta Terra. L'"incubo" per la DuPont consiste tuttora in una lotta di nervi e soldi, in cui a fronte di scappatoie legali, tentativi di corruzione e di far perdere tempo, Billot non si è mai arreso e ha trovato, a sua volta, vie traverse per impedire che la DuPont uscisse pulita dall'intera faccenda, a costo di prendere le migliaia di persone ammalatesi di cancro a seguito dell'inquinamento delle falde acquifere e aiutarle a far causa, una per una, all'azienda. L'intera vicenda è poi costruita come un incubo, ma per Billot e persone come Wilbur Tennant, allevatore di mucche che ha progressivamente visto il suo bestiame mutare e marcire dentro, una sorte orribile toccata nel tempo a lui e a molti altri abitanti della zona e lavoratori; guardando Cattive acque si ha infatti la netta sensazione del tempo che scorre inesorabile, di un morbo che minaccia di divorare ogni cosa, di una corsa per evitare non solo che la DuPont la scampi ma soprattutto per far sì che la scampino i poveri abitanti delle zone inquinate.


Colpisce, di Cattive acque, una fotografia per l'appunto acquosa e putrida, di luoghi immersi in un inverno perenne, dove però l'aria stessa è cattiva, e colpisce la precisione chirurgica di una regia che si priva di ogni orpello e ogni distrazione che potrebbe accattivarsi il pubblico; l'unica concessione è la vista della famiglia di Billot, che sullo sfondo cresce e muta, scandendo il tempo che scorre e anche raccontando qualcosa di più di un uomo allevato con valori cristiani e in cerca di un posto da chiamare davvero casa, senza trasformarlo né in un santo né in un martire ma sottolineando la sua natura di persona semplice, di uomo comune dai saldi principi. Semplice non sarà, ma anche i principi di Mark Ruffalo parrebbero ben saldi, tanto che, oltre ad offrire un'ottima performance come attore, il nostro si è impegnato anche come produttore, affermando ancora una volta la sua natura di "star" impegnata in battaglie sociali, ambientali e persino politiche (lo stesso vale per Tim Robbins, ovviamente). Per il resto, ovviamente, fa molto la vostra predisposizione d'animo verso questo genere di film "d'inchiesta". Personalmente, nel corso della visione ho rasentato più volte quel magone "da frustrazione" che mi accompagna quando guardo pellicole di denuncia particolarmente sentite e riuscite, anche perché Cattive acque non lesina i colpi bassi pur senza risultare mai stucchevole o volutamente patetico; detto questo, sapere che in ognuno di noi c'è un po' di DuPont è davvero angosciante e non posso che augurare ogni bene al vero Rob Billot, pur tristemente consapevole di come il pover'uomo, a differenza di Bruce Banner, morirà ben prima di aver debellato la spaventosa Idra delle multinazionali che hanno irrimediabilmente corrotto la Terra e la nostra salute, un mostro innominabile di cui la DuPont forse non è nemmeno la propaggine peggiore.


Del regista Todd Haynes ho già parlato QUI. Mark Ruffalo (Rob Bilott), Anne Hathaway (Sarah Barlage Bilott), Tim Robbins (Tom Terp), Bill Pullman (Harry Dietzler), Bill Camp (Wilbur Tennant) e Victor Garber (Phil Donnelly) li trovate invece ai rispettivi link.

Mare Winningham interpreta Darlene Kiger. Americana, ha partecipato a film come Turner e il casinaro, Biancaneve e a serie quali Starsky & Hutch, Uccelli di rovo, Ai confini della realtà, Innamorati pazzi, E.R. Medici in prima linea, Six Feet Under, Grey's Anatomy, CSI:NY, Cold Case, 24, Criminal Minds, Under the Dome, American Horror Story e The Outsider. Ha 61 anni.


Se Cattive acque vi fosse piaciuto recuperate A Civil Action. ENJOY!

martedì 31 luglio 2018

Ocean's 8 (2018)

Per una volta il cinemino albisolese mi è venuto in soccorso e domenica sera sono riuscita a vedere Ocean's 8, diretto e co-sceneggiato da Gary Ross, alla faccia delle ferie del multisala savonese.


Trama: dopo essere uscita di prigione, Debbie Ocean organizza un audace colpo al Metropolitan Museum di New York.


Doverosa premessa: sono passati 17 anni da Ocean's Eleven e io credo di non averlo mai più riguardato dopo quella lontanissima sera al cinema del 2001, ergo se sperate che durante la visione di Ocean's 8 abbia colto non solo i riferimenti al suo predecessore (salvo il nome Danny Ocean, grazie al piffero!) ma anche le somiglianze a livello di trama (c'era un cinese acrobata anche lì mi pare, giusto?) cascate malissimo e, sempre in virtù di ciò, non riuscirei nemmeno a confrontare la qualità dei due film. Di fatto, non sono andata a vedere Ocean's 8 per una sorta di nostalgia o per vedere "come mi avessero rovinato l'infanzia anche se all'epoca avevo già 20 anni" ma solo per il cast zeppo di attrici che adoro, salvo la Bullock, e perché in generale mi piacciono gli heist movies, come ama chiamarli oggi la critica, benché quelli americani finiscano per assomigliarsi un po' tutti. Come da programma, quindi, sono andata al cinema giusto per godermi un furto perpetrato da un gruppo di donne cool e quello ho avuto, niente di più e niente di meno; Ocean's 8 fila dritto e liscio dall'inizio alla fine, con qualche complicazione all'acqua di rose, un paio di garbati "colpi di scena", una lunga e necessaria introduzione per presentare tutte le otto protagoniste e qualche forzatura della trama che probabilmente sfuggirà agli spettatori meno spaccapalle e che, effettivamente, in questo genere di pellicola deve necessariamente finire in secondo piano. Si potrebbe definire Ocean's 8 un film "leggero", un divertissement estivo che lascia il tempo che trova, non entusiasmante quanto ci si potrebbe aspettare da un ensemble di prime donne potenzialmente carismatico e quindi facilmente dimenticabile nel giro di un paio di settimane o anche meno, con parecchie potenzialità sprecate e fiaccato da una mancanza di coraggio imperdonabile. Banalmente, giusto per fare un esempio, manca un villain degno di questo nome (oh, quanto avrei sperato che "qualcuna" facesse il doppio gioco, invece ciccia, bisogna accontentarsi di una sciapa vendetta ai danni di un povero sfighé...), manca un po' di sano pericolo, manca, per citare Alex De Large, una sana dose di ultraviolenza e un po' di dolce su e giù i quali, se non rammento male, mancavano anche nei vari Ocean's precedenti ma perlomeno c'era l'umorismo guascone e fighetto di Clooney e compagnia a farla da padrone.


Ocean's 8 è invece un vorrei ma non posso. Non so come spiegarmi al meglio ma pare davvero pensato e realizzato "solo" per un pubblico femminile, a partire da quelle sequenze palesemente imperniate su lusso e glamour, fatte di gioielli da sogno e abiti da capogiro, come se le spettatrici stessero sfogliando una di quelle riviste alla Vanity Fair invece di vedere un film; non è che le protagoniste non siano carismatiche, intelligenti o toste, però mi è sembrato che queste tre caratteristiche fossero subordinate ad una superficialità concretizzata nell'apparenza, in sogni di evasione fatti di cinema, gossip, lavori a contatto col mondo della moda ecc. e questo non accadeva in Ocean's Eleven, fatto per piacere e divertire a partire dal "gender" dello spettatore. Detto questo, le donne che passano sullo schermo sono effettivamente lontane anni luce da noi povere mortali quindi forse ci sta che alle spettatrici venga lasciata giusto la possibilità di sognare. La boss Sandra Bullock non ha il carisma del "fratello" George Clooney ma comunque il personaggio di Debbie Ocean è un perfetto esempio di criminale veterana che riesce a farsi rispettare dal gruppo pur mantenendo i suoi piccoli segretucci, ed è degnamente spalleggiata da una Cate Blanchett alla quale vengono riservate le mise migliori nonostante la sua Lou non spicchi come dovrebbe, vincendo la palma di co-protagonista sprecata e tenuta stupidamente nell'ombra; divertentissima Anne Hathaway nei panni di un'attrice oca, ignorante e superba, un ruolo sciocchino che tuttavia l'attrice interpreta con incredibile grazia, e sorprendente Rihanna che risulta una gnocca colossale anche conciata come l'ultima delle streppone di Piazza del Popolo (con l'unico difetto di un adattamento italiano imbarazzante, come sempre accade quando si è costretti a riportare uno slang "cciofane"), mentre Helena Bonham Carter passa alla cassa senza impegnarsi più di tanto, portando a casa la solita interpretazione da weirdo un po' attempata. La Paulson, il motivo principale che mi ha spinta al cinema, è invece una signora come sempre, attrice tra le più duttili esistenti, brava sia nei ruoli drammatici che in quelli leggeri come questo. Definirla passepartout non le rende giustizia, visto tutto il bene che le voglio, sta di fatto che ogni volta che la vedo a me pare perfetta e calzante, a prescindere dal ruolo. In soldoni, quindi, non è che Ocean's 8 sia un brutto film ma forse è un po' anonimo e piatto, incapace di sfruttare al meglio tutti gli elementi positivi di cui è dotato, un budget della Madonna e un incredibile cast in primis. E poi, mi chiedo: ma perché Richard Armitage è figo solo quando fa il nano?


Del regista e co-sceneggiatore Gary Ross ho già parlato QUI. Sandra Bullock (Debbie Ocean), Griffin Dunne (Responsabile libertà vigilata), Cate Blanchett (Lou), Elliott Gould (Reuben), Richard Armitage (Claude Becker), Anne Hathaway (Daphne Kluger), Helena Bonham Carter (Rose Weil), Dakota Fanning (Penelope Stern), Sarah Paulson (Tammy) e James Corden (John Frazier) li trovate invece ai rispettivi link.

Mindy Kaling interpreta Amita. Americana, ha partecipato a film come 40 anni vergine, Una notte al museo 2 - La fuga e Facciamola finita, come doppiatrice ha lavorato invece in Cattivissimo me, Ralph Spaccatutto ed Inside Out. Anche produttrice, sceneggiatrice e regista, ha 39 anni e un film in uscita.


Rihanna (Robyn Rihanna Fenty) interpreta Palla Nove. Nativa delle Barbados, ovviamente famosissima come cantante, ha partecipato a film come Battleship, Facciamola finita, Valerian e la città dei mille pianeti e a serie come Bates Motel; come doppiatrice ha lavorato in Home - A casa. Anche regista, sceneggiatrice e produttrice, ha 30 anni.


Tra le celebrità che hanno partecipato non accreditate nel ruolo di loro stesse ci sono Katie Holmes, Kim Kardashian, Jaime King, Olivia Munn, Serena Williams, Anna Wintour e Common; tra quelle che invece "non ce l'hanno fatta" ci sono Jennifer Lawrence, rimpiazzata da Anne Hathaway a causa di impegni pregressi, ed Elizabeth Banks. Siccome Ocean's 8 è lo spin-off di Ocean's Eleven - Fate il vostro gioco, se il genere vi piace recuperatelo e aggiungete Ocean's Twelve, Ocean's Thirteen e magari anche Colpo grosso e The Italian Job. ENJOY!

mercoledì 25 luglio 2018

Colossal (2016)



Con un bel ritardo di un paio d'anni, qualche settimana fa ho guardato Colossal, film diretto e sceneggiato nel 2016 dal regista Nacho Vigalondo. Il post contiene qualche inevitabile spoiler, siete avvisati.



Trama: Gloria, fancazzista ed ubriacona, viene scaricata dal fidanzato newyorkese e torna a vivere nella cittadina di provincia dov'è nata. Lì rincontra l'amico di infanzia Oscar, comincia a lavorare nel suo bar e, soprattutto, scopre di essere legata a qualcosa di terribile e... colossale!



Non so cosa mi aspettassi da Colossal quando ho cominciato a guardarlo ricordando un paio di blandi consigli da parte di alcuni blogger ma sicuramente non credevo che avrei adorato un film che si presenta come la più grossa cretinata del secolo e si sviluppa come un gioiello, come qualcosa che travalica i generi per prendere lo spettatore e scuoterlo come un pupazzo. Parlo di apparente cretinata perché Colossal inizia abbracciando i toni della commedia surreale, con una protagonista che si ritrova nella più classica delle situazioni da "racconto formativo". Gloria, ragazza afflitta da un serio problema di alcolismo, viene cacciata di casa da un fidanzato che la ama ma non ne può più delle sue amnesie da sbronza e torna a vivere nel paese dov'è nata e cresciuta incontrando Oscar, simpatico amico d'infanzia con una palese cotta per lei che la aiuta a riambientarsi. Logico sarebbe pensare che Gloria ritroverà senno e amore con questo ritorno alle origini... e invece no! Infatti proprio lì, dopo l'ennesima sbronza, Gloria scopre di essere collegata ad un kaiju che compare a Seul ogni volta che lei mette piede in un determinato parco giochi a una determinata ora, compiendo i suoi stessi movimenti; di più, a un certo punto a Seul spunta anche un robot, che si scopre essere mosso da Oscar allo stesso modo. Un simile incipit offrirebbe il fianco a mille svolte demenziali, probabilmente ad una parodia del cinema di mostri, invece Vigalondo la vira a poco a poco nel dramma esistenziale, nel thriller, nella commedia nera che strappa più gemiti di angoscia che risate. Immaginate infatti un'alcolista senza nessun controllo delle proprie azioni, non cattiva, non depressa, semplicemente noncurante e dimentica di ogni cosa accaduta nel momento di massimo picco alcolico, che rischia di causare migliaia di morti in una grande città solo per essere inciampata. C'è ben poco da ridere, nevvero? Ma questo non è l'unico risvolto oscuro di Colossal perché, come ho detto, il regista e sceneggiatore non si limita a mettere in piedi una commedia nera dai risvolti fantastici ma scava anche nella psicologia dei personaggi, mettendo davanti allo spettatore una delle evoluzioni caratteriali più devastanti e plausibili tra quelle viste ultimamente, che porta alla rappresentazione di un legame fatto di dipendenza e sopraffazione, malato eppure terribilmente realistico, angosciante.


Con un budget ridotto e la possibilità di ricorrere alle sequenze tipiche di un film di mostri giganti solo per pochi minuti, sfruttando giochi di prospettive intelligenti e validi effetti speciali, la genialata di Nacho Vigalondo è stata quella di sfruttare l'elemento fantastico del film per parlare delle pulsioni autodistruttive degli esseri umani e delle emozioni oscure che li muovono. Parallelamente al percorso di Gloria, che fatica a recuperare controllo e dignità per la salvezza di una popolazione, c'è infatti la progressiva discesa nel baratro del simpatico e gioviale Oscar. Costui compare come possibile love interest di Gloria e si conquista le simpatie di lei e degli spettatori nell'arco di un quarto d'ora, durante il quale sono riuscita persino a sfanculizzare la protagonista per le attenzioni dedicate al belloccio della situazione a discapito del povero barista barbuto. In realtà, Oscar è un personaggio oscuro e alcuni suoi comportamenti sembrano fin da subito in contrasto col suo sembiante pacioso. Per esempio, che senso avrebbe affidare un bar a una persona palesemente alcolizzata invece di aiutarla a uscire dalla sua malattia? Oppure, ancora, perché aggredire uno dei propri migliori amici davanti a un innocente tentativo di flirt? Sono tutte domande che mi pongo ora, a ben vedere, perché Oscar è costruito in modo da ingannare non solo i personaggi del film ma anche e soprattutto gli spettatori, e posso assicurarvi che ce n'è voluto perché anche io gettassi la spugna e arrivassi a rinunciare ad una sua redenzione finale, ritrovandomi col cuore spezzato come Gloria. Il che è angosciante, perché la violenza di Oscar esplode solo negli ultimi dieci minuti di film, per il resto il suo è un terrificante gioco di ricatti e subdole catene che vengono strette al collo della protagonista, frutto non tanto di cattiveria quanto piuttosto dell'incapacità di gestire la propria vita e di risalire una volta che si è toccato il fondo, una sorta di perverso "mal comune mezzo gaudio" che fa ancora più paura se si pensa a quante persone sono davvero così. E quante ce ne sono che non riescono a liberarsi di chi le sopraffà in questo modo, tornando a riprendersi la propria libertà. Anne Hathaway è bravissima in questo film, gestisce un personaggio molto difficile, ma la mia intera ammirazione è andata giocoforza a Jason Sudeikis; abituata come sono a vederlo in ruoli sciocchi, questa sua interpretazione mi ha alternativamente spiazzata e affascinata, oltre ad avere contribuito ad aumentare il mio amore per Colossal, diretto e sceneggiato in maniera magistrale. Non capisco come abbia fatto un simile gioiello a non trovare distribuzione ma adesso dovrebbe essere su Netflix, quindi non avete più scuse!


Di Anne Hathaway (Gloria), Jason Sudeikis (Oscar), Tim Blake Nelson (Garth) e Dan Stevens (Tim) ho già parlato ai rispettivi link.

Nacho Vigalondo è il regista e sceneggiatore della pellicola. Spagnolo, ha diretto episodi di film come The ABCs of Death e V/H/S Viral. Anche attore e produttore, ha 41 anni.


Austin Stowell interpreta Joel. Americano, ha partecipato a film come Dietro i candelabri, Whiplash e Il ponte delle spie. Ha 34 anni e un film in uscita.




martedì 11 novembre 2014

Interstellar (2014)

E' uscito l'ultimo film diretto e co-sceneggiato da Christopher Nolan, Interstellar, e ovviamente tutti sono pronti a picchiarsi al grido di "E' un capolavoro!" "E' una buffonata!!". E la Bolla? E la Bolla sta nel mezzo, come al solito (ignava!) e cercherà di fornire il suo punto di vista non richiesto evitando spoiler...


Trama: la Terra è flagellata da tempeste di sabbia e da una piaga che sta a poco a poco distruggendo tutte le colture. Alcuni scienziati della NASA, scoperta la presenza di un wormhole vicino a Saturno, decidono di mandare degli astronauti a recuperare altri scienziati partiti per esplorare galassie lontane ed eventuali pianeti abitabili...



Tagliamo la testa al toro? Interstellar mi è piaciuto. Su questo non ci piove. Ho apprezzato il mastodontico lavoro di Nolan, un trionfale mix di regia, montaggio ed effetti speciali in grado di trasportarci su pianeti sconosciuti uno più mozzafiato dell'altro, solleticando la memoria cinefila con omaggi a Kubrick e ghiacciandoci letteralmente il sangue nelle vene davanti alla desolazione dello spazio e dell'ignoto. Ho ovviamente amato il gigantesco cast messo assieme dal regista, per svariati motivi: Matthew McConaughey è un eroe riluttante, "grezzo" e molto umano nel suo desiderio di riabbracciare i figli anche a rischio di sacrificare il futuro della razza umana, Anne Hathaway ha dalla sua una fragilità incredibile e, allo stesso tempo, una forza d'animo fuori dal comune, Jessica Chastain ha la fortuna di interpretare il personaggio più accattivante della pellicola, John Lithgow si vede poco (maledetto Nolan!!) ma è sempre adorabile, come del resto lo è la piccola Mackenzie Foy. La storia mi ha appassionata, o meglio, mi ha appassionata il "cuore" della sceneggiatura. L'idea di una Terra condannata ed afflitta da una piaga, condotta per mano verso la salvezza da una novella Mother Abigail (i riferimenti a L'ombra dello Scorpione non sono pochi) verso la quale puntano dei "segni" e attorno alla quale si riuniscono, inconsapevolmente, tante vite umane, è affascinante quanto il triste destino che attende chi si scontra con la relatività del tempo e quanto le scelte compiute per amore, una forza potentissima in grado di superare le barriere dello spazio e del tempo. Tanti aspetti positivi quindi, penserete, cosa voglio di più? Perché sono uscita dal cinema pensierosa e poco convinta, invece di correre nuda sotto la pioggia urlando al miracolo prima di reinfilarmi, fradicia ed infreddolita, nella sala a rivedere da capo il film?


Perché Interstellar mi ha fatto lo stesso effetto di Super 8. All'epoca ero stata una delle poche a non venire catturata dalla presunta bellezza di questo "ritorno agli anni '80 di Spielberg" e il motivo era stato uno, ed uno soltanto: non mi aveva emozionata quanto avrei voluto. Sotto l'avventura, sotto il vintage, sotto la simpatia degli interpreti e della sceneggiatura respiravo un'aria artefatta, di qualcosa costruito a tavolino. La stessa aria l'ho respirata guardando Interstellar, nonostante mi sia commossa più di una volta (nella fattispecie nel momento clou in cui McConaughey rivede i video mandati dai figli o durante l'incontro con Romilly) e nonostante il destino dei personaggi mi interessasse davvero, soprattutto durante la prima, misteriosa parte, dove viene mostrata una Terra afflitta da questa piaga senza nome. Nel corso della seconda parte ho invece avvertito il desiderio di attaccarsi a vili pretesti narrativi per allungare un film che avrebbe potuto tranquillamente durare mezz'ora in meno (la sequenza che vede protagonista Matt Damon è l'emblema della supercazzola e della gag involontaria, quasi a livello The Walking Dead), per non parlare del pre-finale spiegone e telefonatissimo che è riuscito a distruggere qualsiasi parvenza di poesia; in Inception Nolan ci tirava un bel cazzotto in faccia, con una trottola stretta nel pugno, in Interstellar lo stesso Nolan ci da una carezzina sulla testa, un pacchetto di tarallucci e una bottiglia di vino da consumare durante le inevitabili diatribe su internet. Fortunatamente, l'ultima scena è di una bellezza mozzafiato e mi ha riconciliata con l'oscura speranza che non sia tutto bene quel che finisce bene, ma è un po' poco per farmi urlare al capolavoro. Chris, ricordati che la semplicità non è necessariamente un male per quel che riguarda la sceneggiatura, soprattutto quando ci sono di mezzo i sentimenti e l'Amore. Pensa a Cuarón e provaci ancora, dai!


Del regista e co-sceneggiatore Christopher Nolan ho già parlato QUI. Di Ellen Burstyn (Murph da vecchia), Matthew McConaughey (Cooper), John Lithgow (Donald), David Oyelowo (il preside), Anne Hathaway (Brand), Wes Bentley (Doyle), Michael Caine (Professor Brand), Casey Affleck (Tom), Jessica Chastain (Murph), Topher Grace (Getty) e Matt Damon (Mann) li trovate invece ai rispettivi link.

Bill Irwin è la voce di TARS. Americano, ha partecipato a film come Popeye - Braccio di ferro, Hot Shots!, Sister Act 2 - Più svitata che mai, Sogno di una notte di mezza estate, Il Grinch, Lady in the Water e a serie come Una famiglia del terzo tipo e CSI - Scena del crimine. Anche sceneggiatore, ha 64 anni.


Josh Stewart (vero nome Joshua Regnall Stewart) è la voce di CASE. Americano, ha partecipato a film come Il curioso caso di Benjamin Button, The Collector, Il cavaliere oscuro - Il ritorno, The Collection e a serie come CSI - Scena del crimine, ER - Medici in prima linea, CSI: Miami, Ghost Whisperer, The Walking Dead e Criminal Minds. Anche regista, sceneggiatore e produttore, ha 37 anni e un film in uscita.


La piccola Mackenzie Foy, che interpreta Murph a 10 anni, aveva già partecipato a L'evocazione - The Conjuring e agli ultimi due Twilight. Steven Spielberg, che avrebbe dovuto dirigere il film e che ha ingaggiato Jonathan Nolan per scrivere la sceneggiatura, alla fine si è dedicato ad altri progetti quindi Jonathan ha suggerito di affidare la regia al fratello. Detto questo, se Interstellar vi fosse piaciuto, recuperate senza indugio 2001: Odissea nello spazio, Incontri ravvicinati del terzo tipo, Moon, Solaris e Gravity. ENJOY!


lunedì 25 febbraio 2013

Oscar 2013

Argo Vaffanculo!! Parte spontanea la celebrazione per la vittoria di Argo, la sorpresa che ha sbaragliato il favoritissimo Lincoln all’Oscar di quest’anno. Sono molto contenta sia stato scelto come miglior film nonostante tifassi (ovviamente e spudoratamente) per Django Unchained e avessi l’ovvia consapevolezza che il bellissimo Re della terra selvaggia non avrebbe mai potuto ambire a tanto. L’ultimo lavoro di Ben Affleck mescola sapientemente metacinema, quelle patriottiche storie che piacciono tanto agli aMMericani e una non disprezzabile dose di umorismo (non a caso porta a casa anche la statuetta per la miglior sceneggiatura non originale oltre a quella per il montaggio) e a quanto pare ciò è bastato per conquistare i cuori di spettatori ed Academy. Bravo Ben! E bravo anche Ang Lee, che invece ha conquistato l’Oscar per la miglior regia con il suo stupendo Vita di Pi. Una gioia per gli occhi prima ancora che per la mente, sicuramente un validissimo esempio di come il Cinema sia nato per essere una porta sui Sogni e sulla Meraviglia. Passiamo ora agli altri ambitissimi premi…


Scontata la vittoria di Daniel Day-Lewis come miglior attore protagonista. La sua interpretazione di Lincoln è a dir poco perfetta, come sempre l’attore riesce ad annullarsi nel personaggio come nessun altro. Siccome ho guardato il film in lingua italiana, urge adesso un recupero in originale per poter apprezzare ancor di più il lavoro del buon Daniel che, tra l’altro, ha salvato Lincoln dall’ignominia e dal rischio di portarsi a casa solo l’Oscar tecnico per la miglior scenografia.


Jennifer Lawrence vince invece come miglior attrice protagonista per Il lato positivo e anche per miglior premiata spalmata sul palco (altro che Ragazza di Fuoco!). Forse questo era l’unico premio davanti al quale non avevo le idee precise, visto che non ho ancora guardato né il film che vede la Lawrence protagonista, né Zero Dark Thirty, Amour, The Impossible. In compenso mi sono innamorata della piccola Quvenzhané Wallis, che era candidata per Re della terra selvaggia, e non nascondo che avrei sperato in una sua vittoria. Il lato positivo dovrebbe uscire la settimana prossima in Italia, quindi per adesso sospendo il giudizio, nel frattempo sappiate che la Lawrence tornerà presto a duettare con Bradley Cooper nell’imminente Serena e che la rivedremo interpretare due dei personaggi che l’hanno consacrata, ovvero Mystica e Katniss, nei film X-Men – Giorni di un futuro passato e Hunger Games – La ragazza di fuoco.


Da brava tarantiniana, gli unici premi che mi hanno resa felice e gli unici che, a dirla tutta, mi interessano davvero sono quelli andati a Christoph Waltz come miglior attore non protagonista e a Quentin per la miglior sceneggiatura originale. Django Unchained meritava molto di più, ovviamente, ma già solo il fatto che la mano santa di Tarantino, l’incommensurabile bravura attoriale di Christoph e l’incredibile bellezza di un personaggio come il Dottor Schultz siano state riconosciute basta a rendermi felice! Al prossimo film mio cicciosissimo aMMoro!!

No amore mio, l'inchino va a te!
Al pari di quello vinto da Waltz, l'Oscar per la miglior attrice protagonista poteva andare solo ad una persona. La Fantine di Anne Hathaway compare in Les Misérables per pochi minuti scarsi ma vedere l'attrice cantare sulle note di I've Dreamed a Dream è un'esperienza mistica, da standing ovation. Lodi alla brava Anne, dunque, mentre il film di Tom Hooper mette in saccoccia solo un paio di Oscar tecnici, miglior Make-Up e miglior Missaggio Sonoro.


Passiamo adesso ai premi "minori" che minori non sono. Scontata la vittoria di Amour come miglior film straniero e scandalosa quella di Ribelle - The Brave per il miglior lungometraggio animato; non sono riuscita a vedere Ralph Spaccatutto, ma Frankenweenie era sicuramente una spanna sopra rispetto alla pur bella storia della rossa e coraggiosa eroina. Presto lo onorerò degnamente con una recensione. Il superfavorito Zero Dark Thirty porta invece a casa un miserrimo premio per il miglior montaggio audio e gli tocca pure dividerlo con Skyfall, premiato anche grazie alla bellissima e omonima canzone di Adele. Se Anna Karenina si è beccato poi l'Oscar per i migliori costumi (e non fatico a capire il perché, visto il magnifico trailer), Vita di Pi fa man bassa di tutti i rimanenti Oscar, ovvero miglior Fotografia, Colonna Sonora ed Effetti Speciali, consacrandosi così come film più premiato di questa notte degli Oscar e facendo storcere il naso a quelli che mal hanno sopportato la storia di Piscine Molitor Patel e della tigre Richard Parker. Io mi dichiaro invece soddisfatta per un buon 80% e, chinandomi nuovamente a baciare i piedi a Quentin e Christoph, vi auguro un buon proseguimento d'anno cinematografico! ENJOY!

Yeah, Quentin, YEAAAAHH!!!! *____*



mercoledì 13 febbraio 2013

Les Misérables (2012)

Dopo aver tanto penato, finalmente anche io sono riuscita a vedere uno dei film che aspettavo di più in questo ricco gennaio, ovvero Les Misérables, trasposizione dell’omonimo musical di Broadway diretta nel 2012 dal regista Tom Hooper.


Trama: l’ex forzato Jean Valjean decide di cambiare vita dopo l’incontro con un pio vescovo. Violata la parola, riesce persino a diventare sindaco, ma il poliziotto Javert gli è sempre alle calcagna, deciso a riconsegnarlo alla giustizia. In un momento di disattenzione ed egoismo Valjean causa la definitiva rovina e conseguente morte di una sua dipendente, Fantine, e per espiare le promette di prendersi cura della figlioletta Cosette, affidata ai terribili locandieri Thénardier. Nonostante l’incombente e costante pericolo incarnato da Javert, i due riescono a condurre  una vita serena, ma l’amore e la rivoluzione sono in agguato…


Siccome di Les Misérables ho letto male dal momento stesso in cui è uscito, spezzerò subito una lancia in suo favore: a me il film è piaciuto. Non mi nascondo dietro a un dito, adoro i musical e mi faccio sempre trascinare dalla bellezza delle canzoni o dal sentimento con cui vengono cantate, e in Les Misérables ci sono tante canzoni meravigliose e un paio di performance degne di nota. Non mi vergogno nemmeno a dire che ho pianto come un vitello in almeno quattro o cinque occasioni: d'altronde il pregio del romanzo di Hugo è quello di "diluire la tragedia" con spiegoni storico-socio-politici-culturali che durano interi capitoli, mentre Hooper ammazza lo spettatore concentrando questa storia di poveri vinti in due ore e mezza (ma nelle sue intenzioni originali dovevano essere più di quattro, Dio benedica i tagli!!). All'uscita dalla sala io e le mie compagne di visione siamo sbottate in un accesso di risa isteriche invocando un musical sui Malavoglia, con Hugh Jackman/Padron 'Ntoni che piange sui lupini perduti, spero che qualche cantautore particolarmente allegro come, che so, Riccardo Cocciante mi legga ed esaudisca il nostro desiderio. Ma sto divagando, scusate, è solo che la commozione è ancora tanta e in qualche modo va sdrammatizzata. Passiamo alla recensione.


Les Misérables cinematografico è una sorta di compendio del musical di Broadway a cui si aggiungono elementi presi dal romanzo di Hugo e, come l'opera dello scrittore francese, porta avanti un parallelo tra la vita di questi miserabili e la Francia. Jean Valjean è un uomo che lo stato e la cosiddetta giustizia hanno privato dell'identità, della fiducia verso il prossimo e della possibilità di avere un lavoro onesto e una vita serena; la Francia dell'epoca trattata è più o meno simile, una nazione passata in brevissimo tempo dalla Rivoluzione all'impero di Napoleone per poi tornare alla monarchia, uno stato allo sbando dove il popolo è ridotto nella miseria più nera e dove la legge tutela solo chi è benestante, quindi rispettabile. Sia i protagonisti dell'opera che la Francia dovranno trovare nell'amore, nella passione, nella comunione d'intenti e persino nel sacrificio e nella morte la forza per riaffermare sé stessi e ritrovare la dignità perduta, perché in caso di fallimento le alternative sono ugualmente terribili: o rimanere a razzolare nel fango e nell'ignominia come gli abietti Thénardier, oppure rimanere ciecamente ancorati ai propri pregiudizi come Javert, consacrando la propria intera esistenza e la propria sanità mentale al dovere, all'odio e alla persecuzione. Nonostante siano passati secoli il succo della storia mantiene intatta la sua potenza e riesce a far dimenticare persino le ingenuità da feuilletton come la storia d'amore tra Cosette e Marius, nata nel giro di un paio di minuti e sfociata immediatamente in struggente melodrammone.


Il punto di forza di Les Misérables, dunque, sono i passaggi in cui la critica sociale del romanzo (e di conseguenza del musical) riesce a farsi sentire e a raggiungere il cuore del pubblico: che sia la sordida rappresentazione dei bassifondi di Montreuil, che siano le scorrerie del monello Gavroche, che sia il terribile attacco alle barricate o il trionfo dei truffaldini Thénardier, la pellicola di Hooper da il suo meglio in queste sequenze corali, dove il mezzo cinematografico concorre indubbiamente a rendere più vivace la rappresentazione e riesce a infondere nuova linfa in canzoni bellissime e conosciute come At the end of the day, Lovely ladies, Master of the House e Do you hear the people sing?, che risultano così i brani più belli sia per quanto riguarda la regia, che le scenografie. Ovviamente, stiamo parlando di un musical, quindi l'aspetto più importante sono i cantanti. Qui ce ne sono due che svettano su tutti, al di là della tecnica sulla quale non posso esprimermi perché mi mancano le competenze: Anne Hathaway e Russell Crowe. Innanzitutto, ho finalmente capito perché la Hathaway, pur comparendo solo per una ventina scarsa di minuti, si sia beccata miliardi di premi e nomination. Sfido CHIUNQUE a non rimanere a bocca aperta e a non piangere come se non ci fosse un domani davanti alla sua incredibile interpretazione della tristissima I dreamed a dream. Una performance così sentita e commovente che credo avrebbe potuto spaccare il cuore a un sasso, una sequenza che varrebbe da sola il prezzo del biglietto. E l'altro è Russell Crowe. Io ero partita puntando alla tempesta ormonale davanti a Hugh Jackman ma il granitico, impenetrabile e bastardissimo Javert di Crowe è un trionfo che supera di gran lunga ogni aspettativa. Mi permetto di dire che l'ex Gladiatore ha una voce forse troppo impostata, ma il pezzo in cui canta il suo Soliloquio prima di gettarsi nella Senna mette i brividi e non solo per il suono realistico del corpo che si spezza contro la pietra. Chapeau a entrambi e menzione d'onore anche per i simpaticissimi Thénardier di Sacha Baron Cohen e Helena Bonham Carter, sempre a loro agio nei ruoli di laidi cialtroni (anche se qualcuno avrebbe dovuto ricordare alla signora Burton che il musical si ambienta a Parigi, non serviva indulgere nell'accento di Mrs.Lovett).


Purtroppo, e non avete idea di quanto mi dispiaccia, ci sono anche parecchie critiche da fare. Innanzitutto, Les Misérables abbonda di sequenze statiche. Io ne ho visti parecchi di musical ma non ne ricordo uno così pieno di primi piani e mezzi busti a bocca spalancata. In due ore e mezza, i momenti in cui i cantanti si ritrovano soli con uno sfondo alle spalle, immobili, a cantare i loro dubbi e il loro dolore superano quasi sicuramente metà della durata della pellicola e purtroppo solo Anne Hathaway può permettersi un simile trattamento. Lo stesso, ahimé, non si può dire di Hugh Jackman. Jean Valjean, posso dirlo? E che due maroni, sempre lì a frignare come un disperato, a lamentarti, a preoccuparti per tutti tranne che per te stesso e persino ad invecchiare male! Sì, il povero Hugh passa dall'essere uno scheletro inquietante all'indossare un'inguardabile parrucchetta riccia per poi morire con in faccia un improponibile trucco da vecchio. Sono sincera, era mille volte meglio Depardieu nella serie TV, Jackman non è proprio tagliato per il ruolo di Jean Valjean. Altra cosa orrenda, ma questa ce la siamo beccata solo noi italiani, è la scelta di doppiare quei dieci minuti scarsi di dialogo: santo cielo, vi rendete conto che non si possono sentire gli intermezzi pronunciati da un'altra persona e in un'altra lingua nel bel mezzo di una canzone?? Tanto, ormai avevate fatto trenta, potevate far trentuno, qualche sottotitolo in più non avrebbe creato delle sommosse popolari. E aggiungo che Santa Claus e Babbo Natale non sono proprio la stessa cosa, credo che per un film ambientato nella Francia dell'800 una simile traduzione sia quantomeno discutibile. No comment. Vabbé, a parte questi due o tre difetti, Les Misérables mi è piaciuto, lo ribadisco. Non lo candido a film dell'anno, questo proprio no, ma se volete guardare un bell'omaggio ad uno dei più grandi e conosciuti musical di Broadway non vi pentirete di aver messo piede in sala.


Del regista Tom Hooper ho già parlato qui. Di Hugh Jackman (Jean Valjean), Russell Crowe (Javert), Anne Hathaway (Fantine), Amanda Seyfried (Cosette), Sacha Baron Cohen (Thénardier) e Helena Bonham Carter (Madame Thénardier) li trovate invece ai rispettivi link.

Eddie Redmayne (vero nome Edward John David Redmayne) interpreta Marius. Inglese, ha partecipato a film come Elizabeth: The Golden Age e Marilyn. Ha 31 anni e un film in uscita.


Samantha Barks, che interpreta Eponine, aveva già incarnato il personaggio in occasione del 25simo anniversario del musical di Broadway e per fortuna la scelta è ricaduta su di lei, oppure avremmo dovuto beccarci la “performance” di Taylor Swift. Tra le altre fanciulle in lizza per il ruolo segnalo Hayden Panettiere, Scarlett Johansson ed Emily Browning, mentre ad ambire a quello di Cosette c’era anche Emma Watson. E’ cosa risaputa invece che durante i provini Anne Hathaway (fortemente voluta proprio da Hugh Jackman) abbia lasciato tutti in lacrime, surclassando così gente come Jessica Biel, Marion Cotillard, Kate Winslet e Rebecca Hall. Passiamo ora ai maschietti. Prima di ingaggiare Crowe si era pensato a Paul Bettany per il ruolo di Javert, Jamie Campbell Bower ha rifiutato il ruolo di Enjorlas e Geoffrey Rush (già Javert ne I miserabili del 1998) era stato preso in considerazione per quello di Thénardier ma, in tutta sincerità, meglio che la parte sia andata all’esilarante Sacha Baron Cohen.  E con questo concludo, aggiungo solo che a fine mese Les Misérables concorrerà per otto Oscar: migliori costumi, miglior make-up (ma stiamo scherzando??!), miglior canzone originale (Suddenly), miglior scenografia, miglior sonoro, miglior film (no, sinceramente, non lo merita, soprattutto non con le altre pellicole in lizza per il premio…), Hugh Jackman miglior attore protagonista (e anche lì, assolutamente no, sarebbe immeritato…)  e Anne Hathaway migliore attrice non protagonista (se potessi glielo consegnerei io ora, giuro). Nell’attesa della notte degli Oscar, se Les  Misérables vi fosse piaciuto consiglio la visione de Il fantasma dell’Opera e Moulin Rouge. ENJOY!!

mercoledì 22 agosto 2012

Il Cavaliere oscuro - Il ritorno (2012)

Ieri sera sono andata con un paio di amici a vedere l’anteprima de Il Cavaliere oscuro – Il ritorno (The Dark Knight Rises), attesissimo capitolo finale della trilogia di Christopher Nolan. La recensione che segue, per rispetto di chi attenderà l’uscita ufficiale per andarlo a vedere, è rigorosamente spoiler free.


Trama: alla fine de Il cavaliere oscuro Batman era stato dichiarato nemico pubblico di Gotham City mentre Harvey Dent, alias Due Facce, era stato praticamente fatto santo. A seguito di questo, Bruce Wayne si è ritirato in una sorta di clausura e la città sta attraversando un periodo di pace che dura da otto anni, ma ci penserà il terrorista Bane a cambiare lo status quo…


Non mi vergogno a dire che i primi due Batman diretti da Nolan mi avevano lasciata come mi avevano trovata. Del primo non ricordo praticamente nulla, mentre il secondo, osannatissimo capitolo mi aveva abbattuta per la noia, salvo per le sporadiche apparizioni di Heath Ledger nei panni di Joker. Ero partita dunque con le peggiori aspettative riguardo questo Il cavaliere oscuro – Il ritorno… invece, e per fortuna, mi sono unita agli applausi a scena aperta che sono scattati automatici alla fine della pellicola. Per la prima volta, infatti, mi è parso che regista e sceneggiatori si siano impegnati a raccontare una storia di Batman, senza limitarsi a girare delle specie di pesantissimi action con un tizio in tenuta da pipistrello e perennemente complessato: qui c’è sì la disperazione, c’è la rinuncia, c’è finalmente un cattivo con le palle in grado di costituire una vera minaccia, sia fisica che psicologica, per l’uomo pipistrello e per Gotham, c’è la consapevolezza che Bruce Wayne è solo un uomo privo di superpoteri costretto ad affrontare problemi più grandi di lui, c'è un riferimento neppure troppo velato alla crisi mondiale e all'incredibile disparità tra troppo ricchi e troppo poveri… e ci sono, soprattutto, dei comprimari della madonna.


Non vado troppo nel dettaglio per non rovinare la sorpresa a chi non ha ancora visto la pellicola, ma ho sempre pensato che il bello di Batman non fosse il protagonista in sé, quanto la varietà di personaggi che ne popolano l’universo. In questo caso, Christian Bale, per quanto bravissimo e in parte, potrebbe tranquillamente non comparire mai all’interno della pellicola, perché bastano gli altri protagonisti a formare da soli un film praticamente perfetto. Michael Caine e Gary Oldman sono assolutamente inarrivabili, soprattutto il primo regala degli incredibili momenti di umorismo british e pura commozione; il nuovo villain Bane mette ansia ad ogni apparizione, è di una spietatezza senza confini ed è un piacere vederlo mettere in atto i suoi folli progetti (l’unico neo è la sua orrenda voce metallica, inascoltabile come quella di Batman: durante il confronto tra i due mancava solo la vocetta posticcia dell'Enigmista che invitava entrambi a fare un gioco con lui, poi eravamo davvero a posto…); Anne Hathaway è, inaspettatamente, una Selina perfetta, nelle movenze, nel costume e nelle motivazioni del personaggio, quasi affascinante come Michelle Pfeiffer; Joseph Gordon – Levitt è la scelta vincente per un protagonista fondamentale che viene “svelato” con intelligenza e senza troppi sensazionalismi, tenendolo quasi nell’ombra per tutta la durata della pellicola ed approfondendone al meglio le motivazioni; infine, Marion Cotillard è la raffinatezza fatta a persona, e cos’altro si può dire ad un’attrice simile? Al solito, purtroppo, il Fox di Morgan Freeman non mi ha fatto né caldo né freddo, trovo che sia un personaggio simpatico e utile in senso pratico, ma per il resto tranquillamente sacrificabile. 


Per quanto riguarda l’aspetto tecnico della pellicola, anche i primi due capitoli rasentavano la perfezione, e Il cavaliere oscuro – Il ritorno non fa eccezione. La scena iniziale è mozzafiato, da pelle d’oca, così come l’attacco definitivo di Bane alla città di Gotham, punto focale del film (apro una parentesi sulla colonna sonora, bellissima, ma tante volte è molto più emozionante e carica di valore la delicata voce di un bambino che canta l'inno nazionale al momento giusto per far rimanere a bocca aperta...), inoltre i mezzi tecnologici dell’uomo pipistrello sono forse ancora più impressionanti delle altre volte e consentono sicuramente la realizzazione di efficacissime sequenze dove inseguimenti, sparatorie ed esplosioni la fanno da padrone. Sensazionali le scenografie: personalmente, ho amato molto l’immagine del tribunale “temporaneo” di Gotham City (e dovreste vedere il giudice che lo presiede…!), emblema di un caos mascherato da legge, e sono molto suggestivi anche il rifugio del villain e la prigione sotterranea nel bel mezzo del deserto. Non mi hanno fatta impazzire i costumi invece, con Bane che sembra uno zamarro appena caduto dall’aereo de I mercenari e con le solite, impersonalissime tutine che avvolgono le chiappe di Catwoman e Batman, né ho apprezzato i combattimenti tra protagonista e villain, lenti e rozzi incontri di pugilato tra monoliti di marmo. Ma a parte questi ultimi, trascurabili dettagli, è bello vedere come Nolan sia riuscito a tirare con maestria le fila del complesso discorso cominciato ormai sette anni fa, dando alla saga una degna e logica conclusione, che non lascia assolutamente l’amaro in bocca né una sensazione di incompletezza, come spesso accade in questi casi. Personalmente, confido che la cosa finisca qui e che non vengano fatti altri seguiti o reboot che saprebbero di fasullo lontano un miglio. Intanto, mi preparo a recuperare l’intera trilogia in DVD, chissà che il tempo non mi consenta di essere più indulgente con i primi due film e di dichiararli bellissimi come questo Il cavaliere oscuro – Il ritorno.


Del regista e cosceneggiatore Christopher Nolan ho già parlato qui. Di Christian Bale (Batman/Bruce Wayne),  Gary Oldman (Jim Gordon), Tom Hardy (Bane), Joseph Gordon – Levitt (Blake, ruolo per il quale erano stati considerati anche Leonardo Di Caprio, Ryan Gosling e Mark Ruffalo), Anne Hathaway (Selina, ruolo per cui erano "arrivate in finale" anche Keira Knightley e Jessica Biel), Marion Cotillard (Miranda), Morgan Freeman (Fox), Michael Caine (Alfred), Cillian Murphy (Jonathan Crane/Scarecrow), Liam Neeson (Ra's Al Ghul) e Nestor Carbonell (il sindaco), ho già parlato nei rispettivi link.

Matthew Modine interpreta Foley. Americano, lo ricordo per film come Full Metal Jacket (era il soldato Joker), America oggi, Corsari, Notting Hill, Ogni maledetta domenica, inoltre ha partecipato alla serie Weeds. Anche produttore, regista e sceneggiatore, ha 53 anni e due film in uscita.


Inutile dirlo, se il film vi è piaciuto vi consiglio il recupero di Batman Begins e di Il Cavaliere oscuro, oltre ovviamente a Batman e Batman Returns di Tim Burton. ENJOY!!



giovedì 11 marzo 2010

Alice in Wonderland (2010)

Questa potrebbe essere davvero la recensione più attesa da molti dei miei “fedeli lettori”, e mi spiace di averci messo tanto a buttarla giù. Sto parlando ovviamente della recensione di Alice in Wonderland, l’ultimo film di uno dei miei registi preferiti in assoluto, Tim Burton. Ne esco soddisfatta, non tanto quanto avrei voluto, soprattutto a causa dell’uso di quel maledetto 3D che ormai me l’ha fatta a fette. Ma andiamo con ordine.


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La trama: Alice è cresciuta, il ricordo del Paese delle Meraviglie ormai relegato all’idea di un sogno infantile. E’ tempo per lei di fidanzarsi con un moscissimo membro dell’alta borghesia, ma i preparativi per il fidanzamento vengono interrotti dalla comparsa del Bianconiglio. Come in passato, Alice lo segue e cade in un buco, ritrovandosi in un Paese delle Meraviglie tiranneggiato dalla capocciona Regina Rossa, che grazie al suo fidato Ciciarampa ha seminato il terrore e si è assicurata il potere. Ad Alice, assieme a Cappellaio Matto, Stregatto e Regina Bianca, non rimane altro che seguire il destino e cercare di sconfiggere il Ciciarampa nel giorno Gioiglorioso.


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La storia più famosa di Lewis Carroll, un perfetto esempio di gotica follia, rimaneggiata da chi del gotico e della follia ha fatto la sua ragione di vita, era un evento da non perdere per tutti i fan di Burton e ovviamente anche di Alice nel Paese delle Meraviglie. Alice è l’ennesimo personaggio “outsider” del regista, un animo candido, sognatore, che soffre per colpa della grigia e piatta realtà in cui è immerso e in cui tutti vorrebbero rinchiuderlo. Una premessa ideale dunque, che però si perde un po’ nel corso del film, che viene ad assomigliare più ad una quest fantasy che ad un riconoscibile film di Burton. Intendiamoci, i marchi di fabbrica del regista, almeno a livello visivo, ci sono tutti, al di là degli attori – feticcio (Johnny Depp ed Helena Bonham – Carter): i personaggi grotteschi e al limite del cadaverico, gli alberi scheletrici, i pavimenti a spirale, gli abiti meravigliosamente gotici e il Ciciarampa che sembra fatto in stop – motion. Però a questo giro si è visto come tutta la pellicola fosse pervasa di un alone “disneyano” che le ha impedito di brillare come avrebbe dovuto.


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La trama recupera tutti i personaggi più o meno conosciuti dei due libri dedicati ad Alice, Alice in Wonderland e Through the Looking Glass, e li proietta qualche anno nel futuro, quando la protagonista è adolescente. In questo modo gli sceneggiatori sono riusciti a mantenere più o meno intatto il mondo tanto amato dai fan, immergendolo in un contesto nuovo che potesse creare una storia comprensibile anche da chi non fosse familiare con i mondi creati da Carroll. Il risultato è una caratterizzazione molto particolare dei personaggi, che vengono a trovarsi divisi in servi della Regina Rossa e ribelli devoti alla Regina Bianca, decisamente animati dal punto di vista “politico”, paladini della libertà di essere folli e seguire i propri sogni. Si è cercato insomma di dare un senso ad un’opera fondata sul nonsense, incanalando un po’ i personaggi verso una psicologia contorta ma più comprensibile: abbiamo così un Cappellaio Matto che al di là di qualche sproloquio potrebbe quasi essere un eroe romantico, un Ghiro combattente che cava gli occhi ai mostri a colpi di ago, uno Stregatto meno ambiguo ma più coccolone e “impegnato”. Personaggi un po’ debolucci, non a caso ad eclissare tutti gli altri è la splendida Regina Rossa, “Caledetta Mapocciona”, assolutamente folle e geniale , piena di tic e grottesca da morire, l’unica secondo me ad aver mantenuto intatto lo spirito delle opere originali di Carroll; di poco inferiore è la Regina Bianca, un incrocio tra lo Jacopo Ortis di Raul Cremona e la tipica principessa delle fiabe, aggraziata e teatrale anche quando vomita o sputa.


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Andando un momento oltre la trama e la caratterizzazione dei personaggi, questo Alice in Wonderland è comunque visivamente splendido. Premesso che il trucco e i costumi sono sempre meravigliosi (ESIGO il trucco della Regina Bianca e i guanti a righe di Alice!!), come in ogni film di Burton che si rispetti, ho però sentito qualcuno lamentarsi dell’eccesso di CG; non posso dare torto a questi detrattori, ma lo spettacolo che si offre a agli occhi dello spettatore è splendido (la mia scena preferita, oltre alla caduta di Alice nel buco sotto l’albero, è lo scontro sulla scacchiera tra l’Esercito della Regina Rossa e quello della Regina Bianca), e non immagino altro modo per creare un Paese delle Meraviglie così realistico, con tutto il suo assurdo bestiario, i paesaggi sconfinati, gli imponenti palazzi delle due Regine, il vortice in cui cade Alice all’inizio e le carte da gioco soldati della Regina rossa. Più della CG io ho detestato in questo film l’uso del 3D, che speravo potesse renderlo davvero unico. Inutile causare male di testa agli spettatori, scurire la fotografia, far pagare uno sproposito per poi mostrare l’unico effetto degno di essere chiamato 3D alla fine: una farfallina blu che esce letteralmente dallo schermo. Sì, carinissima come cosa, per carità, e molto poetica ma… anche no, please. Quest’ultima frontiera sta diventando l’ultima fregatura, e purtroppo più andremo avanti più i film realizzati in 3D saranno gli unici che passeranno nelle sale, ci manca solo che facciano Vacanze di Natale in 3D col culo peloso di De Sica che piomba sulle facce inorridite degli spettatori e siamo a posto!


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In poche parole, Alice in Wonderland mi è piaciuto. Speravo meglio, ma mi è piaciuto, e se lo avessi visto in inglese immagino me lo sarei goduta anche di più, perché la cosa bella è che Tim Burton ha mantenuto i nonsense linguistici di Carroll e li usa a piene mani per fare parlare il Cappellaio Matto, la Regina Rossa e gli ahimé poco sfruttati Pinco Panco & Panco Pinco, tanto che spesso i dialoghi risultano ostici anche in italiano; l’altro motivo per cui avrei voluto vederlo in inglese è la marea di gente che da la voce ai personaggi, come Alan Rickman col Brucaliffo (anche lui, personaggio poco valorizzato…) o l’icona Christopher Lee col Ciciarampa. Ho apprezzato tantissimo l’ironia che pervade tutta la pellicola, soprattutto quando Alice si confronta con il futuro e orrendo promesso sposo e la sua famiglia, oppure quando la Regina Rossa soffre le pene d’amore (non corrisposto) per il viscidissimo Fante e ho adorato i flashback, pochi ma buoni, che mostrano la dolcissima Alice bambina in quello che per me sarà sempre il vero Paese delle Meraviglie. E, almeno per me, il problema sta proprio qui: nella consapevolezza che nel 1951 un trio di registi ha diretto per la Disney il cartone animato forse più bello della “casa del topo”, ovvero Alice nel Paese delle Meraviglie. E io ricordo ancora come mi sentivo, e ancora mi sento, a disagio ed inquieta, ogni volta che vedevo Alice impossibilitata ad uscire da quella maledetta stanza con la porticina, o quando la strada veniva cancellata dai Palmipedoni che la lasciavano sola e perduta a piangere nel buio, presa in giro dallo Stregatto che era davvero bastardo e ambiguo. Alla fine quel maledetto Paese non era così meraviglioso, ma il frutto delle fantasie di una bimbetta preda della pazzia, e questo aspetto nel film di Burton viene scelleratamente evitato, togliendo ogni genere di inquietudine o incertezza e dividendo nettamente i buoni dai cattivi. E non basta un fiume di teste decapitate per provocare qualche brivido, purtroppo. Speriamo che, per citare il Cappellaio, Tim Burton torni a recuperare la sua “moltezza”. In compenso, voto 10 alla splendida colonna sonora di Danny Elfman.


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Di Helena Bohnam – Carter, attuale compagna del regista, ho già parlato qui, mentre Alan Rickman è una presenza praticamente fissa del Bollalmanacco: aspetto entrambi con ansia per l’ultimo Harry Potter, ovviamente. Di Johnny Depp ho già parlato qui; si favoleggia un suo ritorno come Capitan Jack Sparrow in un quarto episodio della saga dedicata ai Pirati dei Caraibi, e anche una sua partecipazione al terzo capitolo di Sin City. Sperèm!


Tim Burton è il regista del film. Assieme a Tarantino e Scorsese forma la triade dei miei preferiti in assoluto, e non avete idea di quanto stia bestemmiando all’idea di non poter andare a New York a vedere la mostra che gli ha dedicato il MOMA. Speriamo in Cannes, via. Tra i film da lui diretti, tutti meravigliosi tranne l’obbrobrioso Planet of The Apes, ricordo Beetlejuice – Spiritello porcello, Batman, il capolavoro Edward mani di forbice, Barman Returns, Ed Wood, Mars Attacks!, Il mistero di Sleepy Hollow, Big Fish, La fabbrica di cioccolato, La sposa cadavere e Sweeney Todd. Ha realizzato anche parecchi corti, come Vincent e Frankenweenie (che sta per diventare un lungometraggio!) e serie animate come The Adventures of Stainboy, senza dimenticare poi che la sua magica manina ha scritto e prodotto l’altro grande capolavoro che è The Nightmare Before Christmas. Ha 52 anni e un film in uscita, Frankenweenie appunto.


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Christopher Lee da la voce al Ciciarampa in originale. Icona horror vivente, sia per numero di film che per “anzianità”, dopo la morte del divino Vincent Price è diventato il feticcio nostalgico di Burton. I film da lui interpretati (quasi sempre come villain o come guest star..) spaziano dall’horror più serio a quello più becero, dalla serie dedicata a Fu Manchu a mille e più pellicole con Dracula o altri vampiri come protagonisti. Alcuni titoli: La maschera di Frankenstein, Dracula il Vampiro, La furia dei Baskerville, La mummia, Ercole al centro della Terra, 1941: allarme a Hollywood, Howling II – L’ululato, Gremlins 2 – La nuova stirpe, Scuola di polizia – Missione a Mosca, Sorellina e il principe del sogno (eh sì…!), Il mistero di Sleepy Hollow, la trilogia de Il Signore degli Anelli, La fabbrica di cioccolato, La sposa cadavere (doppiava il bastardissimo vescovo). Inglese, ha la veneranda età di 88 anni e la bellezza di quattro film in uscita.


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Anne Hathaway interpreta la meravigliosa Regina Bianca. La sua carriera è appena agli inizi, ma è costellata di film interessanti, come I segreti di Brokeback Mountain e Il Diavolo veste Prada. Ha prestato inoltre la voce per Cappuccetto Rosso e gli insoliti sospetti e alcuni episodi di Simpson e Griffin. Ha 28 anni e due film in uscita.


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E per la serie “Carneade, chi era costui?”, segnalo che Crispin Glover, ovvero il Fante, è lo stesso attore che in Charlie’s Angels interpreta il Secco Orripilante e colui che ha avuto l’onore di essere seppellito dal trucco di Grendel nell’orrendo Beowulf. Matt Lucas invece è colui che si nasconde dietro il doppio ruolo di Pinco Panco e Panco Pinco, dopo anni passati a fare scompisciare le platee internazionali con Little Britain. Piccola curiosità: il Cappellaio chiede sempre ad Alice “perché un corvo è come una scrivania?”. La cosa mi ha incuriosita, e sono andata a cercare qualche notizia in merito. La domanda effettivamente è presente anche nelle opere di Carroll, che ha affermato che non esiste una risposta. Ma alcuni sostengono che la risposta sia… “perché Edgar Allan Poe ha lavorato su entrambi”. Geniale. Ma più geniale lo Stregatto della Disney, non posso fare a meno di mettere uno spezzone di Alice nel paese delle meraviglie! ENJOY!


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