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martedì 11 marzo 2025

Mickey 17 (2025)

Domenica sra sono andata a vedere Mickey 17, l'ultimo film scritto e diretto dal regista Bong Joon Ho, tratto dal romanzo Mickey7 di Edward Ashton.


Trama: dopo aver contratto ingenti debiti con un pericoloso criminale, Mickey Barnes decide di candidarsi come "sacrificabile" e andare nella colonia spaziale Niflheim. La sua condizione gli impone di morire e poi venire ricreato da una sorta di stampante, almeno finché le cose non cominciano ad andare ancora più storte...


Avevo sbirciato (non leggo mai veramente le recensioni prima di guardare i film e scrivere i post per il blog...) pareri assai tiepidi sull'ultima fatica di Bong Joon Ho. Per questo, nonostante il trailer mi avesse ispirato fin dalla prima visione, sono andata al cinema con aspettative abbastanza basse e forse, proprio per questo, mi sono molto divertita guardando Mickey 17. Come al solito, non ho letto il romanzo da cui è tratto, quindi non posso fare paragoni, ma Mickey 17 è una satira abbastanza corrosiva su una società che mastica e sputa il prossimo, sui riccastri e politici (non si fanno nomi ma il modello è abbastanza chiaro) che, dopo aver mangiato a sazietà nel nostro pianeta fino a rovinarlo, guardano a nuovi pascoli più verdi, e a ricrearsi un mondo a loro immagine e somiglianza. Mickey Barnes, ragazzo non proprio brillantissimo, decisamente incapace a scegliersi i migliori amici, rimane invischiato in una storiaccia di debiti e minacce di morte. Decide quindi di imbarcarsi nella missione spaziale capitanata dal politico Kenneth Marshall, candidandosi come "sacrificabile" per avere la certezza di lasciare la Terra. Un sacrificabile è il frutto di una tecnologia proibita in grado di clonare le persone e ricrearle con i ricordi della "versione" precedente, quindi può venire utilizzato per esperimenti e compiti mortali, senza troppi problemi morali (che sulla Terra, invece, ci sarebbero, visto che la tecnologia è stata bandita). I problemi cominciano quando il diciassettesimo Mickey, uscito in esplorazione sull'inospitale pianeta ghiacciato denominato Niflheim, sopravvive inaspettatamente, all'insaputa di chi, nel frattempo, ha creato la sua diciottesima versione. Dati i presupposti, e la voce narrante rassegnata e un po' babbea del povero Mickey, il film risulta un'opera spassosa e grottesca, ma non priva di momenti di riflessione; il protagonista viene trattato come un balocco da manipolare a piacimento, al limite oggetto di una curiosità morbosa ("Cosa si prova a morire?" è la domanda che tutti gli rivolgono), ma la sua condizione è un giusto un gradino sotto quella dei suoi compagni di viaggio, semplici "mezzi" per garantire a Marshall e alla moglie di soddisfare il loro ego ridicolo. Come ogni conquistatore da operetta, Marshall segue la sua ridicola visione, eleva simboli vuoti a segni divini, tratta qualsiasi vita come inferiore, soprattutto quella degli autoctoni, che diventano vittime di diffidenza e pregiudizio tanto quanto il povero Mickey, relegato al rango di sub-umano. La satira di Mickey 17 non è molto sottile, ma è sicuramente efficace, e tolti gli elementi sci-fi non si fa granché fatica a scorgere tristi scorci del nostro marcissimo presente.


Ora verrò bersagliata dalle "medaglie d'oro di sputo" (ciao, Lucio!) ma non mi ritengo granché esperta di Bong Joon Ho, quindi non stupitevi della mia incapacità di cogliere gli elementi salienti del suo stile, cosa che mi ha portata ad apprezzare ugualmente Mickey 17, nonostante sia stato accusato di essere "troppo americano". Posso dire che, a tratti, durante la visione mi è tornato in mente Okja, sia per i tanti elementi grotteschi della trama, sia per il sembiante dei mostrilli "striscianti" che compaiono nella pellicola; questi ultimi, a dire la verità, mi hanno ricordato anche l'Ohmu di Nausicaa della Valle del vento, un baluardo gentile ma feroce contro la stupidità umana e il desiderio di conquistare, inquinare, calpestare la natura, compresa quella umana. A questo proposito, gli effetti speciali non mi hanno fatto venire voglia di strapparmi gli occhi, come purtroppo accade sempre più spesso, e alcune sequenze, coadiuvate da una bella fotografia e un ottimo montaggio, mi hanno decisamente galvanizzata. Per quanto riguarda gli attori, col senno di poi sarebbe forse stato meglio guardare Mickey 17 in lingua originale, visto che Robert Pattinson funge anche da voce narrante, ma ho comunque apprezzato lo sforzo infuso dall'attore nell'interpretare Mickey nelle sue diverse incarnazioni, ognuna con un tratto caratteriale diverso, oltre alla noncuranza con la quale sfoggia un look simile a quello del Lloyd di Scemo e più scemo. Bravissimi, ovviamente, anche Mark Ruffalo, sempre più a suo agio nei ruoli weird di uomini di merdissima, e Nostra Signora Toni Collette, alla quale il regista ha confezionato una sequenza perfetta per la sua natura di horror queen, ma la piacevole novità è stata Naomi Ackie (già protagonista di Blink Twice)nei panni del personaggio più sensato e umano della pellicola. Se deciderete di andare al cinema a vedere Mickey 17, il mio consiglio per godervelo al meglio è dimenticare Parasite e le pellicole più autoriali di Bong Joon Ho; l'ultima opera del regista è decisamente più commerciale e "normale",se mi passate il termine, ma è un viaggio molto divertente e pieno di momenti inaspettati, che secondo me vale la pena intraprendere. Basta solo sapere a cosa andrete incontro!
 

Del regista e co-sceneggiatore Bong Joon Ho ho già parlato QUI. Robert Pattinson (Mickey Barnes), Steven Yeun (Timo), Naomi Ackie (Nasha), Daniel Henshall (Preston), Mark Ruffalo (Kenneth Marshall), Toni Collette (Ylfa) e Steve Park (Zeke) li trovate invece ai rispettivi link.


Se Mickey 17 vi fosse piaciuto recuperate Source Code e Infinity Pool. ENJOY!

venerdì 19 agosto 2022

Nope (2022)

Finalmente i cinema hanno riaperto anche dalle mie parti e, ovviamente, non potevo esimermi dal correre a vedere uno dei film che aspettavo con più impazienza, ovvero Nope, scritto e diretto dal regista Jordan Peele. NO SPOILER, tranquilli.


Trama: dopo la morte del padre, O.J. e la sorella Emerald cercano di salvare la loro attività di addestratori di cavalli dalla bancarotta, proprio quando qualcosa di orribile comincia ad accadere all'interno della loro proprietà...


Mi levo subito il dente, così la facciamo finita. Credo di essere una delle poche persone ad avere avuto qualche problemino con Nope e ammetto di non averlo apprezzato tanto quanto i lavori precedenti del regista. Il motivo è essenzialmente legato a una questione di pancia: l'argomento di Nope, per quanto sia tra le cose che più mi terrorizzano cinematograficamente parlando, è anche uno di quelli che mi infastidisce maggiormente e che mi dà sempre una sensazione di "cheap", di cretinata buttata lì. Di conseguenza, sono rimasta molto meno coinvolta da Nope rispetto a Noi o Get Out, ma ciò non significa assolutamente che l'ultima pellicola di Peele sia un brutto film, anzi, probabilmente è quella più stratificata ed ambiziosa e, di sicuro, non è una cretinata. Senza scendere troppo nello specifico, Nope getta uno sguardo piuttosto feroce su un'altra delle nostre piaghe sociali, la necessità (più che la brama) di essere famosi e speciali per contare davvero qualcosa, quel "picture or it didn't happen" che, più in piccolo, governa anche la nostra quotidianità, tra Facebook, Instagram, Youtube, ecc. Nope però non è una critica ai social, nulla di così banale, ma proprio alla pressione sociale che ormai ha cambiato definitivamente il nostro modo di approcciarci alle cose, trasformando tutto in "spettacolo" usa e getta; alla sincera passione si affianca troppo spesso il desiderio non solo di ricavare del denaro ma, soprattutto, di spiccare, di essere speciali ed unici, anche a scapito della ragionevolezza e del piacere di dedicarsi a qualcosa. I protagonisti di Nope, è vero, sono alla canna del gas e la loro attività (retaggio comunque di un tempo passato in cui i risultati si ottenevano con calma e ci si fidava dei professionisti, senza pensare di saperne più di loro) rischia di mandarli in bancarotta, ma quando l'orrore si abbatte sulle loro vite né O.J., che parrebbe più ragionevole, né l'inaffidabile Emerald pensano di lasciare i loro terreni, e non tanto per una questione di orgoglio o nostalgia, quanto proprio per il triste miraggio del denaro e della fama. Lo stesso vale per Jupe, ex bambino prodigio, protagonista di una side story che, lì per lì, parrebbe non entrarci nulla con la trama principale ma che, invece, nasconde proprio la chiave per interpretare l'intera pellicola. 


Jupe è sopravvissuto a un'esperienza che avrebbe mandato al manicomio più di una persona e ne ha trasfigurato l'orrore in una sorta di benedizione, di autocelebrazione a base di memorabilia capaci di parlare agli istinti più bassi dei curiosi. "Tu sei il prescelto", si ripete Jupe, risparmiato da una furia omicida per puro caso, eppure ovviamente convinto che dietro alla sua fortuita salvezza si nasconda un qualche significato in virtù dell'egocentrismo che abbiamo tutti in misura più o meno minore, e da questa convinzione deriva quella di essere invincibile, speciale e necessario, con tutte le conseguenze che Jordan Peele mette in scena in una delle sequenze più angoscianti del film. Nel trailer, un personaggio si domanda "come si chiama un miracolo al contrario?". Ebbene, qui c'è da chiedersi come si chiama il contrario della speranza gioiosa di Spielberg, di quell'ingegno umano tutto americano e anche un po' sfacciato che consentiva ad adulti e ragazzini di vivere le avventure più meravigliose trovandosi davanti l'ignoto. Si chiamerà "Nope", come a dire "manco per il ca**o" o come a dire "No hope"? In qualunque modo la si voglia chiamare, di sicuro a Peele non manca la grandiosità spielberghiana di una regia che regala immagini splendide ed emblematiche, tra campi lunghi mozzafiato e comunque claustrofobici (perché qualunque cosa può nascondersi nel paesaggio brullo dove i cavalli fuggono spaventati), primi piani di occhi che non ardirebbero guardare ma devono farlo comunque, perché essere testimoni, anche di fronte all'orrore, significa essere speciali ed unici, e punti di vista che cambiano a seconda del personaggio, cosa che ci cala nei panni dei terrorizzati protagonisti, il tutto unito da un montaggio fluido e intelligente. Nope non è un film ottimista, nonostante ci insegni a fare un passo indietro e a rivestirci di umiltà ridimensionando il nostro posto nel mondo, ma è un film che sancisce la fine del sogno americano, dell'innocenza di un far west esistito solo al cinema, e che regala un lieto fine incerto ed amarissimo, racchiuso interamente nel sorriso forzato della brava Keke Palmer. A prescindere da tutto quello che mi ha potuta infastidire (e da tutto quello che ci viene insegnato nel film), a voi consiglio però di non distogliere lo sguardo da Nope e di godervi lo spettacolo messo in scena da Peele, rigorosamente al cinema. 


Del regista e sceneggiatore Jordan Peele ho già parlato QUI. Daniel Kaluuya (O.J. Haywood), Michael Wincott (Antlers Holst), Steven Yeun (Ricky "Jupe" Park), Keith David (Otis Haywood Senior) e Oz Perkins (Fynn Bachman) li trovate invece ai rispettivi link.

Keke Palmer interpreta Emerald Haywood. Americana, ha partecipato a film come Cleaner, e a serie quali Cold Case, E.R. Medici in prima linea, Grey's Anatomy, Scream Queens, Scream: La serie; come doppiatrice ha lavorato in The Cleveland Show, I Griffin, Robot Chicken, L'era glaciale 4 - Continenti alla deriva e L'era glaciale 5 - In rotta di collisione. Anche produttrice, sceneggiatrice e regista, ha 29 anni. 


Se Nope vi fosse piaciuto recuperate Incontri ravvicinati del terzo tipo e Signs. ENJOY!

martedì 27 aprile 2021

Minari (2020)

E' uscito ieri nei cinema riaperti (tranne a Savona, ovviamente, dove non ha riaperto una ralla) Minari, diretto e sceneggiato dal regista Lee Isaac Chung nel 2020 e accolto da 6 nomination (Miglior Film, Steven Yeun come Miglior Attore Protagonista, Miglior Regia, Yuh-Jung Youn come Miglior Attrice Non Protagonista nonché l'unica vincitrice, Miglior Sceneggiatura Originale, Miglior Colonna Sonora Originale).


Trama: Negli anni '80, una famiglia di immigrati coreani si trasferisce in campagna, all'interno di un ex caravan trasformato in casa, e lì i suoi membri si ritrovano a dover affrontare una serie di problemi...


Anni fa, credo ormai almeno 10, un'amica dall'umorismo particolarmente spiccato mi regalò il libro Cinquanta lavori più schifosi del tuo, all'interno del quale scoprii l'esistenza del sessatore di pulcini, ovvero del povero cristo che si occupa di controllare se le dolci bestiole sono maschi o femmine. Avere per le mani tutto il giorno dei gialli piumini immagino potrebbe fare la felicità di qualcuno, non fosse che bisogna essere velocissimi e che, dopo un giorno, la poesia rischia di svanire, persa in un turbine di codine da fissare per otto ore di fila, inoltre è assai crudele il destino dei pulcini maschi, non tutti prescelti per poter crescere e spesso gettati in un tritacarne o peggio. Onestamente, non riuscirei a condannare animalini così piccoli a una morte precoce e non fatico a comprendere la speranza di Jacob, protagonista di Minari, di affrancarsi da questo genere di attività, anche se l'uomo non è certo spinto dalla pietà per i pulcini, quanto piuttosto dalla volontà di acquisire un po' di prestigio sociale dopo un'esistenza passata a soffrire nella povertà della Corea. Da qui nasce il dramma di Minari, storia di una famiglia alle prese con la durezza della vita di campagna, nella squallida provincia americana, all'interno di un ex caravan a cui hanno tolto le ruote per trasformarlo in una casa, bloccandolo in un terreno aspro e zeppo di sterpaglie che Jacob considera una specie di terra promessa da far diventare azienda agricola. Ma quel che Jacob desidera, agli occhi della moglie sono i capricci di un uomo egoista, che non tiene da conto i molti problemi pratici di una simile vita, problemi che rischiano di condannare la famiglia a un ulteriore isolamento e all'indigenza, cose che giustamente Monica avverte come una spada di Damocle sospesa sulle teste dei due bambini, soprattutto del piccolo David, affetto da una malattia cardiaca.  


Lee Isaac Chung
racconta quello che conosce meglio, prendendo spunto dalla sua infanzia, e si vede. Il filtro dei ricordi addolcisce molte cose e David è di una tenerezza inenarrabile (così come la nonna è un personaggio talmente sopra le righe che tutti vorremmo averla accanto), ma il regista non indulge in happy ending consolatori né offre allo spettatore una storia compiuta; il destino della famiglia di Jacob, che passa per esperienze non certo felici e quotidiane preoccupazioni quali povertà, malattia, senso di isolamento e paura per il futuro, rimane sospeso in un finale interamente dedicato al minari che dà il titolo al film, una pianta che cresce e si ramifica senza bisogno di troppe cure, regalando i suoi frutti a chi desidera coglierli, ricchi o poveri che siano. Il minari è una perfetta rappresentazione delle persone, che attecchiscono e si ramificano cercando di sopravvivere; c'è qualcuno tra noi che riesce a fruttificare, lasciando magari un segno tangibile nella storia (dell'umanità, della propria famiglia), ma in definitiva la maggior parte rimane lì, tranquilla, senza fare male a nessuno, in letterale balìa degli eventi. Un segno tangibile, almeno sullo spettatore, lo lasciano però senza dubbio le interpretazioni di Minari, tutte assai toccanti (Yeun non ha vinto l'Oscar ed era scontato ma lui e tutti gli altri attori sono perfetti, non solo la vincitrice Yuh-Jung Youn ma anche Yeri Han) e molte sequenze rischiano di rimanere impresse a lungo, come il confronto finale tra Jacob e la moglie, che mi ha annegata in un mare di lacrime alla faccia dei due isterici di Storia di un matrimonio, o quella in cui nonna consola un terrorizzato David, e anche la colonna sonora di Emile Mosseri è deliziosa, l'ideale per tenersi stretta l'atmosfera malinconica del film anche durante lo scorrere dei titoli di coda. 


Di Steven Yeun, che interpreta Jacob, ho già parlato QUI mentre Will Patton, che interpreta Paul, lo trovate QUA.

Lee Isaac Chung è il regista e sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto film come Munyurangabo, Lucky Life e Abigail Harm. Anche produttore, ha 43 anni.




venerdì 15 dicembre 2017

Mayhem (2017)

Attirata da una locandina molto stilosa e da un paio di attori simpatici, ho deciso di dare una chance a Mayhem, diretto dal regista Joe Lynch.


Trama: colpiti da un virus che fa perdere ogni inibizione, i dipendenti di un importantissimo studio legale vengono messi in quarantena e lasciati liberi di dare sfogo ai loro istinti...



Trama che, letta come l'ho scritta, parrebbe il riassunto di uno dei volumi di Crossed, serie horror creata da quel genio perverso di Garth Ennis. In verità, nonostante l'abbondanza di sangue e qualche scenetta un po' weird, Mayhem non si avvicina lontanamente nemmeno al più "tranquillo" dei volumi della serie, all'interno della quale chi perde le inibizioni lo fa al punto da soddisfare OGNI desiderio, in un tripudio di aberrazioni che rischiano di far sentire parecchio male l'incauto lettore (che è poi uno dei motivi per cui ho smesso di acquistarla, oltre al fatto che i volumi costano abbastanza, ma diciamo che al ventesimo ribadire sempre la stessa storia declinata in modi più o meno perversi mi è venuta la nausea) quindi perché indulgere in questo paragone? Beh, perché più o meno Mayhem si basa sullo stesso concetto, persone normali che a causa di un virus cominciano a comportarsi da selvaggi, facendo tutto quello che normalmente la sanità mentale impedirebbe di fare. Non solo compiere efferati omicidi, dunque, ma anche mettersi a piangere per delle inezie, mandare al diavolo i superiori, indulgere in atti di autolesionismo, prendere a schiaffi o ricoprire di insulti il nostro migliore amico, copulare in mezzo ad un corridoio, ecc. ecc. Ovviamente, considerato che gli effetti del virus si accentuano in caso di stress, ne consegue che il posto di lavoro diventa automaticamente una bomba atomica pronta ad esplodere, soprattutto nel caso del povero Derek Cho, appena licenziato dallo studio legale a causa di un errore non commesso da lui. La voglia di rivalsa è tanta ma per riuscire a farsi le sue ragioni Derek, accompagnato da una ragazza a rischio sfratto giunta all'interno dello studio legale proprio per rimandarlo o annullarlo, deve raggiungere i piani alti dello studio, all'interno dei quali i dirigenti si nascondono protetti da codici e tessere magnetiche più preziose di qualsiasi tesoro. Mayhem racconta quindi l'incredibile scalata alla vetta di Derek, un percorso popolato da personaggi ugualmente detestabili sia da sani che da malati, ognuno con caratteristiche facilmente riconoscibili per chiunque abbia avuto la sventura di lavorare da dipendente in un'azienda o studio legale ma ancora più accentuate dal terribile virus che, intendiamoci, tanto terribile non è. Molto divertente, questo sì.


La violenza di Mayhem non è infatti quella cupa e terrificante di un torture porn, quanto piuttosto quella cartoonesca inadatta solo a chi davvero non ha mai affrontato prima un horror e di prodotti simili, più commedia che film d'orrore, negli ultimi anni ne sono stati girati a bizzeffe; l'unica "novità", se così si può dire, risiede nella scelta di mostrare due protagonisti resi a loro volta folli dal virus e pronti a sfruttare la malattia per ottenere ciò che normalmente non avrebbero avuto nemmeno il coraggio di sognare. Forse anche per questo gli effetti del virus non vengono resi in maniera troppo esagerata, anzi, succede spesso che con gli infetti si possa parlare tranquillamente invece di venire subito congedati con una penna infilata in un occhio, e gli stessi protagonisti non uccidono indiscriminatamente ma solo se provocati o trattati in modo particolarmente scortese. Ciò non toglie, per carità, che scegliere consapevolmente di sfruttare il lasso temporale concesso dalla malattia sia di per sé forse deprecabile, il che rende Derek e Melanie (interpretati da uno Steven Yeun finalmente libero dallo spettro di Glenn e da una Samara Weaving bella e feroce, uniti sullo schermo da un'ottima alchimia) dei personaggi magari non originali ma comunque interessanti e meritevoli delle simpatie dello spettatore. Mayhem è reso ancora più piacevole da una regia moderna che si appoggia ad un montaggio rapido e all'uso di flashback, ralenti, fermo immagine, flash forward ad accompagnare la disillusa voce narrante di Steven Yeun, in più ha dalla sua un bel cast di ottimi caratteristi tra i quali spiccano Dallas Roberts col suo meraviglioso "Reaper" e  l'accento inglese di un'invecchiata ma signorile Kerry Fox. Lungi da me quindi far rientrare Mayhem nel novero dei film dell'anno ma per una serata all'insegna, appunto, del caos più totale e della commedia sanguinolenta è una pellicola perfetta!


Di Samara Weaving, che interpreta Melanie Cross, ho già parlato QUI.

Joe Lynch è il regista della pellicola. Americano, ha diretto film come Wrong Turn 2 - Senza via d'uscita, Knights of Badassdom e Everly. Anche attore, produttore e sceneggiatore, ha un film in uscita.


Steven Yeun interpreta Derek Cho. Sud Coreano, famoso per aver interpretato Glenn nella serie The Walking Dead, ha partecipato a film come Okja e ad altre serie quali The Big Bang Theory, inoltre ha doppiato episodi di American Dad! e Robot Chicken. Ha 34 anni e tre film in uscita tra i quali la versione animata di Chew.


Kerry Fox interpreta Irene Smythe. Neozelandese, ha partecipato a film come Piccoli omicidi tra amici, The Dressmaker - Il diavolo è tornato e a serie come I racconti della cripta. Anche sceneggiatrice, ha 51 anni.


Dallas Roberts interpreta il Mietitore. Americano, ha partecipato a film come Quando l'amore brucia l'anima, Dallas Buyers Club, My Friend Dhamer e a serie come The Walking Dead. Ha 47 anni.


Se Mayhem vi fosse piaciuto recuperate The Belko Experiment e Redd, Inc. ENJOY!

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