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venerdì 8 aprile 2022

La figlia oscura (2021)

Apparso come una meteora il 31 dicembre su Netflix, dov'è rimasto solo per 24 ore, è uscito ieri al cinema La figlia oscura (The Lost Daughter), diretto e sceneggiato nel 2021 dalla regista Maggie Gyllenhaal a partire dal romanzo omonimo di Elena Ferrante.


Trama: Leda è una professoressa di lingue e traduttrice in vacanza in un'isola della Grecia. Lì, l'arrivo della giovane Nina e della sua famiglia scatena nella donna dolorosi ricordi...


Lungi da me voler fare la splendida, ma non sapevo affatto che La figlia oscura fosse stato tratto da un libro della Ferrante e mi è venuto da ridere quando, guardando il film, ho pensato "sembra uno spin-off de L'amica geniale" solo per poi scoprire che, effettivamente, l'autrice era la stessa. Lungi da me passare anche per esperta di Elena Ferrante, visto che ho letto solo la già citata quadrilogia de L'amica geniale, eppure il modo in cui l'autrice riesce a parlare di donne soffocate dalle convenzioni della società è facilmente riconoscibile e, oserei dire, unico. Come Lina e Lenù, anche Leda è una donna dal passato zeppo di dolore e rimpianto, a cui guarda, in età già matura, dopo l'incontro con la giovane Nina e la figlioletta Elena; giovane promessa della letteratura e della traduzione, Leda ha vissuto gli anni dell'affermazione professionale "schiacciata" dalla presenza di due bambine piccole e di un marito dal futuro promettente ma incerto quanto il suo, in un torbido miscuglio di amore per la famiglia e desiderio di essere libera e affermata senza essere limitata dal ruolo di madre e moglie. Da donna priva di figli e non ancora sposata, non posso che apprezzare il modo in cui la Ferrante (e in questo caso la Gyllenhaal, che ne accoglie il punto di vista riportandolo sullo schermo) tratteggia queste donne che vivono nella vergogna di avere desideri egoistici ai quali si abbandonano con un costante senso di colpa a pungolarle, dolorosamente consapevoli di quello che la società pretende da loro e straziate dall'innegabile sentimento di amore profondo e odio infastidito che alternativamente provano davanti alle creature che hanno messo al mondo; ipocritamente, penso ogni volta "ma guarda tu sta stronza", per poi sciogliermi in lacrime pensando "ma poveraccia, che vita orribile", presa dallo stesso dilemma sociale e morale di queste donne complicate e fragili, dalla psiche spesso appesa a un filo.


La figlia oscura
, a scanso di equivoci, è "solo questo". Nonostante il titolo inquietante, che evoca l'idea di un thriller psicologico, è la storia di una donna in vacanza che commette un solo, grande errore nel corso della stessa, un errore che la distanzia anche da chi vorrebbe la capisse, quella giovane mamma intrappolata da una famiglia che veglia su di lei e sulla sua bambina senza lasciarle un attimo di respiro. La regia evocativa della Gyllenhaal trasforma la rilassante vacanza nell'assolata Grecia in un angosciante limbo all'interno del quale passato e presente si fondono e la fragilità mentale si fa anche fisica, tra sprazzi di vicende che hanno ormai acquisito i contorni di un sogno (o un incubo) e una realtà "nemica", dove ogni cosa può essere fonte di fastidio, se non addirittura di pericolo; il montaggio di Affonso Gonçalves, già abituato a narrazioni simili, rende i passaggi tra presente e passato incredibilmente fluidi e naturali e, nonostante questo, riesce a trasmettere allo spettatore la stessa confusa inquietudine di cui è preda Leda. Il punto di forza de La figlia oscura, tuttavia, sono state per me le interpretazioni. Olivia Colman è da anni una certezza e ho amato tantissimo la fragilità che la sua Leda cerca di dissimulare con un atteggiamento consapevole e spavaldo, le sue chiacchiere "impanicate" e la sua profonda tristezza, ma la sorpresa del film è stata Jessie Buckley, che interpreta Leda da giovane conferendole quel fascino "scazzato" tipico dei personaggi della Ferrante, offrendo il ritratto di una donna carismatica ma dalle profonde insicurezze, capace di grandi gesti di affetto e anche di crudeltà inaudita (lo so, io che non ho figli dovrei stare zitta, ma davanti alla bambina che chiede semplicemente un bacino sul dito tagliato mentre la madre nemmeno la guarda, ho provato l'insana voglia di strozzare Leda). Come avrete capito, La figlia oscura è uno di quei slow burn psicologici in cui succede davvero poco o nulla e che chiede allo spettatore di lasciarsi trasportare dall'atmosfera; a me è piaciuto parecchio ma se non amate questo genere di film state lontani chilometri. 


Della regista e co-sceneggiatrice Maggie Gyllenhaal ho già parlato QUI. Olivia Colman (Leda), Dakota Johnson (Nina), Ed Harris (Lyle), Peter Sarsgaard (Professor Hardy) e Alba Rohrwacher (escursionista) li trovate invece ai rispettivi link.

Jessie Buckley interpreta Leda da giovane. Irlandese, ha partecipato a film come Judy, Sto pensando di finirla qui e a serie quali Chernobyl e Fargo. Anche cantante, ha 33 anni e due film in uscita. 


Oliver Jackson-Cohen interpreta Toni. Inglese, lo ricordo per film come The Raven, L'uomo invisibile e per le serie Hill House, The Haunting of Bly Manor. Ha 36 anni e due film in uscita. 





venerdì 18 marzo 2022

A History of Violence (2005)

Il 13 marzo scorso è venuto a mancare William Hurt. Per celebrare degnamente il grande attore, ho deciso di riguardare dopo quasi 20 anni A History of Violence, diretto nel 2005 dal regista David Cronenberg e tratto dall'omonima graphic novel di John Wagner e Vince Locke


Trama: Tom gestisce una caffetteria in una sonnacchiosa cittadina americana, è felicemente sposato e ha due figli. Tutto cambia dopo che Tom, cercando di sventare una rapina, uccide due uomini...


Tutti questi anni ho lasciato passare. Mica perché non mi fosse piaciuto A History of Violence quando lo avevo visto al cinema, per carità. Certo, era un Cronenberg molto diverso da quello a cui ero abituata, ma ero rimasta così coinvolta dalla potenza di ciò che era stato trasposto in pellicola, da avere letto anche la graphic novel, che dovrei avere ancora a casa da qualche parte. Purtroppo sono trascorsi davvero troppi anni e mi risulta impossibile fare un confronto tra opera cinematografica e cartacea, quindi mi soffermerò solo sulla prima. A History of Violence è, come da titolo, una storia in cui la violenza, in ogni sua forma, distrugge la vita di un uomo. Fin dalla scena iniziale, un piano sequenza di più o meno cinque minuti che ricorda tantissimo (a mio avviso volutamente) lo stile di Tarantino, la violenza viene rappresentata come un qualcosa che serpeggia, indisturbato e spesso non visto oppure appositamente ignorato, tra le ombre della società americana, con l'unica eccezione della famiglia, istituzione apparentemente inviolata ed inviolabile. L'alcova familiare è un'oasi felice che deve essere protetta dalla polizia; al di fuori della stessa, la violenza può colpire durante una colazione al diner, una normale giornata di lavoro, a scuola, mentre si va a fare la spesa, e ciò vale non solo per le grandi città ma anche in quelle piccole, come la cittadina dove vivono Tom, la moglie e i suoi due figli, che si vedono stravolgere la vita da una tentata rapina durante la quale Tom uccide due malviventi. Poiché, come scritto sopra, la violenza non viene respinta, bensì semplicemente ignorata per la maggior parte del tempo, il gesto di Tom diventa ovviamente quello di un eroe e nessuno (tranne una scomoda giornalista liquidata in meno di un minuto) si chiede come sia possibile che l'uomo abbia agito con tanta freddezza e abilità, di sicuro non se lo chiede la moglie. Purtroppo, come tenta di comunicarci un regista come Cronenberg che, paradossalmente, aborre la violenza, quest'ultima ne attira sempre dell'altra. 


Strani, inquietanti figuri cominciano a ronzare attorno a Tom e alle persone a lui più care, come se il suo gesto avesse spalancato una porta su un mondo oscuro da cui lasciare entrare un infinito numero di demoni, a causa dei quali nemmeno l'alcova familiare è più un luogo sicuro. Ancora peggio, anzi: i demoni non vedono l'ora di trascinare Tom negli abissi da cui aveva faticosamente cercato di liberarsi, rinnegando un passato non solo di violenza, ma anche di orrore e follia (di cui allo spettatore viene concesso scorgere solo la punta dell'iceberg, perché non è importante scendere nei dettagli: sono tutti racchiusi nello sguardo da animale braccato di uno splendido Viggo Mortensen, nei sorrisi sprezzanti di Ed Harris, nei gesti di un William Hurt che compare giusto per 10, indimenticabili e tesissimi minuti). Fa sorridere come oggi, probabilmente, un film come A History of Violence durerebbe almeno due ore e mezza invece che un'ora e trentasei: un altro regista ci avrebbe subissati di flashback, spiegoni, dialoghi fiume per farci capire la progressiva distruzione dei rapporti familiari di Tom, dell'uomo ideale amato dalla moglie Edie, di un figlio che si ritrova orfano dei valori positivi magnificati dal padre e si abbandona a sua volta alla violenza, mentre Cronenberg abbraccia uno stile asciutto e conciso ma tremendamente efficace, colpendoci con la potenza di sequenze che spesso non solo sono prive di dialoghi, ma anche di colonna sonora, lasciando che siano le azioni degli attori e gli sguardi a parlare allo spettatore, anche a costo di venire mal interpretato (la violenta scena dell'amplesso tra Tom e Edie non rappresenta uno stupro ma molti l'hanno vissuta così). Paradossalmente, è proprio William Hurt a tenere banco col monologo più lungo del film, forse perché al male piace vantarsi, ascoltarsi, imporsi, fingersi amichevole e suadente prima di colpire a morte; ed è splendida la contrapposizione tra un male logorroico e il semplice, silenzioso gesto di una bambina che cerca, con innocenza e fatica, di riportare l'equilibrio e lenire le ferite, un palese insegnamento a non fingere di non vedere la violenza innata in ognuno di noi e cercare, per quanto possibile, di conviverci senza false ipocrisie. 


Del regista David Cronenberg ho già parlato QUI. Viggo Mortensen (Tom Stall), Maria Bello (Edie Stall), Ed Harris (Carl Fogarty), William Hurt (Richie Cusack) e Stephen McHattie (Leland) li trovate invece ai rispettivi link. 

Peter MacNeill interpreta lo sceriffo Sam Carney. Canadese, ha partecipato a film come Rabid - Sete di sangue, La fiera delle illusioni e a serie quali Alfred Hitchcock Presenta, La tempesta del secolo, Psi Factor e Mucchio d'ossa.  


Se A History of Violence vi fosse piaciuto, recuperate lo splendido La promessa dell'assassino. ENJOY!

venerdì 17 novembre 2017

Madre! (2017)

Finalmente, ce l'ho fatta. A Savona è arrivato Madre! (Mother!) per soli due giorni e non me lo sono lasciato scappare. Ce l'avrà fatta Darren Aronofsky, regista e sceneggiatore del film, a convincermi o anche io sono dovuta fuggire urlando come mezzo pubblico di Venezia? Segue post brevissimo, sconclusionato e senza spoiler!


Trama: un uomo e una donna, marito e moglie, vedono la tranquillità della loro dimora in ricostruzione distrutta dall'arrivo di due perfetti sconosciuti. E se il marito, chissà perché, li accoglie con gioia, la vita della moglie si trasforma in un abisso di inquietudine...


L'ho scritto su Facebook, lo ribadisco qui: Madre! non l'ho capito ma è un film spettacolare. Non avendolo capito mi sembra inutile dare un'interpretazione di ciò che ho visto, posso solo supporre come faceva Bellosguardo in Robin Hood un uomo in calzamaglia e rendere il mio post delirante quanto il girato di Aronofsky, come se la cosa fosse possibile. Come uno stregone nemmeno più tanto apprendista, il regista ha buttato nel calderone qualunque cosa gli venisse in mente (probabilmente anche qualche droga, la stessa polverina dorata che assume la Lawrence nel corso del film, chissà...) e il risultato è un Roba da matti elevato alla millesima potenza, la madre di tutti gli home invasion, una commedia grottesca che è anche dramma, horror, film di guerra, distopia apocalittica, approfondimento psicologico, mancavano solo i cartoni animati. Se io sono arrivata alla macchina, dopo la visione, col cuore che mi batteva a tremila e nella notte ho metabolizzato quanto ho visto piazzando il faccione di Javier Bardem su un Negan di The Walking Dead che imprigionava e vessava me e i miei genitori, vuol dire che qualcosa di Madre! ha superato il muro dei 3/4 film visti a settimana per concretizzarsi in un diamante screziato di rosso posto proprio nel centro del mio cervello malato e tormentarmi nell'inconscio. Quel che ho visto è la realtà del mondo in cui viviamo rinchiusa tra le mura di una casa impossibile da proteggere o rendere perfetta, per quanto lo vogliamo: la casa siamo noi, siamo noi la Lawrence pronti a dare, dare per amore e a sanguinare quando quello che diamo non basta mai, ma siamo anche Bardem, pronti a prendere ignorando per egoismo le suppliche di chi amiamo di più, non per cattiveria ma solo perché è più comodo concentrarsi su ciò che desideriamo NOI, siamo gli invasori che arrivano e non capiscono che la casa non è loro, madre non è loro, il bambino non è loro, Lui non è loro, ma piuttosto che portare via le balle da posti dove non dovrebbero neppure mettere piede, spadroneggiano e fanno i cafoni come se tutto fosse loro dovuto. Ed è riflettendo su quest'ultimo punto che Madre! è diventato, almeno per me, la metafora devastante di un mondo sovrappopolato da minchie di mare che sta esplodendo sotto il peso della nostra stessa stupidità e desiderio di possesso o affermazione perché non importa quanto la Terra ci offra, non sarà mai abbastanza, ci saranno sempre litigi, guerre, distruzione e la ferma volontà di distruggere più che di ricostruire. E così da millenni, in un loop continuo da cui nessuno sembra in grado di uscire.


Attraverso la rappresentazione di concetti biblici quali Madre Terra, un Dio che offre a tutti parole vuote e false speranze, un Adamo e una Eva che arrivano a distruggere l'Eden mandando in pezzi il frutto proibito e un Caino e Abele che causano ancora più casino, Aronofsky ci prende a schiaffi con due ore di immagini splendide, incubi ad occhi aperti e quel terrificante incubo finale al cardiopalma dove, davvero, non sapevo se ridere (la situazione descritta ha del tragicomico) o piangere (Bardem a tratti fa paura mentre la Lawrence spezza il cuore e voi sapete quanto non sopporti JLaw ma diamine qui è perfetta), frastornata com'ero dalla cacofonia di violenza, esplosioni, sangue, morte e urla che è l'ultima mezz'ora di film, il punto esclamativo della Madre! L'ironica canzone dei titoli di coda e il silenzio che ne segue sono quasi un balsamo per le orecchie perché a un certo punto, davvero, avrei voluto fare come la protagonista e nascondermi in un luogo buio e silenzioso, un posto solo mio dove fermarmi, riflettere, tirare il respiro, cercare di capire PERCHE'. Invece mi sono ritrovata in una sala gremita di gente (anche se io sono andata al cinema da sola stavolta), divertita all'idea di osservare, non vista, le facce di chi è uscito da una visione simile: chi s'è bellamente addormentato a metà arrivando persino a russare (mi sembrava tanto anziano, lo perdono. Anzi, ero così presa dalla paranoia del film che ho temuto i suoi fossero rantoli di morte, mannaggiallui), chi se la rideva della grossa cercando di spiegare alla vicina che lui BAH!, ne ha visti a pacchi di film così, chi scuoteva la testa, chi si guardava intorno perplesso non sapendo bene come reagire. Ecco, io faccio parte dell'ultima categoria di persone. Le uniche cose certe dopo la visione di Madre! sono tre e su queste non transigo: 1) Ho visto un film che ricorderò finché campo e che riconferma il mio voler bene a Darren Aronofsky. 2) Passano gli anni ma Michelle Pfeiffer è una topa astrale alla quale JLaw non è neppure degna di baciare i piedi, elegante persino da ubriaca. That old beeyotch. Meow.  3) Sono innamorata di Domhnall Gleeson. Potrei anche aggiungere, ma probabilmente c'entra poco con la visione di Aronofsky, che l'unica cosa mal sopportata del film è l'idea di una maternità a tutti i costi, capace di rimettere a posto tutto, far tornare i sentimenti sopiti, illuminare d'immenso, riempire l'esistenza di felicità, poi però penso al finale e si riconferma la mia convinzione, ovvero "rimettere a posto tutto 'stacippa": se la vita di coppia fa schifo non c'è pargolo che tenga, mi spiace. Ah, ho già detto che Madre! è un film della Madonna?


Del regista e sceneggiatore Darren Aronofsky ho già parlato QUI. Jennifer Lawrence (Madre), Javier Bardem (Lui), Ed Harris (Uomo), Michelle Pfeiffer (Donna), Domhnall Gleeson (Figlio Maggiore) e Kristen Wiig (Araldo) li trovate invece ai rispettivi link.

Brian Gleeson interpreta il Fratello Minore. Figlio di Brendan Gleeson e fratello di Domhnall Gleeson, ha partecipato a film come Biancaneve e il cacciatore e Assassin's Creed. Irlandese, ha 30 anni e un film in uscita, Hellboy.


Se Madre! vi fosse piaciuto recuperate i film di Aronofsky di cui ho parlato, che trovate tutti QUI.

martedì 6 gennaio 2015

Cose preziose (1993)

Ho notato che ultimamente parlo poco di film un po' vecchiotti e magari dimenticati, quindi ho deciso di recuperare Cose preziose (Needful Things), diretto nel 1993 dal regista Fraser C. Heston e tratto dall'omonimo romanzo di Stephen King.


Trama: Nella sonnolenta cittadina di Castle Rock apre un nuovo negozio di oggetti di antiquariato, Cose preziose. Tutti in città trovano qualcosa da comprare ma i prezzi del proprietario, il signor Leland Gaunt, sono economici solo in apparenza...


Cose preziose è un altro di quei film di cui ho consumato la videocassetta da ragazzina, arrivando a ricordare ancora oggi battute, sequenze e colonna sonora come se non fossero passati anni dall'ultima volta che l'ho visto. Tuttavia, assieme alla sensazione di nostalgia che mi ha preso un paio di giorni fa, è arrivata purtroppo anche la consapevolezza che Cose preziose non è che una debolissima trasposizione del bel romanzo Kinghiano, un film salvato giusto dall'interpretazione di uno strepitoso Max Von Sydow, perfetto nei luciferini panni del perfido Leland Gaunt, e dalla presenza dei sempre graditi Ed Harris e, soprattutto, Amanda Plummer, una deliziosa e commovente Nettie. Se, infatti, il romanzo di King si dilunga (molti lo odiano per questo ma per me rimane sempre un pregio) perdendosi in flashback, dettagli, lunghe descrizioni ed approfondimenti psicologici, il film ci immerge subito nell'azione e mostra in tempo zero una città che impazzisce e si consuma preda dei propri consumistici desideri, lasciando appena intuire il vortice di ambizioni frustrate, dolore, rancori e nostalgia che attanaglia ogni abitante di Castle Rock, anche il più impensabile. In questo modo, la parte migliore della pellicola diventa così la prima, dove assistiamo al subdolo modo con cui Gaunt riesce a manipolare gli ignari abitanti mettendoli uno contro l'altro grazie all'ausilio di terze vittime; il ritmo del film asseconda le sensazioni dei protagonisti che credono di essere coinvolti in un gioco innocente e l'atmosfera è rilassata e sciocca, con alcune sequenze che riescono a strappare persino un paio di risate (quando per esempio Nettie va a mettere le multe a casa di Buster, che sarebbe meglio non chiamare così...). Purtroppo, quando i maneggi di Gaunt cominciano a mietere le prime vittime, il film subisce un'accellerata che punta più sul body count e sull'"enormità" degli eventi più che sull'atmosfera, diventando così poco più di un banale TV movie a sfondo sovrannaturale che incappa anche in un paio di episodi al limite del ridicolo, consumandosi in un finale ironico ma sceneggiato e girato assai male (come dice lo stesso Max Von Sydow, sembra di assistere ad una riunione di alcolisti anonimi, terribile!).


Fraser C. Heston, figlio del ben più conosciuto Charlton Heston, dirige purtroppo senza personalità alcuna, limitandosi a portare sullo schermo immagini piatte, senza guizzi, unite tra loro da un montaggio che a tratti lascia perplessi perché sembra mostrare episodi completamente scollegati l'uno dall'altro. Per quel che riguarda il make-up e gli effetti speciali, tutto il film è abbastanza "contenuto", nel senso che le scene più efferate vengono solo suggerite, cosa che lascia spazio a ben poco gore, e l'intero budget dev'essere stato speso nelle esplosioni finali, negli stuntman (effettivamente bravi) e nel trucco di Max Von Sydow, che passa dall'essere un elegante gentiluomo ad un laido mostro dai denti storti e dalle unghie lunghissime nel giro di pochi fotogrammi. Come ho detto sopra, le interpretazioni di Max Von Sydow, Ed Harris e Amanda Plummer salvano Cose preziose dall'oblio e infondono forza anche a quelle di altri ottimi attori all'epoca assai quotati come Bonnie Bedelia e J.T. Walsh ma in definitiva la cosa che mi ha sempre maggiormente colpita del film è la bella colonna sonora originale di Patrick Doyle (dal sapore antico e giocoso ma anche sottilmente inquietante), che si mescola all'Ave Maria di Schubert e alla ben più profana Achy Breaky Heart di Billy Ray Cyrus, creando un pout-pourri di suoni e generi adattissimo a rappresentare l'anima dei vari abitanti di Castle Rock. Dopo tutto quello che ho scritto penserete ora che io detesti Cose preziose, in realtà non è così: probabilmente, se un giorno il signor Gaunt decidesse di aprire un negozio ad Ellera la videocassetta di questo film sarebbe uno dei papabili oggetti con cui potrei venire attirata nelle sue grinfie perché in definitiva gli voglio molto bene... solo, il tempo passato non è stato altrettanto benevolo con questa pellicola e forse, se non fossi certa che verrebbe una ciofeca ancora peggiore (alla Under the Dome, per intenderci), sarebbe il caso che qualche valido sceneggiatore riprendesse Cose preziose per farne una bella miniserie. La speranza, d'altronde, è sempre l'ultima a morire.


 Di Max Von Sydow (Leland Gaunt), Ed Harris (Sceriffo Alan Pangborn), Amanda Plummer (Nettie Cobb), Ray McKinnon (Norris Ridgewick) e William Morgan Sheppard (Padre Meehan) ho già parlato ai rispettivi link.

Fraser Clarke Heston è il regista della pellicola. Americano, ha diretto film come L'isola del tesoro e Alaska. Anche produttore, sceneggiatore e attore, ha 59 anni.


Bonnie Bedelia (vero nome Bonnie Bedelia Culkin) interpreta Polly Chalmers. Americana, la ricordo per film come Le notti di Salem, Trappola di cristallo, 58 minuti per morire e Presunto innocente; inoltre, ha partecipato a serie come Oltre i limiti e CSI - Scena del crimine. Ha 66 anni.


J.T. Walsh (vero nome James Thomas Patrick Walsh) interpreta Danforth "Buster" Keeton III. Americano, ha partecipato a film come Good Morning Vietnam, Misery non deve morire, Codice d'onore, Palle in canna, Il cliente, Rosso d'autunno, Virus letale, Babysitter... un thriller, Il negoziatore, Pleasantville e a serie come X-Files. E' morto nel 1998, all'età di 54 anni.


Don S. Davis (vero nome Don Sinclair Davis) interpreta il reverendo Rose. Americano, indimenticabile Maggiore Briggs ne I segreti di Twin Peaks, lo ricordo anche per film come Senti chi parla, Senti chi parla 2, Hook - Capitan Uncino, Poliziotto in blue jeans, Fuoco cammina con me, Ragazze vincenti, Cliffhanger - L'ultima sfida, The Fan - Il mito, Con Air, Il 6° giorno e The Uninvited; inoltre, ha partecipato ad altre serie come MacGyver, X-Files, Oltre i limiti, Sentinel, La zona morta e Supernatural. Anche stuntman, è morto nel 2008, all'età di 65 anni.


Del film esiste una versione lunga tre ore (impossibile da reperire in DVD, BluRay o cassetta e passata solo sulle TV Americane) che, pur essendo tagliata per quel che riguarda le scene più "forti", espande parecchio la trama, mostrando per esempio anche il personaggio di Cora Rusk, madre di Brian, che nella versione normale si vede solo alla fine con addosso gli occhiali da sole appartenuti ad Elvis Presley; per quel che riguarda i personaggi, invece, lo sceriffo Pangborn è lo stesso presente anche nella versione cinematografica de La metà oscura, dove era interpretato da Michael Rooker. Detto questo, se Cose preziose vi fosse piaciuto, recuperate innanzitutto il romanzo di Stephen King e poi i film Il seme della follia, Qualcosa di sinistro sta per accadere, Le streghe di Eastwick e L'avvocato del diavolo. ENJOY!




mercoledì 20 agosto 2014

Bolle di ignoranza: Cleaner (2007)

Quest'estate le Bolle di Ignoranza sono particolarmente numerose, forse perché il periodo è propizio alla visione di film con un occhio aperto e la testa da un'altra parte. In questo stato parecchio disattento ho avuto modo di guardare Cleaner, diretto nel 2007 dal regista Renny Harlin.


Trama: Samuel L. Jackson fa un lavoro davvero del menga. Ripulisce scene dei crimini. Il casino succede quando viene ingannato e spedito a pulire un salotto ancora sconosciuto agli inquirenti...


Per quel che sono riuscita a vedere, Cleaner è il tipico thriller a sfondo poliziesco perfetto per una calda serata estiva. Non richiede grandissimo sforzo mentale perché la soluzione all'enigma viene scodellata senza troppe sorprese al momento opportuno e nasconde una motivazione talmente sciocca che non vale neppure la pena ragionarci su per approfondire la questione. La pellicola si compone di momenti stranamente goliardici (tanto che all'inizio credevo fosse una commedia), minacciosi confronti tra sbirri, accuse di corruzione più o meno velate, improbabili femme fatale dall'animo materno e litigi tra padri problematici e figlie rompiscatole, tutti distribuiti equamente nel corso dell'ora e mezza scarsa di durata e amalgamati da una regia senza infamia né lode. Non molto diversa è l'interpretazione di due mostri sacri come Samuel L. Jackson e Ed Harris, che portano a casa la pagnotta lavorando il minimo sindacale e risparmiando le energie per pellicole a loro più congeniali, mentre nel resto del cast si riconoscono Eva Mendes nel solito ruolo sciapo che più le si confà e Luiz Guzmán e la sua faccia perfetta per incarnare sbirri corrotti o mafiosi sudamericani. I Tarantiniani all'ultimo stadio come me apprezzeranno senz'altro l'incontro fra l'ex Ordell Robbie e l'ex Max Cherrie di Jackie Brown ma, per il resto, Cleaner è un filmetto che passa e va, non certo una pellicola indispensabile né per i fan di Samuel L. Jackson né per gli amanti del thriller.

venerdì 25 settembre 2009

Creepshow (1982)

C’erano una volta i giornaletti horror. Non quelli propriamente “raffinati”, seppur splatter, come poteva essere un Dylan Dog italiano, ma un’accozzaglia di becere storielle più o meno brevi e di svariata fattura. C’erano i vari zio Tibia, la serie I racconti della cripta, sia in telefilm che in cartone animato (chi se lo scorda il buon vecchio Pelleossa?), persino il Nightmare Café. Ora quei bei tempi sono finiti, sopraffatti da serie sempre più patinate e prive di ironia, fatte con lo stampino. Ma a volte capita di riuscire a ripescare un gioiellino come Creepshow, del 1982, diretto dal buon vecchio George Romero e scritto nientemeno che da Stephen King.


Il film è diviso in 5 episodi, corrispondenti a cinque diverse storie presenti in un fumetto horror che un dispotico padre di famiglia getta via strappandolo dalle mani del figlio. In La festa del papà, un vecchio squilibrato torna dalla tomba per perpetrare una postuma vendetta sulla sua famiglia. In La morte solitaria di Jordy Verril un povero bifolco trova un meteorite che a poco a poco lo trasforma in una pianta. In Alta marea due amanti vengono uccisi dal marito di lei ma trovano il modo di tornare. In La cassa un orrore vecchio di anni viene rinvenuto all’interno di una cassa nascosta in un sottoscale. Per finire, in Strisciano su di te, un maniaco della pulizia deve combattere contro orde di scarafaggi che gli infestano l’appartamento.



In un film a episodi, ovviamente la qualità può essere assai altalenante, anche se il regista e lo sceneggiatore sono sempre gli stessi, quindi sarebbe meglio guardare al risultato complessivo. Creepshow, in questo caso, è un film nostalgico e divertente, che regala delle piccole perle di cattiveria assoluta, non privo di una morale. Il fil rouge, infatti, che lega tutte le storie, tenute assieme anche dall’introduzione e dal finale, che costituiscono alla fine un sesto, piccolo episodio, potrebbe essere: se sei uno stronzo omicida o semplicemente un cretino animato da motivazioni meno che pure, avrai quello che ti meriti. In effetti, tutti quelli che nel film finiscono più o meno male, persino il povero Jordy Verril che alla fine agisce spinto dall’ignoranza e da una speranzosa avidità, o il marito disperato dell’episodio “La cassa”, hanno fatto qualcosa di male per meritare gli orrori che vengono scagliati loro contro. Le vittime lo sono sempre per un motivo, e non è detto che ai “buoni” o apparenti tali vada meglio che ai “cattivi”.



Data la semplicità quasi moralistica di questo assunto, che racchiude in sé, a mio avviso volontariamente, un’ingenuità tipica dei fumetti di quegli anni, è ovvio che anche le storie siano brevi e assai semplici, giusto dei bocconcini di horror. La festa del papà è una storia di orrori che provengono dal passato, assolutamente da non perdere per chi volesse capire come e dove il buon Leo Ortolani, papà di Ratman, abbia tirato fuori il nome della bastardissima Bedelia di Venerdì 12. Per il resto, l’episodio è uno dei più deboli e dei più grotteschi, con un finale da mazzata nello stomaco, una specie di contrappasso dantesco. La morte solitaria di Jordy Verril vede come protagonista assoluto uno Stephen King bifolco, che regge da solo un altro episodio non troppo memorabile, che lo vede come unica attrattiva. Certo, è inquietante e triste vedere un uomo trasformarsi in pianta, ma la realizzazione punta più sul grottesco e sull’interpretazione esilarante del buon King che sulla trama. In Alta marea è più apprezzabile la parte thriller che quella propriamente horror, visto che la tortura escogitata da Lesile Nielsen è la parte più interessante ed effettivamente inquietante. Rispetto agli altri due episodi è leggermente sottotono in quanto ad umorismo, ma la tensione aumenta, ed esplode negli ultimi due episodi, a mio avviso i più agghiaccianti. Sarà perché gli scarafaggi mi fanno naturalmente schifo, e vedere un appartamento sigillato e invaso dalle blatte non può che farmi desiderare di morire all’istante, sarà perché La cassa è l’unico episodio dove ci sono parecchie sequenze gore e il mostro è effettivamente inquietante, alla fine le ultime due storie risaltano rispetto alle altre. La cornice, invece, metà film e metà cartone animato, è gradevole e cattivella.



Nell’insieme la realizzazione è molto buona. Ogni spezzone viene introdotto da una pagina animata, che viene riproposta identica dalla prima inquadratura di ogni episodio, e si conclude con un’altra pagina che riprende l’ultima scena. Elementi fumettistici, come didascalie, cornici per flashback, vignette, sono ricorrenti per tutto il film. Gli attori non sono eccelsi, ma va bene così perché l’horror del film non dev’essere serio, bensì leggermente “naif” e volutamente caricato, così come le interpretazioni. Gli effetti speciali d’altra parte sono ottimi, grazie al buon Tom Savini che fa anche una comparsata come netturbino, e soprattutto negli ultimi due episodi sono assolutamente agghiaccianti. Insomma, se state cercando un horror leggero ma gradevole, avete trovato il film giusto!!

George Romero è il regista del film, e il padre putativo di tutti i film di Zombie che hanno invaso i nostri schermi fin dagli anni ’70. Qualsiasi regista che voglia entrare nel mondo dei morti viventi per mostrarcene uno scorcio non può prescindere dai capisaldi di Romero, La notte dei morti viventi in primis, per poi continuare con Zombi, Il giorno degli zombi e finire con i più recenti e meno “storici” La terra dei morti viventi e Le cronache dei morti viventi. Tra i suoi altri film ricordo il martoriato (almeno nell’edizione italiana) Wampyr, Monkey Shines: esperimento nel terrore, Due occhi diabolici e La metà oscura. Il regista newyorchese ha 69 anni.


Di Leslie Nielsen ho già parlato qui, di Tom Savini qua.


Della serie, saranno famosi, tra gli attori coinvolti c’è un giovanissimo Ed Harris, nei panni del maritino di una delle nipoti di Bedelia, nell’episodio La festa del papà. E’ incredibile come un attore così dotato, tanto da essere stato nominato agli Oscar per ben quattro volte (con i film The Hours, Pollock, The Truman Show e Apollo 13) abbia cominciato con un ruolo così sciapo che è difficile persino riconoscerlo. Tra i suoi altri film rammento The Abyss, Il socio,Cose preziose, L’ombra dello scorpione (quest’uomo è abbonato a King…), The Rock, Potere assoluto, A History of Violence. Per la TV ha lavorato in Chips, Cuore e batticuore, Fraisier. Ha 59 anni e tre film in uscita.


E ora, molto banalmente, vi lascio al trailer del film... chiedo perdono, ma essendo così vecchio non ho trovato niente di meglio!!! ENJOY!





     



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