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martedì 25 luglio 2023

Barbie (2023)

Giovedì sono corsa a vedere uno dei film che aspettavo di più quest'anno, il Barbie diretto e co-sceneggiato dalla regista Greta Gerwig. NIENTE SPOILER, tranne quelli presenti in un trailer per una volta poco rivelatore!


Trama: la vita scorre serena all'interno di Barbieland finché una Barbie comincia a notare stranezze e difetti nella sua esistenza sulla carta perfetta. Per indagare, la Barbie (assieme a Ken) valica i confini che separano il suo mondo da quello umano...


Di Barbie si è già detto e scritto tutto ancora prima che uscisse, quindi non sarà facile scrivere qualcosa di interessante e poco banale, soprattutto senza fare spoiler, ma ci proverò. Preceduto da un trailer accattivante e sciocchino, Barbie, per la prima mezz'ora, è, volutamente, tutto quello che i suoi detrattori pensavano. In un trionfo di rosa e kitsch, veniamo introdotti in quella che è la realtà di Barbieland, un luogo in cui ogni giorno è perfetto ma anche perfettamente uguale a quello precedente, e dove ogni Barbie può essere ciò che vuole, da presidente ad astronauta, in un susseguirsi di scene tra l'esilarante e il paradossale. Furbamente, la Gerwig e Baumbach puntano i riflettori sulla "Barbie" per eccellenza, bionda bella e sorridente, e modellano la perfezione di Barbieland su di lei perché, capirete bene, non tutte le bambine (me compresa) si limita(va)no a pensare noiose quanto glamour giornate di ozio, svago e trionfi per le proprie bambole; questo stereotipo radicato nel tempo da decenni di marketing e pubblicità è però essenziale per rendere ancora più duro lo scontro con la realtà, allorché Barbie, allarmata da terrificanti cambiamenti all'interno della sua routine e dei suoi pensieri, decide di andare nel mondo umano per indagare. E' qui che il film prende una piega inaspettata e devia da quel trailer che ci viene propinato da mesi, diventando una riflessione su un aspetto ben preciso della società, legato a doppio filo al desiderio di Ruth Handler, la creatrice di Barbie, di dare alla figlia e alle donne la possibilità di sognare in grande, proiettando ogni aspirazione su una bambola che non si limitava ad essere solo madre o moglie, ma poteva essere qualunque cosa. Prigione dorat, ehm, rosa dove questo desiderio è portato all'estremo, Barbieland è un'isola felice rigidamente amministrata da un consiglio direttivo della Mattel gestito interamente da uomini, e al suo interno c'è qualcuno che invece NON può essere quello che desidera, perché creato per esistere in funzione di Barbie, ovvero Ken. Si può dunque dire che Barbieland è il riflesso distorto di un'idea di per sé giusta, un luogo che non solo ha creato dei mostri nella realtà, alimentando ideali di bellezza e perfezione irraggiungibili, ma che "vendica" la sopraffazione con una sopraffazione al contrario, dove c'è sempre e comunque qualcuno che soffre e che viene ignorato o considerato "inferiore", a discapito di tutta la tolleranza e l'inclusività moderna predicata dal marchio Barbie.


Alla faccia di tutta la gioiosa idiozia riversataci addosso da trailer, meme ed anteprime, Barbie è un film molto amaro, che non mostra il fianco neppure per un istante a soluzioni semplici ed happy ending posticci. La Gerwig e Baumbach, anzi, sembrano volerci dire che la vita è fatta di scelte e sofferenza, una lotta continua per affermare noi stessi in una società che probabilmente non ci vuole e che ci impone assurdi modelli maschili o femminili; ancora peggio, non esistono cambiamenti nati da illuminazioni improvvise e lo status quo è terribilmente difficile da sradicare, quindi tutto il contrario di ciò che ci è sempre stato insegnato dalla Disney e dai suoi emuli (se poi pensate che l'amore possa vincere su ogni cosa, avete davvero puntato sul film sbagliato). Tutto ciò viene gettato in faccia allo spettatore col sorriso, con i toni garbati di una commedia capace di spingere il pedale sull'acceleratore dell'assurdo senza mai deviare dal suo percorso né imbroccare la via senza ritorno della caciara fine a se stessa, cosa che dimostra l'incredibile lucidità mentale della Gerwig e il suo polso fermissimo sia in fase di scrittura che di regia. Se, a tratti, Barbie vi sembrerà un po' troppo fighetto e "maestrino" nel suo desiderio di aprirci gli occhi al mondo, beh, non sarò io a farvi cambiare idea, perché ogni tanto ho avuto io stessa la sensazione di venire "bacchettata" tra una risata e l'altra (probabilmente avvertivo l'aura di Baumbach, con cui non vado d'accordissimo), ma siccome sul finale sono riuscita persino a commuovermi direi che nel film c'è soprattutto del sentimento, non solo del freddo, cinico calcolo.


Al di là di queste considerazioni che, come avrete capito, non posso sviscerare appieno pena incappare in sgraditi spoiler, Barbie è proprio bello cinematograficamente parlando. Se date un'occhiata QUI, vi farete un'idea di quante, elegantissime fonti d'ispirazione abbiano guidato la Gerwig nella realizzazione del film che, effettivamente, è una gioia per gli occhi fatta di inquadrature iconiche ed intelligenti, con numeri musicali dal sapore vintage, capaci di lasciare a bocca spalancata. Le scenografie sono spettacolari e non potrebbe essere altrimenti: il rosa e i colori pastello delle case dei sogni di Barbieland si accompagnano a fondali disegnati che noi bambine conosciamo molto bene, e non contrastano neppure troppo con la fredda monocromia e regolarità degli uffici della Mattel, proprio a rispecchiare il rigido controllo presente in due mondi strettamente legati. Personalmente, non ho mai avuto molte Barbie con cui giocare ma mi sono ammazzata di cataloghi Mattel (li adoravo, avendo sempre amato disegnare mi davano una fonte d'ispirazione costante per vestire le mie donnine e, in più, erano scritti in almeno un paio di lingue) e non nascondo di avere represso più di un brivido di gioia davanti al rispetto filologico di costumi, pettinature, accessori e linee, spesso utilizzati come ulteriore fonte di ironica presa in giro. La presenza di una narratrice d'eccezione, che spesso sfonda la quarta parete dialogando con spettatori e realizzatori, è l'ulteriore aggiunta a un cast perfetto. Se Michael Cera e Kate McKinnon sfruttano al meglio il poco tempo a loro concesso e Margot Robbie è una Barbie fatta e finita, a rubarle la scena c'è un Ryan Gosling favoloso, che si è gettato anima e corpo in un ruolo che molti avrebbero rifiutato perché troppo "stupido"; l'attore ha reso finalmente giustizia al povero Kentozzi(tm) rendendolo tragico, eroico "imperatore del regno di mille fighe di legno", "monumento" di un algido piccione biondo, che verrebbe voglia di abbracciare per tutta la durata del film. Non mi vergogno a dire che, per quanto mi riguarda, questa è l'interpretazione migliore di Gosling e, prima di venire linciata, vi invito a correre al cinema a vedere Barbie. Lo so, è una cretinata, ma andate con almeno un accessorio rosa, perché vedere una sala gremita di gente tutta vestita a tema, persino nel triste multisala di Savona, è stata un'esperienza bellissima!!


Della regista e co- sceneggiatrice Greta Gerwig ho già parlato QUI. Margot Robbie (Barbie), Kate McKinnon (Barbie), Alexandra Shipp (Barbie), Emerald Fennell (Midge), Ryan Gosling (Ken), Michael Cera (Allan), America Ferrera (Gloria), Helen Mirren (narratrice), Will Ferrell (CEO della Mattel) e Lucy Boynton (Barbie Proust) li trovate invece ai rispettivi link. 

Simu Liu interpreta Ken. Cinese, lo ricordo per film come Shang - Chi e la leggenda dei dieci anelli, inoltre ha partecipato a serie quali Slasher e prestato la voce per I Simpson. Anche produttore, sceneggiatore e regista, ha 34 anni e tre film in uscita. 


Rhea Perlman interpreta Ruth. Americana, moglie di Danny De Vito, ha partecipato a film come Matilda 6 mitica e a serie quali Taxi, Blossom, Cin Cin, Innamorati pazzi e Ally McBeal; come doppiatrice ha lavorato ne I Simpson, American Dad!, Robot Chicken e Sing. Anche produttrice e sceneggiatrice, ha 75 anni. 


Tra le mille Barbie e Ken presenti nel film spuntano Dua Lipa e John Cena in versione sirene. Se Barbie vi fosse piaciuto il mio consiglio è di recuperare davvero le fonti di ispirazione della Gerwig, male non farà di sicuro! ENJOY!



martedì 24 gennaio 2023

The Pale Blue Eye - I delitti di West Point (2022)

Dopo Antlers, ero molto curiosa di vedere l'ultimo film diretto e sceneggiato da Scott Cooper a partire dal romanzo omonimo di Louis Bayard, The Pale Blue Eye - I delitti di West Point (The Pale Blue Eye), disponibile su Netflix da qualche giorno.


Trama: un investigatore viene ingaggiato per scoprire il colpevole di un efferato delitto commesso all'interno di un'accademia militare. Ad aiutarlo nell'ardua impresa ci penserà un giovane Edgar Allan Poe...



The Pale Blue Eye rientra senza troppi problemi in quel genere di film "solidi", dalla regia classica e sicura, la cui efficacia posa più sulle spalle degli interpreti che della trama e che, probabilmente, in futuro ricorderò per la bellezza delle ambientazioni, perfette per la stagione invernale in quanto fatte di foreste innevate, paesaggi brulli e cimiteri imbiancati. Sinceramente, mi aspettavo qualcosa di più horror, invece dopo l'ottimo e inquietante Antlers il regista Scott Cooper è tornato a tirare il freno e ha scelto di raccontare una detective story dai dettagli macabri e dai vaghi risvolti sovrannaturali, dove i defunti (e la paura della morte) giocano un ruolo fondamentale nel destino dei vivi, facendo sentire la loro influenza anche dall'aldilà. Non a caso, accanto a un anziano (??? Belin ma Christian Bale ha solo 48 anni, nel film ne parlano come se fosse decrepito!!) e ormai disilluso detective spunta, nel ruolo di assistente d'eccezione, un Edgar Allan Poe ancora solo cadetto dell'accademia militare, a mo' di nume tutelare di una trama che mescola generi assai cari allo scrittore di Boston. Tutto nasce da un apparente suicidio che, senza fare troppi spoiler, si rivelerà essere un omicidio con caratteristiche ascrivibili a qualche rituale satanico, e che minaccia di essere solo il primo commesso all'interno di un'accademia militare; l'austera atmosfera dell'istituzione, mantenuta da colonnelli e superiori, fa ovviamente a pugni con la personalità dimessa e "scapestrata" del detective Landor, il quale nel giovane Poe, altrettanto fuori posto, troverà uno spirito affine e un alleato. La trama è dunque un dipanarsi delle investigazioni dei due, che tuttavia si distaccano da quelle dei gialli tornati di moda negli ultimi tempi, perché l'attenzione dello spettatore viene sviata spesso dalle vicende personali dei protagonisti e da altri misteri apparentemente slegati dall'indagine. Inoltre, Landor è dotato di una personalità schiva e cupa e lo spettatore viene tenuto ben distante dalle sue elucubrazioni private, quindi tocca a un'inedito e ciarliero Poe fare la parte dell'entusiasta investigatore che offre dovizia di spiegazioni, mantenendo desta l'attenzione nemmeno si avesse a che fare con un giovane Sherlock Holmes.


Proprio per questo motivo succede una cosa inusuale, ovvero che a Christian Bale venga rubata spesso e volentieri la scena dall'ex Dudley Dursley Harry Melling. Quest'ultimo, con i suoi occhioni giganteschi (ma non sono i pale blue eye del titolo) e l'aspetto dinoccolato e stralunato, interpreta un ottimo Edgar Allan Poe, passando dalla superficiale eccentricità dell'inizio a qualcosa di ben più profondo e sfaccettato, quindi è naturale che spicchi. Bale è, come al solito, molto bravo, purtroppo è il suo personaggio ad essere un po' banale, passatemi il termine, in quanto trattasi dell'ennesimo detective ubriacone dal passato tragico e dalla mente brillante di cui cinema e letteratura sono pieni. Anzi, ad essere onesti tutto l'impianto di The Pale Blue Eye potrebbe rientrare sotto la definizione di "banale" (e gli aspetti esoterici della faccenda sembrano quasi inseriti a forza), non fosse per un piccolo particolare che riesce a cambiare completamente le carte in tavola e a lasciare molto soddisfatti. E poi, come ho scritto sopra, il film gode non solo di un ottimo cast di caratteristi di lusso, ma anche e soprattutto di una regia molto bella, che presta moltissima attenzione agli ambienti, sia interni che esterni. La natura selvaggia che circonda ed isola i protagonisti, con tutte le conseguenze del caso, e gli interni bui, illuminati soltanto da candele e zeppi di ombre inquietanti che sembrano sempre incombere sugli astanti, sono elementi importantissimi del racconto e, in qualche modo, ne accentuano l'atmosfera luttuosa e plumbea. Insomma, The Pale Blue Eye è uno di quei film dal sapore un po' antico, non solo perché è in costume, ma proprio per la deliberata scelta di puntare più sulla raffinatezza della ricostruzione e dell'immagine e sulle atmosfere più che sull'effettiva azione; alcuni potranno non sopportare la natura slow burn dell'opera, a me invece non è affatto dispiaciuta. 


Del regista e co-sceneggiatore Scott Cooper ho già parlato QUI. Christian Bale (Augustus Landor), Harry Melling (Cadetto Edgar Allan Poe), Simon McBurney (Capitano Hitchcock), Timothy Spall (Sovrintedente Thayer), Toby Jones (Dr. Daniel Marquis), Charlotte Gainsbourg (Patsy), Lucy Boynton (Lea Marquis) e Robert Duvall (Jean Pepe) li trovate invece ai rispettivi link.

Gillian Anderson interpreta Mrs. Julia Marquis. Indimenticabile Agente Scully della serie X-Files, la ricordo anche per film come X-Files - Il film, Scherzi del cuore, X-Files - Voglio crederci e altre serie quali Hannibal, American Gods e The Crown; come doppiatrice, ha lavorato in I Simpson, Robot Chicken, Principessa Mononoke e La collina dei papaveri. Americana, anche produttrice, regista, sceneggiatrice e compositrice, ha 55 anni e un film in uscita. 


Se The Pale Blue Eye vi fosse piaciuto recuperate Il nome della rosa, Il mistero di Sleepy Hollow e From Hell - La vera storia di Jack lo squartatore. ENJOY!

domenica 2 dicembre 2018

Bohemian Rhapsody (2018)

Era uno dei film più attesi del 2018 quindi appena è uscito mi sono fiondata a vedere Bohemian Rhapsody, diretto (quasi tutto) dal regista Bryan Singer.


Trama: ascesa e caduta di Freddie Mercury, frontman dei Queen, dagli esordi alla partecipazione al Live Aid.


La solita, ignorante premessa vuole che io i Queen li avessi conosciuti solo alle medie grazie a San Toto che aveva il Greatest Hits II contenente l'adorata Innuendo e che avessi consumato la cassetta a furia di ascoltarlo. Lo stesso anno acquistai il Live at Wembley '86 come regalo di Natale per la mamma e lì mi innamorai di Bohemian Rhapsody, canzone che da il titolo al film di Singer e probabilmente uno dei brani più belli mai realizzati non solo dai Queen ma da qualsiasi altra band, nonché una delle mie canzoni preferite. La mia storia con Mercury & co. finisce qui, nel senso che non sono mai stata una fan sfegatata del gruppo: se in radio passano le loro canzoni metto il volume al massimo e mi sgolo in maniera ridicola ma, per esempio, chi sapeva che Freddie Mercury avesse avuto una fidanzata? Io credevo si fosse sempre palesato come gay. Rammentavo, vagamente, che avesse intrapreso una carriera da solista ma non avevo idea avesse rotto con i Queen (e in effetti questa è, se non ho capito male, una delle tante "libertà" che si sono presi gli sceneggiatori, chè a quanto pare l'idea di prendersi una pausa era stata comune, non solo di Freddie Mercury). E d'altronde, io sono sempre stata Madonnara accanita fin dall'età di 8 anni e quando c'è stato il Live Aid ne avevo solo 4, quindi la storia dei Queen l'ho saltata a pié pari. E' dunque con animo abbastanza libero da pregiudizi e speranze che mi sono recata al cinema a vedere Bohemian Rhapsody, forse per questo l'ho apprezzato più di tanti altri che lo hanno demolito, riuscendone a scorgere pregi e difetti senza esagerazioni da una parte o dall'altra. Cominciamo dagli ultimi, così ci togliamo il dente. Bohemian Rhapsody è MOLTO melodrammatico, parecchio distaccato dagli eventi reali e segue una precisa traccia di ascesa-caduta-risalita tipica del 90% dei film a tema musicale/sportivo, inoltre è anche troppo concentrato sulla sfera sentimentale di Mercury, dipinto come un fragile ragazzetto isterico terrorizzato dalla solitudine a causa delle sue origini etniche (parsi, figlio di genitori zoroastriani e nato a Zanzibar come Farrokh Bulsara) e dal suo orientamento sessuale; si sottolinea nel film il suo rapporto al limite del morboso con la fidanzata Mary Austin, amica indispensabile fino alla fine, e l'influenza negativa del manager Paul Prenter, dipinto come un depravato mostro gay e quasi come l'unico agente della caduta del cantante, un uomo privo di scrupoli che ha contribuito a costruire attorno a Mercury la cappa di solitudine che lo ha portato agli eccessi e infine alla morte. Insomma, la trama di Bohemian Rhapsody da questo punto di vista è molto tranchant e zeppa di personaggi 100% positivi (i membri dei Queen, la Famiglia per eccellenza, dotati di ogni pregio e di qualche trascurabile difetto) o negativi, senza tonalità di grigio in mezzo, il che rende la vita di Mercury anche troppo romanzata.


Gli aspetti positivi sono invece la resa favolosa della pura energia che ha animato i Queen fin dai loro esordi. La ricostruzione della nascita del gruppo e di alcuni dei loro pezzi più famosi, come la pluricitata Bohemian Rhapsody, We Will Rock You, Another One Bites the Dust e molte altre, danno proprio l'idea del sacro fervore che muoveva Mercury, May e compagnia, musicisti con la M maiuscola desiderosi di sperimentare, di farsi ricordare, di divertirsi, di lasciare il segno nel mondo della musica. Anche lì, sicuramente l'interazione tra i vari membri del gruppo è molto romanzata e ognuno di essi è caratterizzato in modo anche troppo netto (Freddie è il genio sregolato, Brian May il paciere, Roger Taylor la testa calda fondamentalmente buona, John Deacon il bassista carismatico che sta in silenzio ma apporta un contributo inestimabile) ma se non altro riesce a creare momenti di divertimento ed esaltazione puri, senza contare che ascoltare le canzoni dei Queen e veder rivivere su schermo alcune delle loro performance migliori fa salire brividi di emozione lungo la schiena. Soprattutto, Rami Malek ha catturato alla perfezione i movimenti, i tic, i tratti salienti delle performance di Freddie Mercury, tanto che vedere l'attore saltare e cantare sul  palco fa venire la folle idea di avere davanti il cantante redivivo, benché la voce non sia la sua ma un mix di quella di Mercury, dello stesso Malek e di un altro cantante canadese (magie della tecnologia!), e addirittura i suoi degni compari Gwilym Lee, Ben Hardy e Joseph Mazzello sono anche più credibili del protagonista. In verità, l'unico difetto di Rami Malek è quella terrificante protesi dentale unita ad eccessiva magrezza che, soprattutto all'inizio, lo fanno somigliare più a Michael Jackson che a Freddie Mercury e non rendono giustizia alla bellezza di quest'ultimo, gradevole d'aspetto anche da giovane. Se a tutti i pregi aggiungete il meraviglioso cameo di Mike Myers, l'uomo che ha rilanciato Bohemian Rhapsody rendendola il momento clou del suo Fusi di testa, costretto a vestire i panni di chi ha rifiutato di riconoscere la bellezza di quel grandissimo capolavoro... beh, capirete che, nonostante i suoi difetti innegabili, il film di Singer mi è piaciuto parecchio. Non da applausi finali, che molti hanno tributato nella sala dove ho guardato Bohemian Rhapsody, ma comunque da vedere almeno una volta, anche solo per deprimersi all'idea di aver avuto 4 anni il giorno del Live Aid!


Del regista Bryan Singer ho già parlato QUI. Lucy Boynton (Mary Austin), Aidan Gillen (John Reid) e Mike Myers (Ben Foster) li trovate invece ai rispettivi link.

Rami Malek interpreta Freddie Mercury. Americano, ha partecipato a film come Una notte al museo, Una notte al museo 2 - La fuga, The Twilight Saga: Breaking Dawn - Parte II, The Master, Il sangue di Cristo, Notte al museo - Il segreto del faraone e a serie quali Una mamma per amica, Medium, 24 e Mr. Robot; come doppiatore, ha lavorato in Bojack Horseman. Anche produttore, ha 37 anni e un film in uscita.


Joseph Mazzello, che interpreta John Deacon, era il piccolo Tim di Jurassic Park. Il protagonista del film avrebbe dovuto essere Sacha Baron Coen (con Stephen Frears alla regia) ma sia Brian May che Roger Taylor hanno messo il veto sia alla sua presenza sia allo script precedente questo, che si concentrava quasi esclusivamente su Freddie Mercury e sui suoi scandali sessuali. Non che le riprese di Bohemian Rhapsody siano state meno difficili: verso la fine Bryan Singer è stato licenziato per le continue assenze e il film è stato finito e seguito in post-produzione da Dexter Fletcher, benché non accreditato. Detto questo, se Bohemian Rhapsody vi fosse piaciuto recuperate Fusi di testa. ENJOY!

mercoledì 31 ottobre 2018

Apostolo (2018)

A causa del meteo devastante che ha quasi distrutto mezza Liguria, lunedì non sono andata a vedere Halloween quindi ho ripiegato su Apostolo (Apostle), diretto e sceneggiato nel 2018 dal regista Gareth Evans.


Trama: Thomas, dipendente dalla droga e con l'animo spezzato, si reca su un'isola deserta popolata dai membri di una setta per liberare la sorella, tenuta prigioniera proprio da questi ultimi.


Con tutti gli improperi che ho letto rivolti ad Apostolo, mi aspettavo che uno degli ultimi originali Netflix fosse una schifezza cosmica. In realtà, anche in questo caso dipende da cosa uno pretende da un determinato Autore. Faccio mea culpa: non conosco Gareth Evans, non ho mai visto né i suoi The Raid né l'episodio di V/H/S 2 da lui diretto e sceneggiato ma immagino che i suoi fan si sarebbero aspettati un film adrenalinico e veloce, non qualcosa di riflessivo ed elegante come Apostolo, pellicola che si prende tutto il tempo di creare l'atmosfera necessaria per entrare nell'idea di un'isola vicino al Galles di inizio novecento, dove si riuniscono i membri di un culto, "perseguitati" dal Re e pronti a difendere la loro inespugnabile comunità con le unghie e con i denti. A pensarci bene, forse i fan di Evans condannano anche la "banalità" della storia portata su schermo. Su Netflix, non molti mesi fa, era già uscito Il rituale a raccontare di quanto sia pericoloso incappare in una comunità di invasati religiosi e Apostolo segue quasi pedissequamente il canovaccio tipico di questo genere di thriller/horror, con l'elemento di disturbo che, a poco a poco, arriva a svelare gli altarini di una comunità apparentemente perfetta, in bilico tra il paganesimo folle di The Wicker Man (anche qui servono sacrifici di varia natura per placare un dio che un tempo donava prosperità, ora solo carestia e orribili malformazioni) e la crudeltà di The Sacrament ma con una componente sovrannaturale e splatter più marcata, soprattutto da metà film in poi. E' indubbio che Apostolo parta lento, concentrato com'è sulle indagini del protagonista e su un minimo di costruzione dei personaggi e delle "situazioni" di potenziale pericolo, ma a un certo punto comincia a non dare un attimo di tregua allo spettatore, indulgendo anche in immagini da far rivoltare lo stomaco e in torture abbastanza efferate e crudeli, vista anche la natura delle vittime. Dove a mio avviso sbaglia Apostolo, neanche a dirlo, è nell'incertezza tra lo spiegone della natura del dio che governa l'isola e il desiderio di mantenere il mistero, che si conclude in un "e quindi?" da parte dello spettatore, che si ritrova forse un po' schifato da alcune scene anticipanti la rivelazione ma in definitiva soprattutto perplesso.


E' un dettaglio trascurabile questo soprattutto perché il film è gradevole non solo per come fila liscia la storia (anche se forse sarebbe servita un po' di introspezione in più, maggiormente incisiva e in un tempo più breve) ma anche per la presenza di bravi attori e per alcune sequenze interessanti e abbastanza ricercate, in bilico tra horror tout court e suggestione "new age", ove vengono mescolati sangue e poesia con un taglio decisamente cinematografico, fatto di dettagli claustrofobici e riprese ad ampio respiro di panorami mozzafiato o interni angusti. Sapete già della mia passione per Dan Stevens, non solo perché è un bel figliolo ma perché come interpreta lui il pazzo sofferente nessuno mai (Legion docet), e qui il personaggio di Thomas richiede tutta la nevrotica follia che è in grado di infondere l'attore inglese, oltre a quell'ambiguità di fondo che lo pone sempre in bilico tra buono e cattivo. Altrettanto valido il resto del cast, nel quale spiccano la sempre bellissima Lucy Boynton e un intenso Michael Sheen, anche lui chiamato ad interpretare un personaggio all'apparenza tagliato con l'accetta ma via via sempre più tormentato e profondo, mentre le due creature sovrannaturali sono interessanti e riescono a non scadere nel trash più becero nonostante ci sia il forte rischio almeno in un paio di occasioni (soprattutto per quel che riguarda il personaggio inquietante della vecchia). Sarà perché mi sono approcciata ad Apostolo senza troppe aspettative ma al momento è uno degli originali Netflix che più mi ha soddisfatta e vi consiglierei di dargli un'occhiata in occasione di Halloween. A proposito del quale, vi faccio ovviamente tanti auguri per una delle mie festività preferite!!!


Di Dan Stevens (Thomas Richardson), Lucy Boynton (Andrea) e Michael Sheen (Profeta Malcom) ho parlato ai rispettivi link.

Gareth Evans è il regista e sceneggiatore della pellicola. Inglese, ha diretto film come The Raid - Redenzione, V/H/S 2 e The Raid 2. Anche produttore, stuntman e attore, ha 38 anni e due film in uscita.


Se Apostolo vi fosse piaciuto recuperate The Wicker Man. ENJOY!

martedì 12 dicembre 2017

Assassinio sull'Orient Express (2017)

Con calma (c'era il ponte, ho cazzeggiato, lo ammetto!) arrivo a parlare anche di Assassinio sull'Orient Express (Murder on the Orient Express), diretto da Kenneth Branagh e tratto dal giallo omonimo di Agatha Christie.


Trama: durante un viaggio sull'Orient Express il famoso investigatore Hercule Poirot si ritrova per le mani un caso di omicidio. Una valanga improvvisa blocca la corsa del treno e Poirot ha tempo solo finché non arriveranno i soccorsi e libereranno le rotaie per scoprire l'identità dell'assassino!


Come già scritto nella solita rubrica delle uscite settimanali, ho avuto la (s)fortuna di vedere Assassinio sull'Orient Express di Sidney Lumet solo una volta nella vita, da bambina, e di non avere mai letto il giallo di Agatha Christie. Oltre quindi a non ricordare NULLA relativamente alla risoluzione del caso non ho potuto nemmeno venire sopraffatta dall'effetto nostalgia legato alla pellicola, quella sensazione canaglia che ti prende proprio quando non vuoi e ti porta a rompere le palle alla gente dicendo "eeeeh, ma Albert Finney era un Poirot migliore, eh ma cosa mi significano quei baffoni signora mia, ah ma la Bergman era ben più sopraffina di quel rattu penigu della Cruz!". Posso dire perciò di essere una delle poche persone al mondo che si è approcciata al film di Branagh in totale letizia ed assoluta ignoranza, pronta a godersi un giallo all-star pregando il signoruzzo che la coppia di anziani burini parlanti seduti accanto a lei non spoilerassero il finale durante uno dei loro interminabili dialoghi. In virtù di ciò, mi sento di affermare innanzitutto che Kenneth Branagh dietro la macchina da presa è sempre e comunque un signore. Aiutato da un bel reparto effetti speciali capace di realizzare delle splendide sequenze panoramiche e momenti di pura suspance in mezzo alla neve, quelle belle scene in cui chi (come me) soffre di vertigini rischia di farsi venire un embolo e crepare in mezzo alla sala, lord Branagh confeziona un gioiellino capace di intrattenere innanzitutto gli occhi, assai vivace dal punto di vista delle inquadrature che riescono a dilatare lo spazio ristretto di un treno. La scelta di riprendere le carrozze dall'alto, come se non avessero un soffitto, oppure quella di scomporre l'immagine in tanti prismi illuminati da una calda luce artificiale, piuttosto che l'ennesima citazione di un'opera d'arte sul finale (in Cenerentola c'era Fragonard, qui addirittura Leonardo Da Vinci con L'ultima cena) o i flashback in bianco e nero sono tutti eleganti tocchi di stile che si sommano all'eleganza dei costumi e delle scenografie e rendono Assassinio sull'Orient Express un film di indubbia bellezza "formale". E benché non abbia visto la pellicola in lingua originale mi è sembrato che gli attori fossero tutti molto in parte, soprattutto la splendida Michelle Pfeiffer (la quale mi pare stia vivendo una seconda giovinezza e non posso che esserne felice), e persino Johnny Depp mi è sembrato lontano, per una volta, dalle terrificanti macchiette da lui interpretate negli ultimi tempi. Quindi cos'è che mi ha portata, al termine della visione, a relegare Assassinio sull'Orient Express tra i dimenticabili del 2017?


Il motivo ha un nome e un cognome e non può che essere Kenneth Branagh. Intendiamoci, io andrei a vedere persino una recita parrocchiale se ci fosse coinvolto Kenneth Branagh, però Assassinio sull'Orient Express è già il secondo film di seguito, tra quelli da lui diretti, che mi fa cadere i marroni non tanto per la noia, quanto per la tracotanza che traspare da ogni fotogramma, da ogni singolo pelo di baffo insistentemente messo in primo piano. Poirot non nasce come personaggio simpatico, per carità, però in questa versione è ancora più insopportabile del normale, un mix tra l'investigatore classico e un maestro della deduzione alla Sherlock Holmes (anche dal punto di vista "fisico" visto che riesce a prevedere le mosse del nemico e neutralizzarle come l'Holmes di Guy Ritchie), con la terrificante aggiunta di una passione per gli spiegoni demoralizzanti, filosofici ed aulici: vedere Kenneth Branagh sospirare una mezza dozzina di volte davanti al ritratto dell'amata o perdersi in elucubrazioni sul senso della vita e la natura del male, col faccione preoccupato ad occupare interamente lo schermo del cinema come nemmeno quel bolso di Tom Hanks nel vecchio Il codice Da Vinci visto in prima fila, abbiate pazienza ma mi ha causato un po' di orchite, spezzando il naturale, dinamico andamento della vicenda più volte di quanto non fosse necessario. Per carità, senza questi excursus probabilmente il metraggio del film sarebbe stato ridotto e la trama sarebbe risultata troppo semplice ma sinceramente avrei preferito un po' più di ironia e maggior coesione all'interno delle indagini, talmente prolisse e dispersive da risultare in qualche modo "faticose" da seguire per chi, come me, non era a conoscenza dell'esito finale. E comunque s'è lamentato anche Toto accanto a me quindi se non è piaciuto a lui il film chi sono io per contestare un giudizio ben più affidabile del mio? Che poi, non piaciuto... diciamo che è il solito film senza infamia né lode pompato da un enorme battage pubblicitario che alza le aspettative dello spettatore all'inverosimile per poi deluderle, quindi magari sono stata troppo dura e qualcuno potrebbe invece trovarlo uno dei migliori film dell'anno. Non io, però.


Del regista Kenneth Branagh, che interpreta anche Hercule Poirot, ho già parlato QUI. Penélope Cruz (Pilar Estravados), Johnny Depp (Edward Ratchett), Derek Jacobi (Edward Henry Masterman), Lucy Boynton (Contessa Elena Andrenyi), Marwan Kenzari (Pierre Michel), Michelle Pfeiffer (Caroline Hubbard), Judi Dench (Principessa Dragomiroff), Olivia Colman (Hildegarde Schmidt) e Willem Dafoe (Gerhard Hardman) li trovate invece ai rispettivi link.

Daisy Ridley interpreta Miss Mary Debenham. Inglese, la ricordo per film come Star Wars - Il risveglio della forza e Star Wars - Gli ultimi Jedi. Anche produttrice, ha 25 anni e tre film in uscita.


Josh Gad interpreta Hector MacQueen. Americano, lo ricordo per film come La bella e la bestia; inoltre ha partecipato a serie come E.R. Medici in prima linea e Numb3rs e lavorato come doppiatore per film quali L'era glaciale 4 - Continenti alla deriva, Frozen - Il regno di ghiaccio, Frozen Fever, Frozen - Le avventure di Olaf e serie come American Dad!, The Cleveland Show, Phineas and Ferb e South Park. Anche produttore e sceneggiatore, ha 36 anni e un film in uscita.


Per il ruolo di Caroline Hubbard erano state convocate sia Angelina Jolie che Charlize Theron ma entrambe hanno rinunciato (la Jolie, in verità, pare sia stata estromessa dal progetto a calci in culo a causa delle pretese di riscrivere la parte in base ai propri desideri). Come anticipato nel finale, pare che sia Branagh che la 20th Century Fox siano molto interessati a realizzare un adattamento di Assassinio sul Nilo quindi prepariamoci a more Branagh per il futuro! Nell'attesa, se Assassinio sull'Orient Express vi fosse piaciuto recuperate il film omonimo di Sidney Lumet. ENJOY!

mercoledì 2 agosto 2017

Non bussate a quella porta (2016)

La seconda uscita horror di luglio, sempre ad opera della Midnight Factory, è stata Non bussate a quella porta (Don't Knock Twice), diretto nel 2016 dal regista Caradog W. James.


Trama: Chloe, che da anni vive lontana dalla madre e ospite di una casa famiglia, torna dalla genitrice per fuggire a una presenza che vorrebbe ucciderla...



E' un vero peccato che le uscite video della Midnight Factory non siano sempre a livello di eccellenza superiore come XX- Donne da morire. Dopo la piacevolissima sorpresa di quell'antologia al femminile, la seconda uscita estiva della Fabbrica del Male si è purtroppo rivelata un diludendo della peggior specie, un film soporifero e derivativo come pochi. Seguendo il filone di molti horror psicologici recenti, Non bussate a quella porta (titolo vintage che però altera parecchio il significato di quello originale, dove si sottolinea il "due volte") avrebbe dovuto essere innanzitutto il tentativo di una madre di riappropriarsi della figlia, spedita in una casa famiglia quando la protagonista era troppo drogata per prendersi cura di lei, tentativo reso più facile o difficile, a seconda dei momenti, dall'intrusione dell'elemento sovrannaturale. Il dramma familiare, se così si può chiamare, fa però acqua da tutte le parti e il motivo risiede non tanto nell'interpretazione delle attrici, entrambe bravine ma sacrificate, bensì in una sceneggiatura che fa dell'ermetismo il suo punto di "forza". Sapete bene quanto detesti gli spiegoni ma un minimo di approfondimento psicologico ci vuole o i personaggi risultano semplicemente dei matti umorali: Non bussate a quella porta fa subire allo spettatore, letteralmente, un conflitto tra madre e figlia che non sta né in cielo né in terra, con una madre che all'improvviso rivuole la sua "bambina" dopo averla abbandonata per anni (va bene, eri una tossicodipendente, ma ci hai messo più di dieci anni a disintossicarti? Nel frattempo, perché hai deciso di non sentire né vedere più tua figlia nemmeno per le feste comandate?) e una figlia post-adolescente che corre da una mammà che non vede da decenni appena un mostro cerca di ucciderla, PUR continuando ad odiarla. Davanti a simili presupposti, capite bene che è praticamente impossibile sia percepire come realistico il loro lento riavvicinamento sia arrivare a provare una qualsivoglia forma di empatia verso le due e quando subentra l'elemento sovrannaturale non importa quindi più che le protagoniste sopravvivano. Da qui, la letargia da disinteresse.


La parte "horror" non è migliore ed è gestita in modo talmente raffazzonato che ho dovuto guardare il finale due volte per poi arrendermi e andare su Wikipedia a leggere il riassunto del film onde capire dove volessero andare a parare gli sceneggiatori. E anche così, ve lo giuro, mette davvero male apprezzare il tutto. La sceneggiatura di Non bussate a quella porta a un certo punto va persino a scomodare la figura fiabesca della strega Baba Yaga, ovviamente senza zampe di gallina né mortaio, tanto che avrebbero anche potuto chiamare il mostro Baciocca o Piergigia e il risultato sarebbe stato il medesimo; inquietante mix tra l'Uomo Lungo e Samara, per gentile concessione del sempre valido Javier Botet (unico elemento positivo della pellicola, assieme alla regia molto curata), la Baba Yaga è in soldoni una creatura amante delle ombre, della solitudine e delle porte, tanto che queste ultime compaiono dove meno ce lo si aspetta e anche dopo che le protagoniste, prese da un attacco di demenza, decidono di bruciare tutte quelle presenti in casa, con scarsi risultati. Non paghi di avere un mostro persino meno spaventoso della Fata Dentina o del Bye Bye Man (evocato nel modo più scemo di sempre, aggiungo), gli sceneggiatori hanno deciso di inserire anche dei twist nel vago tentativo di svegliare lo spettatore dall'abbiocco post-dramma familiare, con l'unico risultato di trovarsi a un certo punto tra le mani personaggi che "fanno cose" perché sì. Ma tanto, se la protagonista è così demente da bussare due volte alla porta di una casa dove vive il demone che anni prima s'è portato via uno dei suoi migliori amici, consapevole del fatto che NON BISOGNA bussare due volte alla porta altrimenti il demone s'inquieta, non devo aspettarmi maggiore furbizia dai personaggi secondari, giusto? Giusto. Ed è altrettanto giusto, quindi, che io sconsigli la visione di Non bussate a quella porta, modificandone ulteriormente il titolo e dicendo, molto banalmente, Non guardate questo film.


Di Katee Sackhoff, che interpreta Jess, ho già parlato QUI.

Caradog W. James è il regista della pellicola. Probabilmente inglese, ha diretto film come The Machine. E' anche produttore e sceneggiatore.


Lucy Boynton interpreta Chloe. Americana, ha partecipato a film come Ballet Shoes, February: L'innocenza del male, Sing Street e Sono la bella creatura che vive in quella casa. Ha 23 anni e due film in uscita, tra cui Assassinio sull'Orient Express.


La ricchissima edizione speciale della Midnight Factory, corredata dal libretto redatto da Nocturno Cinema, contiene moltissimi extra interessanti, come il Making Of e le featurette La Storia, Il cast, Cercando Ginger e Gli effetti speciali. Se Non bussate a quella porta vi fosse piaciuto recuperate The Babadook e La madre. ENJOY!


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