Visualizzazione post con etichetta jesse plemons. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta jesse plemons. Mostra tutti i post

venerdì 21 giugno 2024

Kinds of Kindness (2024)

In ritardo rispetto al mondo, per colpa della durata elefantiaca, sono riuscita a recuperare al cinema Kind of Kindness, diretto e co-sceneggiato dal regista Yorgos Lanthimos.


Trama: nel primo episodio un uomo d'affari decide di liberarsi dalla pesante influenza del suo capo; nel secondo, un poliziotto viene assalito dal dubbio che la donna salvatasi dopo un incidente in mare non sia la sua vera moglie; nel terzo, i membri di una setta cercano il loro messia dai poteri miracolosi.


Benché Kinds of Kindness sia un film a episodi, ho deciso di non dedicare a ciascuno di essi un paragrafo come faccio di solito, soprattutto per evitare inutili spoiler a chi dovesse ancora vedere il film. In seconda istanza, preferisco prendere Kinds of Kindness come un'opera unica, profondamente legata ai primi lavori di Lanthimos, all'interno della quale si possono ritrovare tutti i temi che erano preponderanti nel grottesco Dogtooth. Proprio "grottesco" è l'aggettivo giusto per definire le vicende narrate nel film, all'interno del quale tre questioni profondamente serie e drammatiche offrono risvolti inaspettatamente ridicoli, se non addirittura comici, privando i protagonisti della loro importanza di fronte alla vastità dell'universo e dell'inconoscibile. I personaggi principali di ogni episodio sono, infatti, dei poveri inetti con grosse difficoltà a rapportarsi con l'esistenza; forse per questo motivo, attirano su di loro l'altrui volontà di prevaricare o cercano spontaneamente qualcosa che dia loro uno scopo anche a costo di spersonalizzarsi e incappare in grosse cantonate. I kinds of kindness del titolo originale sono atti di devozione che sfociano nell'insano e nel perverso e rappresentano il fil rouge che porta avanti la poetica del regista, fatta di sentimenti distorti che spingono al controllo dei sentimenti (o all'anaffettività) e dei comportamenti altrui, spesso alla ricerca di una perfezione impossibile che sfocia in frustrazione e in inevitabile violenza. L'esempio perfetto di tutto ciò, nonché il mio episodio preferito, è il primo, che scava proprio in un rapporto di inquietante dipendenza da cui il protagonista cerca di fuggire; mirabile sintesi di tutto ciò che adoro in Lanthimos, è espressione del masochismo più puro ma, a modo suo, è anche tristemente tenero. C'è della tenerezza anche nel secondo episodio, ma ammetto di non averlo capito. Probabilmente, sono stata distratta dalle potenziali implicazioni fantascientifiche o horror richiamate dalla trama e dalla generale impressione che il poliziotto protagonista abbia trovato la "soluzione" al suo problema senza rendere partecipe il pubblico, tuttavia non ho capito dove volesse andare a parare il tutto e la "rivelazione" buttata lì en passant con un sogno raccontato non ha granché giovato. Il terzo episodio torna ad essere più comprensibile e ammetto di avere riso parecchio durante la visione, forse perché è costruito come una parodia di tutte le sette religiose che infestano sia il mondo che le opere di finzione. Nonostante l'abbondanza di aspetti e rituali ridicoli, per non parlare della protagonista goffa e di una serie di inenarrabili sfighe, anche questo episodio nasconde un cuore tragico, fatto di persone che hanno perso loro stesse e sono bloccate in un limbo di prospettive sgradevoli, alla mercé di chiunque voglia approfittarsi di loro o, peggio ancora, offrire aiuti non richiesti che minacciano di distruggerle. 


A prescindere da ogni considerazione personale, come ha detto la mia amica a fine visione "il film è zeppo di chicche", quindi anche nell'episodio meno riuscito ci sono momenti di puro genio che valgono la visione di Kinds of Kindness. Un altro aspetto che ho gradito tantissimo è il ritorno a una regia e una fotografia meno barocche rispetto a Povere creature! e, per quanto mi riguarda, molto più efficaci. Lo spaesamento dei personaggi, il loro essere protagonisti di una tragicommedia sulla quale non hanno alcun controllo, vengono enfatizzati da inquadrature dove sono gli sfondi (naturali o artificiali) ad essere preponderanti sulla figura umana; interni eleganti ma asettici diventano gli spettatori della desolazione dei protagonisti, oppure questi ultimi percorrono strade apparentemente senza fine, per non parlare del modo in cui persino la casetta di due sposi innamorati si priva di calore e si trasforma in ulteriore mezzo di incomunicabilità. Aggiungo inoltre che l'assurda colonna sonora di Jerskin Fendrix, inframmezzata da pezzi più pop e accattivanti, mi ha lasciata spiazzata in più di un'occasione, in particolare quando cupi cori arrivano a sottolineare i momenti più inquietanti o rivelatori. Gli attori, infine, meriterebbero un post a parte. Jesse Plemons è patrimonio mondiale, nonché avviato a percorrere la strada di un altro grande a lui molto simile per "colori" e corporatura, Philip Seymour Hoffman, e meriterebbe davvero che i registi gli cucissero addosso ruoli in bilico tra il weird e il drammatico, perché gli calzano alla perfezione. E lo so che tutti siete andati al cinema per Emma Stone, altrettanto a suo agio e palesemente divertita, però stavolta le ho preferito il biondo co-protagonista, che riesce a tenere testa persino a Willem Dafoe (divino, che ve lo dico a fare?) e a LUI. Con lui, intendo Yorgos Stefanakos, fantastico signor nessuno dalla faccia di pancotto, che arriverà a riempire ogni vostro pensiero e a perseguitarvi nel sonno: è forse lui un Dio? E' forse un silenzioso agente del caos? E' forse un tizio che voleva semplicemente mangiarsi un panino senza fare troppo casino, invano? Chissà. Vi toccherà guardare Kinds of Kindness per scoprirlo!


Del regista e co-sceneggiatore Yorgos Lanthimos ho già parlato QUI. Margaret Qualley (Vivian / Martha / Rebecca / Ruth), Jesse Plemons (Robert / Daniel / Andrew), Hong Chau (Sarah / Sharon / Aka), Willem Dafoe (Raymond / George / Omi), Mamoudou Athie (Will / Neil / Infermiere all'obitorio) e Emma Stone (Rita / Liz / Emily) li trovate invece ai rispettivi link.



venerdì 26 aprile 2024

Civil War (2024)

Nonostante un po' di diffidenza, domenica sera sono andata a vedere Civil War, diretto e sceneggiato dal regista Alex Garland.


Trama: Lee, fotografa di guerra veterana, decide di partire per Washington con due colleghi e un'aspirante reporter. L'idea è quella di fotografare ed intervistare il presidente degli Stati Uniti, durante gli ultimi atti di una guerra civile che ha distrutto il Paese...


Dopo la bellezza cerebrale di Ex Machina, mi ero disamorata di Alex Garland. Avevo trovato Annientamento una sciocchezzuola dalla bella confezione e Men talmente disascalico e presuntuoso da chiedermi perché mai tutti lo incensassero. Ero quindi abbastanza terrorizzata da Civil War (soprattutto dall'idea di portare con me Mirco al cinema...) ma il trailer, chissà perché, mi aveva attirata per via di un senso di disagio che non poteva essere attribuibile solo al nome di Alex Garland. Il disagio si è mantenuto fino alla fine del film, perché Civil War è un film angosciante, che mostra uno spaccato di orribile umanità anche troppo plausibile. Ambientata in un futuro molto prossimo, la pellicola racconta gli ultimi giorni di una guerra civile americana in cui Texas e Florida si sono uniti in una federazione decisa a schiacciare il resto della Nazione, in particolare un presidente fascista reo di avere commesso terribili crimini di guerra. L'America è diventata un Paese dove vigono la legge marziale e la confusione, una terra dove il rischio di venire uccisi non solo da bande di disperati afflitti da fame e povertà, ma anche da soldati impossibili da riconoscere come amici o nemici, è tangibile. In questo cupo, plausibilissimo futuro, si muove la fotografa di guerra Lee, ormai svuotata di ogni emozione e passione, un'automa che fotografa le peggiori atrocità, probabilmente vittima di una PTSD perenne; assieme a lei, due colleghi veterani e la giovane Jessie, la quale vorrebbe seguire le orme di Lee e si imbarca nel viaggio verso Washington, dove l'obiettivo finale è fotografare ed intervistare il presidente. Attraverso le vicissitudini di questo quartetto, Garland imbastisce un terribile discorso sul sensazionalismo a tutti i costi e sulla morte di un serio giornalismo di inchiesta. Lo fa, innanzitutto, confondendo volutamente il pubblico. I motivi della guerra civile non sono mai esplicitati, non c'è modo di fare chiarezza su chi sia in torto o meno, delle due parti, i soldati hanno divise impossibili da distinguere e i personaggi non vengono mai mostrati a riflettere sulle cause o le possibili soluzioni del conflitto. Ci sono solo dialoghi sommari su alcuni eventi particolarmente "memorabili", il che è proprio il punto dolorosamente sottolineato dal film. 


La Storia viene raccontata attraverso immagini ardite, più "pornografiche" sono, meglio è. La memoria collettiva vive di singoli momenti eclatanti, il quadro d'insieme non importa più; in un'epoca di informazione mordi e fuggi, conta correre per arrivare primi, ma non per offrire una cronaca in diretta, bensì per rubare lo scatto da primo premio, quello che consacrerà l'autore ad imperitura memoria. La presenza, all'interno del film, di quattro generazioni di giornalisti/fotografi, è testimonianza di un progressivo cambiamento di mentalità e di una mancanza di etica sempre più marcata; se, all'inizio, Lee parrebbe condannata ad un distaccato cinismo, la presenza di Jessie agisce da leva per spingerla a ritrovare l'umanità perduta ed impedire all'innocente ragazzina di prendere la stessa, orribile china. Ahilei, Civil War non è un film ottimista. Alex Garland descrive una società in caduta libera verso la rovina e la perdita di ogni valore positivo, e lo fa accelerando progressivamente il ritmo narrativo. Da un'inizio quasi da road trip (salvo per quell'inizio deflagrante, che scuote i nervi dello spettatore passando attraverso una delle paure più grandi della società occidentale), durante il quale i personaggi hanno tempo di dialogare, riflettere su se stessi e sulle reciproche differenze, si passa alla tensione di un horror ambientato in ambienti sperduti e dati in pasto a un male senza nome, dove qualunque cosa può capitare agli incauti viaggiatori, per poi arrivare a un film di guerra vero e proprio, a un'azione militare ininterrotta e al cardiopalma; la presa di Washington è talmente serrata, tra regia cinetica, montaggio e sonoro, che ho rischiato di lasciarmi influenzare dagli attacchi di panico di Lee, tanto che in qualche momento ho avuto difficoltà a respirare, forse per questo il finale mi ha colpita e sconvolta. D'altronde, non è facile rimanere impassibili davanti al volto sconfitto di una Kirsten Dunst svuotata di ogni entusiasmo, che sembra corteggiare la morte spingendo l'obiettivo della macchina fotografica dove nessuna persona sana di mente oserebbe arrivare, vittima di una mezza vita in cui le emozioni forti lasciano il tempo che trovano. E non è facile rimanere impassibili davanti a Cailee Spaeny, semplicemente favolosa, con la sua faccia da bimba in aperto contrasto con un'ambizione capace di passare sopra le esperienze più orribili, con il distacco di chi, come dicevo all'inizio, vive il momento di sublime gloria, lo immortala, e poi lo dimentica. Se esiste un film in grado di rappresentare la disumanizzazione alla quale siamo sottoposti quotidianamente e la superficialità della società odierna, dove indignazione e orrore durano quanto basta per lasciare spazio a un altro evento di grande risonanza mediatica che verrà a sua volta dimenticato nel giro di un paio di settimane, questo è Civil War. Guardatelo, grazie. E poi spiegatemi come diavolo ha fatto Kirsten Dunst a continuare a dividere il letto con Jessie Plemons, dopo la sua comparsata in divisa, senza temere di venire macellata. 


Del regista e sceneggiatore Alex Garland ho già parlato QUI. Kirsten Dunst (Lee), Cailee Spaeny (Jessie), Stephen McKinley Henderson (Sammy) e Jesse Plemons (non accreditato, interpreta un soldato) li trovate invece ai rispettivi link.


Wagner Moura
, che interpreta Joel, era Pablo Escobar nella serie Narcos. ENJOY!

venerdì 27 ottobre 2023

Killers of the Flower Moon (2023)

Siccome è uscito al ridosso del ToHorror, ho dovuto aspettare fino a martedì per vedere il nuovo film diretto e co-sceneggiato da Martin Scorsese, Killers of the Flower Moon, tratto dal libro omonimo di David Grann. Ne è valsa la pena? (Che domande, ovviamente SI'!)


Trama: anni '20, città di Fairfax. Al ritorno dal fronte della Prima Guerra Mondiale, Ernest Burkhart trova una terra dove gli indiani Osage si sono arricchiti grazie al petrolio. Lavorando come autista, conosce la giovane Osage Mollie e la sposa, ma il ricco zio Bill Hale trama nell'ombra...


Tra poco Scorsese compirà 81 anni e io vorrei arrivarci, alla sua età, con questa coerenza e lucidità. Killers of the Flower Moon (film che, per inciso, non metterei mai nella lista dei suoi primi 5, ma ciò non vuol dire sia brutto) è l'ennesima conferma della solidità della poetica Scorsesiana, legata alle radici più profonde della nazione Americana, una nazione che affonda nel sangue fin dalle sue origini e che vive pregna di sangue e violenza, vittima di mille contraddizioni e destinata a dimenticare il proprio passato o rinnegarlo. E' anche, ovviamente, una storia di persone che sono condannate ad un destino orribile nel momento esatto in cui si allontanano dal loro ambiente originario, vittime di un mondo che non comprendono appieno, e questo vale sia per gli Osage che, neanche a dirlo, per il protagonista Ernest Burkhart. Nel corso degli anni Scorsese si è fatto più cinico e, se prima i suoi personaggi erano comunque dotati di un'intelligenza che veniva obnubilata dal "vizio" e dall'eccesso, ora ci troviamo spesso davanti dei babbei senza arte né parte, mossi come marionette da gente che se la crede e sicuramente sa come stare al mondo, ma dimostra lo stesso ben poco cervello in più. Ernest, in questo, è emblematico. Il "coyote dagli occhi azzurri" più che un coyote è un cojone, un fannullone assetato di soldi che, pur amando di cuore la sua sposa indiana, non riesce a spezzare la pesante influenza che ha su di lui lo zio Bill, il Re di Fairfax, e corre allegro verso il baratro della rovina sua e della sua famiglia senza quasi neppure capire le implicazioni di ogni suo gesto. D'altra parte, Re Bill non è più furbo. Sovrano di un piccolo regno fatto di bianchi buzzurri e indiani troppo ingenui o resi sicuri dalla ricchezza per capire chi hanno davanti, Bill è in grado di giocare solo secondo le sue regole, consapevole di avere le spalle coperte anche nell'eventualità di dover buttare all'aria la scacchiera, ma crolla come un castello di carte nel momento in cui subentrano giocatori esterni neppure troppo abili. La pietà di Scorsese è, piuttosto, riservata agli Osage, nonostante la "colpevolezza" di avere rinnegato (con dolore, come testimonia la commovente sequenza iniziale) buona parte del loro retaggio, sporcandolo con la ricchezza dell'oro nero; come buona parte dei "vinti" scorsesiani, gli Osage sono stati divorati da una società che ha sfruttato proprio il loro desiderio di fare parte di un altro mondo e, in seguito, dimenticati quando la storia è stata riscritta dai vincitori, ridotta a mero racconto per casalinghe o piccola nota a pié di pagina. 


L'andamento del racconto (sì, il film dura tre ore e mezza, no, a me sono passate in un lampo ma capisco che non siamo tutti uguali) è inevitabilmente quello di un'epopea, di un noir atipico dove il colpevole si conosce fin dall'inizio, e va in netta contrapposizione con la velocità con cui i protagonisti bianchi sembrano dimenticarsi delle vittime Osage; per lo stesso motivo, la violenza sulle vittime è ripresa in campo lungo, a rispecchiare la loro natura poco importante agli occhi della città di Fairfax, e il regista preferisce insistere invece sui primi piani e piani americani, indagando sulla natura dei protagonisti, sulle maschere che indossano, sul lampo brutale di disprezzo di occhi che si fingono amici, sulla malinconica, terribile dignità di chi è costretto a vivere terrorizzato nella sua stessa casa eppure ancora si affida, speranzoso, a un briciolo di amore e umanità. Killers of the Flower Moon è un mosaico di sequenze inaspettatamente poetiche che si inseriscono in un contesto spesso triviale, e in esso la storia vera (quella raccontata da foto in bianco e nero) si mescola ad embrioni di fiction spettacolarizzante (la sequenza dello show radiofonico è spettacolare), passando attraverso gli occhi di chi non capisce letteralmente nulla e rimane lì, a provare dolore senza capire bene perché, oggetto di una lunghissima sequenza di court drama dove i concetti vengono ribaditi più e più volte (nulla me lo toglie dalla testa) a suo uso e consumo, con sommo scorno di uno spettatore già provato. Per questo, l'interpretazione di Di Caprio è perfetta. Ernest passa il tempo a cercare di imitare il Re, a cui guarda come una divinità e come esempio da seguire, conseguentemente la sua mimica facciale è la versione distorta e quasi caricaturale di quella di De Niro, che invece è l'apoteosi del vecchio bastardo che ha in odio il mondo intero e pensa solo a se stesso. In una sfilata di facce davvero brutte (ma amate. Ciao Brendan, ciao John, ciao Martin, ciao Larry e Pat!!) spicca il volto bellissimo di Lily Gladstone, con la sua espressione compassata e gli occhi tristi e profondi, rappresentazione vivente di un popolo forte ma ridotto, con "amore", a folkloristico ricordo celebrato dai pochi che hanno ancora memoria, e danzano sotto la Flower Moon in un finale di inenarrabile tristezza. Dite quello che volete, ma per me Scorsese ha fatto centro anche stavolta, e quando avrà voglia di rapirmi per altre tre ore e mezza saprà sempre dove trovarmi.


Del regista e co-sceneggiatore Martin Scorsese (che compare nei panni del produttore radiofonico) ho già parlato QUI. Leonardo DiCaprio (Ernest Burkhart), Robert De Niro (William Hale), Jesse Plemons (Tom White), John Lithgow (Peter Leaward, avvocato dell'accusa), Brendan Fraser (W.S. Hamilton), Pat Healy (Agente John Burger), Michael Abbott Jr. (Agente Frank Smith) e Larry Fessenden (interprete radiofonico di Hale) li trovate invece ai rispettivi link.


Leonardo DiCaprio doveva inizialmente interpretare l'agente Tom White, ma il ruolo è andato a Jesse Plemons (che ha rinunciato così a partecipare a Nope nei panni di Jupe) perché Scorsese ha deciso di rendere il rapporto tra Mollie ed Ernest il fulcro del film. Ciò detto, se Killers of the Flower Moon vi fosse piaciuto, recupererei Gangs of New York, Quei bravi ragazzi, Casinò e The Irishman. ENJOY!

venerdì 17 dicembre 2021

Il potere del cane (2021)

Dopo un po' di convalescenza si torna a scrivere, almeno ci si prova. Arrugginita come sono potrei anche non riuscire ad esprimermi bene per quanto riguarda Il potere del cane (The Power of the Dog), film diretto e sceneggiato dalla regista Jane Campion partendo dal romanzo omonimo di Thomas Savage


Trama: Phil Burbank è un ranchero rude e tutto d'un pezzo che vede il mondo crollare sotto i suoi piedi quando il fratello si sposa, portando a casa una donna e suo figlio. Phil decide di rendere la vita impossibile ai due nuovi arrivati, ma qualcosa comincia a cambiare...


Sono rimasta stupita quando ho visto che Il potere del cane era già disponibile su Netflix dopo nemmeno due settimane dall'uscita al cinema d'élite di Savona e mi dispiace dire che ho gioito della cosa, vista l'impossibilità che avevo avuto di sfruttare anche uno solo dei tre giorni di programmazione. Di base, credo però che un film come quello della Campion vada necessariamente visto su un grande schermo in quanto, a livello di "potenza" registica, è un trionfo di paesaggi naturali brulli e campi lunghissimi in perfetto stile western e dà proprio l'idea di praterie sconfinate e distanze difficili da percorrere in tempi brevi, elementi che accrescono quell'enorme senso di solitudine da cui vediamo venire schiacciati uomini dotati di moltissima terra e discrete ricchezze ma sicuramente privi di contatti umani. A scanso di equivoci, posso dire che per quanto mi riguarda (ma contate che mi hanno operata due giorni prima, quindi forse non ero proprio dell'umore giusto per apprezzare appieno un film simile) la bellezza della regia, l'incredibile fotografia e la bravura di Benedict Cumberbatch sono le uniche  cose che "salvano" Il potere del cane dall'essere un lavoro freddo e a mio avviso superficiale, che inanella un cliché dietro l'altro e non consente allo spettatore di empatizzare con nessuno dei personaggi che compaiono sullo schermo, men che meno a provare qualsiasi tipo di umana pietà nei loro confronti; l'idea di questa "distanza", fisica e mentale ma anche temporale, dal mondo e dagli affetti (questi ultimi, almeno per Phil, irraggiungibili per ovvi motivi), che crea rocce in guisa di uomini, esseri stundai che basta un niente per mandare in frantumi, è ben chiara nella mente della regista e sicuramente comprensibilissima per lo spettatore, eppure non penetra nel cuore quanto dovrebbe.


L'idea che mi ha dato Il potere del cane, premettendo che non ho letto l'opera da cui è stato tratto, è quella di un film anche troppo trattenuto nei momenti dove avrebbe dovuto correre un po' più a briglia sciolta, e inutilmente melodrammatico in altri punti, come quando Rose comincia a darsi all'alcoolismo per "sopravvivere" alle cattiverie di Phil, che in una scala da uno ad Iriza Legan non arriva neppure a baciare le scarpe della perfida nemesi di Candy Candy; per contro, l'idea di poter anche solo pensare di provare pena per Phil in quanto represso, privo di amore e condannato a ripensare quotidianamente alla leggendaria figura dell'adorato Bronco Henry, si scontra con la natura di inutile(mente) stronzo del personaggio in questione. Ci si ritrova così davanti a un'accozzaglia di personaggi solitari, muti, paurosi o crudeli (sicuramente una scelta voluta ma, cribbio, penso che un minimo di evoluzione sarebbe servita in tal senso) che verrebbe voglia di lasciare lì, ad annegare nel loro brodo di disagio, tra i quali forse si salva vagamente giusto il Peter di Kodi Smit-McPhee per la sua distaccata visione del mondo e la capacità di fare fessi uomini fatti e finiti che si riempiono la bocca di paroloni e "consigli su come si sta al mondo". Di sicuro, come finale ho preferito quello de Il filo nascosto, che almeno dalla sua aveva un minimo di nerissima ironia, mentre Il potere del cane a me è sembrato algido e represso come il pur bravissimo Cumberbatch. So però che molti lo hanno adorato, quindi dategli un'occhiata e sentitevi liberi di mandarmi a quel paese!


Di Benedict Cumberbatch (Phil Burbank), Jesse Plemons (George Burbank), Kodi Smit-McPhee (Peter Gordon), Kirsten Dunst (Rose Gordon), Thomasin McKenzie (Lola), Frances Conroy (Old Lady) e Keith Carradine (Il Governatore) ho parlato ai rispettivi link.

Jane Campion è la regista e sceneggiatrice del film. Neozelandese, ha diretto film come Lezioni di piano (per il quale ha vinto l'Oscar per la miglior sceneggiatura), Ritratto di signora, Holy Smoke e In the Cut. Anche produttrice e attrice, ha 67 anni. 


George Burbank avrebbe dovuto essere interpretato da Paul Dano, purtroppo già impegnato come Enigmista nell'imminente Batman mentre Elizabeth Moss ha dovuto rinunciare al ruolo di Rose perché impegnata nelle riprese del prossimo film di Taika Waititi. Ciò detto, se vi fosse piaciuto Il potere del cane, recuperate Lezioni di piano. ENJOY!

domenica 7 novembre 2021

Antlers - Spirito insaziabile (2021)

Purtroppo, per questioni di programmazioni e lentezza mia nello scrivere, rischiate di non trovarlo più in sala nel momento in cui uscirà questo post, ma se per miracolo dovesse esserci ancora, non mancate di andare a vedere Antlers - Spirito insaziabile (Antlers), diretto e co-sceneggiato dal regista Scott Cooper a partire dal racconto The Quiet Boy di Nick Antosca.


Trama: in una sperduta cittadina dell'Oregon, un'insegnante cerca di dare una mano a un suo studente solitario, schivo e terrorizzato, ma i segreti che il piccolo nasconde rischiano di mettere in pericolo tutti gli abitanti...


Quello di Nick Antosca è un nome che ormai gli appassionati di horror conoscono bene, soprattutto grazie alla bella serie antologica Channel Zero, che gli ha aperto perfino le porte di Netflix, dove troviamo l'autore con la terrificante (e schifosetta, ma molto affascinante) New Cherry Flavour. Non mi ritengo un'esperta di Antosca, assolutamente, ma il fil rouge delle sue opere è quello di ambientare storie horror particolarmente efferate e cupe all'interno di cittadine sperdute oppure quartieri ai margini delle grandi città importanti, coinvolgendo i protagonisti, di solito già non equilibratissimi di loro e fiaccati da traumi passati più o meno profondi, in vicende di notevole spietatezza che devono affrontare fondamentalmente da soli; molti di questi elementi si ritrovano anche in Antlers, uno degli horror "commerciali" più cupi usciti di recente, che non lascia granché spazio alla speranza. Anche in questo caso, abbiamo persone che vivono ai margini di piccoli paesi, nella fattispecie un bambino costretto ad affrontare un orrore enorme senza che nessuno lo noti o si preoccupi di aiutarlo, ché i figli dei drogati di solito diventano drogati anche loro, e di base insegnanti, polizia e assistenti sociali svogliati mica possono sporcarsi troppo le mani, per carità di Dio. Sono la solitudine del piccolo Lucas, il terrore che è costretto a sopportare ogni giorno, così come il disprezzo che gli viene tributato da coetanei e adulti, a fare paura e disgusto prima ancora che subentri l'elemento sovrannaturale, a schiacciare con un'atmosfera di pesantezza assoluta che porta il cuore a volare verso quel bambino scarno, dallo sguardo spaurito, e anche a risultare gli elementi vincenti di Antlers


Non che la parte horror non sia da togliersi il cappello. Antlers fa paura, ha delle sequenze degne della migliore delle favole nere, dosa i jump scare senza però frenarsi nel gore e nell'orrore, avvalendosi di effetti speciali validissimi e dello splendido design del mostro "titolare", protagonista di un confronto finale che, per una volta, non sa di essere umano vs bamboccetto posticcio ma è fotografato, montato e diretto alla perfezione. Tuttavia, difetti in questo film ce ne sono e nascono probabilmente da un metraggio che non si confà né allo stile di Antosca né alla natura di racconto breve di The Quiet Boy. Risulta assai sfilacciata, in particolare, la scrittura dei personaggi "di supporto" più importanti, come l'insegnante che si occupa di aiutare Lucas e il fratello sceriffo (Jesse Plemons non è mai stato così clueless, terribile), i quali, nonostante ci si impegni a dotarli di un background fatto di traumi familiari pesantissimi, non consentono mai allo spettatore di empatizzare con loro, così che le loro vicende risultano dei riempitivi messi giusto per allungare il metraggio e indeboliscono un po' una storia che dovrebbe invece colpire come un maglio. Nulla di troppo grave, né motivo per evitare di guardare il film, anche se personalmente avrei preferito un po' più di approfondimento sulla figura del Wendigo, che dopo quel capolavoro de L'insaziabile non ha più trovato un'altra pellicola che gli rendesse davvero giustizia.


Del regista e co-sceneggiatore Scott Cooper ho già parlato QUI. Keri Russell (Julia Meadows), Jesse Plemons (Paul Meadows), Graham Greene (Warren Stokes) e Rory Cochrane (Daniel Lecroy) li trovate invece ai rispettivi link.

Amy Madigan interpreta la Preside Ellen Booth. Americana, ha partecipato a film come Due volte nella vita, L'uomo dei sogni, Io e zio Buck, La metà oscura, The Hunt e a serie quali Chips, Criminal Minds, E.R. Medici in prima linea e Gray's Anatomy. Anche produttrice, ha 61 anni.


Se Antlers - Spirito insaziabile vi fosse piaciuto recuperate The Empty Man, The Wretched e The Badadook. ENJOY! 

venerdì 9 aprile 2021

Judas and the Black Messiah (2021)

Altro giro di Oscar, altro regalo. Esce oggi sulle varie piattaforme di streaming Judas and the Black Messiah, diretto e co-sceneggiato dal regista Shaka King e candidato a ben 6 statuette (Miglior Film, Daniel Kaluuya e Lakeith Stanfield migliori attori non protagonisti, Miglior Canzone Originale, Miglior Sceneggiatura Originale, Miglior Fotografia).


Trama: Billy O'Neal è un ladruncolo di colore che, per evitare il carcere, viene costretto dall'FBI ad infiltrarsi nelle Pantere Nere di Chicago e avvicinarsi a Fred Hampton, il presidente della sezione.


Io non capisco se quest'anno non sono dell'umore per i biopic oppure se la gente (e non parlo solo di quelli che hanno riversato mille candidature su Judas and the Black Messiah e One Night in Miami, ma anche degli spettatori che si sono profusi in lodi) si impegna a trovare questi film splendidi per paura di risultare razzista, ma anche la pellicola di Shaka King ha messo a dura prova la mia capacità di attenzione e, per dirla semplicemente, "mi ha lasciata come mi ha trovata", quindi adesso mi sento anche un po' scema ed ignorante. Quest'ultimo aggettivo in particolare mi turba perché, di base, guardando Judas and the Black Messiah uno rischia di non imparare davvero nulla sul movimento delle Pantere Nere e sul leader del ramo di Chicago, il giovanissimo Fred Hampton. Con tutto il bene che voglio a Daniel Kaluuya, che ha messo tutto se stesso nel personaggio e si vede, l'attore ha 32 anni mentre Hamtpon ne aveva 21 quando è morto, il che è sconvolgente. Vero, i tempi sono cambiati così come la percezione dell'età anagrafica, e di certo un ventunenne nero nell'America razzista degli anni '60 non poteva essere imbecille come un ventunenne attuale, ma il pensiero che a fare la rivoluzione (non "giocare", è diverso) razziale e sociale dell'epoca, imbracciando fucili ed idee politiche radicali che nel film vengono appena accennate, fossero dei ragazzini stravolge tutta la percezione di un film che punta più sugli slogan vuoti e sulla natura di agitatore di masse di Fred Hampton, nonché sulla love story più sciapa del mondo, che sull'offrire un ritratto a tutto tondo del suo giovane e sicuramente incredibile protagonista.


Non è un caso, per l'appunto, che sia Billy O'Neal, il Giuda del titolo originale, a focalizzare maggiormente le attenzioni del pubblico, tanto che gli attori sono stati candidati entrambi come Non Protagonisti per par condicio. Ma, anche lì, Billy O'Neil non era uno scafato ladro di auto trentenne con atteggiamenti da pimp, era un teenager di 17 anni che si è ritrovato in una storia più grande di lui e che ha fatto quel che ha fatto (attenzione: non è certo che abbia avvelenato lui Hampton, come invece viene mostrato nel film) probabilmente spinto da un mix di paura, esaltazione, incoscienza e Dio solo sa quante altre emozioni, emozioni che traspaiono in maniera molto blanda da Lakeith Stanfield, affidate giusto a qualche atteggiamento spavaldo, qualche "fuck" di troppo e alcuni scambi zeppi di cliché attraverso i quali si sviluppa il rapporto con l'agente Roy Mitchell, "buono" costretto dai mala tempora ad inghiottire in silenzio tutto il razzismo dell'FBI e ad agire come vogliono i superiori. A questo stravolgimento "anagrafico", che rende i personaggi più belli, patinati e maturi di quanto non fossero, si aggiungono una messa in scena e una scrittura "piacevoli" e prive di difetti, che concorrono a rendere digeribile un capitolo controverso della lotta sociale nera anche al pubblico bianco, mostrando le Pantere come un gruppo inclusivo (c'è pure la parentesi coi personaggi gay, scritti su un foglio di carta velina) di benefattori col vizio di atteggiarsi un po' da guappi e di inneggiare alla lotta armata, con un capo che, dietro tutti i paroloni e gli atteggiamenti minacciosi, è un pupazzetto dolciotto bisognoso d'amore. La morte su schermo di Hampton si priva così della sua valenza tragica, di giovane carismatico falciato dalla manazza del Governo spaventato e razzista, e quella di O'Neil, apparentemente suicidatosi dopo la sua prima intervista televisiva all'età di 40 anni, viene relegata alla solita riga di spiegazioni prima dei titoli di coda ma il suo senso di colpa, se mai c'è stato, non viene quasi mai trasmesso allo spettatore. Insomma, anche stavolta, un film che dimenticherò nel giro di una settimana e che spero vivamente non porti a casa neppure una delle troppe statuette per cui è candidato. 


Di Daniel Kaluuya (Fred Hampton), Lakeith Stanfield (Billy O'Neal), Jesse Plemons (Roy Mitchell), Martin Sheen (J. Edgar Hoover) e Robert Longstreet (Leslie Carlyle) ho già parlato ai rispettivi link.

Shaka King è il regista e co-sceneggiatore della pellicola. Americano, ha diretto anche un altro film, Newlyweeds. Anche produttore e attore, ha 41 anni.


Se Judas and the Black Messiah vi fosse piaciuto, recuperate Il processo ai Chicago 7. ENJOY! 

venerdì 6 dicembre 2019

The Irishman (2019)

Con incredibile ritardo dovuto alla distribuzione inesistente e alla lunghezza del film (mi spiace, Martin, ti adoro ma quasi 4 ore di film non ho proprio il tempo materiale di guardarle in una sola serata, non è per mancanza di volontà) sono finalmente riuscita a vedere The Irishman, diretto da Martin Scorsese e tratto dal libro omonimo di Charles Brandt e...


Trama: Frank Sheeran è un camionista irlandese che entra nelle grazie del boss della mala Russell Bufalino e diventa il suo miglior sicario. Attraverso Bufalino, Sheeran diventa anche guardia del corpo del sindacalista Jimmy Hoffa.


... e niente, il post potrebbe anche finire qui. Davanti a Scorsese mi anniento, mi riempio di umiltà e mi rendo conto che dovrebbero chiudere tutti i blog di cinema, tutte le pagine Facebook a tema, tutte le puttanate amatoriali di Internet, sottoinsieme in cui rientra anche il Bollalmanacco. Quello che meriterebbe un film come The Irishman è un'analisi ragionata scritta da fior di studiosi che conoscono alla perfezione il Cinema di Scorsese, rilegata in un bel libro che la gente possa leggere con calma e riprendere di tanto in tanto per rinfrescarsi il cervello, non imbecilli urlanti che definiscono The Irishman noioso e Scorsese bollito nello spazio di un post da leggere tra un gattino e una minchiata di Salvini oppure cinèfili dell'internet che nello stesso spazio si sperticano in lodi che lasciano il tempo che trovano. E io che sono l'ultima degli ultimi, come faccio a spiegare il groppo in gola lasciatomi alla fine di The Irishman, l'ideale conclusione di una trilogia che ha visto Joe Pesci e De Niro dapprima giovani e scapestrate schegge impazzite di una mafia che faticava a contenerli, poi avidi arrampicatori sociali pronti a saltarsi al collo per il possesso di Las Vegas e infine vecchi collaboratori, l'uno "mediatore" e l'altro manovale, coinvolti in uno dei tanti misteri della storia politica americana? Come faccio a spiegare la tristezza derivante dalla consapevolezza di come The Irishman potrebbe essere il canto del cigno di Scorsese, che ormai viaggia quasi sull'ottantina, o la malinconia di vedere un Joe Pesci segnato dalle rughe, dimagrito e vecchietto, sapendo che queste icone di un cinema che ho amato tantissimo rischiano di scomparire da un momento all'altro? E' la maturità e il senso di perdita di un'età crepuscolare a intridere ogni singola sequenza di The Irishman, cullato dal ritmo lento e malinconico (grazie, divina Thelma!!) del racconto di un vecchio, di questo irlandese che di professione "tinteggia muri" e ripensa al modo in cui ha intrapreso il mestiere, con tutto quello che ne è conseguito.


Sono lontani i tempi in cui Ray Liotta "aveva sempre sognato di fare il gangster" e gli scugnizzi di mafiosi ciccioni si ingozzavano di sesso, soldi e successo, persi in un montaggio frenetico e sequenze all'insegna dell'accumulo mentre la loro storia seguiva l'ovvia parabola di rapida ascesa e rovinosa caduta; qui abbiamo a che fare con personaggi accorti e consapevoli del loro ruolo all'interno della Famiglia, che sanno stare al loro posto e al limite si impegnano in una ribellione, se così si può chiamare, silenziosa e ragionata, senza pestare i piedi a nessuno. E' ciò che Russell, anziano ed esperto facilitatore, insegna a Frank Sheeran, assieme a tutte le regole da seguire ciecamente per sopravvivere all'interno di quel mondo e Frank, che non ha velleità da protagonista ma desidera solo proteggere quello che per lui è importante (le figlie, gli amici, chi gli ha dato fiducia), diventa così una solidissima roccia su cui contare. Tra un furto, un omicidio e una mazzetta si intrecciano almeno tre piani temporali in alternanza costante ma fluida (di nuovo, grazie divina Thelma!), che toccano decenni di storia americana e convergono tutti nella misteriosa vicenda di Jimmy Hoffa, "re" dei sindacati e dell'ambiguità (Hoffa - Santo o mafioso? si diceva in quel film con Nicholson e De Vito), contemporaneamente salvatore degli interessi dei lavoratori di tutta America e oculato gestore dei propri interessi strettamente intrecciati a quelli della mafia. Piccolissimo problema: stavolta è Hoffa la scheggia impazzita, l'uomo larger than life che non accetta compromessi e divora ciò che gli si para davanti con la boria di chi pensa che tutto gli sia dovuto, senza rispetto per chi gli ha dato buona parte di ciò che possiede, ed è lì che scatta il dilemma morale che diverrà il cuore della vicenda di The Irishman, il rimpianto capace di rodere tutta l'ultima parte dell'esistenza di Frank Sheeran.


Nonostante il protagonista del film sia l'irlandese Frank, tra tutti i personaggi, se andiamo a vedere, Jimmy Hoffa è il più umano o il più verace. Interpretato magistralmente da un Al Pacino che divora ogni scena in cui è presente e che trasforma ogni sequenza in un grottesco esempio di umana testardaggine, illuminando chiunque abbia la fortuna di condividere dialoghi ed inquadrature con lui, Jimmy Hoffa incarna l'illusoria speranza di un potere utilizzato per aiutare l'America intera senza ricorrere alla violenza, un mito la cui caduta segna senza possibilità di recupero sia Frank, arrivato ad apprezzare Hoffa come uomo e non come strumento, sia la figlia Peggy. A proposito di Peggy, è un peccato che Anna Paquin abbia così poche linee di dialogo ma è il suo sguardo, così come quello della piccola attrice che interpreta Peggy da bambina, a contare. E' lo sguardo di chi, a differenza di Karen e Ginger, non è affascinato dalla protezione di uomini rudi e ricchi, nonostante la paura e le umiliazioni, ma prova anzi un disgusto irrefrenabile che a lungo andare la porterà a rinunciare a qualunque privilegio pur di non dover più subire di riflesso i peccati del padre, negandogli il perdono fino all'ultimo e diventando il secondo motivo di rimpianto per una vita altrimenti vissuta con la soddisfazione (distorta) di aver "compiuto il proprio dovere". Come sempre, Scorsese riesce a far provare allo spettatore una rara empatia per personaggi di fatto abietti e ammetto che vedere, sul finale, Frank Sheeran divorato dall'artrite, a un passo dalla morte e solo come un cane mi ha lasciato un discreto magone, perché da quella porta aperta cos'altro potrebbe entrare, presto o tardi, se non la signora con la falce a portare via persino il ricordo di lui, come di tutti i suoi "gloriosi" compagni? E non è quella l'unica sequenza commovente. Come ho detto, sarà che vedere Joe Pesci così invecchiato mi fa male ma gli ultimi dialoghi con De Niro, soprattutto quel "mangia, mangia che cresci" pronunciato in italiano e con un cameratismo dolcissimo, mi hanno fatto salire le lacrime agli occhi.


Fortunatamente, The Irishman è anche molto ironico. Il film conserva un po' dello humour grottesco di The Wolf of Wall Street e, oltre a presentare i personaggi con impietose didascalie in sovrimpressione, alterna dialoghi al fulmicotone ed eloquentissime sequenze silenziose in cui gesti e scambi di sguardi decretano il destino funesto di personaggi incoscienti. E a proposito di silenzio, nel film c'e un'intera, lunga e fondamentale sequenza interamente priva di melodie di sottofondo, un silenzio che rende ancora più greve il peso della colpa che si sta addensando sulle spalle di Frank e la consapevolezza di essere un'impotente pedina di un gioco impossibile da controllare, pur con tutti gli amici in alto loco e la protezione di persone importanti; in quel momento si può sentire letteralmente il suono dei dubbi che crepitano nella mente di De Niro, il quale per quasi tutto il film, bisogna ammetterlo, mantiene un'unica espressione, tanto che a un certo punto mi sono chiesta dove fosse finito il grande attore tanto amato da Scorsese. La risposta è: perso in un personaggio che necessariamente, per la sua natura di duro e puro uomo d'altri tempi, non deve mostrare alcuna emozione, non fosse per quella maledetta telefonata in cui tutto crolla, la voce, il volto, lo sguardo di De Niro, che per pochissimi, memorabili istanti di quella che forse è la sequenza più bella vista quest'anno, lasciano fuoriuscire un fiotto di disperazione e vergogna a stento contenute. E poi, vabbé, c'è Joe Pesci. Dieci anni ha aspettato a tornare il vecchio Joe ed è meraviglioso rivederlo nei panni luciferini e quasi dimessi di un vecchio della bocciofila pericoloso e infido come un serpente a sonagli. Joe Pesci è uno degli attori più sottovalutati di sempre ma io lo amo e se il ruolo di Russell Bufalino dev'essere l'ultimo che deciderà di regalarci, perlomeno sarà stata un'altra interpretazione enorme e perfetta e io non posso fare altro che ringraziare lui e Scorsese e smetterla di scrivere, anche se ci sarebbero mille altre cose da dire su questo splendido The Irishman, in primis quante somiglianze lo collegano a un altro grande capolavoro, C'era una volta in America. Aspetto qualcuno abbastanza autorevole da scriverle.


Del regista Martin Scorsese ho già parlato QUI. Robert De Niro (Frank Sheeran), Al Pacino (Jimmy Hoffa), Joe Pesci (Russell Bufalino), Harvey Keitel (Angelo Bruno), Ray Romano (Bill Bufalino), Bobby Cannavale (Skinny Razor), Anna Paquin (Peggy Sheeran), Stephen Graham (Anthony "Tony Pro" Provenzano) e Jesse Plemons (Chucky O'Brien) li trovate invece ai rispettivi link.

Jack Huston interpreta Robert Kennedy. Inglese, ha partecipato a film come The Twilight Saga: Eclipse, American Hustle - L'apparenza inganna, PPZ: Pride and Prejudice and Zombies, Ave, Cesare! e a serie come Mr. Mercedes. Ha 37 anni e un film in uscita.


Nella marea di attori presenti nel film segnalo Steven Van Zandt, già Silvio Dante de I Soprano, qui nei panni di Jerry Vale. Ovviamente, se The Irishman vi fosse piaciuto, recuperate assolutamente Quei bravi ragazzi e Casinò. ENJOY!

martedì 8 gennaio 2019

Vice - L'uomo nell'ombra (2018)

Bestemmiando per essere dovuti andare fino a Genova a vederlo (probabilmente presenterò il conto al Multisala di Savona visto che, ridendo e scherzando, tra biglietto, autostrada, benzina e cibo abbiamo speso sui 25 euro a testa), domenica ho recuperato Vice - L'uomo nell'ombra (Vice), diretto e sceneggiato nel 2018 dal regista Adam McKay e fresco di un Golden Globe a Christian Bale.


Trama: la rapida ascesa di Dick Cheney, dai primi lavori con l'amministrazione Nixon fino alla carica di vicepresidente nell'ora più buia per gli Stati Uniti e l'intera società moderna.


Io adoro Adam McKay. Come ti fa capire lui le cose, senza insultare la tua intelligenza, nessuno mai. Anche questa volta, come ne La grande scommessa, l'autore sceglie di raccontare una pagina vergognosa di storia americana strappando amare risate al pubblico ma senza l'arroganza tipica del comico che crede di sapere tutto e di poter indottrinare l'audience, quanto piuttosto spingendo lo spettatore a ragionare, a ricordare, a rivivere sulla pelle determinati momenti e a riflettere su quanto diamine possano essere boccalone le masse. E intendo tutte le masse. Destra, sinistra, centro, apolitici, io per prima: siamo un branco di tacchini pronti ad inghiottire qualunque porcata ci venga propinata, basta solo indorarcela un po'. In mezzo a questo clima di idiozia perenne, chi prospera è ovviamente chi, zitto zitto, approfitta di ogni cedimento dell'apparentemente impenetrabile struttura socio-politica di un Paese o di ogni debolezza del proprio interlocutore, potente o inutile che sia, per farsi i propri interessi. Questo è il caso di Dick Cheney, "uomo nell'ombra" di buona parte della storia del Partito Repubblicano americano, machiavellica eminenza grigia nonché fruitore di cantonate madornali che hanno portato, per dirne una, a far sì che l'ISIS si ingrandisse fino a raggiungere i livelli odierni. Non è un caso che il bravissimo Christian Bale abbia ringraziato Satana, durante il discorso di accettazione del Golden Globe, citandolo come fonte d'ispirazione per l'interpretazione del personaggio perché, di fatto, il Cheney ritratto in Vice E' il diavolo tentatore, un maligno "pescatore di uomini" il cui animo torbido riesce a giustificare contemporaneamente patriottismo, sete di potere e menefreghismo, una creatura talmente abietta che al confronto Salveenee parrebbe Papa Bergoglio. Potrebbe anche non essere stato così, in effetti: McKay ce lo dice nel disclaimer iniziale, chiuso con un "abbiamo fatto del nostro meglio per ricostruire le cose, cazzo!" e ci/si prende in giro autocriticandosi nella geniale scena post credit, ma ciò non toglie che i fatti salienti del film siano provati da documenti incontrovertibili o, ancor peggio, da documenti mancanti e per questo ancora più sospetti. E poi, che Bush fosse un coglione lo avevamo capito tutti, quindi la seconda parte di Vice risulta ancora più verosimile.


Per rendere più digeribile la serie ininterrotta di colpi bassi che viene propinata allo spettatore, McKay sfrutta qualunque cosa, rendendo Vice - L'uomo nell'ombra un trionfo di sceneggiatura witty, montaggio dinamico e regia sopraffina. Per me, la sequenza in cui Cheney "pesca", letteralmente, Bush, riproposta in due diversi momenti del film, è già una delle più belle viste al cinema; altrettanto efficace, anche se magari più paracula, quella ambientata in un infernale ristorante mentre quella Shakespeariana renderebbe molto di più in lingua originale, sono sicura, ma unita a un compendio ininterrotto di didascalie, finti finali (il genio!), spezzoni di terribile vita reale, abbattimento della quarta parete e simulazioni di gradimento, concorre a garantire la bellezza di un film che assolutamente non andrebbe perso. Anche perché, diciamoci la verità, il parallelismo Cheney/Bush e Salvini/Di Maio mi è balzato alla mente più volte guardando Vice e mi sono sentita per questo ancora più male. Una sensazione che non ha soverchiato la gioia nel vedere un cast di prim'ordine come quello presente nel film. Christian Bale è fenomenale e, come ho scritto nel post dedicato ai Golden Globes, il mio unico rammarico è quello di non aver guardato il film in v.o. perché quella boccuccia storta mi avrebbe dato di sicuro parecchia soddisfazione e lo stesso vale per l'interpretazione di Sam Rockwell che, mi si dice, sfoggia un'invidiabile accento "bushiano" oltre che una somiglianza imbarazzante con lo sciocco presidente USA. Perfetti anche Amy Adams, ingrassatella ed imbruttita al punto giusto, e uno Steve Carell che sta rapidamente diventando uno dei miei attori preferiti. Insomma, l'anno "vissuto pericolosamente in Sala" non poteva cominciare meglio, almeno per me: Vice - L'uomo nell'ombra è un film grandissimo che vi consiglio spassionatamente, anche solo per farvi aprire un po' gli occhi sui meccanismi che muovono tutti i governi, anche quelli "del cambiamento", e le facce di merda che ne fanno parte. 


Del regista e sceneggiatore Adam McKay ho già parlato QUI. Christian Bale (Dick Cheney), Amy Adams (Lynne Cheney), Steve Carell (Donald Rumsfeld), Sam Rockwell (George W. Bush), Alison Pill (Mary Cheney), Eddie Marsan (Paul Wolfowitz), Justin Kirk (Scooter Libby), Jesse Plemons (Kurt), Bill Camp (Gerald Ford), Lily Rabe (Liz Cheney), Shea Whigham (Wayne Vincent), Naomi Watts (conduttrice del TG) e Alfred Molina (cameriere) li trovate invece ai rispettivi link.

LisaGay Hamilton interpreta Condoleeza Rice. Americana, ha partecipato a film come L'esercito delle 12 scimmie, Jackie Brown, Halloween - 20 anni dopo e a serie come Ally McBeal, Sex and the City, E.R. Medici in prima linea, Senza traccia, Numb3rs, Grey's Anatomy e House of Cards. Anche regista e produttrice, ha 55 anni e tre film in uscita.


Durante la fase di post-produzione il regista Adam McKay è stato colpito da un leggero attacco cardiaco e ha quindi deciso di includere nel film una ripresa in bianco e nero dell'operazione per inserire lo stent nel suo cuore, a mo' di partecipazione speciale. Bill Pullman avrebbe dovuto interpretare Nelson Rockefeller ma la sua parte è stata tagliata. Se Vice vi fosse piaciuto recuperate anche La grande scommessa. ENJOY!

mercoledì 8 agosto 2018

Barry Seal - Una storia americana (2017)

Settimane fa mi è capitato di vedere Barry Seal - Una storia americana (American Made), diretto nel 2017 dal regista Doug Liman.


Trama: Barry Seal, pilota di linea, viene ingaggiato dalla CIA per missioni di spionaggio in America Centrale. Presto, l'uomo suscita l'interesse del cartello di Medellín, e comincia a portare carichi di droga in America...



Si può trasformare la vera vita "criminale" di un informatore della CIA prima e della DEA poi, passata per metà a trafficare documenti compromettenti, armi e droga, e per l'altra metà all'interno dei tribunali, in un divertente mix di azione, commedia e biografia interamente retto dalle spalle di Tom Cruise? Beh, basta togliere la parte più noiosa legata a processi e testimonianze, enfatizzando ed esagerando quella relativa al contrabbando, ed ovviamente la risposta è "sì". D'altronde, nulla è impossibile a Hollywood. E così, al pubblico viene offerta per l'ennesima volta una storia che racconta l'ascesa, l'incredibile successo e l'inevitabile caduta di un self made man "creato" dal sistema americano, capace di sfruttare tutti i buchi presenti nell'intrico di agenzie (governative e non) e soprattutto di approfittare di un momento di massimo marasma politico, tra alleanze di convenienza, necessità di controllare gli stati "comunisti" del Sud America e ribellioni fomentate direttamente da Washington. La faccia da caSSo di Tom Cruise impedisce allo spettatore di riflettere troppo sulla bassa moralità del protagonista, per il quale ovviamente si arriva a fare il tifo dal momento che "tiene famiglia" e, soprattutto, non ha mai ucciso nessuno né, tanto meno, è coinvolto in prima persona negli spargimenti di sangue effettuati dal cartello di Medellín o dal cattivissimo governo USA che fa il bello e il cattivo tempo mentendo agli ignari contribuenti; soldi, lusso e la piacioneria di questo Barry Seal guascone contribuiscono a farci sognare di poter vivere una vita simile, volando liberi per il mondo e facendoci amico persino il tanto temuto Pablo Escobar, alla faccia del paio di cadaveri che rimangono a terra alla fine del film, due "parentesi" drammatiche all'interno di una pellicola che non cerca quasi mai di prendersi sul serio.


La natura "sciocchina" di Barry Seal - Una storia americana viene espressa anche dallo stile utilizzato, con i capitoli della vita del protagonista scanditi da titoli in sovrimpressione a indicare con chi stesse lavorando in quel determinato anno, oltre che dalla scelta di far raccontare la storia tramite dei video dallo stesso Barry, palesemente sudato ed impaurito ma comunque sempre molto ironico ed ammiccante, pronto a bucare la quarta parete; nel corso del film, inoltre, viene fatto uso del vecchio espediente di mostrare le rotte degli aerei del protagonista facendoli muovere, stilizzati, su delle mappe, ed una di queste ultime sbatte volutamente un errore in faccia allo spettatore, gag che continua anche alla fine dei titoli di coda. A sostenere il ritmo concitato e in qualche modo spensierato del film c'è anche una colonna sonora accattivante ma soprattutto, come dicevo all'inizio, c'è Tom Cruise che fa Tom Cruise, dacché pare che Barry Seal in realtà fosse un ciccione maledetto. Il buon Tommaso pilota aerei per davvero, sfodera il suo sorriso d'ordinanza, in una scena riesce, non so come, a palesare stupore spalancando un occhio e lasciando l'altro normale, in generale riempie di carisma ogni sequenza del film confermando ancora una volta la sua rinascita cinematografica all'insegna della follia action, eclissando tranquillamente altri ottimi attori (uno su tutti, l'adorabile Domhnall Gleeson, qui purtroppo sottoutilizzato) che, accanto a lui, diventano delle sagome di cartone, anche in virtù di una sceneggiatura non molto "generosa" per quel che riguarda i personaggi secondari. Ma per una serata col cervello staccato va benissimo così, anche sé, per essere un film di mero intrattenimento, Barry Seal - Una storia americana è anche troppo lungo e prolisso.


Di Tom Cruise (Barry Seal), Domhnall Gleeson (Monty "Schafer"), Jesse Plemons (Sheriffo Downing) e Caleb Landry Jones (JB) ho già parlato ai rispettivi link.

Doug Liman è il regista della pellicola. Americano, ha diretto film come The Bourne Identity, Mr & Mrs Smith, Edge of Tomorrow - Senza domani ed episodi di serie quali The O.C.. Anche produttore, attore e sceneggiatore, ha 53 anni e un film in uscita.


Se la figura di Barry Seal vi interessa, esistono altri due film in cui è stato ritratto, Un gioco pericoloso del 1991 (con Dennis Hopper nei panni di Barry Seal) e The Infiltrator del 2016, ai quali potete aggiungere Blow, La regola del gioco oppure Trafficanti. ENJOY!

Se vuoi condividere l'articolo

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...