venerdì 3 febbraio 2023
Anche io (2022)
venerdì 29 aprile 2022
John and the Hole (2021)
Ultimamente mi capita di consultare un paio di pagine horror sul sito Letterboxd e, tra i tanti film che settimanalmente vengono segnalati proprio lì, mi è balzato all'occhio John and the Hole, diretto dal regista Pascual Sisto.
Trama: l'adolescente John trova un bunker abbandonato in mezzo al bosco e decide di rinchiudervi i suoi familiari...
A riprova di quanto la mia memoria sia ormai labile, non ricordo più perché io abbia dato priorità a John and the Hole rispetto ai mille altri film da recuperare consigliati da amici fidati; probabilmente in una delle varie recensioni intraviste su Internet mi ha colpita quella che ha definito il film "un Mamma ho perso l'aereo diretto da Lanthimos e con sprazzi di Haneke", cosa che dovrebbe far capire quanto fin troppo spesso i "critici" sul web scrivano per iperboli inutilmente esagerate, oppure quanto io non capisca più una mazza di cinema, se mai abbia capito qualcosa. Guardando le pellicole dei due mostri sacri citati, onestamente, non mi è mai capitato di perplimermi o, meglio, mi è capitato per forza di cose ma era una perplessità "(in)sana", derivante da deliri oggettivamente interessanti e capaci di mettere in moto i pochi neuroni del mio cervello, oltre a tutta una serie di inquietudini, paure, dubbi, moti di disgusto e varie emozioni non del tutto piacevoli ad accompagnare il mio sguardo estasiato per la messa in scena. John and the Hole, purtroppo, non ha scatenato in me nessuna emozione, salvo un insano desiderio di picchiare selvaggiamente il ragazzino protagonista (per la cronaca, un Charlie Shotwell ormai abbonato ai ruoli di piccola merda) e di andare dallo sceneggiatore e chiedergli "... ma quindi???". Se, infatti, Kevin McCallister si ritrovava indipendente per botta di fortuna o sfortuna, dipende dai punti di vista, John fa tutto da solo e decide di sbarazzarsi dei genitori e della sorella chiudendoli in un bunker abbandonato, tuttavia le sue motivazioni non sono mai chiare e, ancora peggio, è molto difficile empatizzare con lui.
Cosa vuole John? Assaggiare l'indipendenza e cercare di capire cosa significhi essere adulti e avere qualcuno che dipende completamente da noi? Godersi un lungo momento di libertà da tutte le responsabilità dei ragazzini della sua età e dalle pressioni che magari un adulto non riesce a percepire come tali? Vendicarsi di una famiglia troppo impegnata in altre faccende per accorgersi di lui come dovrebbe? Oppure John, come mi è parso di evincere dall'interpretazione di Shotwell, ha qualche disturbo molto profondo a livello mentale di cui nessuno si è mai accorto e che lo ha portato a smattare senza un perché? Vi avviso che, arrivati alla fine del film, avrete più domande che risposte, soprattutto perché a un certo punto vengono introdotti due personaggi che non hanno nulla a che spartire con la storia principale (apparentemente) e che fungono da contraltare per la vicenda di John, ragazzo spinto dalla volontà di liberarsi dei suoi familiari in contrasto con chi invece non vorrebbe venire abbandonato. Come ho scritto su, tutto molto interessante, se non fosse che empatizzare col protagonista è impossibile e non c'è nemmeno verso di provare un minimo di ansia per il destino dei suoi familiari imprigionati; l'unico aspetto veramente positivo di John and the Hole è l'abbondanza di sequenze "poetiche", dalla bellissima fotografia, tuttavia dietro l'innegabile bellezza ho percepito un retrogusto di intellettualità criptica a tutti i costi che mi ha reso la pellicola ancora più invisa. Forse non era il periodo giusto per guardarla, chissà!
Charlie Shotwell (John), Michael C. Hall (Brad), Jennifer Ehle (Anna) e Taissa Farmiga (Laurie) li trovate ai rispettivi link.
Pascual Sisto è il regista della pellicola. Spagnolo, è al suo primo lungometraggio. Anche produttore e sceneggiatore, ha 47 anni.
martedì 13 aprile 2021
Saint Maud (2019)
In questi giorni ho recuperato anche il film vincitore al Tohorror Film Festival dell'anno scorso, Saint Maud, diretto e sceneggiato nel 2019 dalla regista Rose Glass.
Trama: l'ex infermiera Maud si incapriccia di Amanda, ex ballerina malata terminale, e cerca di convertirla al cattolicesimo..
Quest'anno, sarà forse per la pandemia, gli horror particolarmente pessimisti sono stati una marea e Saint Maud non fa eccezione. Subdola e priva di jump scare (quasi), interamente giocata su un terrore psicologico e su una protagonista "inaffidabile", l'opera prima di Rose Glass è una raffinata discesa nei meandri della psiche di una persona traumatizzata da eventi mortiferi accorsi in un passato recente (benché quali, di preciso, non sia mai dato sapere, in quanto meramente accennati in flashback e nelle parole pungenti e curiose di una ex collega di Maud) che ha deciso di cercare sollievo nella religione. Purtroppo, come spesso accade, religione e fragilità mentale sono un binomio terribile perché Maud è preda di quel fervore totalizzante che la convince di essere costantemente nella ragione, "fortunata" depositaria di un legame con Dio che coincide con momenti di estasi orgasmica e che funge da riempitivo per una vita altrimenti solitaria, miserabile e squallida. Maud non ha amici, non ha famiglia, è stata cacciata dall'ospedale dove lavorava ed è stata costretta a reinventarsi infermiera a domicilio; il suo unico sollievo è proprio questo contatto diretto con Dio, che la porta ovviamente a cercare una missione, un modo per rendersi degna del Suo sguardo, nella fattispecie cercare di convertire l'ex ballerina e coreografa Amanda, la quale è all'ultimo stadio di una malattia incurabile e, soprattutto, è una peccatrice convinta che fuma, beve e fa sesso a pagamento con una donna più giovane di lei. Gli sforzi di Maud sono angoscianti quanto la vita che conduce, costantemente sospesa tra realtà e deliri mistici, ogni passo mosso col desiderio di sacrificarsi nel nome di un Dio benevolo ma severo, che la mette costantemente alla prova: non c'è gioia nella Fede di Maud, c'è solo il completo annullamento di una persona triste che, forse, è stata persino ingannata.
Di Jennifer Ehle, che interpreta Amanda, ho già parlato QUI.
Rose Glass è la regista e sceneggiatrice della pellicola, al suo primo lungometraggio. Inglese, ha 31 anni.
mercoledì 18 settembre 2019
Vox Lux (2018)
Trama: sopravvissuta a una strage, la giovanissima Celeste intraprende una carriera di pop star che, nonostante inevitabili alti e bassi, prosegue per oltre vent'anni...
"Ciao, io sono Gianfranzo, sono il vuoto che c'è dentro di te. Se mi accosti l'orecchio alla bocca senti solo il mare e basta!", così cantavano I ragazzi delle ragazze, durante la sigla del mitico Pippo Chennedy Show. Non riuscivo a trovare un perfetto riassunto per ciò che ho provato assistendo alle gesta di Celeste e alla fine toh, l'illuminazione, la Lux anche senza Vox: il nulla cosmico, accompagnato da una sensazione costante di prurito alle mani che non sono riuscita a sfogare con una bella catarsi esplosiva nel corso dei titoli di coda, privi di colonna sonora, arrivati dopo 10 minuti di concerto durante i quali, lo giuro, speravo qualcuno facesse brillare una bomba o perlomeno levasse dal mondo Celeste. SPOILER: magari, e invece. Sono una bestia ignorante, lo so, tuttavia ho provato un reale senso di disfatta guardando Vox Lux, un senso di aspettativa costantemente frustrata che, probabilmente, è proprio ciò che ricercava il regista. Perché, altrimenti, far raccontare la sciocca, inutile vita della pop star Celeste dal Diavolo in guisa di voce narrante, mister Willem Dafoe in persona, accostandola costantemente alle peggiori piaghe sociali (stragi studentesche e terrorismo) nella speranza che la Vox Lux di Celeste, sopravvissuta proprio ad una strage da ragazzina e infusa del potere di guarire col canto, potesse in qualche modo cambiare questo mondo così marcio? In questo modo lo spettatore si trova per le mani la solita storia all'interno della quale la protagonista, con tutte le sue doti e la sua bontà iniziale, il sentimento religioso che la smuove unito al profondo amore per la sorella maggiore, diventa una vuota vaiassa che è riuscita a distruggere tutto ciò che di buono c'era nella sua vita, indulgendo in parossismi di autodistruzione a base di alcool e droga e accumulando soldi, soldi, soldi. One for the Money and two for the Show. Ma 'sti soldi, benedetta fanciulla, a che ti servono? Si potrebbe riflettere sul fatto che il pop di Celeste, nato da una tragedia, serva proprio a non far pensare il suo pubblico, ad aiutare tutti i fan della cantante a superare i propri problemi prendendola come esempio di persona che ha superato un'enorme tragedia risorgendo più forte, come la fenice mitologica, raggiungendo un successo planetario che tutti vorrebbero, tuttavia anche vedendola così non sono riuscita assolutamente a trarre davvero un senso da ciò che viene raccontato nel film.
Diverso, invece, l'entusiasmo per il MODO in cui viene raccontata la storia di Celeste. Conoscevo Brady Corbet solo come uno dei protagonisti dell'angosciante ma bellissimo Mysterious Skin (film che peraltro vi consiglio di recuperare se non lo avete mai fatto, preparando stomaco e fazzoletti) e non avrei pensato che sarebbe diventato un regista raffinato e capace, in grado di padroneggiare diversi registri e, soprattutto, giocare con le aspettative dello spettatore. Avendo cominciato a guardare Vox Lux senza mai avere visto trailer o letto recensioni, onestamente mi sarei aspettata, dalle poche foto scorse sulla rete, di avere davanti un novello The Neon Demon oppure un Il cigno Nero, ovvero qualcosa in bilico tra il dramma e l'horror; in effetti, la già citata voce narrante di Defoe e l'inizio scioccante concorrono a dare proprio questa impressione, e il contrasto che si crea tra la pacatezza del narratore e la freddezza delle immagini mostrate da Corbet, seguite dai titoli di testa più angoscianti e "arty" visti quest'anno, provoca uno shock sensoriale non da poco. In realtà, andando avanti, più dell'abilità registica, che comunque si mantiene su livelli altissimi, contano le performance di Natalie Portman e della meravigliosa Raffey Cassidy, che incarnano il triste contrasto tra una ragazzina cupa che cerca di superare il peggior trauma della sua vita e la donna che sarebbe diventata, una pazza umorale prosciugata dal successo che prospera sulla sciocca vacuità del suo pubblico di riferimento e si crede una divinità. Il glitter & gold citato da Rebecca Ferguson abbonda, ammaliando lo spettatore assieme al make up, agli abiti glamour di una sfattissima Natalie Portman dal trucco pesante, spezzata nel corpo e nello spirito, e alle melodie pop di Sia (combinate alle melodie totalmente diverse di Scott Walker), ma è tutta vuota apparenza, una maschera talvolta splendente e talvolta dark priva di significato, tanto che può essere indossata da chiunque, terroristi o killer in primis. Il risultato è un film bellissimo, affascinante e anche capace di tenere avvinto lo spettatore alla poltrona anche solo per mera curiosità, ma che a mio avviso si perde un po' e rischia di avere difficoltà a far passare il suo messaggio, se davvero ne ha uno; a pensarci, però, potrebbe essere proprio questa la sua carta vincente, ovvero quella di far scervellare il pubblico per cercare di colmare quei "vuoti" di cui Vox Lux è pieno, interessanti quanto lo stesso film e ugualmente affascinanti. Insomma, un bell'esercizio cerebrale, altro che una semplice canzonetta pop.
Del regista e sceneggiatore Brady Corbet ho già parlato QUI. Natalie Portman (Celeste), Jude Law (il manager), Jennifer Ehle (Josie), Raffey Cassidy (Celeste da giovane/Albertine) e Willem Dafoe (il narratore) li trovate invece ai rispettivi link.
Stacy Martin interpreta Eleanor. Francese, ha partecipato a film come Nymphomaniac - Volume 1, Nymphomaniac - Volume 2, Il racconto dei racconti, High Rise e Tutti i soldi del mondo. Ha 28 anni e quattro film in uscita.
Rooney Mara avrebbe dovuto interpretare Celeste ma quando la produzione è andata per le lunghe l'attrice ha abbandonato il progetto. Detto questo, se il film vi fosse piaciuto recuperate Il cigno nero. ENJOY!
martedì 27 novembre 2018
A Quiet Passion (2016)
Attirata da non so bene cosa, recentemente ho recuperato A Quiet Passion, diretto e sceneggiato nel 2016 dal regista Terence Davies.
Trama: la vita di Emily Dickinson, dall'adolescenza al giorno della sua morte, tra poesie e drammi famigliari...
Come spesso accade, comincerò il post palesando la mia crassa ignoranza. Non essendo particolarmente appassionata di poesia e non avendo seguito un programma di studi valido, per quel che riguarda la letteratura in lingua inglese, né alle superiori né all'università (il che è imbarazzante visto che l'indirizzo del liceo era linguistico e la facoltà universitaria era quella di lingue...), di Emily Dickinson conosco poco o nulla e forse per questo A Quiet Passion non mi ha coinvolta più di tanto. Purtroppo, il film di Terence Davies non mi ha nemmeno spinta a volerne sapere di più, visto l'approccio anche troppo "quiet" all'argomento; si vede che il regista e sceneggiatore teneva moltissimo alla pellicola, è una sensazione che traspare da ognuno dei curatissimi fotogrammi, dai movimenti di macchina eleganti e lenti, dalla fotografia che sfrutta le luci naturali così da immergere ancor più lo spettatore nell'epoca riportata sullo schermo... eppure, a me è parso di percepire una sorta di "spaccatura" tra questo desiderio palese di eleganza e perfezione e la necessità di trasmettere qualcosa al pubblico, arrivando a trovare il film mancante proprio di un'empatia che personalmente ritengo indispensabile. Non è che il personaggio della Dickinson non venga sviscerato alla perfezione, anzi. Il suo progressivo distacco dalla famiglia e dalla società segue tempistiche lente, che consentono allo spettatore di capirne i motivi e farli propri senza per questo privare la poetessa di un'aura di eccentrico ma malinconico mistero, accentuata dalla scelta di utilizzare le poesie della Dickinson, lette da lei stessa a mo' di narratore esterno, per accompagnare le fasi della sua esistenza. La lotta della protagonista si concretizza in un desiderio di indipendenza (da un'idea retrograda della condizione femminile, da un "revival" cristiano tipico della società borghese dell'epoca) unito alla disperata ricerca della perfezione e della purezza, cristallizzata in una testarda intransigenza che nel tempo l'ha portata ad allontanarsi sempre più dalla famiglia e dalla possibilità di indulgere in qualsivoglia storia d'amore, a vivere da reclusa prima ancora che subentrasse la malattia. Mentre la vita scorre fuori dalla sua stanza, Emily si veste di bianco e scrive, ininterrottamente, cucendo a mano i raccoglitori dei fogli manoscritti in cui riversare aspirazioni, speranze, incertezze, l'amore per la natura e la fascinazione per la morte, quasi invocando quest'ultima in una sequenza particolarmente ambigua e riuscita.
Pur nella convinzione che A Quiet Passion sia dunque un film visivamente bellissimo e fortemente "sentito" da Terence Davies, ciò che mi ha realmente perplessa e forse allontanata dall'argomento trattato, è l'approccio degli attori ai personaggi, soprattutto il modo teatrale di interpretarli. Immagino fosse voluto dal regista ma sia Cynthia Nixon che tutti i suoi comprimari non sembrano recitare quanto piuttosto "declamare", sia che si tratti di una poesia sia che si tratti di interazioni quotidiane più o meno "profonde" (benché non vi sia un solo dialogo nel film meno che intellettuale e profondo, persino durante i litigi tra Emily e il fratello sul finale); gli attori si muovono e parlano come se fossero consapevoli di stare su un palcoscenico, ponendo un'enfasi particolare su ogni parola pronunciata, impegnati in una gara di arguzia che a lungo andare sfianca proprio per l'assenza di emozioni "sincere", che affiorano solo nei pochi momenti in cui Emily è arrabbiata oppure prostrata dal dolore, come se solo queste sensazioni forti fossero in grado di "scuotere" la perfezione tanto ricercata dalla protagonista. Se posso permettermi, inoltre, a parte Cynthia Nixon e Keith Carradine, gli unici dotati di un carisma e di un sembiante particolare, in grado di farsi ricordare dallo spettatore, il resto del cast non è degno di nota e rende i vari personaggi poco più di figurine sullo sfondo, per quanto eleganti. Probabilmente, ribadisco, chi dovesse essere appassionato di Emily Dickinson sorvolerà su queste caratteristiche che io ho trovato leggermente fastidiose ma io, da profana, avrei preferito una pellicola un po' più coinvolgente e più "ignorante", che venisse incontro alle mie limitate capacità mentali. Oh beh, non si può mica accontentare tutti!
Di Emma Bell (la giovane Emily), Keith Carradine (il padre), Jennifer Ehle (Vinnie Dickinson) e Cynthia Nixon (Emily Dickinson) ho già parlato ai rispettivi link.
Terence Davies è il regista e sceneggiatore della pellicola. Inglese, ha diretto film come Voci lontane... sempre presenti, La casa della gioia e Of Time and the City. Ha 73 anni.
domenica 26 agosto 2018
I Kill Giants (2017)
Trama: Barbara è una ragazzina schiva e peculiare, con una particolarità. E' l'unico essere umano consapevole dell'esistenza dei giganti, che cerca di combattere con tutte le forze con l'ausilio della sua arma, la potente Koveleski.
Bestia strana questo I Kill Giants, soprattutto per chi non dovesse avere letto il fumetto omonimo, che vi direi di recuperare perché bellissimo. Dico così perché non è così facile ascriverlo a un genere, né probabilmente rimanerne folgorati come dal fumetto, benché a me sia piaciuto (e mi è sembrato che anche il Bolluomo abbia gradito). Siccome mi sono gingillata un po' sul post e stentavo a trovare l'ispirazione, come spesso accade durante le vacanze quando sono fuori allenamento, ho deciso di rileggere il fumetto per "sbloccarmi" e ho più o meno capito ora cosa c'è che "non va", in senso lato, nel film di Anders Walter. L'opera di Kelly e Niimura è feroce, arrabbiata e si consuma in poco tempo catturando il lettore che non riesce a posare il volumetto; benché i dialoghi siano simili, praticamente identici a quelli uditi nel film e gli eventi si susseguano allo stesso modo, la forza di I Kill Giants sta nella commistione tra questi dialoghi e il segno nervoso, quasi un po' underground, di Niimura, che restituisce al lettore l'idea di un mondo fantastico (e anche spaventoso) presente appena sotto la superficie di una realtà violenta, triste, inadatta a una bambina delle elementari qual è la Barbara del fumetto. La pellicola di Walter, invece, pare bearsi della costruzione di un limbo poetico e si concentra sulle trappole che Barbara costruisce per fermare i giganti, convogliando l'attenzione dello spettatore più verso l'effettiva esistenza degli stessi piuttosto che sul dramma umano di una ragazzina adolescente assai difficile, con la quale non è scontato immedesimarsi. Il sangue che scorre nell'I Kill Giants cinematografico è quello di rituali colorati ed accattivanti, in odore di Harry Potter, mentre nel fumetto le persone si fanno male davvero e c'è tutta la frustrazione di una ragazzina che preferisce rifugiarsi in un mondo di fantasia per non pensare alle nocche di una bulla fuori di testa, degno completamento di una vita fatta di abbandono, morte, inadeguatezza sociale, la difficoltà di integrarsi coi propri coetanei unita al desiderio di lasciare da parte Giganti e martelli magici per potersi abbandonare, anche solo una volta, alla stupidità di fatine e boyband.
L'opera di Walter si "perde", in effetti, focalizzandosi sull'aspetto visivo dell'opera, com'è proprio del mezzo cinematografico: la fotografia patinata, i colori, i costumi e la colonna sonora "ammorbidiscono" il grezzo mondo di fantasia creato da Kelly e Niimura, dilatando il tempo a dismisura quando invece, a mio avviso, le sconvolgenti emozioni della protagonista (la quale, in soldoni, ha problemi psichici abbastanza evidenti, benché comprensibili) avrebbero abbisognato di un trattamento più "cupo" e incisivo, meno malinconico. Dove il film arriva a cogliere nel segno è sul finale, zeppo di momenti tra lo spettacolare/catartico e il devastante per il povero cuore dello spettatore, il quale viene colpito da tutta la disperata ineluttabilità della situazione di Barbara, già presente nel fumetto. Il risultato dell'operazione è dunque un film più assimilabile al mondo dello young adult che dei comics, molto ben realizzato dal punto di vista della confezione, con degli effetti speciali poco invasivi e contenuti così da rendere al meglio la battaglia finale tra Barbara e il Titano, ottimamente recitato da una coppia di giovani attrici assai brave e molto carine (in effetti, anche troppo: Barbara nel fumetto è un piccolo mostrino, la Wolfe invece, alla faccia degli occhialoni, è di una bellezza disarmante), adatto sia a un pubblico adulto che a quello formato da spettatori più giovani, benché visti i temi trattati non lascerei i bambini soli davanti allo schermo. Come avrete capito, mi sarei aspettata molto di più da questo film, non abbastanza incisivo da lasciare il segno come la sua controparte cartacea ma forse, e dico solo forse, guardandolo con occhi "vergini" potreste anche innamorarvene o comunque ritenerlo superiore alla media dei film che mensilmente vengono propinati su Netflix. Per me sicuramente supera la sufficienza, però continuo a preferire un approccio più tosto, nonostante già così il pericolo per lo spettatore di annegare nelle proprie lacrime sia altissimo.
Di Zoe Saldana (Mrs Mollé), Imogen Poots (Karen) e Jennifer Ehle (la madre di Barbara) ho già parlato QUI.
Anders Walter è il regista della pellicola, al suo primo lungometraggio (il corto Helium gli è valso l'Oscar nel 2013). Danese, anche sceneggiatore, ha 40 anni.
Madison Wolfe interpreta Barbara. Americana, ha partecipato a film come La stirpe del male, L'ultima parola - La vera storia di Dalton Trumbo, Joy, The Conjuring - Il caso Enfield e a serie quali True Detective e Scream: The TV Series. Ha 16 anni.
Se I Kill Giants vi fosse piaciuto consiglierei il recupero del fumetto, edito da Bao, e poi aggiungerei Sette minuti dopo la mezzanotte. ENJOY!
mercoledì 9 ottobre 2013
Zero Dark Thirty (2012)
Trama: dopo gli eventi delll’11 settembre, una giovane agente CIA si consacra anima e corpo, per ben dieci anni, nella caccia a Bin Laden…
Diversamente dal solito la recensione di questo film sarà assolutamente oggettiva (quindi molto breve) perché se dovessi inserire anche dei giudizi personali comincerei dicendo che Zero Dark Thirty rientra in quel filone di pellicole che non sopporto, ovvero i drammoni politico-militari ambientati in qualche recondita località mediorientale con protagonisti perennemente incazzati/nervosi e comprimari dalle facce tutte uguali che pronunciano nomi di persone, luoghi e cose talmente identici tra loro che, tempo due secondi, riescono a formare nel mio piccolo cervello un groviglio inestricabile. Di fatto, la pellicola non mi ha purtroppo catturato né il cuore né la mente, della crociata personale della tostissima Maya non me ne poteva fregar di meno e l'ultima mezz'ora immersa nel verde con i Navy Seals a caccia del "grand'uomo" in persona mi ha entusiasmata così tanto che ho dovuto riguardarla il giorno dopo, di pomeriggio, quando ero sicura che gli occhi non mi si sarebbero chiusi ogni due secondi per la troppa emozione. E detto questo mi scuso con tutti quelli che hanno amato spassionatamente questo film, ma ci sarà un genere di pellicole che anche a voi farebbero cadere i sentimenti persino se le avessero girate i vostri registi preferiti, no? In caso contrario, come direbbe Zerocalcare, sticazzi. Il Bollalmanacco dev'essere sincero.
Poi, oggettivamente parlando, questo Zero Dark Thirty è un filmone con tutti i crismi. Innanzitutto ha una sceneggiatura solidissima che non si concede né a facili patriottismi né a momenti strappalacrime ma, con una lucidità incredibile, si limita a raccontare un pezzo di terribile e drammatica storia recente attraverso gli occhi di chi, dalle retrovie, si è impegnato affinché un decennio di morte e terrore cessasse. La protagonista, una bellissima e bravissima Jessica Chastain, senza forza né violenza (cit.) ma soltanto contando su una volontà di ferro e un'intelligenza sopraffina getta alle ortiche la propria natura di donna (I'm the motherfucker who found it) e di essere umano e si consacra completamente ad una causa che, paradossalmente, non si è scelta e che probabilmente le causerà più problemi (psicologici innanzitutto) che fama e gloria. Il cast dei comprimari è ovviamente di prim'ordine e uno dei momenti in cui la mia attenzione si è ridestata è stato durante la breve comparsa dell'adorato James Gandolfini ma, per fortuna, sono riuscita ad apprezzare anche Jason Clarke e Jennifer Ehle, entrambi protagonisti delle uniche due sequenze che mi hanno emozionata davvero, sebbene causandomi non poca sofferenza: le torture a inizio pellicola sono avvilenti e terribili anche per chi, come me, è abituata agli horror, mentre la scena dell'attesa con conseguente tragedia finale è un magistrale capolavoro di tensione e tristezza. Inutile aggiungere, quindi, che la regia, la fotografia e anche la colonna sonora "minimal" sono perfette e concorrono a rendere questo film un gioiello nel panorama cinematografico moderno... e però, non è proprio il mio genere, che peccato. Voi lettori, però, non perdetevelo assolutamente, eh!
Di Jessica Chastain (Maya), Kyle Chandler (Joseph Bradley), Harold Perrineau (Jack), James Gandolfini (il capo della CIA), Joel Edgerton (Patrick, caposquadra dei Seals) e Chris Pratt (Justin dei Seals) ho già parlato ai rispettivi link.
Kathryn Bigelow è la regista della pellicola. Americana, ha diretto film come Il buio si avvicina, Point Break, Strange Days, Il mistero dell’acqua e The Hurt Locker, che ha vinto l’Oscar come miglior regia e miglior pellicola. Anche sceneggiatrice, produttrice e attrice, ha 62 anni.
Jason Clarke interpreta Dan. Australiano, ha partecipato a film come Nemico pubblico, Wall Street – Il denaro non dorme mai, Il Grande Gatsby e alla soap Home and Away. Anche produttore, ha 45 anni e sei film in uscita tra cui La conquista del pianeta delle scimmie.
Jennifer Ehle interpreta Jessica. Americana, ha partecipato a film come Wilde, Il discorso del re e Contagion. Ha 45 anni e quattro film in uscita tra cui RoboCop.
Inizialmente, avrebbe dovuto essere Rooney Mara ad interpretare Maya ma alla fine l’attrice ha rinunciato mentre per altri ruoli erano stati contattati Tom Hardy, Guy Pearce e Idris Elba. Ci sono stati cambiamenti anche alla regia visto che James Cameron, ex marito di Kathryn Bigelow, avrebbe dovuto dirigere il film ma ha rinunciato per realizzare i seguiti di Avatar (il primo dei quali è previsto per il 2016, per inciso). Nell’attesa che escano, se Zero Dark Thirty vi fosse piaciuto consiglio il recupero di The Hurt Locker, Zodiac e Tutti gli uomini del presidente. ENJOY!!