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martedì 5 novembre 2024

The Substance (2024)

Dopo mesi di attesa, finalmente sono riuscita a guardare The Substance, diretto e sceneggiato dalla regista Coralie Fargeat.


Trama: Elizabeth Sparkle, celebrità in declino, scopre la possibilità di creare un suo doppio, migliore e più giovane, grazie a The Substance. Dopo la prima esperienza positiva, l'esperimento condurrà all'orrore...


Sono riuscita, più o meno, ad evitare la quantità immane di spoiler su The Substance che hanno cominciato ad infestare internet già da prima che arrivassero le anteprime italiane, quindi sono arrivata quasi completamente impreparata a ciò che mi avrebbe mostrato Coralie Fargeat. Mi sarei aspettata di provare disgusto, e l'aspettativa è stata rispettata, soprattutto sul finale, ma non la seria angoscia che mi ha portata più volte a distogliere lo sguardo dallo schermo, colma di pena e tristezza. La storia di The Substance è vecchia quanto il mondo: la protagonista, Elizabeth Sparkle, è una donna inutile. In una società dominata dal male gaze (e ci tornerò su come la Fargeat renda, visivamente, questo gaze), soprattutto all'interno dello show business, i cinquant'anni equivalgono alla morte. Quello che un tempo era un viso senza rughe, adesso (per quanto ancora talmente splendido che qualsiasi donna "normale" vorrebbe averlo) mostra tutti i segni dell'età e lo stesso vale per il corpo, non importa quanto la sua proprietaria sia stata attenta alla dieta o all'esercizio fisico. In un mondo che vuole la donna sessualizzata, desiderabile e quasi aliena, non c'è modo di competere con chi ha dalla sua bellezza e giovinezza, e il risultato è sotto gli occhi di tutti, se volete vi faccio qualche nome: Nicole Kidman, Madonna, Courtney Cox. Donne splendide, che per stare al passo e non finire relegate in un angolo si sono deturpate volto e corpo al punto da diventare irriconoscibili, bambole di plastica dall'espressione perennemente sorpresa. Magari loro si vedono anche belle, poverine, chissà quale sofferenza avranno provato e proveranno nel vedersi superare da ragazze con la metà dei loro anni, pronte a vivere dei fasti che per loro forse non torneranno mai. A noi, a me per prime, sembrano stupide, perché le loro soddisfazioni se le saranno tolte di sicuro, ma cosa posso saperne, se le scintille del successo e dell'adorazione non hanno mai brillato nel mio firmamento? E quante volte io stessa mi sono ritrovata, davanti all'orrore dei 43 anni, ad invidiare ragazzine che oggi sono tutte molto più belle di quanto fossi io alla loro età, ad abbassare lo sguardo davanti allo specchio impietoso che mi ritrae ogni giorno più vecchia, grassa e brutta? A buttare abiti che magari mi andrebbero ancora "tecnicamente" bene ma che su di me risultano ridicoli, l'imbarazzante tentativo di una vecchia di sentirsi ancora giovane? Non stupitevi di leggere che, per me, la sequenza più angosciante di The Substance è stata quella in cui Elizabeth si prepara per un appuntamento a cui non andrà mai, schiacciata dalla consapevolezza di non essere all'altezza del suo io migliore, distrutta da quello che, fino alla settimana prima, sembrava un raggio di speranza in una vita ormai finita. 


Forse io l'ho presa un po' troppo sul personale, ma The Substance è una parabola ben triste. In tanti hanno paragonato il film alla versione distorta di un anime majokko, ma la verità è che nell'opera della Fargeat non c'è speranza nemmeno quando le cose sembrano andare per il verso giusto. Sue è la "versione migliore" di Elizabeth ma, come specificato dall'assioma di The Substance, le due donne sono sempre la stessa persona. Il miglioramento fisico di Elizabeth non corrisponde alla sua liberazione dalle aspettative di un pubblico avido ed impietoso, perché Sue continua ad avere un disperato bisogno di essere guardata e desiderata; le majokko "cambiavano", sfruttavano l'esperienza nei panni dei loro alter ego per crescere, mentre in The Substance l'unica cosa che aumenta sono l'odio e la sofferenza verso una condizione ormai irreversibile. Più il tempo passa, più Sue prova risentimento per Elizabeth, rea di stare sprecando la propria vita e di impedirle di vivere la "sua"; allo stesso modo, Elizabeth detesta Sue in quanto "parassita" e si abbandona sempre più a un marcio, una bruttezza interiore che finalmente raggiungono anche l'esterno. Ma parliamo sempre della stessa persona, incapace di concepire qualcosa che vada oltre una pienezza raggiunta compiacendo il pubblico, due facce di una stessa, sofferente, insoddisfatta medaglia. La Fargeat è molto attenta a portare sullo schermo la natura voyeuristica e narcisista del mondo che circonda Elizabeth/Sue. Le inquadrature che usa sono al limite del pornografico, imperniate al 90% su glutei torniti, seni a malapena contenuti da costumini inesistenti e sgambature che metterebbero alla prova qualsiasi estetista, tutto ciò che è bello e glamour viene filtrato da un pesantissimo sotteso sessuale, come se bellezza e pornografia fossero equivalenti. E' il male gaze di cui parlavo prima, infatti non ci sono donne "rilevanti" all'interno del film, salvo le due protagoniste. Tutto ciò che Elizabeth e Sue vivono, o subiscono, è testimoniato dall'occhio di uomini che, alternativamente, le disprezzano o le bramano, e questo punto di vista distorce, inevitabilmente, la loro realtà. La cosa si ripercuote anche sulla regia, che fa ampio uso di grandangoli, allungando a dismisura corridoi, deformando volti visti attraverso lo spioncino di un appartamento, trasformando un pranzo di lavoro nel trionfo del disgusto. L'apice dell'orrore è il personaggio di Dennis Quaid, la summa di tutto ciò che può rendere un uomo repellente, ma la cinepresa si sostituisce all'occhio di ogni maschio presente nel film, enfatizzando così l'oggettificazione delle vittime di quello stesso sguardo. 


E' talmente invadente, di fatto, questo male gaze, che arriviamo a percepire brutta una come Demi Moore. O meglio, a dimenticare che la Moore (la quale, vi ricordo, ha avuto la fortuna di essere moglie di Bruce Willis, porca puttana) non ha 50 anni come da copione di The Substance, bensì SESSANTUNO, ed è più gnocca lei di quanto lo fossi io a 20 anni. Eppure, anche prima del terrificante make-up che la renderà irriconoscibile nel corso del film, la suprema interpretazione dell'attrice, unita all'abilità della Fargeat, ce la consegna irrimediabilmente "brutta". Non vi piace questo aggettivo? Allora posso dire "superata","consumata", "sciatta", "invecchiata", che è poi come se la figura l'abietto produttore Harvey, nonché il motivo per cui decide che lui, e per estensione il mondo (non solo dello spettacolo) non ha più bisogno di lei. E' talmente invadente, questo male gaze, che arriviamo a percepire Margaret Qualley come una dea scesa in terra, la perfezione fatta a persona. Ed è indubbiamente bellissima, santa creatura, ma, tolto il fatto che il seno esposto nel film è dichiaratamente prostetico, guardatevi un paio di foto sui red carpet delle due attrici messe insieme e pensate che la Moore ha TRENT'ANNI in più, quindi Margaret, arrivaci tu a quell'età ancora così figa (e trovati un figo come Bruce ad accompagnarti. Adesso userò un po' di female gaze, ma 'sto Jack Antonoff non si può guardare, figlia mia!!). Quindi sì, Coralie Fargeat avrà anche scelto di raccontare una storia vecchia come il mondo, ma vedete quante riflessioni scatena, quante diverse sensazioni, quanti modi di interpretarla e parlarne ci sono? Ci vuole coraggio, a mio avviso, a spiattellarla in faccia al pubblico con tanta raffinatezza a livello di immagini, colori, luci e suono (non dimentichiamoci il suono, inquietante ed invasivo) e tanta brutalità per il contenuto di queste stesse immagini. La Fargeat omaggia Kubrick, Lynch e Cronenberg passando attraverso il grottesco di quel capolavoro de La morte ti fa bella, Yuzna e persino la Troma, demolendo senza pietà non solo gli ideali di bellezza odierni, ma vomitando sopra l'opprimente ipocrisia moderna tonnellate di sangue liberatorio, in una potente affermazione della natura fondamentalmente brutta ed imperfetta del genere umano. Se riuscissimo ad abbracciarla, questa nostra naturale bruttezza, forse saremmo molto più felici, sicuramente meno stressati e cattivi, ma finché ci verrà imposta la perfezione, il rischio tangibile è quello di trasformarci in mostri. 

P.S. Io non lo so se The Substance è l'horror dell'anno. Sicuramente, per quanto mi riguarda, è il FILM dell'anno. Se non altro, quello che è riuscito a coinvolgermi e sconvolgermi di più durante la visione. In tempi di cinema mordi e fuggi è un risultato incredibile. Anche se non sarà la cup of tea di molti, datemi retta comunque, correte in sala a vederlo.


Della regista e sceneggiatrice Coralie Fargeat ho già parlato QUI. Demi Moore (Elizabeth Sparkle), Margaret Qualley (Sue) e Dennis Quaid (Harvey) li trovate ai rispettivi link.


Gore Abrams
, che interpreta il leppegosissimo vicino di casa di Sue, era già "dei nostri", perché ha partecipato a Hell House LLC e a Hell House LLC III: Lake of Fire. Ray Liotta avrebbe invece dovuto interpretare Harvey ma purtroppo è morto prima dell'inizio delle riprese e la regista lo ha ringraziato nei credits. Se The Substance vi fosse piaciuto recuperate La mosca, Videodrome, Society, Titane, La morte ti fa bella, Revenge, Starry Eyes, The Neon Demon e anche un po' Tetsuo. ENJOY!

venerdì 21 giugno 2024

Kinds of Kindness (2024)

In ritardo rispetto al mondo, per colpa della durata elefantiaca, sono riuscita a recuperare al cinema Kind of Kindness, diretto e co-sceneggiato dal regista Yorgos Lanthimos.


Trama: nel primo episodio un uomo d'affari decide di liberarsi dalla pesante influenza del suo capo; nel secondo, un poliziotto viene assalito dal dubbio che la donna salvatasi dopo un incidente in mare non sia la sua vera moglie; nel terzo, i membri di una setta cercano il loro messia dai poteri miracolosi.


Benché Kinds of Kindness sia un film a episodi, ho deciso di non dedicare a ciascuno di essi un paragrafo come faccio di solito, soprattutto per evitare inutili spoiler a chi dovesse ancora vedere il film. In seconda istanza, preferisco prendere Kinds of Kindness come un'opera unica, profondamente legata ai primi lavori di Lanthimos, all'interno della quale si possono ritrovare tutti i temi che erano preponderanti nel grottesco Dogtooth. Proprio "grottesco" è l'aggettivo giusto per definire le vicende narrate nel film, all'interno del quale tre questioni profondamente serie e drammatiche offrono risvolti inaspettatamente ridicoli, se non addirittura comici, privando i protagonisti della loro importanza di fronte alla vastità dell'universo e dell'inconoscibile. I personaggi principali di ogni episodio sono, infatti, dei poveri inetti con grosse difficoltà a rapportarsi con l'esistenza; forse per questo motivo, attirano su di loro l'altrui volontà di prevaricare o cercano spontaneamente qualcosa che dia loro uno scopo anche a costo di spersonalizzarsi e incappare in grosse cantonate. I kinds of kindness del titolo originale sono atti di devozione che sfociano nell'insano e nel perverso e rappresentano il fil rouge che porta avanti la poetica del regista, fatta di sentimenti distorti che spingono al controllo dei sentimenti (o all'anaffettività) e dei comportamenti altrui, spesso alla ricerca di una perfezione impossibile che sfocia in frustrazione e in inevitabile violenza. L'esempio perfetto di tutto ciò, nonché il mio episodio preferito, è il primo, che scava proprio in un rapporto di inquietante dipendenza da cui il protagonista cerca di fuggire; mirabile sintesi di tutto ciò che adoro in Lanthimos, è espressione del masochismo più puro ma, a modo suo, è anche tristemente tenero. C'è della tenerezza anche nel secondo episodio, ma ammetto di non averlo capito. Probabilmente, sono stata distratta dalle potenziali implicazioni fantascientifiche o horror richiamate dalla trama e dalla generale impressione che il poliziotto protagonista abbia trovato la "soluzione" al suo problema senza rendere partecipe il pubblico, tuttavia non ho capito dove volesse andare a parare il tutto e la "rivelazione" buttata lì en passant con un sogno raccontato non ha granché giovato. Il terzo episodio torna ad essere più comprensibile e ammetto di avere riso parecchio durante la visione, forse perché è costruito come una parodia di tutte le sette religiose che infestano sia il mondo che le opere di finzione. Nonostante l'abbondanza di aspetti e rituali ridicoli, per non parlare della protagonista goffa e di una serie di inenarrabili sfighe, anche questo episodio nasconde un cuore tragico, fatto di persone che hanno perso loro stesse e sono bloccate in un limbo di prospettive sgradevoli, alla mercé di chiunque voglia approfittarsi di loro o, peggio ancora, offrire aiuti non richiesti che minacciano di distruggerle. 


A prescindere da ogni considerazione personale, come ha detto la mia amica a fine visione "il film è zeppo di chicche", quindi anche nell'episodio meno riuscito ci sono momenti di puro genio che valgono la visione di Kinds of Kindness. Un altro aspetto che ho gradito tantissimo è il ritorno a una regia e una fotografia meno barocche rispetto a Povere creature! e, per quanto mi riguarda, molto più efficaci. Lo spaesamento dei personaggi, il loro essere protagonisti di una tragicommedia sulla quale non hanno alcun controllo, vengono enfatizzati da inquadrature dove sono gli sfondi (naturali o artificiali) ad essere preponderanti sulla figura umana; interni eleganti ma asettici diventano gli spettatori della desolazione dei protagonisti, oppure questi ultimi percorrono strade apparentemente senza fine, per non parlare del modo in cui persino la casetta di due sposi innamorati si priva di calore e si trasforma in ulteriore mezzo di incomunicabilità. Aggiungo inoltre che l'assurda colonna sonora di Jerskin Fendrix, inframmezzata da pezzi più pop e accattivanti, mi ha lasciata spiazzata in più di un'occasione, in particolare quando cupi cori arrivano a sottolineare i momenti più inquietanti o rivelatori. Gli attori, infine, meriterebbero un post a parte. Jesse Plemons è patrimonio mondiale, nonché avviato a percorrere la strada di un altro grande a lui molto simile per "colori" e corporatura, Philip Seymour Hoffman, e meriterebbe davvero che i registi gli cucissero addosso ruoli in bilico tra il weird e il drammatico, perché gli calzano alla perfezione. E lo so che tutti siete andati al cinema per Emma Stone, altrettanto a suo agio e palesemente divertita, però stavolta le ho preferito il biondo co-protagonista, che riesce a tenere testa persino a Willem Dafoe (divino, che ve lo dico a fare?) e a LUI. Con lui, intendo Yorgos Stefanakos, fantastico signor nessuno dalla faccia di pancotto, che arriverà a riempire ogni vostro pensiero e a perseguitarvi nel sonno: è forse lui un Dio? E' forse un silenzioso agente del caos? E' forse un tizio che voleva semplicemente mangiarsi un panino senza fare troppo casino, invano? Chissà. Vi toccherà guardare Kinds of Kindness per scoprirlo!


Del regista e co-sceneggiatore Yorgos Lanthimos ho già parlato QUI. Margaret Qualley (Vivian / Martha / Rebecca / Ruth), Jesse Plemons (Robert / Daniel / Andrew), Hong Chau (Sarah / Sharon / Aka), Willem Dafoe (Raymond / George / Omi), Mamoudou Athie (Will / Neil / Infermiere all'obitorio) e Emma Stone (Rita / Liz / Emily) li trovate invece ai rispettivi link.



martedì 6 giugno 2023

Sanctuary: Lui fa il gioco. Lei fa le regole (2023)

Attirata non so nemmeno io da cosa, mercoledì scorso sono andata a vedere Sanctuary: Lui fa il gioco. Lei fa le regole (Sanctuary), diretto dal regista Zachary Wigon.


Trama: l'erede di una catena di hotel e la sua dominatrix, chiusi all'interno di una camera d'albergo, si affrontano in una lotta senza esclusione di colpi quando lui decide di licenziarla.


Non riuscivo a capacitarmi del perché su Facebook, dove tutti fanno a gara per recensire le nuovissime uscite, soprattutto thriller o horror, non si parlasse di Sanctuary: Lui fa il gioco. Lei fa le regole (da qui in poi solo Sanctuary, per piacere. Che razza di titolo logorroico), anche perché su Letterboxd, uno dei miei "aggregatori" di riferimento, il film in questione ha una media di voti piuttosto alta. Questo, ora che mi viene in mente, è il motivo che mi ha spinta ad accettare la proposta di andarlo a vedere, ma le cose sono due: o gli utenti di Letterboxd si sono rincoglioniti o mi sono rincoglionita io.  C'è solo un motivo, infatti, per andare al cinema e vedere Sanctuary, ed è Margaret Qualley. Considerato, tuttavia, che noi ce la becchiamo doppiata, vi dico fin da ora che converrebbe aspettare l'uscita di Sanctuary in streaming, se siete fan dell'attrice. Se, come me, non bazzicate le serie televisive, il nome Margaret Qualley probabilmente non vi dirà nulla, anche perché spero abbiate dimenticato tutto dell'orribile Death Note di Netflix e magari siete stati colpiti da altro guardando C'era una volta a Hollywood e The Nice Guys, ma sappiate che la fanciulla è una delle giovani attrici più quotate attualmente (ha cinque film in uscita); in Sanctuary, la Qualley regge da sola l'intero film con un'interpretazione che trasuda carisma e fascino in ogni fotogramma, senza mai scadere nel ridicolo involontario che un personaggio come Rebecca richiama a gran voce e rimanendo sempre in elegante equilibrio sul limite sottilissimo che separa la testarda, disperata tenacia dall'isteria incomprensibile. Probabilmente la ragazza ha avuto gioco facile, considerato che il resto del film è fuffa della peggior specie, giusto un pelino meno fastidioso di Piccoli crimini coniugali. 


Senza fare troppi spoiler, nonostante il film si concluda nel modo più banale possibile, Sanctuary è lo scontro tra due personalità diversissime, ovvero un belino mollo (in ogni senso, letterale e figurato) schiacciato dall'enorme personalità di una figura paterna che gli ha lasciato in eredità una fortuna in alberghi e denaro, e la donna che detto belino mollo ha assunto come dominatrix. Non fatevi ingannare da quest'ultima parola: Sanctuary è il film sessualmente meno eccitante che vedrete quest'anno (a meno che non vi titilli l'idea di vedere gente che si masturba a comando fuori dall'inquadratura), perché Rebecca esercita il suo potere su Hal soltanto attraverso le parole. Ciò rende Sanctuary il trionfo della logorrea e dei concetti sempre uguali rigirati su loro stessi in loop, fatto di dialoghi che si possono riassumere con "tu sei una pippa e hai bisogno che io ti ricordi di esserlo" e "non sono una pippa, non ti permettere, tu non mi servi, ti credi importante perché ti pago" e il risultato è che anche i pochi elementi interessanti della sceneggiatura, in primis l'affermazione del potere femminile in una società che tende a schiacciarlo o ad etichettarlo secondo un'ottica prevalentemente maschile, si perdono in un mare di sciocchezze inutili. Lo stesso rapporto tra Rebecca e Hal, per com'è stato scritto, è profondo quanto un litigio tra scimmie e più volte i due personaggi fanno mostra di una stupidità rara, altro che "battle of wits", come si legge sui siti stranieri, mentre il giovane regista sembra più impegnato a vantarsi della sua capacità di indulgere in virtuosismi fine a se stessi e non riesce a comunicare allo spettatore neppure la minima tensione, thriller o erotica che sia. Finito il film, non ho potuto fare a meno di pensare a quale perla perversa avrebbero potuto tirare fuori i giovani Almodóvar e Polanski da un soggetto simile, e mi sono intristita. Non intristitevi anche voi, datemi retta.


Di Margaret Qualley, che interpreta Rebecca, ho già parlato QUI mentre Christopher Abbott, che interpreta Hal, lo trovate QUA.

Zachary Wigon è il regista della pellicola. Americano, ha diretto un altro lungometraggio, The Heart Machine. Anche sceneggiatore, ha 37 anni. 



venerdì 20 settembre 2019

C'era una volta a... Hollywood (2019)

Dear Quentin,

sono sempre io, dopo ben quattro anni. Nel frattempo ti sei sposato, aspetti un figliolo, e io dico: c'era bisogno di arrivare a tanto con questa donna dello schermo quando io, la tua Beatrice, non avrei problemi a dichiarare al mondo il nostro aMMore? Guarda, ti giuro che non è per ripicca che vado dicendo in giro di come C'era una volta a... Hollywood non sia il tuo film migliore e te lo dimostrerò scrivendo solo cose belle, anzi, bellissime, sul tuo ultimo film, senza SPOILER. Posso però dire che sei stato un maledetto a tagliare le scene con Tim Roth? E posso altresì permettermi di dirti che la prossima volta mi piacerebbe un "pochettino" di coesione in più all'interno della trama, ché va bene la struttura sfilacciata, le trame incrociate e le digressioni citazioniste ma a tratti mi è sembrato di ripiombare nella lunghissima introduzione di A prova di morte (per me il film meno bello - MAI brutto! - che hai realizzato)? Bon, basta, quello che dovevo dire di negativo l'ho detto, ora passiamo alla gioia.


In tempi di orrido cinismo e snobismo cinèfilo, dove tutti hanno già visto tutto e chiunque ha un'opinione perlopiù negativa su qualsiasi pellicola, dove non ci sono più curiosità né mistero, perché tanto ogni singolo segreto di un film si può trovare on line, mi chiedo come diamine fai tu, caro Quentin, a sognare ancora. A custodire dentro il cuore ricordi lucidissimi eppure ancora intrisi di magia, a fomentare continuamente l'Amore per quel Cinema che ti ha dato tutto, fin da quando non eri nemmeno famoso, al punto da annullare ogni confine tra la realtà, il gossip da tabloid patinato e il cliché. Come Noodles che usciva da quella stazione, vecchio e zeppo di memorie filtrate dal tempo e dall'oppio, così tu ci consegni la TUA storia, la TUA Hollywood, una città fatta di luci al neon e cinema, di star che possono venirti a vivere accanto a casa, dove ogni giorno può diventare una (dis)avventura e dove fiumi di alcool e fumo mettono a tacere le coscienze di coloro per i quali il sogno o è morto o sta per trasformarsi in un incubo. I tre personaggi che sfrecciano sulle strade di Los Angeles con in capelli al vento e la musica nelle orecchie sono i tre estremi di un'ideale triangolo che racchiude in sé tutta la leggenda Hollywoodiana. Certo, il Rick Dalton di Di Caprio è il veicolo attraverso il quale ci consenti di vivere la Hollywood degli addetti ai lavori, quella non così esaltante; la Hollywood di chi, come probabilmente Luke Perry (bonanima), è rimasto confinato all'interno di un archetipo televisivo e, invecchiando, non è più riuscito ad emergere nel mare di starlette in continuo movimento, trasformandosi in una sorta di leggenda o figura indistinta nella memoria. E' con Rick Dalton che si scoprono gli "altarini" del cinema che più hai amato, quello degli italiani banfoni che con due lire si accaparravano vecchie star in declino per creare pellicole (s)cult da pochi spiccioli insinuandosi nei cuori dei cinefili onnivori, con i loro set esotici, le trame bizzarre e le locandine disegnate in maniera splendida. Ma anche qui, non si costruiva forse la leggenda? Non c'era la voglia di divertire e far sognare il pubblico, a prescindere dalla coerenza delle trame e alla faccia di qualsiasi, gigantesco what the fuck?


Quell'enorme what the fuck che è Brad Pitt, per esempio. Non fraintendermi, io l'ho amato e, come ho detto ai miei compagni di visione, vorrei un Brad Pitt personale in casa per morire dal ridere ogni volta che sono depressa, ma riflettendo su Cliff Booth ho trovato l'elemento di pura finzione all'interno del film, l'estremo "surreale" del triangolo. Cliff Booth è l'eroe tipico degli spaghetti western, il cowboy bruciato dal sole dalla battuta facile e dall'indolenza gigantesca, un po' cavaliere dal cuore d'oro e un po' galeotto, colui che ha il compito di difendere il Sogno contro la realtà che minaccia di privarlo di tutta la sua innocenza, in una Los Angeles di fine anni '60 trasformata in isola felice contro tutti i cambiamenti sociali e le brutture dell'America e del mondo. La realtà gli scivola addosso, come già succedeva ad Aldo Rayne in Bastardi senza gloria, e non è un caso se l'artefice del più clamoroso what if? della pellicola è proprio lui. E poi c'è lei, Margot Robbie. Ora, c'è stato un momento, verso la fine del film, in cui la gente rideva e applaudiva. Io non ce l'ho fatta. Non lo so perché la storia di Sharon Tate e dell'orribile destino toccato in sorte a lei e ai suoi amici mi ha sempre toccata nel profondo, sta di fatto che mentre tutti ridevano io lottavo contro il magone. Sì perché tu sei riuscito a trasformare Sharon Tate nella fata buona, nell'incarnazione stessa di quel sogno chiamato Cinema. Bellissima e leggiadra, Margot Robbie col suo sorriso incantevole trasuda amore e giovinezza da ogni poro, ed è l'immagine stessa dell'innocenza di una Hollywood che non tornerà mai più e forse non è mai esistita; vederla piena di entusiasmo varcare la soglia di un cinema che proietta uno dei suoi film scalda il cuore e trasmette un briciolo della sensazione di trionfo che sicuramente anche tu hai provato nel corso non solo di blasonate anteprime, ma soprattutto quando nessuno ti considerava, confuso nella folla, nascosto nell'ombra a spirare la reazione degli spettatori davanti a ciò che avevi scritto, magari diretto. Ma fosse solo quello. La figura di Sharon Tate trasporta in un mondo altro, in una Favola che si vorrebbe non finisse mai, e quello che è rimasto durante i titoli di coda, almeno a me, è un enorme nodo alla gola al pensiero che quell'innocenza meravigliosa e anche un po' ignorante l'abbiamo persa tutti da troppo tempo.


E allora, abbandoniamoci all'amore e all'innocenza, che cazzo. Alla gioia di rivedere facce amatissime (ciao Michael, ciao Zoe, ciao Lorenza, ciao Kurt), di prendere le tue auto-citazioni, le ricostruzioni di film e telefilm, i tuoi marchi di fabbrica e usarli come una calda coperta di Linus per affrontare il freddo della steppa di cinèfili dell'internet senza cuore, perché alla fine se è vero che il Cinema è un mondo e che siamo fatti al 90% dei film che abbiamo visto, il tuo microcosmo è uno di quelli in cui mi perdo più volentieri. E allora, abbandoniamoci alle grasse risate davanti al solito, favoloso Di Caprio che solo tu riesci a fare brillare come una stella, accoppiato ad un Brad Pitt che, porco cane, ma manda al diavolo il futuro film di Star Trek (dai, amore mio, mi fa schifo, lo sai. Rinunciaci) e realizza una COMMEDIA con loro due come protagonisti, ti prego! Abbandoniamoci e soprattutto chiniamo il capo davanti alla bellezza incredibile della colonna sonora, che mi ha fatto muovere a tempo la testa per tutta la durata del film, quando non ero impegnata a rimanere a bocca aperta davanti alle immagini che scorrevano sullo schermo (apro parentesi. Si vede che qui hai potuto fare un po' come hai voluto, libero da Weinstein ecc. C'era una volta a Hollywood è meno "stiloso" in maniera artefatta e più "tuo"). Abbandoniamoci (anche se lì, lo ammetto, ho fatto resistenza ma hai capito perché. Anche per questo devo rivedere il film) alla fottuta catarsi da cinema di serie Z, a quella valvola di sfogo che incanala tutto il disprezzo nei confronti di chi ha privato Hollywood di buona parte della sua innocenza per colpa di un matto invidioso che ha mandato "il Diavolo a fare i cazzi del Diavolo", giusto per ribadire come davanti a gente inutile si debba rispondere con menefreghistico disprezzo. Abbandoniamoci alla speranza, all'ottimismo, al "e vissero tutti felici e contenti", per una volta, facendoci accogliere dai volti amici di persone che vediamo sullo schermo quasi ogni giorno e che ogni volta ci fanno fuggire dalla realtà, così come loro, chissà, fuggono dalla propria solo grazie a noi umili spettatori.


Che ti devo dire, ancora, Quentin mio? Più ci rifletto sopra, più C'era una volta a... Hollywood diventa bellissimo e interessante. Vorrei rivederlo subito, ovviamente in lingua originale, che l'adattamento italiano lasciamolo perdere, per cogliere tutti i dettagli che ho perso durante la prima visione e scoprire ancora ulteriori strati di questo splendido delirio cinefilo, quindi grazie, come sempre. E anche un po' vaffanculo, dai, ché son buoni tutti a sposarsi la sgnoccolona trentatreenne israeliana. Potevi anche accontentarti della sgnoccolona trentottenne ligure, vecchio porcello.


Del regista e sceneggiatore Quentin Tarantino, la cui voce si può sentire durante lo spot delle Red Apple, ho già parlato QUI. Leonardo di Caprio (Rick Dalton), Brad Pitt (Cliff Booth), Margot Robbie (Sharon Tate), Emile Hirsch (Jay Sebring), Timothy Olyphant (James Stacy), Dakota Fanning (Squeaky Fromme), Bruce Dern (George Spahn), Luke Perry (Wayne Maunder), Al Pacino (Marvin Schwarz), Lorenza Izzo (Francesca Capucci), Harley Quinn Smith (Froggie), Danielle Harris (Angel), Clifton Collins Jr. (Ernesto il vaquero messicano), Rumer Willis (Joanna Pettet), Rebecca Gayheart (Billie Booth), Kurt Russell (Randy e, in originale, anche il narratore), Zoe Bell (Janet) e Michael Madsen (Sceriffo Hackett di Bounty Law) li trovate invece ai rispettivi link.

Margaret Qualley interpreta Pussycat. Americana, ha partecipato a film come The Nice Guys, Death Note e a serie quali Fosse/Verdon. Ha 25 anni e un film in uscita.


Tra le millemila guest star presenti nella pellicola segnalo la ahimé moglie di Quentin, Daniella Pick,  il Friederich di Tutti insieme appassionatamente, Nicholas Hammond (che interpreta Sam Wanamaker) e, tra i figli d'arte, quella di Ethan Hawke e Uma Thurman, Maya Hawke, nei panni di Flowerchild, mentre il povero Tim Roth, inserito nei titoli di coda, è protagonista delle scene eliminate, quindi non compare nel film. Non ce l'ha fatta nemmeno Burt Reynolds (che, di fatto, era il "cattivo" dell'episodio di F.B.I. presente nel film), purtroppo venuto a mancare prima di poter girare le scene in cui avrebbe dovuto interpretare George Spahn. Se il film vi fosse piaciuto, ovviamente vi consiglierei di recuperare la filmografia di Tarantino ma siccome lo stesso Quentin ha stilato un elenco di pellicole da vedere in preparazione di C'era una volta a Hollywood, perché non seguirlo e recuperare Bob & Carol & Ted & Alice, Fiore di cactus, Easy Rider, L'amante perduta, La battaglia del Mar dei Coralli, L'impossibilità di essere normale, Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm, Trafficanti del piacere, Il sentiero della violenza e I pistoleri maledetti? ENJOY!

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